Cassazione Penale, Sez. 4, 31 maggio 2017, n. 27295 - Infortunio mortale durante la movimentazione di una capriata metallica. Conferire a terzi l'onere della redazione del DVR non esonera il datore di lavoro dall'obbiigo di verificarne l'adeguatezza


 

«In tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro ha l'obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro, e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori» (così, condivisibilmente, di recente, Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016, Serafica, Rv. 267253, peraltro conformemente all'insegnamento di Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109);

«In tema di infortuni sul lavoro, il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del documento di valutazione dei rischi, non esonera il datore di lavoro dall'obbiigo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi ai lavori in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni» (Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Morini, Rv. 266859). 


 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza: 02/12/2016

 

 

 

Fatto

 


1. La Corte di appello di Venezia il 26 ottobre 2015, integralmente riformando la sentenza di assoluzione che era stata emessa il 10 febbraio 2013 dal Tribunale di Venezia, appellata dal P.M., dalle parti civili e, in via incidentale, dall'imputato, ha dichiarato A.F. responsabile del reato di omicidio colposo, con violazione della disciplina antinfortunistica, fatto contestato come commesso il 9 settembre 2009, in conseguenza condannando l'imputato a pena condizionalmente sospesa e, in solido con il responsabile civile S.I. s.r.l. in liquidazione, al risarcimento dei danni, liquidati in sentenza, a favore delle parti civili, sia congiunti della vittima (L.Z., F.R. ed E.R.) sia associazioni sindacali (UST-CISL e FIM-CISL di Venezia).
2. All'imputato si contesta nel capo di accusa di avere, in qualità di amministratore unico della s.r.l. S.I., cagionato per colpa, sia generica (imprudenza, negligenza, imperizia) che specifica, la morte del dipendente della ditta L.R., operaio verniciatore, che, impegnato nelle operazioni di movimentazione, avvalendosi di un carroponte, di una capriata metallica del peso di 940 chilogrammi, già verniciata, che doveva servire all'ampliamento di un capannone aziendale, accingendosi a posizionare la stessa, in attesa del successivo montaggio, all'esterno del capannone, in particolare a fianco di un container ove era posizionata un'altra capriata, avendo sganciato la capriata dall'imbracatura dopo avere poggiato la stessa su di un'area di deposito irregolare e sconnessa, avendo effettuato tale manovra in assenza di precise indicazioni procedurali in ordine all'utilizzo del carroponte e alla sua movimentazione, allo sganciamento e alla messa in sicurezza della capriata, veniva schiacciato ed ucciso dal ribaltamento della capriata che aveva trasportato.
I profili di colpa specifica contestati nell'editto sono tre: 1) avere omesso di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il relativo documento ai sensi dell'art. 17, comma 1, lett. a), d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81; 2) avere omesso di provvedere affinché i luoghi di lavoro fossero conformi a quanto prescritto dall'art. 63 del d.lgs. n. 81 del 2008, al fine di evitare lo scivolamento e la caduta dei lavoratori; 3) avere omesso di richiedere l'osservanza delle norme vigenti in tema di uso da parte del dipendente dei dispositivi di protezione individuali, con particolare riferimento alle scarpe antinfortunistiche.
3. Le informazioni che si traggono dalla sentenza di primo grado sono le seguenti.
Il Tribunale, facendo propria, in larga parte, la ricostruzione del consulente del Pubblico Ministero, ha ricostruito la vicenda nei termini che di seguito si riassumono.
Premesso che nessuno ha assistito all'infortunio, si è ritenuto accertato che L.R. abbia effettuato la manovra descritta nel capo di accusa da solo, nell'ora normalmente destinata alla pausa pranzo, trasportando dall'Interno del capannone della ditta al piazzale esterno la pesante (940 chili) e voluminosa (circa 16 X 2 metri) capriata, già verniciata, tramite il carroponte che guidava mediante telecomando e che, una volta giunto in prossimità di altra capriata già poggiata al suolo, abbia, prima, poggiato, tramite il carroponte, la capriata a terra, in posizione verticale, cioè su basi di appoggio di limitate dimensioni (due spigoli di venti centimetri l'uno), adagiandola su di un terreno che era sconnesso ed irregolare, anche per la presenza di sterpi, ed in una posizione di equilibrio precario ed instabile, che, dunque, la rendeva facilmente ribaltabile anche per effetto di modeste sollecitazioni, quindi sganciando l'imbracatura che legava il pesante manufatto. A questo punto l'operaio, con ogni probabilità, sarebbe scivolato a causa delle asperità del terreno ovvero sarebbe stato colpito al capo o sfiorato dalla fune di acciaio che era servita per trasportare la capriata imbracata (sul cavo di acciaio sono stati, infatti, rinvenuti capelli bianchi, uguali alla capigliatura della vittima) e, in conseguenza, per effetto o della perdita di equilibrio ovvero del contatto con la fune, avrebbe inavvertitamente urtato la capriata, appunto in equilibrio precario, facendola crollare addosso a sé: in entrambi i casi, l'azione sarebbe stata concausata dall'avere l'uomo indossato comuni scarpe da ginnastica, che non offrivano la giusta aderenza al terreno, e non già le scarpe antinfortunistiche, di cui pure era stato dotato.
