Cassazione Penale, Sez. 4, 23 gennaio 2017, n. 3336 - Caduta dall'alto di un capocantiere. Appalto: responsabilità del datore di lavoro interferente e del CSE


 

 

Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA Relatore: PEZZELLA VINCENZO Data Udienza: 22/12/2016

 

 

 

Fatto

 


1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti degli odierni ricorrenti, L.A. e P.P.D., (tale risulta essere il nominativo esatto dell'imputato, come si evince dal certificato anagrafico acquisito in data odierna dal Comune di Varese e dovendosi pertanto rettificare in tal senso le sue generalità sulle sentenze di merito), con sentenza del 9.2.2016, confermava la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, emessa in data 23.2.2015, con condanna al pagamento delle spese processuali.
Il G.M. del Tribunale di Busto Arsizio, all'esito di giudizio ordinario, aveva assolto per non aver commesso il fatto l'originario coimputato M.G., mentre aveva dichiarato L.A. e P.P.D., responsabili del reato p. e p. dagli artt. 113, 589 co. 1 e 2 cod. pen., perché in cooperazione colposa tra loro, L.A. in qualità di datore di lavoro dell'infortunato, direttore tecnico di cantiere in materia di sicurezza del cantiere edile sito in via Omissis a Vergiate e amministratore unico della ditta appaltatrice NUOVA C. Srl, P.P.D. in qualità di coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione (...) per colpa generica consistita in imprudenza, imperizia e negligenza nonché per colpa specifica in relazione all'inosservanza degli obblighi imposti dall'art. 68 DPR 164/56, dall'art. 4 e 2 D.L.vo 626/94 con succ. mod. dagli artt. 5 c. 1 lett. A) e b) e 6 c. 2 lett. A) della L. 494/96 cagionavano la morte del capocantiere R.M. operaio specializzato dipendente della NUOVA C.. In particolare, accadeva che i soggetti sopraelencati, nonostante l'obbligo di prevenire ed impedire l'evento derivante dai ruoli rispettivamente ricoperti, permettevano al predetto di intervenire sul tetto in costruzione dell'edificio nel corso dell'esecuzione di lavori di completamento e potenziamento del Centro di canottaggio Corgeno, senza prima provvedere: ad effettuare specifica valutazione del rischio di caduta nel POS di cui, oltretutto, non veniva rilevata l'inidoneità a seguito di apposita verifica; ad installare reti anticaduta né a proteggere l'apertura a lucernario presente sullo stesso con protezioni quali parapetti e tavole fermapiede ovvero coperture con tavole solidamente fissate e dotate di resistenza non inferiore al piano di calpestio come imposto dalle normative citate, a vigilare sulla corretta realizzazione delle opere; a verificare l'avvenuta corretta installazione delle opere provvisionali di sicurezza di cui al punto che precede. Di talché l'uomo, intento sul tetto a svitare i travetti che ne tenevano la capriata, precipitava al suolo nel solaio sottostante attraverso l'apertura predetta da un'altezza di circa 5 metri procurandosi le lesioni da cui conseguiva la sua morte. In Vergiate il 12.10.2006
Il giudice di prime cure assolveva, come detto, il coimputato M.G., imputato in qualità di responsabile dei lavori all'interno del cantiere per conto del Comune di Vergiate, mentre condannava gli odierni ricorrenti, riconosciute loro le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di sei mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali con la sospensione condizionale della pena e non menzione per P.P.D. .
Il P.P.D. veniva inoltre condannato al risarcimento del danno in favore delle parti civili da liquidare in separata sede, con assegnazione di una provvisionale pari ad e 35.000 per ciascuna parte civile, nonché alla rifusione delle spese processuali delle stesse, liquidate in complessive € 3.500,00.
 

 

2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei propri difensore di fiducia, con distinti atti, L.A. e P.P.D. , deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
 

 

• L.A. (con due separati atti, identici, l'uno a firma dell'Avv. ... e l'altro anche dell'Avv. ...).
a. Violazione dell’art. 506, I co. lett. e) cod. proc. pen. per mancanza della motivazione ed illegittimo ricorso alla motivazione per relationem, non avendo la corte di appello, a suo dire, argomentato in ordine al rigetto del primo motivo di appello proposto (laddove si censurava la sentenza di primo grado per non avere riconosciuto l'assenza di posizione di garanzia del L.A. rispetto all'evento de quo). La sentenza impugnata avrebbe eluso l'obbligo di motivazione sulle specifiche censure mosse in appello, limitandosi a rinviare alle argomentazioni della sentenza di primo grado.
Il ricorrente rileva di aver censurato con il primo motivo di appello la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto che il rischio di caduta non fosse un rischio specifico della S. Pose, nonostante dall'istruttoria fosse emerso che era stata quest'ultima impresa a creare il rischio con l'apertura del lucernario, senza predisporre delle reti protettive, come previsto dalla legge e dal regolamento contrattuale. Inoltre la S. Pose svolgeva l'attività subappaltatagli in una zona e in un settore separato, in modo tale che i rischi relativi all'attività altamente specialistica, svolta dalla ditta, non potessero estendersi ai dipendenti dell'impresa appaltatrice Nuova Civ. Ind.
Ancora, il ricorrente ricorda di avere censurato la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto che il L.A. non avesse perso la posizione di garanzia nei confronti del proprio lavoratore, dando disposizioni allo stesso, mentre in realtà il L.A. non aveva una posizione di garanzia rispetto all'evento realizzatosi in quanto non aveva alcuna possibilità di ingerenza nell'attività di S. Pose. 
In pratica la sentenza veniva censurata laddove non aveva riconosciuto che l'evento costituiva la concretizzazione di un rischio del quale il L.A. non era il gestore, richiamando la sentenza di questa Corte a Sez. Un. ThysenKrupp, nella parte in cui delimitava le sfere di responsabilità.
Tali censure, nonostante la loro specificità, non sarebbero state considerate dalla Corte distrettuale, che richiamava in modo generico la motivazione di primo grado.
b. Nullità ai sensi dell’art. 606, I co. lett. e) cod. proc. pen. per violazione dell'art 125 cod. proc. pen. e/o comunque annullabilità ai sensi dell'art. 606, I co. lett. e) cod. proc. pen. per totale mancanza della motivazione in relazione al secondo motivo di appello proposto (laddove questa difesa censurava la mancata concessione della sospensione condizionale della pena da parte del giudice di prime cure):
Il ricorrente deduce l'assoluta inesistenza della motivazione sulla richiesta di sospensione condizionale della pena.
Il Tribunale aveva ritenuto che l'esistenza di precedenti penali impedisse il riconoscimento del beneficio. In sede di appello il L.A. rilevava l'esistenza di soli tre precedenti penali per fatti risalenti nel tempo che avevano dato luogo all'applicazione di sole pene pecuniarie. L'unica condanna precedente per la quale l'imputato aveva usufruito del beneficio in questione era una condanna a pena pecuniaria corrispondente a otto giorni di pena detentiva, che, quindi, cumulata alla presente, era ben al di sotto del limite di due anni e sei mesi previsto dall'art. 163 co. II cod. pen.
Anche il giudizio prognostico sull'eventuale commissione futura di altri reati, doveva essere positivo, considerata la condotta processuale e l'aver risarcito gli eredi personalmente prima della sentenza di primo grado.
La corte di appello pur riportando nella parte iniziale della sentenza la richiesta di sospensione condizionale formulata dalla difesa, omette poi di motivare sul punto, limitandosi a replicare sulla richiesta di prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante.
Chiede, pertanto, annullarsi o dichiararsi nulla la sentenza impugnata, con gli incombenti del caso.

