Categoria: Cassazione civile
Visite: 12288


Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 dicembre 2013, n. 27865 - Rischio professionale e malattia


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAMORGESE Antonio - Presidente -
Dott. DE RENZIS Alessandro - Consigliere -
Dott. FILABOZZI Antonio - Consigliere -
Dott. BLASUTTO Daniela - rel. Consigliere -
Dott. GARRIBBA Tito - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso 21176-2010 proposto da:
A.S. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA P. FALCONIERI 100, presso lo studio dell'avvocato FIECCHI PAOLA, rappresentato e difeso dall'avvocato PISEDDU SANDRO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro I.N.A.I.L - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, (C.F. (OMISSIS)), in qualità di Ente subentrato all'IPSEMA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati LA PECCERELLA LUIGI e FAVATA EMILIA, che lo rappresentano e difendono giusta delega in atti;
- controricorrente -
nonchè contro IPSEMA - ISTITUTO DI PREVIDENZA PER IL PERSONALE MARITTIMO;
- intimato -
avverso la sentenza n. 269/2010 della CORTE D'APPELLO di CAGLIARI, depositata il 28/05/2010 R.G.N. 212/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2013 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;
udito l'Avvocato OTTOLINI TERESA per delega LA PECCERELLA LUIGI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso





Fatto



Con ricorso al Tribunale di Cagliari, A.S. esponeva di avere lavorato come motorista a bordo di navi, in ambienti di lavoro insalubri a causa dell'umidità e dei continui sbalzi di temperatura, anche quale addetto alla manutenzione ed al trasporto manuale di pesanti pezzi di ricambio, e di avere contratto, a causa dell'esposizione ai suddetti fattori di rischio professionale, una pericardite, discopatie e una artrite reumatica. Sulla base di tali allegazioni, chiedeva all'Istituto assicuratore (IPSEMA) la costituzione di una rendita per danno biologico ai sensi del D.Lgs. n. 38 del 2000 o, nell'ipotesi di accertamento di un danno in misura inferiore al 16%, la liquidazione dell'indennizzo in forma capitale.

In primo grado la domanda veniva accolta e l'Istituto convenuto era condannato a costituire, in favore del ricorrente, la rendita di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, lett. a) commisurata al danno biologico del 15%.

A seguito di gravame proposto dall'IPSEMA, tale pronuncia veniva riformata dalla Corte di appello di Cagliari che, rinnovate le operazioni peritali e acquisiti chiarimenti del C.tu., con sentenza depositata il 28 maggio 2010, rigettava la domanda per insussistenza del nesso di causalità tra le sollecitazioni biomeccaniche di origine lavorativa e l'insorgenza della patologia lombare e per irrilevanza della pregressa pericardite ed ipertensione arteriosa borderline con obiettività clinica e strumentale nella norma.

La Corte territoriale osservava, quanto alla malattia artrosica, che l'attività svolta dall'appellato non aveva mai presentato i caratteri dell'esposizione prolungata a sovraccarico funzionale, della ripetitività, della postura inadeguata e della inadeguatezza dei tempi di recupero, in quanto il turno lavorativo era di cinque ore e a periodi di imbarco seguivano periodi più o meno lunghi di riposo, per cui, nell'arco di un anno solare, ad ogni mese di lavoro corrispondeva un periodo di circa due mesi di inattività; che, inoltre, la movimentazione manuale dei carichi non era stata quotidiana, ma solo saltuaria in occasione di sostituzione di grosse e pesanti valvole e comunque l'attività veniva svolta in equipe con altri lavoratori addetti al settore.

Per la cassazione di tale sentenza A.S. propone ricorso, affidato a tre motivi. L'INAIL, subentrato all'IPSEMA, resiste con controricorso, seguito da memoria difensiva ex art. 378 cod. proc. civ..