Ciò posto, si è sottolineato nella sentenza del Tribunale che il ribaltamento avvenne perché la capriata venne liberata dal gancio del carroponte prima di essere stata posta in sicurezza, cioè in posizione stabile sul terreno.
Si è, del resto, escluso che il sinistro sia derivato da carenze o violazioni o difetti di manutenzione del carroponte.
Tutti gli operai sentiti hanno confermato di avere ricevuto necessaria formazione ed informazione circa l'uso di dispositivi di sollevamento e del carroponte; alcuni hanno dichiarato che era consuetudine che la movimentazione degli elementi metallici mediante il carroponte fosse svolta da una sola persona.
Si è giudicato possibile da parte del Tribunale che l'operazione alla quale era intenta la vittima potesse essere complessivamente effettuata, con le dovute cautele e precauzioni, anche da una persona sola, essendo relativamente semplice la fase di innalzamento e di trasporto, mentre la fase "critica" era quella del posizionamento a terra e della messa in sicurezza, proprio quella in cui si è verificato l'infortunio.
Valorizzata, dunque, la pregressa esperienza di L.R., che aveva funzioni di preposto, come da contratto in atti, e che era stato - si è ritenuto - sufficientemente formato, tenuto conto che i corsi di formazione aziendali erano stati attivati, valutate le circostanze che l'operaio utilizzava normalmente il carroponte e che la movimentazione di pezzi verniciati rientrava nel suo profilo di verniciatore, che ha agito di sua iniziativa su di un terreno accidentato, pur avendo a disposizione un'ampia zona del piazzale a superficie regolare e pavimentata, che le direttive dell'azienda erano di svolgere l'attività nella zona in cui era presente la pavimentazione, che quel giorno L.R. non indossava regolari calzature antinfortunistiche, che pure l'azienda aveva fornito ai dipendenti, essendo altresì emerso che il datore di lavoro, anche attraverso i suoi collaboratori, faceva rispettare l'uso dei dispositivi individuali di protezione, riprendendo in caso di irregolarità chi non ne facesse uso, che il documento di valutazione dei rischi era stato, in effetti, redatto e depositato da una società di consulenza appositamente incaricata e tenuto anche conto della difficoltà di ricostruzione della dinamica del fatto, che presentava profili di ipoteticità nei contributi di tutti i consulenti (del P.M., della p.c. e della difesa), il Tribunale ha, infine, concluso per la sussistenza di una condotta altamente imprudente dell'infortunato nella manovra di sganciamento della seconda capriata e per la insufficienza di prove circa la violazione, da parte dell'imputato, delle regole cautelari specificamente individuate nel capo di accusa, in conseguenza assolvendolo, ai sensi dell'alt. 530, comma 2, cod. proc. pen., per insussistenza del fatto, richiamato il criterio di giudizio di cui all'art. 192 cod. proc. pen.
4. La Corte di appello di Venezia, ricostruiti gli antefatti, richiamati i tre profili di colpa specifica contestati all'imputato (v. punto n. 2 del "ritenuto in fatto"), ha escluso la rilevanza causale del secondo e del terzo, in particolare ritenendo che «per quanto riguarda l'omessa conformazione dei luoghi di lavoro ai requisiti di legge ai fine di evitare lo scivolamento e la caduta dei lavoratori, non [...è] stato dimostrato che, sulla dinamica dell'infortunio e sulla gravità delle sue conseguenze, abbia inciso una - rimasta del tutto ipotetica - perdita d'equilibro della persona offesa cagionata dai terreno ingombro di materiali, non pavimentato e non livellato» e che ciò «vaie anche per quanto concerne la mancata vigilanza sull'uso dei dispositivi di protezione individuali e, in particolare, delle scarpe antinfortunistiche, non essendosi provato che le calzature indossate dal L.R. al posto di quelle antinfortunistiche abbiano avuto una qualche rilevanza causale nel determinismo dell'infortunio occorsogli, né che ne abbiano aggravato le conseguenze dannose» (così alle pp. XIX-XX della sentenza impugnata).
Ha ritenuto, invece, «di poter ravvisare in capo a A.F. , pacificamente datore di lavoro del L.R., la violazione dell'obbligo di procedere ad una specifica valutazione del concreto rischio al quale il dipendente era esposto durante quel tipo di lavorazione, profilo di colpa specifica questo da porsi in sicuro rapporto causale con l'infortunio mortale verificatosi» (così alla p. XX della sentenza cit.).
Il ragionamento svolto della Corte di appello è il seguente (pp. XX-XXIII della sentenza).