 


• P.P.D. (Avv. Omissis) a. Inosservanza di norme processuali stabilite a pane di nullità e/o inutilizzabilità e/o inammissibilità e/o decadenza ai sensi dell'art. 606, c. 1 lett.c). Mancata indicazione del destinatario PEC del decreto di citazione avanti la Corte di Appello di Milano. Necessità di indicare tale informazione al fine di verificare la correttezza 
della notificazione all'imputato. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
Il ricorrente deduce di aver eccepito all'udienza del 9.2.2016 innanzi la corte di appello, che nel decreto di citazione in appello non era stata indicata la modalità di trasmissione della stessa in funzione di notificazione. Non sarebbe stato certo, infatti, come si sarebbe compiuta la vocatio in ius dell'imputato, compromettendone il diritto di difesa. E anche la successiva PEC ricevuta dal difensore sarebbe stata irregolare, in quanto non era indicato né nel corpo né nel titolo che si trattava di una notificazione.
La Corte distrettuale avrebbe erroneamente applicato la legge ritenendo che i casi di nullità fossero quelli indicati dall'art. 171 cod. proc. pen.
Ritiene il difensore che per la tutela del diritto di difesa l'imputato deve comprendere le modalità con cui verrà effettuata la sua chiamata in giudizio.
Il caso di specie rientrerebbe, pertanto nei casi di nullità generali previste dall'art. 178 cod. proc. pen.
b. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale ai sensi dell'art. 606, c. 1 lett.b). Ruolo del coordinatore in maniera di sicurezza ai sensi del T.U. 81/2008. Legittime condotte poste in essere dal P.P.D.. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
I giudici di merito avrebbero erroneamente valutato i compiti spettanti al P.P.D. in quanto coordinatore per l'esecuzione dei lavori. Le presunte omissioni imputategli - si sostiene- erano demandate alla società appaltatrice e al direttore dei lavori, non al coordinatore per la sicurezza, ruolo ricoperto dal P.P.D.. Egli non era il responsabile per la sicurezza come ritenuto dai giudicanti.
Il ricorrente, dopo aver elencato gli obblighi del coordinatore dei lavori, previsti dal D.Lgs. 494/96, precisa che il P.P.D. doveva, durante la realizzazione dell'opere, verificare l'idoneità del POS, in base alle norme e al PSC e verificare la corretta applicazione del PSC (ma non del POS).
La sentenza impugnata imputa all'imputato la mancata sospensione dei lavori, ma, precisa il ricorrente, la sospensione può avvenire solo ed esclusivamente in caso di pericolo grave e imminente e la mancanza di alcuni lavoratori non è certamente un indice in re ipsa di pericolo, potendo ciascuno degli operai rimasti continuare a svolgere il proprio compito.
Nel caso di specie era, poi, vietato ai lavoratori svolgere mansioni di altri, richiedendo particolari specializzazioni.
Nel POS era espressamente indicato che i lavoratori dovevano ricevere le direttive sui lavori da svolgere esclusivamente dal direttore tecnico di cantiere. Il P.P.D. - si sostiene- non era nelle condizioni di sospendere i lavori, non essendoci i presupposti di pericolo grave e imminente previsti dalla legge. Anche la responsabilità in ordine all'immediata chiusura del buco, sarebbe stata onere del capo cantiere e del direttore dei lavori. Questi ultimi erano i soggetti preposti all'applicazione delle norme di sicurezza, mentre il CSE ha un compito di alta vigilanza, per verificare l'applicazione del PSE, dovendo, tutt'al più segnalare eventuali mancanze ai soggetti preposti al controllo capillare.
Il ricorrente richiama l'art. 118, c. 7 D.Lgs. 163/2006 che indica il direttore tecnico di cantiere come unico responsabile del rispetto del piano da parte di tutte le imprese impegnate nell'esecuzione dei lavori. Il P.P.D. aveva l'obbligo di verificare, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento. Tale attività, per la quale il D.Lgs. 494/96 non prevede concrete modalità attuative, andava espletata tramite il PSC, ossia prima dell'inizio dei lavori di ogni impresa, il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione il direttore tecnico di cantiere organizzavano una riunione di coordinamento con l'impresa e al termine di ogni sopralluogo veniva compilato un libro giornale. Detta attività è stata diligentemente compiuta dal ricorrente.
Il ricorrente - si sostiene ancora in ricorso- non aveva un obbligo di presenza sul cantiere per rilevare immediate situazioni di emergenza, egli doveva controllare che le imprese si coordinassero in modo coerente. Egli non poteva rapportarsi direttamente con i lavoratori per intimargli l'adozione di opportune procedure. E dall'istruttoria processuale sarebbe emerso la perfetta esecuzione di quanto previsto dal ruolo dell'imputato.
La sentenza impugnata si sarebbe discostata dall'orientamento di questa Corte di cui alla sentenza 46991/2015 di questa sez. 4, che appunto prevede solo una funzione di alta vigilanza che non ricomprende una responsabilità per gli eventi contingenti, scaturiti estemporaneamente dallo sviluppo dei lavoratori medesimi e affidati al controllo del datore di lavoro e del suo preposto, ritenendo il P.P.D. responsabile per compiti non demandatigli.
c. Mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. E). Mancata indicazione della condotta alternativa lecita che avrebbe, asseritamente, impedito l'evento. Illogicità di quanto affermato in sentenza alle pagg. 4 e 13, circa la necessità di sospendere i lavori del cantiere per assenza di parte del personale. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
La sentenza impugnata avrebbe contestato la mancata sospensione dei lavori nonostante i lavoratori fossero sotto organico, senza spiegare però in che modo un decifit di organico in cantiere comporti un aumento del pericolo tale da giustificare la completa sospensione dei lavori. Non vi sarebbe stato alcun motivo per cui i lavoratori dovessero svolgere mansioni altrui soprattutto quelle che richiedono specifiche competenze. Si sostiene che il R.M. stava svolgendo mansioni che non gli appartenevano e spettanti unicamente al sub-appaltatore. I lavoratori dovevano attenersi alle disposizioni del datore di lavoro, svolgendo per quanto possibile le proprie mansioni e se impossibilitati chiedere disposizioni al direttore dei lavori. Sul punto si lamenta che la motivazione sarebbe infondata, illogica e in contrasto con quanto rilevato dal POS del cantiere. Il R.M. avrebbe inspiegabilmente e autonomamente deciso di abbandonare le proprie mansioni di gruista da terra per svolgerne altre per le quali non era addestrato ed equipaggiato e nulla avrebbe potuto il P.P.D. che non aveva un rapporto diretto con il lavoratore, di competenza del datore di lavoro e del direttore tecnico del cantiere. Si evidenzia che il P.P.D., nei sopralluoghi, ha sempre visto il R.M. lavorare a terra, né avrebbe potuto verificare che ogni buco aperto fosse immediatamente richiuso. La messa in sicurezza delle aperture era prevista nel POS a cura della S. Pose. La sicurezza contingente doveva essere garantita dall'impresa esecutrice e non da un preposto della committente. Del resto - si conclude- la sentenza impugnata non indicherebbe nemmeno la condotta alternativa lecita richiesta al ricorrente.
d. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606. c.l. lett. b) a pag. 9 dell'impugnata sentenza. Erronea applicazione del DPR 222/2003 nella parte in cui vengono indicati i contenuti minimi del POS e del PSC. Erronea applicazione del DPR 222/2003 nella parte in cui non si considera la natura di complementarietà fra il POS e PSC. Erronea applicazione del DPR 222/2003 in relazione all’erronea indicazione dell’art. 7 di tale norma. Mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e cod. proc. pen.). Mancata tenuta in considerazione dei POS e del PSC redatti. Indicazione, a pagina 12, di una singola indicazione di sicurezza, senza menzionare le numerose altre direttive circa i pericoli di caduta. Necessità di annullare e/o riformare l’impugnata sentenza.
Il ricorrente definisce un madornale errore logico-giuridico la ritenuta genericità delle indicazioni per la sicurezza relativa alle lavorazioni da eseguirsi in quota, contenute nel POS della S. Pose. Ritiene infatti che tale argomentazione sia del tutto scollegata dalle risultanze documentali ed in particolare dal contenuto dei piani di sicurezza. Si evidenzia che i documenti per la sicurezza PSE e POS sono complementari: i POS redatti dalle imprese aggiudicatane e materiali esecutrici dei lavori, devono integrare il PSC in relazione al singolo caso. Il PSC deve prevedere norme generali di coordinamento che andranno poi specificate nel piano operativo. Il coordinatore per la progettazione indicherà nel PSC il tipo di procedure complementari e di dettaglio al PSC, connesse alle autonome scelte dell'Impresa esecutrice, da esplicitare nel POS. Il coordinatore si limita quindi a indicare le linee guida alle quali dovranno attenersi le singole imprese esecutrici. Nel caso di specie il PSC prevedeva il rischio di cadute dall'alto, rischio che doveva essere preso in considerazione, come è stato fatto, dalle società esecutrici nel proprio POS. Pertanto il PSC era completo ed integrato dai POS delle singole imprese. Il P.P.D. doveva solo verificare la conformità e la capacità di completare il PSC. Il piano di sicurezza prevedeva che le opere dovevano essere compiutamente unicamente dalla società subappaltatrice, la S. Pose. Nei lavori occorreva far uso delle cinture di sicurezza. Era previsto inoltre un obbligo di controllo quotidiano da parte del direttore tecnico di cantiere e non certamente del CSE.
Le regole di sicurezza previste nel POS dell'impresa aggiudicataria erano complete e complementari al PSE, così come le regole contenute nel POS della S. Pose. Il personale della NUOVA C. non avrebbe nemmeno dovuto operare in quota, essendo tale mansione di competenza esclusiva della S. Pose.
I giudici di merito - ci si duole- hanno citato solo una minima parte del POS, nonostante una perizia che spiegava il contenuto effettivo dei piani di sicurezza. Il ricorrente riporta il contenuto del piano spiegando che non appare condivisibile il convincimento sull'omessa valutazione del rischio di lavorazione in quota. La corte di appello inoltre non avrebbe compiuto alcuna valutazione della perizia esplicativa dei piani.
e. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale ai sensi dell'art. 606. c.l. lett. b) a pag. 9 dell'impugnata sentenza. Erronea applicazione della legge in riferimento al nesso causale ed alla sua interruzione per la condotta abnorme della persona offesa. Possibilità che tale condotta sia astrattamente riconducibile alle mansioni del lavoratore. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
Il ricorrente evidenzia quello che a suo avviso è stato il comportamento abnorme del lavoratore, avendo lo stesso tenuto un comportamento illogico, scollegato dalle mansioni affidategli ed imprevedibile. Il R.M. svolgeva infatti le mansioni di gruista da terra, mentre al momento dell'evento stava compiendo altre mansioni che dovevano invece essere svolte da personale specializzato appartenente ad un'altra ditta la S. Pose, subappaltatore per le opere in quota.
Il R.M. avrebbe tenuto un comportamento autonomo violando le direttive del datore di lavoro e senza alcuna autorizzazione. La NUOVA C.. di cui era dipendente la persona offesa, aveva curato solo la realizzazione degli impianti idrotermosanitari ed elettrici con il proprio personale ed aveva affidato al R.M. il compito di assistere, rigorosamente da terra, il lavoro della S. Pose, dirigendo la gru da terra a fine di trasportare il materiale. Il R.M. non avrebbe dovuto salire in quota e avrebbe dovuto utilizzare i presidi di sicurezza previsti. La Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto che il solo fatto di lavorare in un cantiere consentiva di ritenere che qualsiasi mansione fosse svolta dal lavoratore non sarebbe stata abnorme e che, di conseguenza, il datore di lavoro sarebbe sempre responsabile per la sua sicurezza in tali imprevedibili situazioni. Inoltre l'obbligo di controllare che il lavoratore svolgesse solo le proprie mansioni incombeva sul datore di lavoro e non sul CSE che non poteva certamente prevedere l'anomala circostanza.
f. Mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, c., lett. e) alle pagg. 12 e 13 della stessa. Omessa motivazione in ordine alla ritenuta non abnormità della condotta posta in essere dalla persona offesa. Mansioni affidate specificamente al R.M.. Attività in quota che doveva essere posta in essere esclusivamente dall'impresa esecutrice, ovvero la S.r.l. S. Pose. Necessità di prendere in considerazione il POS di quest'ultima società per i rischi relativi alle cadute. Mancanza di preparazione di quest'ultimo a porre in essere opere in quota. Gravissima e inspiegabile disubbidienza del lavoratore, che non viene considerata in sentenza. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza
Ci si duole che la sentenza impugnata non fornirebbe alcuna motivazione del proprio convincimento sulla circostanza che il R.M. stesse svolgendo un'attività fisiologica o almeno prevedibile. La corte di appello richiama il principio che la condotta abnorme debba essere al di fuori della prevedibilità per escludere il nesso causale, senza spender però nemmeno una parola sulla specifica situazione fattuale oggetto del giudizio. I giudici di merito illogicamente riterrebbero tuttavia che la vittima stesse svolgendo le proprie mansioni, nonostante la società di cui era dipendente non dovesse occuparsi della realizzazione del tetto.
Si evidenzia che il P.P.D. non poteva incidere sulle mansioni da attribuire al lavoratore, che competevano al datore di lavoro. Ciò in quanto, nella realtà i lavoratori, disubbidendo alle direttive del P.P.D., decidevano di aiutarsi tra loro. Ma sarebbe illogico sostenere che il datore di lavoro abbia autorizzato il proprio dipendente a compiere mansioni per cui svolgimento veniva pagata un'altra ditta. Inoltre la relazione del dr. G. agli atti spiegherebbe come il comportamento del R.M. sia stato certamente imprevedibile perché non vi era nemmeno la possibilità di acceder al tetto, essendo stati rimossi ponteggi e scale; il giorno del sinistro era stato ordine di lavorare su un altro lotto e la condotta dal lavoratore è stata un fatto impulsivo, repentino e imprevedibile. La corte di appello avrebbe completamente ignorato, sul punto, le risultanze documentali della difesa. 
g. Mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. e). Mancata motivazione in ordine alla ritenuta circostanza che il lucernaio fosse aperto da circa 3 giorni. Mancata considerazione degli elementi sintomatici di quanto affermato dall'Ing. P.P.D., ovvero l'apertura lo stesso giorno del lucernaio. Rilevanza del libro giornale del cantiere al fine di accertare la circostanza. Mancata indicazione delle direttive date dall'ing. P.P.D. di chiudere immediatamente ogni lucernaio con il "velux". Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
Il ricorrente riporta la ricostruzione del fatto della sentenza impugnata, contestando l'esistenza di prova concreta sul momento di apertura del lucernaio, basato su presunzioni, nonostante l'evidenza del contrario. Ribadisce che l'esistenza di segatura sul tetto non poteva altra ragione dell'avvenuta apertura del lucernaio nello stesso giorno dell'incidente. La segatura e i trucioli non sarebbero stati presenti se l'apertura fosse stata precedente, a causa anche di una leggera brezza notturna. I testi avrebbero confermato la circostanza ed anche la mancata annotazione nel taccuino dell'arch. S. dimostrerebbe che fino a quel giorno non era stato aperto alcun foro. Sul punto non vi sarebbe una reale motivazione, nonostante fosse uno dei temi dell'appello.
Il ricorrente ribadisce che la corte di appello confonderebbe il ruolo del P.P.D. con quello del direttore dei lavori, ritenendolo responsabile per la mancata chiusura del foro. Il P.P.D., in qualità di CSE doveva solo accertare il rispetto dei piani di sicurezza e non aveva il potere di ordinare ai lavoratori di chiudere il lucernaio, ma solo di segnalare eventuali difformità alle società esecutrici. E in ogni caso il ricorrente avrebbe dato precise istruzioni di coprire ogni buco con il velux e nessun foro poteva essere aperto se la relativa finestra non era già in cantiere.
Si lamenta in ricorso che la sentenza impugnata, in riferimento agli elementi della presenza di segatura e della mancata annotazione dell'apertura, si limiti a richiamare la sentenza di primo grado senza argomentare sui motivi di appello. Il convincimento della corte di appello sarebbe fondato unicamente sulla deposizione dell'architetto, che nulla ricordava in proposito, pur dicendo che avesse l'abitudine di annotare ogni elemento per registrare l'avanzamento dei lavori. La corte di appello inoltre avrebbe completamente ignorato il motivo di appello fondato sulla mancanza del libro giornale, che sarebbe stato fondamentale essendo annotate nello stesso tutte le opere poste in essere quotidianamente.
h. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della Legge penale ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. B). Mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell'innpugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. e). Assenza di alcuna motivazione circa l'elemento soggettivo del reato in relazione alla ritenuta colpa del P.P.D.. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
Il ricorrente deduce l'assoluta mancanza di un'analisi dell'elemento soggettivo della colpa. La sentenza si limiterebbe ad affermare che il comportamento del lavoratore non è stato abnorme, ma cosa diversa sarebbe la prevedibilità dell'evento. Sicuramente imprevedibile sarebbe la circostanza che il R.M. abbandonasse il proprio posto di lavoro a terra per svolgere una mansione diversa e senza le precauzioni previste dell'uso di cintura di sicurezza e imbragatura, che venivano usate regolarmente dai lavoratori addetti.
Il rischio di caduta era stato previsto all'interno dei piani, ma non la circostanza che un gruista salisse in quota ad eseguire un lavoro per cui era impreparato. L'errore consisterebbe nel ritenere il P.P.D. responsabile per ogni atto posto in essere dai lavoratori, anche in difformità alle direttive, mentre lo stesso P.P.D. aveva solo un ruolo di alto coordinamento con sopralluoghi non quotidiani.
i. Inosservanza o erronea applicazione della Legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della Legge penale ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. B). Ruolo del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza all'interno del cantiere. Mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione dell'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. Illogicità della sentenza nella parte in cui, a pagina 11, indica che il teste V. avesse interesse a "tutelare i suoi compagni di lavoro", ma allo stesso tempo sia stato ritenuto affidabile. Mancanza di motivazione circa la ritenuta affidabilità del teste V.. Necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
I giudici di merito avrebbero particolarmente valorizzato la testimonianza del V. ritenendolo pienamente affidabile. Il V. rivestiva, però la funzione, all'interno del cantiere di Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS). Tale ruolo, che viene ampiamente spiegato nel ricorso, lo avrebbe reso interessato al giudizio ed implicherebbe una specifica responsabilità in relazione al sinistro. La corte di appello invece ne avrebbe sminuito la posizione omettendo qualsiasi motivazione sulla ritenuta affidabilità nonostante i rilievi mossi con l'atto di appello dalla difesa.
I. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell'applicazione della Legge penale ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. B). Mancanza, contraddittorietà c/o manifesta illogicità della motivazione dell'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, c.l, lett. Mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti sulla contestata aggravante. Mancato riconoscimento dell'attenuante ex art. 62, n.6c.p. per essere stata la parte civile completamente e positivamente risarcita. Sulla necessità di annullare e/o riformare l'impugnata sentenza.
Errata sarebbe stata anche la mancata concessione dell'attenuante di aver risarcito i danni alla parte offesa. Del resto la mancata costituzione della parte civile in appello sarebbe sintomatica di tale avvenuto risarcimento, ma nonostante ciò, la corte di appello mette in dubbio l'avvenuto ristoro. In ogni caso viene prodotto l'atto di transazione e la quietanza di pagamento.
Il ricorrente deduce inoltre l'erronea considerazione di tardività del pagamento, in quanto il P.P.D., assicurato, richiedeva alla propria assicurazione di liquidare la parte offesa prima del giudizio di primo grado e i ritardi nella liquidazione sono dipese unicamente dalle lungaggini della UNIPOLSAI. Nessuna considerazione sarebbe stata svolta dal giudice di merito sulla non imputabilità del ritardo al ricorrente.
In relazione, poi, al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen., la sentenza fa riferimento alla macroscopica violazione della norma cautelare senza spiegare in cosa consisterebbe la presunta macroscopicità.
Chiede, pertanto, l'annullamento, e/o la cassazione e/o la riforma della sentenza impugnata con ogni e conseguente provvedimento di legge, anche attraverso il rinvio al giudice di merito.
 

