Categoria: Approfondimenti
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Gabriele Marra
Università di Urbino“Carlo Bo”


Brevi note su
responsabilità penale del medico competente
e delega di funzioni



Sommario. 1. – Premesse. 2. – Così lontani, così vicini. 3. – Matrici; 3.1. – Quadri conoscitivi pluralistici. 4. – Risultati e prospettive. 5. – Precisazioni. 6. – Sistema.  7. – Reati di scopo; 7.1. – Sorveglianza sanitaria e responsabilità penale; 7.2. - Proiezioni; 8. – Prospetti codicistici; 8.1. – Temi e problemi.  9. – Delega di funzioni. 10. – Questioni aperte.



1. –  Premesse.
“Chi è informato sul rischio? La risposta dipende dalla cultura di appartenenza […] dall’evento o dall’azzardo in gioco”.
Sono queste le principali variabili che condizionano la percezione del potenziale di danno tipico di una situazione data e l’altrettanto essenziale capacità individuale di formulare inferenze corrette a partire da informazioni empiriche rilevanti. 
Trasposta l’asserzione in parola nel contesto qui di interesse e marginalizzata la sottile questione circa la differenza intercorrente tra disponibilità dell’informazione e la conoscenza, da essa si ricava la base fattuale giustificante la fondamentale scelta legislativa di strutturare pluralisticamente la matrice dei soggetti obbligati a garantire elevati livelli di tutela per la sicurezza dei lavoratori.
Considerando più in dettaglio la questione appena evocata, può dirsi che il dovere di sicurezza si radica, in modo cumulativo, sulla titolarità di poteri organizzativi (determinazioni riguardanti le modalità di produzione), saperi esperienziali (la pericolosità di macchine a pressione in assenza di segregazione degli organi di movimento) e conoscenze tecnico-scientifiche (il potenziale di danno insito nell’esposizione a determinate sostanze).
Tale pluralità spiega due tratti salienti delle moderne discipline riguardanti la sicurezza dei luoghi di lavoro:
 
a) la ripartizione di tale dovere tra diverse figure soggettive all’interno dell’impresa e, di conseguenza, l’asimmetria rispetto al rischio che caratterizza le diverse posizioni soggettive in ragione della varietà di conoscenze e capacità proprie di ciascuna;
 
b) la subordinazione del positivo giudizio di effettività preventiva del sistema regolativo alla funzionalità del complessivo sistema di gestione dei fattori di danno potenziale. Variabile che a sua volta risulta strettamente dipendente:
 
bb) dalla disponibilità di oggettive conoscenze specifiche ed aggiornate in merito ai livelli di rischio, apportate in ogni fase di gestione del rischio da parte di soggetti dotati di competenze specialistiche;
bbb) dalla fruibilità delle informazioni così elaborate da parte del decisore di ultima istanza (datore di lavoro).

2. – Così lontani, così vicini.
Da queste generali premesse occorre prendere le mosse per vagliare più da vicino gli argomenti di questa relazione.
Ad una prima lettura i due temi - delega di funzioni e responsabilità penale del medico competente - sono tra loro apparentemente irrelati:
 
a) la definizione delle responsabilità è un’operazione di selezione delle violazioni ritenute meritevoli di pena a carico di una determinata figura soggettiva, riservata in via esclusiva al legislatore da non dubbie direttrici costituzionali (articolo 25 comma 2 Costituzione);
 
b) la delega riguarda, invece, la circolazione dei doveri e le conseguenti responsabilità originariamente stabilite dalla legge ad opera di un atto di autonomia privata.
Messo da parte ogni ulteriore riferimento ai poteri organizzativi, che, nella prospettiva che qui interessa, non sembrano presentare indici di specificità ulteriori rispetto a quanto implicito nel richiamo alle conoscenze esperienziali e/o di natura tecnico/scientifica, nella sostanza possono in realtà cogliersi almeno due punti di contatto tra le questioni qui in esame.
Entrambe attengono, sebbene in modi diversi, alla circostanza che il raggiungimento di effettivi livelli di sicurezza dipende da presupposti esperienziali e conoscitivi che difficilmente possono essere garantiti dalla medesima persona: soprattutto quando il titolare dei doveri di prevenzione è un soggetto, il datore di lavoro, che può essere ritenuto ragionevolmente capace di garantire, anche elevando al massimo grado il livello di prudenza normativamente a lui richiesta, solo una punta del corno delle conoscenze necessarie al soddisfacimento degli obblighi cautelari.
A partire da questa premessa, il trasferimento ad altri dei doveri cautelari può essere considerato un modo per garantire un più elevato livello di prevenzione, nella misura in cui la riallocazione dei poteri avvenga, come doveroso, a persona dotata di tutte le conoscenze necessarie al diligente assolvimento dell’incarico (articolo 16 comma 1 lett. b)).
Analoghi rilievi valgono ad illustrare l’unità di misura a cui attingere per analizzare in modo convincente il quadro delle responsabilità del medico competente (abbreviato: Mc): le scelte dell’articolo 58 del Dlgs n. 81/08; si possono infatti spiegare sulla base del grado di necessaria efficacia a fini prevenzionali delle conoscenze scientifiche di cui il medico è depositario e che doverosamente debbono essere messe a disposizione al sistema della sicurezza aziendale.
La finalità dell’intervento penale in questa materia è quella di non far mai mancare l’aggiornato e puntuale contributo scientifico del Mc, necessario completamento delle informazioni esperienziali sul rischio, all’adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro.