Ha, anzitutto, premesso che la formale qualifica di preposto di L.R., la sua competenza e la notevole esperienza accumulata non esoneravano certo il datore di lavoro dall'obbligo di procedere, a tutela anche del lavoratore più esperto o del migliore preposto, alla valutazione del rischio connesso ad ogni singola lavorazione potenzialmente costituente fonte di pericolo.
Ha, quindi, osservato che, esaminando il documento di valutazione dei rischi, in atti, non si rinvengono in esso null'altro che generiche indicazioni con riferimento alla movimentazione di manufatti nel perimetro aziendale a mezzo carroponte, sottolineando che tali indicazioni non erano state nemmeno tutte rispettate nel caso di specie, come quella della necessaria pavimentazione di tutta l'area interessata dalle operazioni. Ha, in particolare, rilevato la Corte territoriale che non si rinviene nel documento la specifica valutazione del rischio connesso al trasporto e, ancor più, allo sgancio e al conseguente stoccaggio di materiale di equilibrio difficoltoso per conformazione, dimensione ed ingombro.
I giudici dell'impugnazione di merito hanno, poi, ritenuto che sarebbe stato obbligo del datore di lavoro procedere alla valutazione del rischio connesso al trasporto ed allo sganciamento delle capriate, stabilendo specificamente il luogo in cui dovevano essere collocate, il numero degli operai che avrebbero dovuto provvedervi in ragione delle dimensioni dei pezzi, le modalità delle operazioni di trasporto, sganciamento e stoccaggio, compresa la scelta dell'allocazione, in orizzontale o in verticale, e anche, in quest'ultimo caso, l'angolo di inclinazione rispetto al terreno, al riguardo osservando quanto segue: «Giova considerare, sotto quest'ultimo profilo, che la prima capriata già sul posto, alla quale il L.R. intendeva appoggiare quella poi rovinata a terra, visivamente appare appoggiata al terreno in posizione quasi verticale, con una minima pendenza. E' chiaro che questa quasi verticalità deve avere facilmente indotto in errore la persona offesa, facendole ritenere, mentre s'accingeva allo sgancio della seconda capriata dal carroponte, d'averla correttamente appoggiata al prima» (così alla p. XXI della sentenza cit.).
Siffatta omessa procedimentalizzazione - si è ritenuto - non soltanto costituiva obbligo del datore di lavoro, risultato, appunto, non assolto, ma avrebbe certamente contribuito a porre il lavoratore sull'avviso e a renderlo più consapevole del pericolo dell'operazione che si accingeva a compiere.
Ha considerato, poi, la Corte di appello che la capriata in questione non era un pezzo ordinario nella produzione aziendale, «ma un unicum per conformazione e destinazione, dovendo essere impiegata per l'ampliamento dell'area di fabbrica» (pp. XXI-XXII della sentenza cit.) e ne ha dedotto che, non rientrando nella normale attività aziendale l'ampliamento dell'area coperta, attività comprensiva non soltanto del montaggio delle coperture ma anche della produzione e dello stoccaggio dei pezzi metallici necessari, sarebbe stata necessaria, per ogni sua fase, compresa quella di trasporto e di stoccaggio dei materiali, un'apposita valutazione dei rischi, che risulta nel caso di specie del tutto mancante.
Si è sottolineato anche che, seppure non è dimostrato che la vittima sia inciampata, le condizioni del terreno rendevano le attività di movimentazione, discesa, appoggio e sganciamento della capriata complesse ed insidiose, oltre che idonee a distogliere l'attenzione del lavoratore da ciò che stava facendo, argomentando che, ove si fosse proceduto ad un'attenta valutazione dei rischi, con ogni verosimiglianza anche il luogo di stoccaggio sarebbe stato previamente liberato dai materiali e dagli sterpi che lo ingombravano, così potendosi meglio concentrare l'attenzione del lavoratore sulle manovre da farsi, evitando distrazioni rivelatesi fatali.
Così proseguono i giudici di merito (alle pp. XXII-XXIII della sentenza): «L'avere lasciato al lavoratore la più completa libertà di determinazione nella conduzione dell'operazione, ivi compresa la scelta se impilare orizzontalmente le capriate o poggiarle l'una all'altra in posizione verticale, l'avere omesso il doveroso contributo alla sicurezza del proprio dipendente, apporto che ben doveva provenire da una corretta valutazione e procedimentallzzazione dell'attività svolta dal L.R. al momento dell'Incidente occorsogli, integra un profilo di colpa specifica in sicuro rapporto causale con l'infortunio di cui si tratta».
Quanto alla formazione del lavoratore, ha osservato la Corte di appello che il materiale illustrativo agli atti, relativo al corso di formazione seguito dal L.R. per l'apprendimento della movimentazione di materiale nell'area aziendale, trascura il problema dell'equilibrio dei manufatti una volta sganciati e posati a terra, del loro corretto accatastamento per evitare rischi di caduta e, in generale, delle attenzioni richieste in fase di sganciamento e stoccaggio.
