Cassazione Penale, Sez. 4, 09 maggio 2017, n. 22606 - Infortunio della lavoratrice con la macchina "polmone a nastro" durante la pulizia e responsabilità del vertice societario. Irrilevante che il datore di lavoro fosse in carica da meno di due mesi


 

La sentenza è del tutto allineata ai principi anche di recente elaborazione giurisprudenziale (cfr. sez. 4 n. 13858 del 24/02/2015, Rv.263286) in materia di gestione del rischio nelle organizzazioni di lavoro particolarmente complesse, mutuati anche dall'arresto giurisprudenziale invocato dal ricorrente (Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn ed altri). L'individuazione della responsabilità penale dell'imputato, all'interno della società della quale è organo apicale, infatti, non è stata attribuita in via automatica, bensì tenendo conto dell'effettivo contesto organizzativo e delle condizioni in cui egli ha operato (avendo preso parte alle riunioni periodiche presso l'azienda, cfr. pag. 17 della sentenza), il che toglie pregio al rilievo che egli era in carica da meno di due mesi allorché si verificò l'infortunio, tenuto conto della natura della norma prevenzionale violata, direttamente riferibile alla pericolosità del macchinario presso il quale la neo assunta si procurò le lesioni subite.
In conclusione, deve ribadirsi anche in questa sede che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l'infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo (cfr. sez. 4 n. 24136 del 06/05/2016, Rv. 266853), l'impiego del macchinario con quelle caratteristiche di pericolosità rientrando proprio nella sfera gestionale riconducibile al vertice societario.


 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: CAPPELLO GABRIELLA Data Udienza: 04/04/2017

 

Fatto
 

 

1. Con sentenza 09/06/2016, la Corte d'appello di Bologna ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Ravenna, appellata dall'imputato M.G., con la quale costui era stato condannato per il reato di lesioni colpose aggravate ai sensi dell'art. 590 commi I, II e III, in relazione all'art. 583 co. 1 n. 1 cod. pen., ai danni della lavoratrice dipendente N.A., sostituendo la pena detentiva come irrogata in primo grado con quella pecuniaria, revocando la sospensione condizionale della pena e confermando nel resto.
2. Si è contestato al M.G., nella qualità di Amministratore Delegato della COOPERATIVA TERREMERSE, titolare - tra l’altro - di delega ad hoc in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, di avere cagionato - per colpa, generica e specifica e, segnatamente, per imprudenza, negligenza ed inosservanza delle norme antinfortunistiche [in particolare, dell'art. 2087 c.c. (laddove fa carico all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori), mettendo a disposizione del personale dipendente la macchina POLMONE A NASTRO 1300x1000, senza nel contempo dotarla dei requisiti generali di sicurezza; degli artt. 70, comma 2 e 71, co. 1, d. lgs 81/08 (che impongono al datore di lavoro di mettere a disposizione del personale dipendente attrezzature e macchinari conformi ai requisiti generali di sicurezza, nella specie), mettendo a disposizione dei lavoratori la macchina suindicata e consentendone l'utilizzo in azienda, nonostante fosse del tutto sprovvista di dispositivi idonei ad impedire l'accesso ed il contatto con la zona pericolosa, ove si trovavano ad operare i nastri trasportatori, sottostante il macchinario stesso (dispositivi peraltro imposti dalla ditta produttrice)] e, comunque, di avere concorso a cagionare, alla citata N.A., dipendente della società, con mansioni di operaia addetta alla cernita della frutta, lesioni personali gravi ("FRATTURA BIOSSEA AVAMBRACCIO SINISTRO"), dalle quali era derivata una malattia e comunque un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni superiore a quaranta giorni.