Diritto


Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 3 e del D.M. 9 aprile 2008, con riferimento all'art. 360 cod. proc. civ., n. 3 per omesso esame del D.M. 9 aprile 2008 che, intervenuto in corso di causa, aveva sostituito il D.M. 25 luglio 2000, introducendo la previsione tabellare - con conseguente presunzione dell'eziologia professionale - della ernia discale lombare; anche la circolare dell'INAIL n. 47 del 24.7.2008, nel dettare le linee guida delle nuove tabelle, aveva affermato l'operatività della presunzione legale quando, in relazione a malattie muscolo scheletriche causate da sollecitazioni biomeccaniche a seguito di movimenti ripetuti e/o posture incongrue dell'arto superiore, del ginocchio e della colonna vertebrale, l'adibizione avvenga in maniera non occasionale e/o prolungata. Riguardo alla durata e alla frequenza della esposizione al fattore di rischio professionale, il C.t.u. aveva affermato che si era trattato di una esposizione solo occasionale e saltuaria a sovraccarichi funzionali della colonna vertebrale, ma non aveva fornito alcuna dimostrazione di tale assunto. Quanto alla pericardite, la previsione tabellare sussisteva anche nel precedente decreto ministeriale.

Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) per avere la sentenza impugnata affermato l'inesistenza del nesso causale tra quadro clinico e attività lavorativa, in adesione alle conclusioni rassegnate dal C.t.u. nominato in secondo grado, senza chiarire i motivi del dissenso rispetto alla consulenza d'ufficio espletata in primo grado e senza motivare in ordine all'incidenza causale di concreti fattori di rischio extralavorativo.

Inoltre, la seconda c.t.u. era viziata per avere affermato la natura occasionale del sovraccarico funzionale della colonna in contrasto con l'esito della prova testimoniale assunta nel primo grado del giudizio.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13 e del D.M. 25 luglio 2000, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, perchè era stata valutata la riduzione della capacità lavorativa, mentre il D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 impone di considerare la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale della persona, stabilendo che le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito.

I motivi sono tutti destituiti di fondamento.

In tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali, il nuovo regime introdotto dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 al fine del riconoscimento dell'indennizzo in capitale del danno biologico per menomazioni superiori al 6 per cento sino al 16 per cento subito dal lavoratore si applica unicamente per i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro e a malattie professionali verificatisi o denunciati successivamente all'entrata in vigore del D.M. 12 luglio 2000 recante le tabelle valutative del danno biologico. Condizione essenziale per la copertura assicurativa pubblica del danno biologico ad opera dell'INAIL è il verificarsi dell'infortunio o della malattia professionale successivamente al 9 agosto 2000, data di entrata in vigore del D.M. 12 luglio 2000 recante le tabelle valutative del danno biologico. Ne consegue che, in caso di malattia od infortunio denunciata dall'interessato prima del 9 agosto 2000, essa deve essere valutata in termini d'incidenza della stessa sull'attitudine al lavoro del richiedente, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 74 ove questa domanda sia stata formulata dall'interessato con ricorso al giudice del lavoro (Cass. n. 17089 del 2010; conf. Cass. n. 9956 del 2011).

E' dunque infondata la pretesa del ricorrente di vedere applicato nei suoi confronti il nuovo regime introdotto dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, il quale presuppone che la fattispecie sia regolata dalla nuova normativa, mentre nel caso in esame l'epoca della denuncia della malattia professionale è anteriore al 9 agosto 2000.

La questione dell'assoggettamento della fattispecie alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000 non risulta nemmeno affrontata dalla Corte di appello, essendo ogni questione di diritto rimasta assorbita nell'accertamento fattuale che ha portato ad escludere l'eziologia professionale della malattia lombare. La decisione si basa sulla considerazione che l'assicurato subì una esposizione solo saltuaria ed occasionale a sovraccarichi della colonna e ciò non poteva giustificare la riconducibilità causale della malattia lombare al fattore di rischio professionale.

In merito alla pericardite, la censura vertente sul mancato rilievo della sua riconducibilità alle tabelle previgenti è radicalmente inammissibile per difetto di attinenza alla ratio decidendi. Difatti, la sentenza impugnata aveva espressamente escluso qualsiasi rilevanza invalidante della "pericardite in esiti", con obiettività clinica e strumentale nella norma; priva di significato invalidante era pure ipertensione arteriosa borderline.