Esclusa, infine, l'abnormità, in quanto mera disattenzione nell'espletamento di mansioni ordinarie, stimata prevedibile e prevenibile con adeguata valutazione del rischio, della condotta del lavoratore costituente plausibile concausa dell'infortunio, l'avere cioè L.R. sganciato la capriata prima che fosse stabilmente poggiata, la Corte territoriale ha individuato la sanzione penale e ha determinato il quantum risarcitorio (pp. XXIII-XXIV della sentenza impugnata).
5. Ricorre per la cassazione della sentenza l'imputato, tramite difensore, affidandosi a sette motivi di ricorso, con i quali, ricostruito l'antefatto (pp. 1-13 dell'atto di impugnazione), deduce violazione di legge e difetto motivazionale.
5.1. Con il primo motivo di ricorso (pp. 13-17 dell'impugnazione) si denunzia nullità derivante dalla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Si sottolinea che il capo di accusa, così come testualmente formulato, contesta la omissione radicale della valutazione dei rischi e della elaborazione del documento, che sarebbe inesistente, mentre la sentenza di condanna, dato atto, in conformità a quella dei primo grado, della esistenza del documento di valutazione dei rischi, che era stato redatto prima dell'infortunio da società di consulenza incaricata, ne ritiene la inadeguatezza, per genericità contenutistica.
Ritenuto che si sarebbe, pertanto, in presenza di una condanna dell'imputato in relazione a fatto diverso da quello descritto nella contestazione (in sostanza: documento di valutazione inadeguato anziché mancante) e richiamata al riguardo giurisprudenza di legittimità, si invoca la dichiarazione di nullità della sentenza ai sensi dell'art. 522 cod. proc. pen.
5.2. Con il secondo motivo si censura promiscuamente violazione di legge (erronea applicazione della regola di giudizio ex art. 533 cod. proc. pen.), travisamento della prova per omesso esame di prove acquisite e ritenute decisive e mancanza ed illogicità della motivazione circa la sussistenza del fatto e del nesso di causalità.
Richiamata la circostanza che nell'appello incidentale era stata affrontata, anche mediante inserimento di stralci dell'Istruttoria testimoniale e consulenziale (ulteriormente riferiti nel ricorso), la tematica relativa al fatto che l'attività di verniciatura, trasporto e collocazione di capriate e di altri pezzi di grandi dimensioni era effettuata usualmente da un solo lavoratore e che le direttive aziendali prevedevano che il deposito venisse effettuato nell'area pavimentata, come del resto accertato nella sentenza di primo grado, assume la difesa sussistere un vero e proprio travisamento della prova nell'avere la Corte di appello:
a) evidenziato la straordinarietà dell'attività svolta nell'occasione da L.R. (la capriata in questione non era un pezzo ordinario nella produzione aziendale, «ma un unicum per conformazione e destinazione, dovendo essere impiegata per l'ampliamento dell'area di fabbrica», pp. XXI-XXII della sentenza impugnata);
b) affermato che sarebbe stato obbligo del datore di lavoro procedere alla valutazione del rischio connesso al trasporto ed allo sganciamento delle capriate, stabilendo specificamente il luogo in cui dovevano essere collocate, il numero degli operai che avrebbero dovuto provvedervi in ragione delle dimensioni dei pezzi, le modalità delle operazioni di trasporto, sganciamento e stoccaggio, compresa la scelta dell'allocazione, in orizzontale o in verticale, e anche, in quest'ultimo caso, l'angolo di inclinazione rispetto al terreno (p. XXI della sentenza impugnata).
I riferimenti alla straordinarietà dell'operazione in corso ed al luogo di collocamento del pezzo ed al numero dei lavoratori da impiegarsi sarebbe, secondo il ricorrente, radicalmente in contrasto con le emergenze istruttorie, essendosi, al contrario, evidenziato che era usuale movimentare pezzi metallici ingombranti, che poteva essere sufficiente a ciò una una sola persona, purché fossero rispettate determina cautele, e che l'azienda indicava come terreno di cui servirsi per le operazioni la parte pavimentata.
Ne conseguirebbe la non pertinenza della motivazione della sentenza rispetto alle acquisizioni processuali, ergo: il travisamento della prova. 
In ogni caso, mancherebbe la motivazione rafforzata, che deve connotare, secondo giurisprudenza di legittimità anche recente, che si richiama puntualmente, la sentenza di appello che ribalta decisione assolutoria.
5.3. Si denunzia con il terzo motivo di ricorso (pp. 25-28) la ritenuta violazione del principio ricavabile dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, ad esempio nella nota causa Dan vs. Moldavia, secondo il quale il giudice di appello che ribalti la decisione assolutoria deve assicurare il rispetto del principio di oralità, rinnovando l'assunzione delle prove testimoniali.
