Cassazione Penale, Sez. 4, 26 luglio 2018, n. 35688 - Infortunio durante i lavori di manutenzione meccanica. Interferenze nelle lavorazioni


 

 

Presidente: FUMU GIACOMO Relatore: PEZZELLA VINCENZO Data Udienza: 05/07/2018

 

 

 

Fatto

 

 

1. La Corte di Appello di Brescia, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente B.M. e dei coimputati F.E. e C.G. con sentenza del 10/2/2017, in parziale riforma della sentenza emessa in data 24/4/2013 dal GM del Tribunale di Brescia, appellata dagli imputati, ha concesso al B.M. le attenuanti generiche stimate equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo la pena inflittagli a mesi 1 e giorni 15 di reclusione, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
Il Tribunale di Brescia aveva dichiarato B.M. responsabile del reato di cui all'art. 590 comma 1° e 3° cod. pen., in relazione all'art. 583 cod. pen., perché (F.E. e C.G., omissis) e B.M. in qualità di amministratore unico della società B.M. SRL corrente in Brescia, nonché datore di lavoro dell'Infortunato per colpa cagionavano a P.F. lesioni personali gravi consistite nell'amputazione della falange distale del 5° dito della mano sinistra, giudicate guaribili in 131 giorni in quanto, in relazione ai lavori di manutenzione meccanica appaltati dalla società CARTIERA DEL CHIESE SPA alla società B.M. SRL per l'anno 2009, mentre P.F. eseguiva la manutenzione di alcune pompe idrauliche presenti sulla linea di produzione, compiendo sulle stesse, operazioni di pulizia, rabbocco dell'olio ed ingrassaggio, nell'avvicinarsi alla testina di ingrassaggio di una delle pompe il suo guanto sinistro veniva preso e trascinato dalle cinghie in movimento dell'impianto, determinando lo schiacciamento delle dita del lavoratore tra la puleggia e la cinghia, con conseguente amputazione del 5° dito della mano destra.
Colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia nonché nell'inosservanza di norme preposte alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, ed in particolare nella violazione: F.E. (omissis); (C.G. e) B.M. dell'art. 26 T.U. 81/2008 in quanto, nell'ambito del contratto di appalto sopra indicato, da entrambi sottoscritto, non mettevano concretamente in atto le misure tecniche ed organizzative necessarie per evitare pericolose interferenze tra le attività produttive della camera e gli interventi di manutenzione appaltati, in particolare non coordinavano gli interventi al fine di consentire l'accesso agli impianti da manutenere da parte del personale della società appaltante, soltanto in condizioni di fermo assoluto degli stessi. Veniva invece ordinariamente consentito che, al fine di non interrompere e ritardare la produzione, i dipendenti della società B.M. intervenissero sugli impianti in movimento.
Fatto aggravato per aver cagionato lesioni gravi e perché commesso con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
In Montichiari (BS) il 21/9/2009.
L'imputato era stato condannato, in primo grado, alla pena di mesi 3 di reclusione.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei propri difensori di fiducia, B.M., deducendo i motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo di ricorso, sotto il profilo della violazione dell'art. 125 cod. proc. pen., si deduce che la condanna sarebbe avvenuta sulla base della sola deposizione dell'UPG dell'ASL in relazione alla mancata determinazione in concreto delle modalità di coordinamento per l'esecuzione della manutenzione tra la committente cartiera e l'appaltatrice B.M. srl.
Sostanzialmente - si rileva- la responsabilità dell'imputato, titolare della ditta appaltatrice e firmatario del contratto di appalto, sarebbe stata fatta derivare dal non aver posto in essere tutte le misure necessario a garantire la sicurezza dei propri dipendenti. Ma si deduce che, come rilevato in appello, l'assenza di modalità di coordinamento sullo svolgimento dell'attività di manutenzione rispondeva all'acclarata esigenza che la stessa fosse gestita direttamente dalla committente, in ragione della particolarità delle lavorazioni. Tale circostanza - si obietta in ricorso- risulterebbe pienamente dimostrata dall'istruttoria dibattimentale.
Si lamenta, inoltre, che la Corte territoriale non abbia assolutamente considerato la circostanza che la parte offesa rivestiva il ruolo di responsabile di cantiere, tanto da sottoscrivere la dichiarazione di inizio lavori e, nel corso del processo, dichiarare di ritenersi responsabile della sicurezza nel cantiere rapportandosi direttamente con il C.G. sulle deficienze e sui problemi emergenti e di non aver mai riferito alcunché al B.M. sulla situazione nel cantiere.
