Cassazione Penale, Sez. 4, 10 giugno 2016, n. 24139 - Infortunio mortale: responsabilità di datore di lavoro e preposto per mancata formazione e attrezzature non conformi? No, comportamento abnorme del lavoratore


 

 

"In tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (Sez. 4, Sentenza n. 37986 del 27/06/2012, dep. 01/10/2012, Rv. 254365). E, in tale ambito ricostruttivo, si è recentemente considerato che il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore; con la precisazione che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto, passando da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello "collaborativo", in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori (Sez. 4, Sentenza n. 8883 del 10/02/2016, dep. 03/03/2016, Rv. 266073)".

 


 

 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: MONTAGNI ANDREA Data Udienza: 11/05/2016

Fatto


1. Il G.i.p. del Tribunale di Pisa, con sentenza in data 6.02.2013, assolveva L.F. e S.M. dal reato di omicidio colposo loro ascritto, per insussistenza del fatto. A L.F., nella sua qualità di datore di lavoro delegato della società E.acciai spa, si addebita di aver cagionato la morte del dipendente B.A., avendo omesso di impartire al predetto una adeguata informazione sui rischio connessi all'attività di impresa. Segnatamente, al predetto imputato si contesta di aver adibito il B.A. a lavori di manutenzione dell'impianto Supero, senza aver erogato la dovuta formazione ed un addestramento adeguato e senza aver messo a disposizione una attrezzatura conforme alle normative antinfortunistiche. Oltre a ciò, in assunto accusatorio, l'impianto di cui si tratta era privo di ponti di accesso per gli operatori ed era stato realizzato in difformità al progetto originale. L'imputazione attinge anche la posizione di S.M., nella sua qualità di preposto della società E.acciai spa, in relazione all'impianto Supero, al quale si contesta di non aver verificato che B.A. avesse ricevuto adeguate istruzioni per accedere alle varie zone dell'impianto. Ai predetti imputati, pertanto, si ascrive di aver colposamente provocato il decesso del B.A., che, in tale situazione di rischio, accedeva all'impianto, rimaneva impigliato nel nastro trasportatore in movimento, riportava la sub amputazione di un arto, di talché insorgeva uno shock emorragico, con esito letale.
Il primo giudice rilevava il difetto di prova circa la riferibilità causale tra l'evento verificatosi e le condotte addebitate agli imputati; il G.i.p. qualificava come abnorme l'azione posta in essere dal lavoratore infortunato, azione che risultava inspiegablle, rispetto alle mansioni assegnate al dipendente.
2. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza in data 16.10.2014, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava L.F. e S.M. responsabili del reato loro ascritto.
La Corte territoriale procedeva alla ricostruzione della dinamica del fatto, soffermandosi in particolare sulle dichiarazioni rese dal collega di lavoro A., il quale aveva chiarito che l'impianto necessitava della periodica rimozione di materiale ferroso di risulta, che rimaneva incastrato tra due condotti metallici, ove avviene la fisica separazione dei materiali; che la pulizia di cui si tratta veniva svolta manualmente, dal piano vibrante; e che l'infortunio occorso al B.A. era intervenuto mentre il dipendente stava effettuando una ordinaria manovra di pulizia del macchinario. Sulla scorta di tali rilievi, il Collegio escludeva che l'azione del dipendente deceduto potesse qualificarsi come avulsa dalle mansioni lavorative e quindi come abnorme. 
3. Avverso la predetta sentenza della Corte di Appello di Firenze hanno proposto ricorso per cassazione L.F. e S.M., a mezzo del difensore.
Con il primo motivo gli esponenti denunciano il travisamento della prova.
Osservano che il giudice di primo grado aveva escluso che B.A. fosse salito sul macchinario per effettuare operazioni di pulizia; e considerano che la Corte territoriale, nel censire l'appello di pubblico ministero, ha erroneamente ricostruito la dinamica del fatto.
I deducenti sottolineano che l'impianto era in funzione al momento dell'Infortunio; e rilevano che i giudici del gravame, travisando le dichiarazioni del lavoratore A., hanno omesso di considerare che quest'ultimo aveva riferito che le operazioni di pulizia avvenivano quando l'impianto era spento. I ricorrenti osservano che tali indicazioni erano state fornite da A. anche in sede di dichiarazioni rese al difensore degli imputati.
Gli esponenti considerano che la Corte di Appello esclude l'abnormità del comportamento posto in essere dal lavoratore infortunato solo perché erra nel comprendere le dichiarazioni rese da A.. Sotto altro aspetto, considerano che le operazioni di pulizia, con l'operatore che si posizionava sul piano vibrante, di cui pure parla l'A., potevano essere svolte solo con l'impianto spento. E ritengono erronee le valutazioni espresse dai giudici di secondo grado, in riferimento alla tolleranza di prassi scorrette, da parte del datore di lavoro e del preposto, una volta chiarito che le operazioni di pulizia avvenivano con l'impianto fermo.
I ricorrenti denunciano il vizio motivazionale, osservando che la Corte di Appello, nel riformare una precedente sentenza assolutoria, è gravata da uno specifico obbligo motivazionale, che non risulta assolto nel caso di specie.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano il travisamento della prova rispetto alle dichiarazioni dei testi M. e A., in riferimento al difetto di formazione che era stato evidenziato dal pubblico ministero, con l'atto di appello. Osservano che la Corte territoriale non ha preso in esame la consulenza tecnica e la documentazione che era stata prodotta dalla difesa, rispetto alla formazione erogata all'operaio specializzato B.A..
Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Diritto