Richiamate parti della motivazione di due recenti pronunzie di legittimità (tra cui Sez. 3, n. 11648 del 12/11/2014, dep. 2015, P., Rv. 262978) si assume che sui tre temi di prova evidenziati al punto che precede (1. normalità della lavorazione; 2. sufficienza di una sola persona; 3. scelta del luogo di stoccaggio) si sarebbe dovuto, di necessità, procedere alla rinnovazione della prova orale.
5.4. Con il quarto motivo di ricorso (pp. 28-31) si censura la sentenza per manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ricostruzione del fatto storico e alle cause che lo hanno determinato.
La illogicità deriverebbe, secondo il ricorrente, dall'avere la Corte di appello, prima, escluso la rilevanza causale della omessa corretta conformazione dei luoghi di lavoro ai requisiti di legge e della mancata vigilanza sull'uso dei dispositivi individuali, per poi- si assume illogicamente - essere tornata nella motivazione della condanna a farvi riferimento allorché ha evidenziato che le condizioni del terreno rendevano le attività di movimentazione, discesa, appoggio e sganciamento della capriata complesse ed insidiose ed erano, inoltre, idonee a distogliere l'attenzione del lavoratore da ciò che stava facendo e che, ove si fosse proceduto ad un'attenta valutazione dei rischi, con ogni verosimiglianza, anche il luogo di stoccaggio sarebbe stato previamente liberato dai materiali e dagli sterpi che lo ingombravano, così potendosi meglio concentrare l'attenzione del lavoratore sulle manovre da farsi, evitando distrazioni che si sarebbero rivelate fatali. La segnalata contraddizione renderebbe viziata la sentenza anche sotto il profilo del mancato superamento nel caso di specie della regola dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio".
5.5. Con il quinto motivo di ricorso (pp. 31-35) si censura la sentenza congiuntamente per violazione della regola di giudizio di cui all'art. 533 cod. proc. pen. e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del fatto e del nesso causale.
Si evidenzia, richiamando giurisprudenza di legittimità, la mancanza nella motivazione della sentenza impugnata del doveroso giudizio controfattuale: in assenza di un sicuro accertamento sulla condotta della vittima e sulla dinamica dell'infortunio - assume il ricorrente - si sarebbe dovuto valutare se, ipotizzando come compiuta la contestata omissione, l'evento lesivo si sarebbe ugualmente verificato o meno e se l'azione omessa avrebbe impedito, con probabilità prossima alla certezza, l'evento finale.
5.6. Mediante ulteriore motivo di ricorso (pp. 36-42) si denunzia contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa e del nesso causale tra omissione ed evento.
In particolare, ulteriormente sottolineata la incertezza, che si ritiene insuperabile, sulla ricostruzione della dinamica del fatto e sul nesso eziologico, se ne deduce la impossibilità, in siffatte condizioni, di esprimere alcun giudizio sulla colpevolezza dell'imputato, nei suoi aspetti fondamentali di prevedibilità e di evitabilità dell'evento attraverso l'adozione di una condotta che sia effettivamente esigibile.
Si richiamano, poi, plurime emergenze istruttorie (illustrate anche mediante richiami di passaggi testimoniali e puntuali allegazioni documentali), che si ritengono pacifiche, a proposito della capacità, competenza e qualificazione funzionale (trattandosi di preposto) del lavoratore vittima di infortunio e della specifica formazione offerta dal datore di lavoro a tutti i dipendenti, compreso L.R., anche relativamente alla movimentazione dei carichi, e si assume essere il documento di valutazione dei rischi, specialmente alle pp. 19, 29 e 30, adeguato, in difformità da quanto ritenuto dalla Corte di appello.
Tanto premesso, si pone l'accento sulla mancanza di motivazione nella sentenza impugnata delle ragioni per cui A.F. avrebbe dovuto ritenere insufficiente e generico il documento di valutazione dei rischi che era stato redatto, su suo incarico, da soggetto tecnicamente qualificato: si sottolinea che, ragionando diversamente, si imporrebbe un illogico onere di verifica dell'adeguatezza del lavoro svolto da soggetto provvisto di competenze tecniche da parte del datore di lavoro, peraltro non necessariamente dotato delle stesse.
Si ritiene, in definitiva, che l'evento sia stato illegittimamente addebitato all'imputato prescindendo da ogni analisi sull'elemento soggettivo, cioè a mero titolo di responsabilità oggettiva.
5.7. Con l'ultimo motivo, infine (pp. 42-44 del ricorso), si lamenta l'avere liquidato 5.000,00 euro di danno a ciascuna delle associazioni sindacali costituite pur in mancanza di prova che le stesse avessero, nella concreta situazione della s.r.l. S.I., svolto concretamente attività nell'ambito della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, requisito che sarebbe - si assume - indispensabile per l'ottenimento del risarcimento, mentre i sindacati si sarebbero occupati soltanto di vicende retributive (arretrati e cassa integrazione guadagni).