Nell'occorso, la N.A., mentre si trovava a prestare attività nel reparto "Cestini" lungo la linea denominata "Cestini Due", terminata la fase di cernita della frutta, aveva iniziato ad effettuare la pulizia del luogo di lavoro e, finita la raccolta dei frutti caduti a terra, si era introdotta - risultando completamente scoperta e non essendole stati impartiti precisi divieti in tal senso - nella zona sottostante la macchina POLMONE A NASTRO 1300/1000, per effettuare la pulizia del relativo nastro trasportatore (in quel momento in movimento). Nel contesto di tale operazione di pulizia, dapprima la mano, poi l'intero braccio sinistro venivano trascinati e schiacciati dal nastro trasportatore, procurandole le lesioni sopra descritte [in Lavezzola (RA) il 07.08.2010].
3. L'imputato ha proposto ricorso, formulando nove, distinti motivi.
Con il primo, ha dedotto il vizio di mancanza della motivazione, affermando che la Corte d'appello bolognese, nelle 24 pagine delle quali si compone la sentenza, si sarebbe limitata a riproporre, dapprima le doglianze difensive e, quindi, a riportare integralmente la sentenza di primo grado, senza aggiungere alcuna considerazione di rilevanza giuridica, all'infuori di poche righe che fungerebbero da raccordo meramente letterale ed interlocutorio tra i paragrafi della sentenza del giudice monocratico.
Con il secondo, ha dedotto l'erronea applicazione degli artt. 70 e 71 del d. lgs. 81/2008, assumendo che tali norme andrebbero correttamente lette ed applicate in uno con l'allegato V del T.U., che tratta dei requisiti di sicurezza della attrezzature di lavoro costruite in assenza di disposizioni legislative e regolamentari e di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto. Poiché la Terremerse è un'azienda attiva nel comparto alimentare, le esigenze del settore imponevano di prestare adeguata attenzione agli standard di sicurezza igienico sanitaria del processo e del prodotto, parallelamente (e non in subordine) alla sicurezza del lavoratore, cosicché, proprio le esigenze di lavorazione richiedevano una non assoluta segregazione degli elementi mobili delle macchine (nel caso di specie il tappeto mobile, che era parzialmente segregato per consentire di recuperare la frutta caduta e provvedere alla pulizia del nastro stesso), senza che ciò si sia tradotto nella pretesa di poter violare le regole di sicurezza, ma solo in una diversa gestione del rischio residuo, dal momento che lo stesso allegato V prevede che debbano adottarsi in tali casi "misure per ridurre ai minimo il pericolo". Nel caso di specie, presidi di sicurezza soggettivi consentivano di gestire il rischio residuo (e, segnatamente, istruzioni operative interne, formazione degli addetti e vigilanza dei superiori gerarchici). La sicurezza dei lavoratori, pertanto, poteva dirsi assicurata anche mediante detti presidi e non solo attraverso quelli di natura oggettiva.
Con il terzo motivo, ha dedotto vizio della motivazione in relazione alla valutazione delle prove, non avendo il giudice di merito considerato la testimonianza della collega dell'infortunata, sig.ra P., in ordine alla formazione ricevuta, al pari della N.A., sulle regole di utilizzo del macchinario (tra cui il divieto di pulire le macchine accese e di non passare sotto al nastro).
Con il quarto, ha dedotto erronea applicazione della legge penale e vizio motivazionale, lamentando una valutazione del nesso causale che non avrebbe tenuto conto dei principi da ultimo elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
Con il quinto e il sesto motivo ha dedotto violazione di legge con riferimento alla posizione di garanzia dell'imputato e travisamento del fatto con riferimento all'elemento soggettivo del reato, avuto riguardo alla affermata invalidità della delega conferita al direttore del processo ortofrutta M., fatta con atto notarile dal precedente A.D. e confermata dal nuovo A.D. M.G. attraverso una scrittura privata sottoscritta dal M..