1. Il ricorso in esame muove alle considerazioni che seguono.
Soffermandosi sulle censure affidate al primo motivo di ricorso, occorre rilevare che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che dall'attuale assetto interpretativo dell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., discende una specifica modalità argomentativa della sentenza di appello che riformi la decisione assolutoria di primo grado. In tale ipotesi, il giudice del gravame non deve soltanto effettuare una logica ricostruzione dei fatti e darne adeguatamente conto nella motivazione ma deve necessariamente confrontarsi, in modo esplicito, con la decisione di primo grado e rilevare se la diversa decisione sia conseguenza di una valutazione alternativa del medesimo materiale probatorio o, invece, di specifici errori, logici o fattuali. Nel primo caso, infatti, la sentenza assolutoria risulta soltanto "alternativa", rispetto a quella di condanna resa dal giudice di appello, di talché non potrà che ritenersi la sussistenza di un "ragionevole dubbio", in favore dell'imputato, atteso che la sua responsabilità viene a discendere - unicamente - da una riconsiderazione del medesimo materiale probatorio. Nel secondo caso, invece, la riforma "in peius" risulta legittima, laddove vengano individuati i punti che rendono insostenibile la decisione di primo grado, per errore di valutazione della prova o per snodi illogici del ragionamento, ovvero per omissione di valutazione di elementi fondamentali, quali prove non considerate od erroneamente ritenute inutilizzabili. E solo in quest'ultimo caso la "lettura" proposta dalla sentenza di condanna, a seguito di appello, può essere considerata come l'unica possibile, alle date condizioni (cfr. Sez. 6, sentenza n. 1266 del 10/10/2012, dep. 10/01/2013, Rv. 254024).
Occorre, altresì, considerare che le Sezioni Unite della Corte regolatrice, sul tema di interesse, hanno da ultimo osservato che il giudice di appello, qualora ritenga di riformare nel senso dell'affermazione di responsabilità dell'imputato la sentenza di proscioglimento di primo grado, sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva dal primo giudice, deve disporre la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso le relative dichiarazioni; e ciò in ragione di una interpretazione convenzionalmente orientata (ex art. 6, par. 3, lett. d, CEDU) dell'art. 603 cod. proc. pen. Con la precisazione che la sentenza del giudice di appello che, in riforma di quella di proscioglimento di primo grado, affermi la responsabilità dell'imputato sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva, senza avere proceduto alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, è affetta da vizio di motivazione deducibile dal ricorrente a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in quanto la condanna contrasta, in tal caso, con la regola di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio" di cui all'alt. 533, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. U., sentenza del 28/04/2016, n.m.).
2. Applicando, per condivise ragioni, i principi di diritto ora richiamati al caso di specie, deve osservarsi che la sentenza impugnata risulta vulnerata dal dedotto vizio motivazionale, in riferimento alla intervenuta rivalutazione del compendio di prove dichiarative, in difetto della rinnovazione della istruttoria dibattimentale, conducente alla riforma della sentenza assolutoria che era stata pronunciata dal primo giudice.
Invero, la Corte territoriale ha disatteso la citata regola processuale, espressa dal diritto vivente, riformando "in peius" la sentenza di assoluzione, sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di prove dichiarative considerate decisive; e la Corte di Appello è giunta a riformare la pronuncia assolutoria sulla scorta della mera riconsiderazione del compendio probatorio, senza confrontarsi con il percorso argomentativo che era stato sviluppato dal primo giudice.