Si chiede, in definitiva, l'annullamento della sentenza impugnata: 
6. Le parti civili - sindacati dei lavoratori hanno depositato in Cancelleria il 9 maggio 2016 memoria di risposta, con la quale confutano gli argomenti spesi nel ricorso, di cui chiedono dichiararsi l'inammissibilità ovvero pronunziarsi il rigetto, ed il 25 novembre 2016 conclusioni scritte e nota spese.
 

 

Diritto

 


l. Il ricorso non può trovare accoglimento, per le ragioni che di seguito si illustrano seguendo l'ordine di articolazione dei motivi prescelti da parte ricorrente.
Quanto al primo motivo, si osserva, infatti, che «In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l'omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori)» (Cosi Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro e altro, Rv. 260161; in termini, v. Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902; in senso conforme, v. Sez. 3, n. 19741 del 08/04/2010, Minardi, Rv. 247171; Sez. 4, n. 31968 del 19/05/2009, Raso, Rv. 245313; Sez. 4, n. 2393 del 17/11/2005, dep. 2006, Tucci e altro, Rv. 232973; Sez. 4, ord. n. 38818 del 04/05/2005, De Bona, Rv. 232427).
2. Anche il secondo motivo va rigettato.
I tre aspetti fattuali sottolineati (cioè: 1. usualità dell'operazione di movimentazione di pezzi anche grandi, respingendosi da parte della difesa la valutazione come "unicum" dell'operazione in corso, siccome funzionale all'estensione del capannone; 2. sufficienza di un solo uomo per l'operazione; 3. luogo di scarico della capriata) non appaiono, in realtà, decisivi, né isolatamente né complessivamente considerati, sicché non può parlarsi di travisamento della prova (ipoteticamente deducibile, non essendosi in presenza di doppia conforme, come precisato da Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636), travisamento che si ha, invece, per costante orientamento giurisprudenziale, soltanto quando l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale / probatorio trascurato (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207).
Si tratta, invece, di tre passaggi argomentativi non decisivi, poiché il cuore del ragionamento probatorio svolto dalla Corte di appello circa la mancanza di un'idonea valutazione dei rischio sta, a ben vedere (pp. XX-XXII della sentenza impugnata), altrove, e precisamente nell'analisi della fase del deposito sul terreno della capriata, fase comprensiva della scelta di un terreno pianeggiante e della stabilizzazione in posizione di equilibrio del pesante - e pericoloso - manufatto prima dello sganciamento. Ebbene, la valutazione svolta al riguardo dai giudici di merito non risulta né illogica né incongrua.
3. In relazione al terzo motivo di ricorso, deve, anzitutto, osservarsi che «Il giudice d'appello per procedere alla "reformatio in peius" della sentenza assolutoria di primo grado non è tenuto - secondo l'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell'Istruttoria dibattimentale qualora approdi, in base al proprio libero convincimento, ad una valutazione di colpevolezza attraverso una rilettura degli esiti della prova dichiarativa (di cui non ponga in discussione il contenuto o l'attendibilità), valorizzando gli elementi eventualmente trascurati dal primo giudice, ovvero evidenziando gli eventuali travisamenti in cui quest'ultimo sia incorso nel valutare le dichiarazioni» (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 41736 del 22/09/2015, Di Trapani, Rv. 264682; in termini, Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, P., Rv. 260867; nello stesso senso, cfr. Sez. 6, n. 18456 del 01/07/2014, dep. 2015, Marziali, Rv. 263944; Sez. 5, n. 16975 del 12/02/2014, Sirsi, Rv. 259843). Ed è evidente che la sentenza di appello ha fornito una lettura diversa, più completa e maggiormente coerente e logica, del compendio probatorio già in atti ma in parte ignorato dal giudice di primo grado ovvero non attentamente valutato.
In ogni caso, la Corte territoriale nel caso di specie ha incentrato il proprio ragionamento essenzialmente sul contenuto di una prova documentale, cioè il documento di valutazione dei rischi: deve, pertanto, farsi applicazione del principio secondo cui «Il giudice di appello, per riformare "in peius" una sentenza di assoluzione, non è obbligato - in base all'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c. Moldavia - alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale quando compie una diversa valutazione di prove non dichiarative, ma documentali» (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, 260234; Sez. 2, n. 13233 del 25/02/2014, Trupiano, Rv. 258780; Sez. 2, n. 29452 del 17/05/2013, Marchi e altri, RV. 256467).