Sotto altro profilo, ha rilevato che l'esercizio di fatto di poteri in materia di sicurezza supererebbe il difetto dei requisiti formali della delega, esercizio confermato dall'intervenuta, separata condanna del M. per lo stesso fatto, nella qualità di delegato per la sicurezza. Sul punto, peraltro, la difesa opera un rinvio ai principi rinvenibili nella sentenza Thyssen Krupp delle Sezioni Unite in ordine alla gestione del rischio nei contesti lavorativi complessi, evidenziando come la "Terremerse" dovesse considerarsi azienda di dimensioni rilevanti, con particolare complessità strutturale ed organizzativa e come dovesse tenersi conto della circostanza che il M.G., al momento dell'incidente, era stato nominato A.D. da 52 giorni.
Con il settimo motivo, ha dedotto vizio della motivazione con riferimento alla richiesta ex art. 603 cod. proc. pen., per l'audizione del M. sul ruolo dallo stesso ricoperto nella società al momento dei fatti, rilevando come non si rinvenga sul punto alcuna decisione da parte della Corte bolognese.
Con l'ottavo motivo, ha dedotto erronea applicazione della legge penale con riferimento alla procedibilità del reato, non essendovi prova in ordine ad una durata della malattia tale da avallare quella ex officio, dal referto del pronto soccorso emergendo che la malattia era stata pari a 40 giorni.
Con il nono, infine, ha dedotto errata applicazione della legge e difetto della motivazione in punto determinazione della pena, con riferimento all'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen., del tutto pretermessa dai giudici di merito che avrebbero operato solo la riduzione per le generiche, senza peraltro considerare l'incidenza delle attenuanti sulla individuazione della fattispecie, che non doveva più effettuarsi ai sensi dell'art. 590 co. 3, bensì dei commi 1 e 2 della stessa norma.
4. Con memoria depositata in data 16 marzo 2017, la difesa dell'imputato ha rassegnato motivi nuovi, sviluppando le doglianze già esposte in ricorso, con riferimento alla dedotta apparenza della motivazione e al ruolo di sicurezza dell'imputato.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso è inammissibile.
2. A fronte delle specifiche doglianze dell'appellante (che avevano riguardato: la formazione ricevuta dalla N.A. sulle modalità di pulizia della macchina; la tipologia di presidi di sicurezza della macchina, la cui parte sottostante non poteva essere del tutto segregata per motivi operativi e igienici; il nesso causale, in assenza di qualsivoglia violazione di norme di salvaguardia; il comportamento abnorme della lavoratrice; l'esistenza di valida delega sulla sicurezza; infine, la determinazione della pena), la Corte bolognese ha premesso nella esposizione un legittimo rinvio alla sentenza di primo grado, conforme in punto affermazione della penale responsabilità dell'imputato e, quindi, con riferimento alle singole censure, ha svolto la sua valutazione critica e rassegnato le sue conformi determinazioni.
In via preliminare, ha affrontato la questione relativa alla procedibilità del reato, avuto riguardo all'entità delle lesioni riportate dalla p.o., evidenziando che il giudice di primo grado aveva ritenuto sussistente l'aggravante contestata (con conseguente procedibilità ex officio) alla luce del referto ospedaliero, nel quale si parlava di una durata della malattia pari a giorni 40, ritenendo, a pag. 18 della sentenza impugnata, che le stesse fossero guaribili in un tempo superiore a tale indicazione.
Quindi, ha richiamato la sentenza nella parte in cui il Tribunale aveva individuato la posizione di garanzia dell'imputato all'interno dell'organigramma societario, quale soggetto
responsabile della sicurezza dello stabilimento in cui si è verificato il sinistro, affrontando il preliminare problema della esistenza di una valida delega a terzi, con riferimento allo specifico processo produttivo (ortofrutta).
La qualifica di datore di lavoro è stata ricollegata alla nomina del precedente A.D., sostituito dal M.G. meno di due mesi prima del fatto, già espressamente qualificato tale ex art. 2 del d.lgs. 81/08 per lo specifico settore della sicurezza sul lavoro, con facoltà di delega in materia al responsabile del processo ortofrutta (delega effettivamente attivata dal precedente A.D. Me. in favore del M., con procura notarile registrata il 17/06/2009). Con scrittura privata datata 18.06.2010, avente ad oggetto la "conferma deleghe conferite", il M.G., nuovo A.D., aveva confermato le deleghe conferite dal precedente amministratore al M. che accettava.