 

Diritto

 


1. Fondato, ad avviso del Collegio, è il solo motivo proposto dal ricorrente L.A. circa la mancata risposta della Corte territoriale alle sue doglianze in merito alla sospensione condizionale della pena. Solo limitatamente a tale punto - dovendosene ritenere passata in giudicato anche rispetto a tale imputato la pronuncia impugnata in punto di responsabilità- la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano. Tutti gli altri motivi, sia quelli proposti dal medesimo L.A., che quelli proposti da P.P.D.  sono infondati e pertanto il proposto ricorso va rigettato.
2. Passando all'esame dei singoli motivi, va detto che è infondato il primo motivo di ricorso del L.A., secondo cui la Corte di Appello avrebbe recepito integralmente e acriticamente la motivazione dei giudici di prime cure.
Va ricordato in proposito che, per giurisprudenza pacifica di questa Corte di legittimità, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi. Il giudice di secondo grado, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In una simile evenienza, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. il 2012, Valerio, rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. il 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri, rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l’"ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (cosi si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep. il 2003, Deivai, rv. 223061).
E' stato anche sottolineato di recente da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242 dell'8/2/2013, Reggio, rv. 254988).
3. Peraltro, nel caso in esame la Corte di Appello di Milano non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha risposto argomentatamente, alle pagg. 12 e 13, sia in punto di asserito comportamento abnorme del lavoratore che di nesso di causalità. Il R.M. agiva alle dirette dipendenze del L.A. ed era preposto a fornire assistenza agli operai della S. Pose.
I giudici di merito hanno inoltre escluso, con motivazione logica e convincente, l'imprevedibilità e l'abnormità della condotta del R.M.. Le sentenze di merito hanno correttamente ritenuto che il rischio di caduta non possa essere considerato nell'ambito degli specifici rischi di lavorazione posti in essere dalla S. Pose, ma che sia un rischio facilmente riconoscibile e rientrante nella sfera di controllo del datore di lavoro L.A..
Con particolare riferimento alla posizione di quest'ultimo, la cui responsabilità la Difesa voleva essere esclusa in ragione della assorbente responsabilità della S. Pose, i giudici del gravame del merito richiamano e condividono quanto si legge nella sentenza del tribunale, nella parte in cui è stato ritenuto persistente il ruolo di garanzia del L.A. per l'interferenza con le attività che si svolgevano in cantiere. E ciò indipendentemente dalla precipua natura dell'appalto conferito alla S. Pose, alla cui attività i lavoratori della Nuova C. erano demandati a collaborare per la posa del tetto.
Già il giudice di prime cure aveva correttamente e logicamente evidenziato, a pag. 9 della propria pronuncia, perché il L.A. non avesse perso la propria posizione di garanzia rispetto al proprio lavoratore a seguito del subappalto dell'opera di copertura degli edifici, avendo continuato ad avvalersi di propri dipendenti in affiancamento agli operai dell'impresa subappaltatrice, con mansioni di assistenza, ed essendo peraltro quotidianamente presente in cantiere e dando disposizioni proprio al R.M., in ciò esercitando appieno i poteri tipici del datore di lavoro.
Il condivisibile rilievo mossogli è stato di non avere cooperato, come avrebbe dovuto, con la S. Pose, affinché fosse posta in sicurezza l'apertura, considerato che, da un lato, il proprio lavoratore saliva sul tetto anche per il disbrigo delle mansioni affidategli e dall'altro sull'evidenza che il rischio di caduta dal lucernario non attiene alla rosa dei rischi specifici connessi alle speciali tecniche di lavorazione e all'uso di determinate macchine dell'Impresa.
4. Logico e coerente appare il percorso motivazionale seguito dai giudici di merito per confutare la tesi della interruzione del nesso di causalità tra l'accertata carenza del sistema di sicurezza e la morte del lavoratore, dovendo la stessa attribuirsi al comportamento abnorme dei lavoratori ed essendo l'evento stesso imprevedibile e inevitabile.
Va ricordato come, secondo il dictum di questa Corte di legittimità, il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione del lavoro.
Peraltro il Collegio ritiene di condividere il principio affermato da questa sez. 4 con la sentenza n. 7364 del 14.1.2014, Scarselli, rv. 259321 secondo cui non esclude la responsabilità del datore di lavoro nemmeno l'eventuale comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia riconducibile comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal tale comportamento imprudente. (Fattispecie relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un'idonea impalcatura - "trabattello" - nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza).
Il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori - si è peraltro affermato in altre condivisibili pronunce- ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, (sez. 4, n. 37986 del 27.6.2012, Battafarano, rv. 254365; conf. sez. 4, n. 3787 del 17.10.2014 dep. il 27.1.2015, Bonelli, rv. 261946 relativa ad un caso in cui la Corte ha ritenuto non abnorme il comportamento del lavoratore che, per l'esecuzione di lavori di verniciatura, aveva impiegato una scala doppia invece di approntare un trabattello pur esistente in cantiere).
Costituisce peraltro ius receptum di questa Corte di legittimità il principio - che va qui riaffermato- secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (cosi Sez. 4, n. 1511 del 28/11/2013 dep. il 2014, Schiano Di Cola ed altro, Rv. 259086 che, in applicazione del principio, ha escluso che potesse andare esente da responsabilità il committente che aveva omesso di attivarsi per prevenire il percepibile rischio di caduta di due operai che operavano su un cornicione, la cui instabilità risultava peraltro ben nota all'Imputato; conf. Sez. 3, n. 12228 del 25/02/2015, Cicuto, Rv. 262757 sempre riguardante il caso di una caduta da un lucernaio).