Su tale punto, relativo al conferimento di deleghe e alla conseguente assunzione responsabilità, l'impugnata sentenza nulla avrebbe motivato, limitandosi ad affermare l'equazione legale rappresentante uguale responsabile.
Con un secondo motivo di ricorso si deduce la contraddittorietà e illogicità della motivazione laddove i giudici del gravame del merito svolgono un ragionamento opposto in relazione alla posizione del coimputato F.E., amministratore delegato della committente cartiera. In relazione alla posizione di quest'ultimo, infatti, la corte di appello, pur dando atto della mancanza di qualsiasi conferimento di delega in materia di sicurezza, ritiene di assolverlo perché non sarebbe stato possibile accertare se e in che misura fosse a conoscenza delle mancate protezioni dei macchinari all'interno dello stabilimento nonché delle prassi di lavorazione seguite all'interno dello stabilimento in violazione del contratto di appalto. E a tale conclusione perviene nonostante l'attività di manutenzione fosse diretta esclusivamente dalla cartiera, di cui il F.E. era amministratore delegato, senza che il personale della B.M. potesse intervenire in alcun modo.
Tali conclusioni, diametralmente opposte rispetto a quelle cui si è pervenuti per il B.M., integrerebbero secondo il ricorrente il vizio di contraddittorietà ed illogicità della motivazione confliggendo con quanto ritenuto a carico del datore di lavoro, ritenuto inadempiente all'obbligo di garantire la sicurezza dei propri dipendenti. E anche la considerazione che il F.E. fosse amministratore di una società di dimensioni medio grandi, con circa 109 dipendenti su tre cantieri, avrebbe dovuto costituire un ulteriore motivo di responsabilità laddove non erano state conferite deleghe in materia di sicurezza e rappresentanza all'interno dei vari stabilimenti.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata, con ogni conse-guente statuizione.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso è manifestamente inammissibile, in quanto il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che in questa sede non viene in alcun modo sottoposta ad autonoma ed argomentata confutazione.
E' ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplici- tazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693). E ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).
2. Quanto ai primi motivi, si tratta di doglianze di mero fatto.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell'episodio e dell'attribuzione dello stesso alla persona dell'imputato - va ricordato - non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
Il ricorso, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza impugnata, che appare immune da vizi di legittimità. La Corte territoriale, infatti, ha dato argomentatamente atto, con motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, che, secondo quanto emerso dalla la deposizione dell’ufficiale della Asl Baresi, da un lato, qualsiasi lavoro di manutenzione imponeva di arrestare la macchina sulla quale si operava, dall'altro tra la società committente e l'appaltatrice non erano state determinate in concreto le modalità di coordinamento per l'esecuzione della manutenzione e non erano stati individuati i rischi connessi alle interferenze tra attività produttiva ordinaria e interventi di manutenzione appaltati.
Ebbene, correttamente i giudici del gravame del merito hanno ritenuto che tale compito, per la società appaltatrice B.M. Srl, fosse proprio di B.M. in qualità di amministratore unico e legale rappresentante, firmatario del contratto di appalto, che, nella sua qualità di datore di lavoro, aveva l'obbligo di porre in essere tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza dei propri dipendenti, anche verificando, attraverso sopralluoghi presso lo stabilimento di Montichiari della Cartiera del Chiese, le condizioni e le modalità di lavoro di questi ultimi. Al contrario, come emerso dalla deposizione di P.F., l'odierno ricorrente si era completamente disinteressato della situazione lavorativa dei propri dipendenti e, informato dal P.F. stesso di alcune situazioni di deficit di sicurezza all'interno dello stabilimento, aveva replicato semplicemente "stai attento", senza mai intervenire presso i vertici della Cartiera e neppure visitare il cantiere. 
Tali risultanze - evidenzia ancora la sentenza impugnata- smentiscono l'assunto difensivo che vorrebbe B.M. totalmente ignaro delle condizioni di lavoro all'interno dello stabilimento e in una situazione di "incolpevole ignoranza".