A fronte di tale situazione di fatto, il Tribunale aveva tuttavia ritenuto che la nomina ad amministratore delegato dell'odierno imputato avesse determinato l'inefficacia delle deleghe già conferite dal precedente, siccome atti personali intuitu personae destinati a perdere validità ed efficacia al venire meno della posizione di datore di lavoro da parte del delegante, con ritorno all'A.D. dei poteri e delle responsabilità in materia di sicurezza (conclusione avvalorata dalla circostanza che il CdA aziendale aveva proposto la conferma delle deleghe, così convalidandone la avvenuta caducazione).
Quanto alla scrittura privata prodotta dalla difesa, il Tribunale non l'aveva ritenuta idonea a determinare il relativo passaggio di poteri e responsabilità, dovendo la stessa essere effettuata secondo le prescrizioni di cui all'art. 16 del d.lgs. 81/08. Nel caso di specie, si era trattato di una mera scrittura privata sottoscritta dal delegato e dal delegante, priva di data certa, requisito formale inteso a cristallizzare il momento concreto, cronologicamente individuato o individuabile, della trasposizione del ruolo e delle funzioni da un soggetto ad un altro, idoneo ad impedire fittizie formazioni di un siffatto documento dopo il verificarsi dell'evento infortunistico. La stessa, quindi, era inidonea al passaggio della posizione di garanzia che, in ogni caso, non avrebbe potuto esonerare il delegante e lo stesso delegato, ove costui avesse svolto le funzioni delegate.
La Corte d'appello ha avallato tale decisione, uniformandosi al precedente giurisprudenziale richiamato dal Tribunale e ritenendo, pertanto, permanente la posizione di garanzia in capo al M.G., anche a fronte della responsabilità di fatto assunta dal M., inidonea ad escludere quella del M.G. e con essa concorrente.
Quanto alla prevedibilità del rischio, il Tribunale aveva precisato che il M.G. era un datore di lavoro informato e che ben poteva informarsi sulle condizioni di lavoro nello stabilimento di Lavezzola e sul suo stato di sicurezza, avendo preso parte alle riunioni periodiche sullo stato della sicurezza in qualità di datore di lavoro che si tenevano in azienda alla presenza, tra gli altri, del M. e di L.R., responsabile dello stabilimento. Quanto al giudizio controfattuale e alle norme di salvaguardia violate, la Corte ha precisato, alla luce della dinamica dell'Incidente ricostruita nella sentenza appellata, che l'evento lesivo sarebbe stato scongiurato dagli accorgimenti e dai presidi indicati dalla AUSL, qualunque condotta avesse posto in essere la lavoratrice. 
Quanto alla condotta di quest'ultima, in particolare, dalle prove era emerso che la donna, cernitrice da poco assunta, aveva l'abitudine di recarsi nella parte sottostante del macchinario per raccogliere la frutta caduta e pulire i rulli con la carta. Tale mansione, denegata dall'appellante, siccome non pertinente alle funzioni di cernitrice della N.A., che mai avrebbe potuto ricevere ordini in tal senso da soggetti sovrapposti, era stata però certamente espletata dalla p.o., come emerso dall'istruttoria ed, in particolare, dal racconto della ragazza, la quale anche il giorno prima aveva effettuato la stessa manovra (quella di passare, cioè, sotto il polmone a nastro per pulire i rulli, senza spegnere la macchina), operazione resa materialmente possibile proprio per la mancanza delle strutture di protezione, la cui installazione era prescritta anche dal costruttore del macchinario ai fine di impedire ai lavoratori di accedere direttamente alle zone pericolose della macchina. Peraltro, la zona pericolosa non era nemmeno segnalata ed era pure facilmente raggiungibile.