Il ragionamento svolto dal ricorrente sarebbe, invece, apprezzabile nella - diversa - ipotesi in cui si facesse questione del contenuto di prove orali, come già precisato dalla Corte di cassazione nella qualificata composizione a Sezioni Unite, che ha formulato -anche - i principi di diritto che di seguito si enunziano (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, rie. Dasgupta Tapas Kunar, Rv. 267487, 267491 e 267492; soluzione che era stata peraltro già anticipata, tra le altre pronunzie, da: Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv. 264542; Sez. 5, n. 25475 del 24/02/2015, Prestanicola e altri, Rv. 263903; Sez. 5, n. 52208 del 30/09/2014, Marino, Rv. 262115; Sez. 5, n. 6403 del 16/09/2014, dep. 2015, Preite e altro, Rv. 262674; Sez. 2, n. 34032 del 14/03/2014, Monteleone e altri, Rv. 261086):
«La previsione contenuta nell'art.6, par.3, lett. d) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, rie. Dasgupta Tapas Kunar, Rv. 267487, cit.);
«Costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente Idonee ad incidere sull'esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova- ai fini dell'esito della condanna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, ric. Dasgupta Tapas Kunar, Rv. 267491, cit.);
«È affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio "ai di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'art. 533, comma primo, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen.; ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, rie. Dasgupta Tapas Kunar, Rv. 267492, cit.).
Corretto risulta, in definitiva, l'argomentare della sentenza impugnata.
4. Nemmeno il quarto motivo di ricorso merita accoglimento.
La Corte di appello, a ben vedere, non entra in contraddizione, nemmeno apparente, quanto ai profili della irregolarità del piano di appoggio e dell'uso di scarpe antinfortunistiche: mentre la sentenza di primo grado riteneva che il lavoratore fosse inciampato, anche a causa delle calzature indossate, giudicate adatte, ma poi assolveva, come si è riferito, l'imputato, invece i giudici di secondo grado hanno motivatamente escluso ogni rilevanza causale sia alla perdita d'equilibro della persona offesa cagionata dal terreno ingombro di materiali, non pavimentato e non livellato, che è stata definita «rimasta del tutto ipotetica», sia alla mancata vigilanza sull'uso dei dispositivi di protezione individuali; quindi hanno evidenziato la mancata disciplina preventiva da parte del datore di lavoro della fase, che non può certo dirsi "ordinaria", del trasporto con carroponte, comprensiva della scelta del terreno adatto per lo stoccaggio, della collocazione in equilibrio e dello sgancio del pesante manufatto. Entro tale cornice hanno valorizzato, non illogicamente, la presenza di un piano di calpestio e di appoggio caratterizzato da irregolarità e da sterpi, anche sotto il profilo della necessità di costante vigilanza e concentrazione da parte dell'unico operatore in siffatte, non agevoli condizioni (che sarebbero state - si è ritenuto - correttamente governabili, ove fossero state fatte oggetto di attenta preventiva disamina del rischio).
Peraltro, la sentenza impugnata dà atto (alla p. XX) che le - pur eccessivamente generiche - previsioni del documento di valutazione del rischio non erano nemmeno rispettate per quanto riguarda la necessaria pavimentazione di tutta l'area interessata dalle operazioni.
5. In relazione al quinto motivo di ricorso, si osserva che il giudizio controfattuale può dirsi - sostanzialmente - svolto alle pp. XX-XXI della sentenza impugnata, allorché si afferma che l'infortunio è avvenuto per errore nella procedura di appoggio a terra e di sganciamento della capriata e che è dovuto alla mancanza nel documento di valutazione del rischio della procedimentalizzazione di tale, delicata e pericolosa, fase. E', insomma, come se la sentenza affermasse che un corretto documento di valutazione del rischio avrebbe, con elevata probabilità, evitato gli esiti fatali dell'operazione.
6. Quanto al sesto motivo di ricorso, si rileva, in primo luogo, che non possono offrirsi documenti in esame alla Corte di legittimità affinché convalidi ovvero smentisca le valutazioni in fatto che ne trae il giudice di merito.
In ogni caso, si osserva, da un lato, che:
«In tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro ha l'obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, avuto riguardo alla casistica concretamente verificabile in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro, e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del D.Lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori» (così, condivisibilmente, di recente, Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016, Serafica, Rv. 267253, peraltro conformemente all'insegnamento di Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109);
e, dall'altro, e soprattutto, che:
«In tema di infortuni sul lavoro, il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del documento di valutazione dei rischi, non esonera il datore di lavoro dall'obbiigo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi ai lavori in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni» (Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Morini, Rv. 266859). 