Risultano così infondati sia il primo, sia il terzo motivo che attengono ad errores in iudicando.

Quanto al denunciato vizio di motivazione, il ricorrente addebita al giudice di merito di avere aderito alle conclusioni rassegnate dal C.t.u., che aveva fondato il proprio giudizio su assunti privi di riscontro probatorio con riferimento all'affermata assenza di fattori di rischio professionale, quali la prolungata esposizione a sovraccarico funzionale, la ripetitività, l'inadeguatezza della postura, l'insufficienza dei tempi di recupero.

Il motivo è inammissibile.

Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. n. 6288 del 18 marzo 2011; n. 27162 del 23 dicembre 2009).

Il giudice di appello ha indicato le fonti del proprio convincimento svolgendo al riguardo il proprio autonomo apprezzamento: ha menzionato l'estratto matricolare, dal quale era possibile evincere la durata dei periodi di imbarco e di quelli di riposo, osservando che "nell'arco di un anno solare, ad ogni mese di lavoro corrispondeva un periodo di circa due mesi di inattività"; ha rilevato che dalla stessa "anamnesi" lavorativa, ossia dalle dichiarazioni che l'interessato aveva reso al C.t.u., poteva evincersi che, se vi era stata una movimentazione manuale di carichi, questa non fu quotidiana ma solo saltuaria, in occasione della sostituzione di grosse e pesanti valvole; ha richiamato le risultanze del "testimoniale" per rimarcare che, pure nei casi di occasionale movimentazione dei carichi, erano presenti in sala macchine anche altri operai, per cui il lavoro veniva svolto in equipe.

Di tale percorso argomentativo non sono state denunciate incoerenze argomentative o contraddizioni, ma se ne deduce l'insufficienza sulla base dell'apodittico assunto che non sarebbe stata dimostrata la veridicità delle affermazioni poste dal C.t.u. a base del sue conclusioni. Si trascura di considerare che, avendo la Corte di merito specificamente indicato le fonti del proprio convincimento, era onere del ricorrente indicare quali fossero gli elementi di prova specificamente trascurati che, vertenti su fatti decisivi, avrebbero dovuto condurre ad una soluzione diversa.

La valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 17097 del 21 luglio 2010).

Va pure aggiunto che il vizio di "motivazione insufficiente" non attiene all'ampiezza delle argomentazioni svolte dal giudice di merito in ordine ad un fatto controverso, per cui la sentenza che sinteticamente rimanda alle risultanze della prova documentale o testimoniale non costituisce motivazione insufficiente ex se perchè troppo concisa, ma solo se - e nella misura in cui - le risultanze della prova siano in realtà contrastanti. Quindi, la parte non può limitarsi a lamentare la sinteticità della motivazione, ma ha l'onere di allegare gli elementi di prova che contrasterebbero con la soluzione adottata nella sentenza. Il ricorso è del tutto carente al riguardo.

Dalla sentenza impugnata risulta, inoltre, che il Consulente d'ufficio venne convocato a chiarimenti per rispondere ai rilievi critici mossi dall'appellato. Il supplemento di perizia successivamente depositato, il cui contenuto è stato analiticamente riportato nella sentenza impugnata ed è stato assunto dalla Corte di merito a fondamento della propria decisione, non risulta avere formato oggetto di successivi rilievi di parte appellata, che non riferisce di ulteriori censure sottoposte all'attenzione della Corte, ma da questa trascurate nella motivazione del provvedimento.

Nulla deve disporsi per le spese del presente giudizio, ai sensi dell'art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo anteriore all'entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, conv.

in L. 24 novembre 2003, n. 326, nella specie inapplicabile ratione temporis, infatti, le limitazioni di reddito per la gratuità del giudizio introdotte da tale ultima norma non sono applicabili ai processi il cui ricorso introduttivo del giudizio sia stato depositato, come nella specie, anteriormente al 2 ottobre 2003.




P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2013