La Corte ha stigmatizzato a conforto di tali conclusioni, anche la circostanza che - dopo l'infortunio - la cooperativa, con una spesa minima, aveva provveduto ad installare le protezioni prescritte.
Quanto alle norme tecniche della cui violazione si discute, i giudici di merito hanno individuato quelle di cui alla rubrica e, segnatamente, l’art. 71 comma 1 T.U. in materia di sicurezza sul lavoro nella parte in cui prescrive che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee ai fini della salute e della sicurezza ed adeguate al lavoro da svolgere e adatte a tali scopi, non mancando di evidenziare anche il precetto generale, di analogo contenuto, rinvenibile nell'art. 2087 del codice civile, essendo emerso dall'Istruttoria che il macchinario presentava, nella parte sottostante, zone pericolose per i lavoratori, liberamente e facilmente accessibili, non protette con strutture fisse, come prescritto dal manuale, nemmeno segnalate o rese difficilmente raggiungibili. Tali caratteristiche erano perfettamente note e facilmente percepibili dagli addetti ai lavori e de visu da chiunque, essendo state segnalate dallo stesso costruttore nel manuale operativo, ragion per cui gli ispettori ASL avevano ritenuto il macchinario privo dei necessari requisiti di sicurezza, impartendo le relative prescrizioni all'azienda per la messa in sicurezza della macchina, rendendo inaccessibile la zona sottostante tramite l'installazione di protezioni di tipo fisso.
Né l'obbligo del datore di lavoro di fornire ai lavoratori attrezzature sicure poteva ritenersi assolto attraverso una generale spiegazione sul funzionamento delle macchine e delle modalità di ripulitura (stante la sommarietà di un corso di formazione di appena due ore). La possibilità, peraltro, di proteggere le parti pericolose del macchinario era stata confermata dal fatto che, dopo l'infortunio, lo stesso era stato adeguato.
Quanto alla imprevedibilità del comportamento della lavoratrice, una neo assunta, che aveva imparato l'attività sostanzialmente guardando le colleghe più anziane e che non aveva avuto un termine di riferimento pratico, ma solo delle indicazioni - delle quali neppure ricordava il contenuto - nell'ambito di quel corso di un paio d'ore, la stessa aveva precisato che tutto ciò che faceva le era stato prescritto dai suoi superiori o lo aveva visto fare da costoro, avendo nell'occorso ritenuto implicita nelle sue incombenze anche l'operazione di pulizia che aveva già visto fare da altre colleghe e che era stata istruita a fare dalla capo reparto X. operazione che doveva essere eseguita soltanto a macchinario spento. Lo stesso R.L., responsabile dello stabilimento, aveva confermato che era compito delle cernitrici tenere pulito e asciutto il rullo del nastro trasportatore, sebbene l'operazione dovesse essere svolta dall’alto, operando solo sulla parte esterna sulla quale poggiava la frutta e non dal basso, come aveva fatto la N.A. a macchina accesa, senza previo spegnimento del nastro trasportatore, il che per i giudici di merito corroborava l'effettiva ignoranza della lavoratrice sulla necessità di spegnere la macchina prima di intervenire sui rulli. L'intervento di pulizia, anche se saltuariamente, non era stato escluso neppure dalla caporeparto X. ed era stato confermato anche dalla teste A. al personale dell'ASL nell'immediatezza.
Tali affermazioni andavano a supportare la genuinità di quelle della p.o. con riferimento al fatto che la sua decisione di intervenire per la pulizia con le modalità utilizzate era dipesa dall'effetto emulativo delle altre lavoratrici, non potendosi tale intervento, pure disattento, considerare per ciò stesso abnorme e ricondurre come tale nell'area di un'imprevedibilità, interruttiva del nesso causale, essendo viceversa del tutto preventivabile e prevedibile che, anche soltanto in maniera accidentale, gli arti dell'addetto possano venire in contatto con le parti meccaniche pericolose non protette, tanto più se l'operatore era un neo assunto, che lavorava nello stabilimento da appena due mesi, e privo quindi di dimestichezza con il lavoro, oltre che non perfettamente consapevole delle fonti di pericolo ad esso connessi in quanto non ancora note e misurate.