7. In relazione, infine, all'ultimo motivo di ricorso, si osserva che, anche prescindendo dalla genericità del motivo e dalla circostanza che i sindacati costituiti parti civili hanno decisamente e puntualmente contestato (alle pp. 7-8 della loro memoria) la ricostruzione in fatto proposta dal ricorrente, segnalando invece specifici passaggi dell'istruttoria da cui risulterebbe che gli organismi sindacali si sono occupati, nel caso di specie, non solo di retribuzione ma anche di anche di sicurezza, sta di fatto che il problema attiene alla titolarità astratta a promuovere l'azione. Ebbene, particolarmente importanti al riguardo le puntualizzazioni svolte dalle Sezioni Unite della S.C. :
«Si è enunciato che gli enti e le associazioni sono legittimati all'azione risarcitoria, anche in sede penate mediante costituzione di parte civile, ove dal reato abbiano ricevuto un danno ad un interesse proprio, sempreché tale l'interesse coincida con un diritto reale o comunque con un diritto soggettivo dei sodalizio, e quindi anche se offeso sia l'interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata, da esso sodalizio preso a cuore e assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell'ente. Ciò sia a causa dell'immedesimazione fra l'ente stesso e l'interesse perseguito, sia a causa dell'incorporazione fra i soci ed il sodalizio medesimo, sicché questo, per l'affectio societatis verso l'interesse prescelto e per il pregiudizio a questo arrecato, patisce un'offesa e perciò anche un danno non patrimoniale dai reato (Sez. 6, n. 59 del 01/06/1989, Monticelli, Rv. 182947). Il principio è stato ripetutamente ribadito (ad es. Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini, Rv, 248848; Sez. 3, n. 38290 dei 03/10/2007, Abdoulaye, Rv. 238103).
Si è in breve affermato che esistono organismi che hanno fatto di un determinato interesse l'oggetto principale della propria esistenza, sicché esso è diventato elemento interno e costitutivo del sodalizio e come tale ha assunto una consistenza di diritto di soggettivo. Lo sviluppo della giurisprudenza ha ritenuto la tutelabilità degli interessi collettivi senza che sia necessaria l'esistenza di una norma di protezione, essendo sufficiente la diretta assunzione da parte dell'ente dell'interesse in questione, che ne ha fatto oggetto della propria attività, diventando lo scopo specifico dell'associazione [...]
In tutte le sentenze la legittimazione alla costituzione di parte civile è stata ritenuta sulla base della considerazione che l'ente, per il proprio sviluppo storico, per l'attività concretamente svolta e la posizione assunta avesse fatto proprio, in un determinato contesto storico, quale fine primario quello della tutela di interessi coincidenti con quello leso dallo specifico reato considerato, derivando da tale immedesimazione una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere ii risarcimento dei danni ad esso derivati.
Di particolare interesse una pronunzia (Sez. 4, n. 22558 del 18/01/2010, Ferraro, [Rv. 247814]) con la quale è stata ritenuta ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica.
Si rammenta che la richiamata pronunzia delle Sezioni Unite ed altra sentenza non recente (Sez. 4, n. 10048 del 16/07/1993, Arienti Rv. 195696) avevano riconosciuto, in generale, alle rappresentanze dei lavoratori di cui all'art. 19 dello Statuto dei lavoratori la qualità di soggetto legittimato a far valere in giudizio, anche mediante la costituzione di parte civile, quei diritti di controllo e prevenzione previsti dallo Statuto medesimo; ma ne avevano negata la sussistenza nei casi esaminati per mancanza di prova di un comportamento direttamente lesivo di tali diritti. La sentenza in particolare ha riconosciuto la legittimazione dei sindacati a costituirsi parte civile, ma a condizione che la vittima fosse iscritta al sindacato che si costituiva in giudizio.
La pronunzia in esame (Sez. 4, Ferraro cit.) invece, evocando il mutato quadro di riferimento, ha ritenuto ammissibile, senza il limite dell'iscrizione, la costituzione di parte civile dei sindacati nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commesse con violazione della normativa antinfortunistica, dovendosi ritenere che l'inosservanza di tale normativa nell'ambito dell’ambiente di lavoro possa cagionare un autonomo e diretto danno patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità dell'azione dagli stessi svolta. È pacifico che il sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto e agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e specifico della contrattazione collettiva, ma anche per quanto attiene alla tutela delle libertà individuali e dei diritti primari dei lavoratore tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute. Sotto tale profilo, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori ha costituito il primo riconoscimento della presenza organizzata dei lavoratori a tali fini, e l'indirizzo è stato poi rafforzato dal d.lgs. n. 626 del 1994 e dal T.U. 9 aprite 2008. n. 81. In conclusione, non vi è dubbio che questa attribuzione di compiti e responsabilità significhi, per il sindacato che degli stessi abbia fatto uso, il riconoscimento di una posizione tutelabile attraverso la costituzione di parte civile» (cosi Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, cit., al punto nn. 56 del "considerato in diritto", pp. 193-195).
Ne consegue che il sindacato è pienamente titolato ad agire per ottenere il rispetto delle prescrizioni sulla sicurezza e, conseguentemente, a richiedere tutela risarcitoria ove esse siano disattese. 
8. Discende, in definitiva, da tutte le considerazioni svolte il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente, per legge (art. 616 cod. proc. pen.), al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili in questo giudizio di legittimità liquidate come segue:
euro 3.500,00 oltre accessori come per legge, alle parti civili difese dall'avv. G.S.;
euro 3.000,00 oltre accessori come per legge, alle parti civili difese dall'avv. E.Z..
Così deciso il 02/12/2016.