5. Orbene, con motivazione logica e congrua - e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità- la Corte territoriale dà atto di come nel caso che ci occupa non si sia stati di fronte ad un comportamento abnorme del lavoratore, in particolare non potendo considerarsi abnorme il fatto che il lavoratore avesse esteso il proprio contributo non solo al tiraggio delle travi, ma anche al loro posizionamento o alla rimozione dei travetti che tenevano la capriata. Attività che correttamente è stata ritenuta rientrante nell'ambito dei segmento lavorativo attribuito all'infortunato e che può dirsi priva di carattere di stranezza e assoluta imprevedibilità.
Non va trascurato - e la considerazione vale per il motivo circa l'asserito comportamento abnorme del lavoratore di cui anche al ricorso P.P.D.- che il processo ha evidenziato una realtà lavorativa in cui gli addetti delle diverse ditte si davano continuamente una mano, sotto gli occhi degli odierni ricorrenti, che non l'hanno mai impedito, svolgendo mansioni altrui per fare fronte alla carenza di personale del cantiere.
La Corte territoriale ha dato poi argomentatamente conto in motivazione di avere ritenuto superfluo l'esame del profilo di colpa avanzato dal giudice di primo grado con riferimento alla rimozione del trabattello sotto il lucernario. Ciò sul condivisibile rilievo che tale profilo di colpa non era stato contestato nel capo di imputazione e quindi ritenendo che il tribunale vi abbia fatto riferimento ad abundantiam, non potendo certo introdursi un profilo di colpa non contestato e sul quale l'imputato L.A. si è difeso solo in via incidentale. Altrettanto in via incidentale i giudici del gravame del merito hanno ritenuto, poi, corretto l'assunto difensivo secondo cui in questo caso il trabattello non poteva rappresentare un presidio di sicurezza, ma uno strumento di lavoro, non fosse altro che per la banale considerazione che esso avrebbe potuto evitare la caduta da 5 metri, ma non avrebbe evitato la caduta all'Interno del lucernario, che avrebbe dovuto essere autonomamente protetto. Non a caso il lavoratore non usava il trabattello per la sua lavorazione di rimozione dei travetti, ma si trovava sopra il tetto.
Nel provvedimento impugnato viene logicamente confutata anche l'obiezione secondo cui S. Pose Srl si sarebbe assunta in via esclusiva la posizione di garanzia circa la normativa antinfortunistica. Viene posto l'accento, infatti, sulla circostanza che l'impegno contrattuale dalla stessa sottoscritto a pag. 3 del contratto con C. GROUP Srl potrebbe sgravare semmai di responsabilità la contraente C. GROUP Srl in relazione ai dipendenti di S. Pose Srl, ma non certo il L.A. che, diversamente da C. GROUP Srl, ha continuato ad ingerirsi nell'opera in relazione al proprio dipendente.
I giudici del gravame del merito evidenziano poi come, e con rilievo assorbente, non possa non rilevarsi un profilo di colpa generica in capo al datore di lavoro L.A., il quale ha fornito il trabattello in concreto utilizzato per la protezione del lucernario al momento della sua apertura, lasciandola poi priva di protezione una volta spostato il trabattello, circostanza che evidentemente non può essere ascritta ad una iniziativa personale del R.M., in un contesto in cui il L.A. era presente quotidianamente in cantiere ed era pertanto necessariamente a conoscenza dell'andamento dei lavori. A ciò va aggiunto -secondo il logico argomentare del provvedimento impugnato- che l'insufficienza del numero dei trabattelli è comunque da imputare alla NUOVA C. Srl.
Corretta appare, perciò, la conclusione che la condotta anticautelare ascrivibile al L.A. si sia posta come concasuale rispetto all'evento, in quanto, se lo stesso si fosse utilmente coordinato con la S. Pose Srl in merito alla chiusura del lucernario (e dei resto la velux era nel suo possesso da dieci giorni) o avesse, in caso di decisione di quest'ultima di non posare immediatamente la velux, ordinato al R.M. di lasciare il trabattello sotto il lucernario, quest'ultimo non sarebbe caduto.
6. Infondato è il motivo di ricorso proposto dal L.A. che attiene al mancato giudizio di prevalenza sull'aggravante delle pur concesse circostanze attenuanti generiche. La Corte territoriale, infatti, condivide la scelta del primo giudice di ritenerne l'equivalenza e ne fa propria l'argomentazione secondo cui "osta alla declaratoria di prevalenza la macroscopica evidenza della violazione della norma antinfortunistica". 
Sul punto va ricordato, peraltro, che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. Un. n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931).
Fondato, invece, come si diceva all'inizio, è il motivo di doglianza proposto dal L.A. con il quale il suo difensore si duole della totale mancanza di motivazione da parte della Corte territoriale sul secondo motivo di appello proposto circa la rivalutazione della sentenza di primo grado in punto di sospensione condizionale della pena. Unicamente a quel motivo di gravame, pertanto, sarà chiamato a fornire una risposta il giudice del rinvio.
7. Ancorché, come visto in premessa, numerosi ed ampiamente articolati, infondati sono tutti i motivi di impugnazione proposti nell'interesse di P.P.D..
Quanto al primo, di natura processuale, appare evidente la manifesta infondatezza.
Il ricorrente si duole che la circostanza che la notifica gli sarebbe stata effettuata a mezzo PEC non sia stata specificata dal giudice nel decreto di citazione innanzi alla Corte di Appello di Milano. Ma non era affatto tenuto a farlo. E la Corte di Appello ha già risposto ampiamente e congruamente, oltreché correttamente in punto di diritto, alla medesima obiezione propostale, ricordando, in primis, come i casi di nullità della notifica sono quelli di cui all'art. 171 cod. proc. pen. e non altri non codificati.