Infine, quanto al trattamento sanzionatorio, tenuto conto delle già concesse circostanze attenuanti generiche e del giudizio di loro prevalenza sull'aggravante contestata, la Corte ha ritenuto congrua la pena individuata dal Tribunale in mesi due di reclusione (muovendo da una pena base di mesi tre, ridotta per le attenuanti generiche c mesi due), non ritenendo possibile una più favorevole rimodulazione, stante la agevole possibilità di dotare il macchinario di semplici ma adeguati presidi e/o protezioni (predisposte dall'azienda, subito dopo la diffida dell'organo di controllo).
3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3.1. La parte ha riproposto censure articolate (quasi tutte) con l'appello, senza tuttavia operare il necessario preventivo confronto con i motivi che sorreggono la decisione impugnata che si pretende priva di reale parte motiva.
Quanto al soddisfacimento dell'onere motivazionale da parte della Corte territoriale, deve rilevarsi intanto che, nel giudizio di appello, è consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (cfr. sez. 2 n. 30838 del 19/03/2013, Rv, 257056; sez. 4 n. 38824 del 17/09/2008, Rv. 241062), soprattutto ove essa recepisca, in modo critico e valutativo quella impugnata, limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della difesa, ed omettendo di esaminare quelle doglianze dell'atto di appello, che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice (cfr. sez. 2 n. 19619, del 13/02/2014, Rv. 259919).
Peraltro, proprio in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, si è anche precisato che, se l'appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relazione; quando invece sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte [cfr. sez. 6 n. 28411 del 13/11/2012 ud. (dep. 01/07/2013), Rv. 256435],
Né la motivazione della sentenza di appello può considerarsi apparente, apodittica o tautologica quando consente di individuare, con chiarezza e senza defatiganti ricerche di testuali corrispondenti espressioni, l'avvenuto, concreto, essenziale e puntuale vaglio autonomo dei punti specifici devoluti dall'impugnazione ed il percorso argomentativo che l'ha accompagnata (cfr. sez. 6 n. 17912 del 17/09/2008, Rv. 241062).
3.2. Nel caso in esame, non soltanto è rinvenibile nel documento impugnato il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, attraverso la tecnica di redazione prescelta, ma esso è pure sostenuto da argomenti critici riferibili specificamente alle singole censure rassegnate.
4. Il secondo, il terzo e il quarto motivo sono manifestamente infondati.
La parte ripropone censure, solo apparentemente in diritto, pretendendo in realtà una diversa valutazione degli elementi fattuali compiutamente esposti nella sentenza impugnata.
Con riferimento alla individuazione della norma tecnica violata, deve intanto rilevarsi l'inconducenza di una puntualizzazione circa l'insussistenza di una lett. c) del comma 1 dell'art. 71 del d.lgs. 81/08 (riferibile invece al comma 2 della stessa norma che fa riferimento ai rischi derivanti dall'impiego delle attrezzature di lavoro), attesa la analitica descrizione della condotta colposa attribuita all'imputato.
4.1. Quanto all'argomento che fa leva sulla peculiarità della lavorazione, tale da richiedere accorgimenti di sicurezza che si contemperino con le esigenze di igiene dell'ambiente di lavoro nel comparto alimentare, la stessa è superata dalle considerazioni svolte nella sentenza a proposito della dirimente circostanza che il macchinario, solo dopo l'infortunio e a seguito dei rilievi dell'organo di controllo, fu adeguato nel senso richiesto dalla norma di salvaguardia violata, la gestione "alternativa" del rischio, prospettata in entrambi i gravami di merito e legittimità, facendo riferimento a presidi rimessi al controllo umano (istruzioni operative interne, formazione degli addetti e vigilanza dei superiori gerarchici) in quell'azienda rivelatisi insufficienti (informazione e formazione) o addirittura di segno opposto a quello della salvaguardia della sicurezza (vigilanza degli addetti che, come si vedrà a proposito del comportamento imprudente della lavoratrice, non era espletata). 