3. Corretto è, in ogni caso, il rilievo che, a tutto voler concedere, anche assumendo per vera la sua non conoscenza della situazione esistente, sarebbe evidente che tale circostanza non potrebbe esonerarlo da responsabilità, in quanto la sua primaria posizione di garanzia, infatti, gli imponeva di attivarsi, verificando le condizioni di lavoro dei propri dipendenti e, prima ancora, dando loro in concreto le necessarie istruzioni per svolgere in sicurezza gli interventi di manutenzione appaltati, a prescindere, dal fatto che P.F. o altri lo tenessero informato in ordine ad eventuali problemi di sicurezza all'interno dello stabilimento del committente.
Questa Corte di legittimità, sul punto, ha più volte sottolineato che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l’obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). E, ancora, va qui ribadito che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (così questa Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253850 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto).
4. Nemmeno pare esonerare da responsabilità il datore di lavoro la presenza di un direttore dei lavori, nella persona della stessa persona offesa P.F..
Questa Corte di legittimità ha già avuto modo di evidenziare come in materia di violazione della normativa antinfortunistica, gli obblighi di cui è titolare il datore di lavoro ben possono essere trasferiti ad altri sulla base di una delega, purché espressa, inequivoca e certa (Sez. 4, n. 8604/2008, Rv. 238970; Sez. 4, n. 12800/2007, Rv. 236196; Sez. 4, n. 9343/2000, Rv. 216727), ma che tale delega, tuttavia, laddove rilasciata a soggetto privo di una particolare competenza in materia antinfortunistica e non accompagnata dalla dotazione del medesimo di mezzi finanziari idonei a consentirgli di fare fronte in piena autonomia alle esigenze di prevenzione degli infortuni, non è sufficiente a sollevare il datore di lavoro dai propri obblighi in materia e a liberarlo dalla responsabilità per l'infortunio conseguito alla mancata predisposizione dei necessari presidi di sicurezza (cfr. Sez. 4, n. 7709/2007, Rv. 238526; Sez. 4, n. 38425/2006, Rv. 235184).
In particolare, in ipotesi di delega di funzioni spettanti al datore di lavoro, è necessario verificare in concreto che il delegato abbia effettivi poteri di decisione e di spesa in ordine alla messa in sicurezza dell'ambiente di lavoro, indipendentemente dal contenuto formale della nomina (Sez. 4, n. 47136/2007, Rv. 238350). E nel caso che ci occupa, ciò non è affatto emerso, essendo emerso, al contrario, che il P.F. continuasse a relazionarsi con il B.M..
Il principio di cui sopra è stato ribadito da questa Corte di legittimità anche in casi di società di notevoli dimensioni laddove è stata ritenuta sussistente la responsabilità del legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni, in assenza dì una delega di funzioni certa e specifica ed in assenza di una documentazione attestante una organizzazione del lavoro neM'ambito dell'azienda con specifica suddivisione dei ruoli in ragione della quale sia demandata ad altro soggetto in via esclusiva la predisposizione delle misure di prevenzione e il relativo controllo sulla concreta applicazione delle misure antinfortunistiche (così questa Sez. 4, n. 39266 del 4/10/2011, Fornoni, Rv. 251440 che, in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità - in ordine al reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche sul lavoro - nei confronti dell’imputato, il quale si era difeso affermando che in un'azienda di notevoli dimensioni la presenza del direttore di stabilimento esclude che il legale rappresentante debba rilasciare una specifica delega per la sicurezza sul lavoro). Ed è stato anche precisato, di recente, che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, destinatario delle normativa antinfortunistica in una impresa strutturata come persona giuridica è il suo legale rappresentante, quale persona fisica attraverso cui l'ente collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive; ne consegue che la responsabilità penale del predetto, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche (Sez. 3, n. 17426 del 10/3/2016, Tornassi, Rv. 267026).
Alla luce delle considerazioni di cui sopra appare evidente anche la manifesta infondatezza della seconda doglianza proposta, anch'essa totalmente in fatto, in ragione del diverso ruolo che svolgeva il F.E., che non era il datore di lavoro della persona offesa. 
5. Né può porsi in questa sede la questione di un'eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d'appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen (così Sez. Un. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 relativamente ad un caso in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. Un., n. 23428 del 2/3/2005, Bracale, Rv. 231164, e Sez. Un. n. 19601 del 28/2/2008, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, rv. 256463).
6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 5 luglio 2018