Quanto alla notifica a mezzo PEC, la stessa è stata introdotta nel nostro si-stema, al pari di quelle contemplate da altre norme, dall'art. 4 del DL 193/2009 conv. nella I. 22/2/2010 n. 24.
Del resto, già l'art. 48 del D.Lgs 82/2005 e succ. mod. (il c.d. Codice dell'Am-ministrazione Digitale), come sostituito dall'art. 33, D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, prevedeva 7 che; "1. La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante ia posta elettronica certificata ai sensi del decreto dei Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito DigitPA. 2. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi dei comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo 
della posta. 3. La data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento in-formatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui ai decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero conformi ai decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui ai comma 1 ".
L'art. 16 co. 4 del DI 179/2012 ha inoltre previsto l'utilizzo esclusivo della PEC per l'invio di notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli articoli 148 co.2bis, 149, 150 e 151 co. 2 cod. proc. pen. per i procedimenti dinanzi ai tribunale ed alle corti di appello. I destinatari della notifica mediante PEC sono, dunque, tutti i soggetti coinvolti nel procedimento penale diversi dall'imputato.
Questa Corte di legittimità, ha già avuto modo di precisare - e va qui ribadito- che, in presenza delle altre condizioni di legge deve considerarsi valida la notifica a mezzo posta elettronica certificata (c.d. PEC), trattandosi di uno strumento da cui può evincersi con certezza la ricezione dell'atto da parte del destinatario, laddove la norma consenta la notifica all'imputato mediante consegna al difensore. La dizione persona dell'imputato di cui all'art. 16 D.L. 16 ottobre 2012 n. 179, va infatti interpretata nel senso di persona fisica dell'imputato" (sez. 4, n. 16222 del 31/3/2016, Severi, Rv. 266529).
La relata di notificazione -come prevede la norma sopra richiamata- è redatta in forma automatica dal sistema informatico in dotazione alla cancelleria.
Quello a mezzo PEC, è bene chiarirlo ancora una volta, è l'ordinario sistema legale di notificazione degli atti giudiziari nel processo penale diretti a persona diversa dall'imputato che non sia domiciliato presso il suo difensore. Non c'è bisogno di alcun decreto che lo autorizzi, né tantomeno -come chiede il ricorrente nei suoi motivi- che l'A.G. lo precisi nell'atto.
La forma di notifica di cui stiamo parlando, in altri termini, nulla ha a che vedere con le "forme particolari di notificazione disposte dai giudice (...) quando lo consigliano circostanze particolari", disciplinate dall'art. 150 cod. proc. pen. In quel caso -che tuttavia non è quello che ci occupa- il giudice è chiamato ad emettere un decreto motivato in calce all'atto in cui indica le modalità necessarie per portare lo stesso a conoscenza del destinatario.
Come viene correttamente ricordato nel provvedimento impugnato, tale con-clusione risulta specificato anche in una circolare del Ministero della Giustizia ema-nata in data 11 dicembre 2014 laddove si legge che "detta opzione interpretativa è coerente con l'evoluzione normativa, posto che i contenuti salienti del provvedimento rimesso all'autorità giudiziaria dalle norme codicistiche (v. in particolare il decreto motivato prescritto dall'art. 150, comma secondo, cod. proc. pen.) attengono all'individuazione dei mezzo tecnico prescelto alle modalità ritenute necessarie per portare l'atto a conoscenza del destinatario, valutazioni che sono oggi 
compiute in via generale dal legislatore e dai Decreti Ministeriali di natura non regolamentare, chiamati a verificare la funzionalità dei servizi di comunicazione. La previsione legislativa si atteggia come presunzione assoluta di inidoneità del mezzo telematico, che assorbe i contenuti dei provvedimento finora demandato all'autorità giudiziaria e si identifica (secondo l'indirizzo ermeneutico prevalente) con le stesse " circostanze particolari ', eretta dalla norma codicistica a presupposto delle forme comunicative in nominate previste dall'art. 150, cod proc. pen)".
Detto dell'assoluta infondatezza della doglianza proposta in quanto non vi deve essere alcun preventivo avviso che la notifica verrà effettuata a mezzo PEC, non può sottacersi che, come peraltro correttamente evidenziato nel provvedi-mento impugnato, alla stregua delle norme generali in tema di nullità, il rigetto della doglianza in questione trova già fondamento nell'articolo 177 cod. proc. pen. e nell'articolo 182 cod. proc. pen. trattandosi - in ipotesi - della violazione di una disposizione (150 co. 2 cod. proc. pen.) alla cui osservanza la parte non ha interesse perché, in ogni caso, l'atto è giunto a conoscenza del destinatario (vedasi l'art. 171 lett. h cod. proc. pen.).
In punto di notifica del decreto che dispone il giudizio, peraltro, la giurispru-denza di questa Corte è sempre maggiormente orientata a non guardare al dato meramente formalistico, ma a quello della idoneità a determinare la conoscenza effettiva dell'atto e a prevede la necessità che l'interessato "rappresenti" con elementi idonei la mancata conoscenza dell'atto (cfr. in particolare Sez. Un. n. 119 del 27/10/2004 dep. il 2005, Palumbo, Rv. 229540; conf. Sez. 2 n. 19290 del 15/1/2015, Hosu, Rv. 263829). In particolare, le SSUU Palumbo ebbero a precisare che l'imputato che intenda eccepire la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi a denunciare la inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non avere avuto cognizione dell'atto e indicare gli specifici elementi che consentano l'esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice.