4.2. La sentenza è del tutto allineata, inoltre, ai principi anche di recente elaborazione giurisprudenziale (cfr. sez. 4 n. 13858 del 24/02/2015, Rv.263286) in materia di gestione del rischio nelle organizzazioni di lavoro particolarmente complesse, mutuati anche dall'arresto giurisprudenziale invocato dal ricorrente (Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn ed altri). L'individuazione della responsabilità penale dell'imputato, all'interno della società della quale è organo apicale, infatti, non è stata attribuita in via automatica, bensì tenendo conto dell'effettivo contesto organizzativo e delle condizioni in cui egli ha operato (avendo preso parte alle riunioni periodiche presso l'azienda, cfr. pag. 17 della sentenza), il che toglie pregio al rilievo che egli era in carica da meno di due mesi allorché si verificò l'infortunio, tenuto conto della natura della norma prevenzionale violata, direttamente riferibile alla pericolosità del macchinario presso il quale la neo assunta N.A. si procurò le lesioni subite.
In conclusione, deve ribadirsi anche in questa sede che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l'infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo (cfr. sez. 4 n. 24136 del 06/05/2016, Rv. 266853), l'impiego del macchinario con quelle caratteristiche di pericolosità rientrando proprio nella sfera gestionale riconducibile al vertice societario.
5. Anche il quinto ed il sesto motivo sono manifestamente infondati.
Il tema della validità/invalidità della delega delle funzioni al M., allegata a difesa, è stato puntualmente esaminato nel giudizio di merito e anche sotto tale aspetto le relative doglianze appaiono del tutto sovrapponibili a quelle veicolate con l'atto d'appello ed esaminate dal giudice del gravame con motivazione del tutto scevra da profili di illegittimità.
5.1. In questa sede, è sufficiente ricordare - prendendo le mosse proprio dall'importante arresto giurisprudenziale che lo stesso ricorrente ha richiamato - che, in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono essere trasferiti con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa [cfr. Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261108; sez. 4 n. 4350 del 16/12/2015) Ud. (dep. 02/02/2016), Rv. 265947].
5.2. Nel caso in esame, la Corte ha puntualizzato (e prima ancora lo aveva fatto il Tribunale) che la delega era stata rilasciata (contrariamente a quanto aveva fatto il predecessore del M.G.) solo con una scrittura priva di elementi che consentissero di verificarne con certezza l'epoca del conferimento, quanto alla caducazione della precedente avendo lo stesso C.d.A. e, del resto, lo stesso M.G., riconosciuto il venir meno di essa una volta mutato l'organo di governo dell'ente (Il primo proponendone il rinnovo, il secondo allegando l'esistenza di una nuova delega di tenore analogo).
Trattasi di considerazioni del tutto idonee a fondare il giudizio espresso dai giudici di merito, avallato peraltro dall'inequivocabile tenore letterale dell'art. 16 del d.lgs. 81/08 (che richiama la forma scritta e la data certa della delega), rispetto alle quali, tuttavia, la parte si è limitata alla mera proposizione delle stesse argomentazioni anche in sede di legittimità, senza indicare ragioni specifiche di critica in ordine alla ritenuta inadeguatezza della delega allegata.