2.1 Occorre pure evidenziare che la stessa trama argomentativa sviluppata dalla Corte di Appello appare inficiata da affermazioni reciprocamente contraddittorie, di talché al giudice del rinvio viene pure demandato il compito di chiarire la dinamica dell'infortunio occorso al B.A.. Invero, il Collegio ha in primo luogo evidenziato che, il giorno in cui ebbe a verificarsi l'incidente, B.A. aveva il compito di effettuare le operazioni di messa a punto dell'impianto che consente la separazione dei metalli; e che tali compiti prevedevano operazioni di pulizia a terra, al di sotto della zona della linea lavorativa e l'effettuazione di prove di selezione del materiale. Ciò posto, il Collegio ha pure affermato che, sulla base delle dichiarazioni rese dal teste A., che aveva chiarito che le operazioni di pulizia del macchinario avvenivano posizionandosi sul piano vibrante, doveva ritenersi accertato che B.A. non avesse intrapreso attività di routine, ma che si fosse arrampicato sulla struttura metallica laterale, per compiere operazioni di pulizia della tramoggia. Come si vede, resta da chiarire se, nel caso di specie, fosse necessario, o meno, un intervento di pulizia in quota da parte del lavoratore, evenienza di certo rilievo, al fine di censire le ipotesi di accusa, ascritte agli odierni imputati.
2.2 Si introduce, così, l'esame di un ulteriore profilo di criticità della decisione, denunciato dagli esponenti, afferente al tema della abnormità della condotta posta in essere dal lavoratore.
La Corte di Appello ha escluso che il comportamento posto in essere dal lavoratore possa qualificarsi come abnorme; ciò in quanto B.A. aveva compiuto una operazione rientrante nelle sue effettive attribuzioni e nel segmento di lavoro affidato. E bene, le aporie di ordine logico, sopra evidenziate, rendono necessario un chiarimento, anche rispetto al tema relativo alla natura dell'operazione svolta dal dipendente, al fine di verificare se la stessa si collochi, o meno, nell'area di rischio che il garante era tenuto a preservare. Non sfugge che la Corte regolatrice ha chiarito che nessuna efficacia, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del medesimo lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre - comunque - alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, dep. 9.03.2007, Rv. 236109). Occorre peraltro considerare che la giurisprudenza di legittimità ha specificato che, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (Sez. 4, Sentenza n. 37986 del 27/06/2012, dep. 01/10/2012, Rv. 254365). E, in tale ambito ricostruttivo, si è recentemente considerato che il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore; con la precisazione che il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto, passando da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello "collaborativo", in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori (Sez. 4, Sentenza n. 8883 del 10/02/2016, dep. 03/03/2016, Rv. 266073). Occorre, pertanto, che il giudice del rinvio verifichi se l'intervento del lavoratore infortunato, nel caso di specie, rientri nell'area di rischio che le norme antinfortunistiche erano destinate a garantire, per le modalità con le quali l'intervento medesimo è stato realizzato, in riferimento alla speculare possibilità di controllo e vigilanza, rispetto alle precise direttive organizzative impartite, che grava sulle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, nei termini ora delineati.
3. Si impone, per quanto rilevato, l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Firenze. Resta assorbito ogni ulteriore profilo di doglianza.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Firenze.
Così deciso in Roma in data 11 maggio 2016.