8. Infondati sono anche i motivi di ricorso ricordati in premessa che, sotto diverse angolazioni, attengono tutti al ruolo di coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione ed all'asserita inesistenza di una posizione di garanzia del P.P.D. rispetto all'incidente mortale occorso al R.M..
La responsabilità del coordinatore dei lavori, che svolge una funziona di alta vigilanza, come ricorda lo stesso ricorrente non può risolversi in un attività astratta puramente teorica. I giudici di merito correttamente hanno ritenuto sussistere in capo allo stesso la responsabilità per la mancata sospensione dei lavori, in un momento in cui nemmeno viene posto in discussione l'esistenza di un rischio interferenziale, con il dato pacifico che c'erano maestranze di due imprese contemporaneamente al lavoro.
La sentenza impugnata, a differenza di quanto si sostiene in ricorso, non si pone affatto in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, in ultimo approdata ai principi affermati nella sentenza di questa sez. 4, n. 27165 del 24/5/2016, Battisti, Rv. 267735, secondo cui in tema di infortuni sul lavoro, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, oltre ai compiti che gli sono affidati dall'art. 5 del D.Lgs. n. 494 del 1996, ha una autonoma funzione di alta vigilanza circa la generale configurazione delle lavorazioni che comportino rischio interferenziale, ma non è tenuto anche ad un puntuale controllo, momento per momento, delle singole atti-vità lavorative, che è invece demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto), salvo l'obbligo, previsto dall'art. 92, lett. f), del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, di adeguare il piano di sicurezza in relazione alla evoluzione dei lavori e di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti da parte delle imprese interessate.
Come già ricordato, infatti, il rischio di caduta è un rischio facilmente riconoscibile e l'esistenza del foro da almeno tre giorni, privo di qualsiasi protezione, la mancata applicazione del Velux, che, arrivato da circa dieci giorni, era stato riposto, per ordine del L.A., avrebbe dovuto indurre il P.P.D., nel corso della propria visita in cantiere avvenuta il giorno precedente, a prendere atto della si-tuazione di rischio aggravata dalla mancanza di personale ed a sospendere i lavori.
9. Parimenti può considerarsi del tutto logica ed esauriente, oltreché corretta in punto di diritto - e pertanto infondate le censure di legittimità che la attingono- la motivazione del provvedimento impugnato sia sulla non abnormità del comportamento del lavoratore - di cui si è già detto ampiamente nel trattare la posizione del L.A.- che sull'attendibilità del teste V., su cui la sentenza impugnata va infatti ad integrare la già esaustiva motivazione del provvedimento di primo grado.
Quanto al profilo di colpa relativo all'omissione della specifica valutazione del rischio di caduta nel POS della S. Pose, rivelatosi carente, i giudici del gravame del merito argomentano logicamente nel senso che la sua sussistenza è conclamata dalla mera lettura del documento medesimo, nonostante il tentativo difensivo di considerarne la sufficienza alla stregua dell'articolo 7 del Dpr 222/2003 che, in ogni sua parte, fa riferimento proprio ai contenuti minimi dei piani di sicurezza. Viene correttamente evidenziato che certamente non sono i contenuti minimi a dovere orientare la valutazione dei POS, ma i contenuti rapportabili alle esigenze di ogni particolare cantiere. Ed in proposito viene rilevato come l'unico riferimento nel POS della S. Pose alle lavorazioni da eseguirsi in quota è contenuto sotto la voce " Protezione delle impalcature, delle passerelle e del ripiani" dove si legge, genericamente, che "... I posti di lavoro o di passaggio sopraelevati devono essere provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti". Condivisibile è anche il rilievo circa l'essere ancora più generica la "Sezione 4", dedicata alla descrizione dei lavori e delle fasi critiche, dove le lavorazioni di cui alla fase lavorativa 3 e 4, relative al posizionamento delle travi e alloro fissaggio, sono previste solo con l'uso dei dispositivi di protezione individuali ("I lavoratori utilizzeranno dispositivi di protezione individuali (DPI), guanti, elmetto di protezione e scarpe antinfortunistiche"), pacificamente insufficienti e solo residuali rispetto agli impalcati di protezione o ai parapetti (come oggi disciplina l'art. 111 del Dlgs 81/2008 in continuità normativa con il disposto del DPR 7 gennaio 1956, n. 164).
Coerente appare, dunque, l'affermazione che, a fronte di un POS tanto gene-rico, competesse al P.P.D. intervenire con riferimento ai profili che riguardavano i lavori in quota sul tetto e segnatamente quelli da svolgersi in presenza di lucernari, la cui apertura era prevista nell'esecuzione dei lavori.
10. In ultimo, va rilevata l'infondatezza delle doglianze in tema di trattamento sanzionatorio avanzate dal P.P.D., con riferimento alla mancata concessione dell'avvenuto risarcimento del danno.
La sentenza motiva sul punto in maniera logica e congrua, evidenziando che il risarcimento doveva avvenire prima della conclusione del procedimento di primo grado e vada documentato. Il che non è avvenuto. E correttamente rilevando che la circostanza che le parti civili non abbiano rassegnato le proprie conclusioni, rinunciando alla operata costituzione, nulla dice circa l'effettiva entità di quanto alle stesse corrisposto.
11. Al rigetto, in toto, del ricorso del P.P.D. consegue, ex lege, la condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla la sentenza impugnata con riferimento alla posizione del ricorrente L.A. limitatamente alla questione della richiesta sospensione condizionale della pena con rinvio sul punto alla Corte d'appello di Milano, rigettando nel resto.
Rigetta il ricorso di P.P.D. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dispone la correzione del cognome di detto ricorrente sulle sentenze di merito da "P." in "P.P.D.", mandando la cancelleria per le comunicazioni sul punto.
Così deciso in Roma il 22 dicembre 2016