5.3. Quanto alla incongruenza della decisione rispetto alla intervenuta condanna del M. per lo stesso fatto, la parte confonde i due distinti piani di giudizio della concorrenza di plurime posizioni di garanzia con quello della validità della delega che riverbera i suoi effetti direttamente sull'estensione (ma non necessariamente sull'esistenza, stante la natura gestionale, che implica cioè anche un correlato potere di spesa, dell'impiego di un macchinario sprovvisto delle caratteristiche tecniche necessarie a scongiurare situazioni di pericolo per i lavori addetti) della posizione di garanzia propria del datore di lavoro, ma che non copre quella derivante da posizioni diverse come quella del M., direttore del processo ortofrutta (cfr. pag. 16 della sentenza), essendosi peraltro già chiarito che il principio di effettività, in base al quale assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, non vale, tuttavia, a rendere efficace una delega priva dei requisiti di legge (cfr. sez. 4 n. 22246 del 28/02/2014, Rv. 259224), non potendosi confondere la tematica della delega delle funzioni prevenzionistiche con quella del principio di effettività, in base al quale colui che ha di fatto assunto e svolto i compiti propri del datore di lavoro risponderà in virtù di tale volontaria assunzione e non di una delega invalida, laddove il delegante "imperfetto" conserverà tutte le funzioni prevenzionistiche e i suoi doveri non potranno essere relegati al l'obbligo di vigilanza di cui all'art. 16 d. lgs. 81/08 (cfr. in motivazione sez. 4 n. 22246 del 28/02/2014, citata).
6. La manifesta infondatezza del settimo motivo di ricorso è diretta conseguenza di quella dei due che precedono, atteso che la rinnovazione dell'istruttoria ai sensi dell'art. 603 codice di rito è stata collegata dalla stessa parte alla necessità di esaminare il M. in merito al ruolo dal medesimo svolto nell'azienda, indagine all'evidenza assorbita dalla riconosciuta invalidità, per profili formali, della delega allegata.
Peraltro, sul punto, non può mancarsi di richiamare la natura eccezionale e residuale dell'ipotesi invocata, ad escludere la quale è sufficiente una implicita motivazione di rigetto che dimostri la valutazione del tema (cfr. in motivazione sez. 4 n. 22246 del 2014 citata).
7. L'ottavo motivo è inammissibile, poiché la relativa censura non ha costituito specifico motivo di appello.
8. E', infine, manifestamente infondata anche la censura che riguarda il trattamento sanzionatorio, del tutto legale rispetto alla cornice edittale. La Corte territoriale ha offerto adeguata motivazione in ordine alla particolare gravità della condotta, raffrontata anche alla semplicità del presidio adottabile a salvaguardia del rischio. Quanto alla attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. la stessa non è stata riconosciuta in primo grado, avendo il Tribunale valutato l'intervenuto risarcimento solo ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Sul punto, peraltro, si è affermato da parte di questa Corte che, ai fini del riconoscimento dell’attenuante della integrale riparazione del danno, prevista dall’art. 62, n. 6, cod. pen., il risarcimento deve intervenire prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado [cfr. sez. 3 n. 18937 del 19/01/2016, Rv. 267579; n. 17864 del 23/01/2014, Rv. 261498; sez. 4 n. 1528 del 17/12/2009 Ud. (dep. 14/01/2010, Rv. 246303], presupponendo essa la dimostrazione di uno spontaneo ravvedimento non condizionata dall'andamento del dibattimento, laddove, si è pure chiarito che, ai fini della configurabilità di detta circostanza attenuante, il risarcimento del danno deve essere volontario, integrale, comprensivo sia del danno patrimoniale che morale, ed effettivo [cfr. sez. 6 n. 6405 del 12/11/2015 Ud. (dep. 17/02/2016), Rv. 265831; sez. 2 n. 9143 del 24/01/2013, Rv. 254880], con conseguente del relativo motivo di ricorso.
Infine, in punto determinazione della pena, anche a seguito dell'elisione dell'aggravante contestata, quella base è stata individuata in maniera del tutto legale, avendo peraltro i giudici di merito giustificato detta determinazione alla luce della gravità della colpa e della particolare semplicità della misura di salvaguardia pretermessa.
9. All'inammissibilità segue, a norma dell'art. 616, cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Deciso in Roma il 04 aprile 2017.