3. – Matrici.
Una vicinanza ulteriormente rafforzata dalla matrice organizzativa / procedurale propria della disciplina della sicurezza dei lavoratori.
Conseguenza necessaria della più generale premessa che adeguati livelli di definizione delle sfere d’azione soggettiva costituiscono la chiave di volta dell’effettività di una disciplina regolativa ad attuazione ripartita.
La chiara determinazione di ‘chi fa che cosa’ all’interno dell’impresa è infatti un adempimento indispensabile per garantire la sicurezza dei lavoratori e dell’ambiente: dovere al quale il legislatore non può sottrarsi.
Neppure ripiegando su più comode clausole di scopo (minimizzazione del rischio; riduzione in misura adeguata del potenziale di danno ecc.) volte a definire i risultati finali che l’ordinamento si attende da ciascuno dei partecipanti al sistema di prevenzione tacendo però del tutto sui passaggi intermedi a ciò necessari.
La definizione in dettaglio di ciò che è necessario realizzare in vista dell’implementazione di efficaci strategie di prevenzione dell’insicurezza costituisce quindi, prima ancora che adempimento richiesto per intuibili ragioni di certezza dei destinatari, condizione non meno essenziale di quelle sin qui indicate per poter raggiungere effettivi livelli di tutela in questa materia.

3.1. – Quadri conoscitivi pluralistici.
Adempimento che sfugge, però, alla possibilità di un’esaustiva definizione legale, per sua natura astratta e generale: tanto sotto il profilo dell’individuazione delle specifiche sfere di responsabilità funzionale (‘chi fa’) quanto nella determinazione dei contenuti dell’azione doverosa (‘che cosa’) in ragione:

a) della variabilità localistica delle strutture di governance aziendale (articolo 16), la cui gestione, di conseguenza, richiede di assicurare l’effettività degli snodi di raccordo tra i compiti propri dei diversi soggetti inseriti all’interno dell’organigramma del sistema di sicurezza (datore di lavoro ↔ Mc; Mc ↔ lavoratore) anche ad un livello di intervento decentrato (articolo 28): ordine sul quale si esercita il riconosciuto dominio dell’autonomia privata (articolo 41 Costituzione);
 
b) della mutevolezza e complessità delle conoscenze esperte che per loro natura sembrano porsi al di là della capacità di azione di precetti di derivazione legale perché difficilmente stabilizzabili all’interno di formule normative.
Ad essere chiamati in causa, come essenziali ‘anelli’ intermedi della catena che collega le scelte dei vertici di impresa e la sicurezza dei lavoratori, sono infatti determinazioni tecniche di fonte ‘ancipite’ ed indicazioni scientifiche della più varia provenienza, a fronte delle quali la legge può solo (rectius: deve) limitarsi  a definire le rispettive formali condizioni di validità.
Compito al quale il legislatore può attendere, limitando l’attenzione all’esperienza del diritto positivo, scegliendo tra almeno tre diverse alternative:
1) incorporazione, per rinvio, all’interno della determinazione del precetto normativo (articolo 39 comma 1);
2) definizione generale del grado di fiducia riposta sulla fonte di produzione (articolo 30 comma 5);
3) predisposizione di procedure di pubblica validazione di linee guida e buone prassi da chiunque elaborate ed ovunque prodotte (articolo 6).  

4. – Risultati e prospettive. 
La delega è, dunque, istituto funzionale alla ricomposizione, in capo ad un unico soggetto, dei saperi esperienziali e delle conoscenze scientifiche pertinenti e necessarie.
La definizione dello statuto penale dell’attività di Mc risponde, analogamente, all’esigenza di garantire la disponibilità delle informazioni indispensabili, altrimenti non attingibili, a favore del decisore di ultima istanza.
Un’eadem ratio  utile a fissare, al di là della diversissima veste formale, il comune teleologismo - già stabilizzato nei risultati dell’evoluzione della prassi applicativa riguardante il riconoscimento della validità ‘esimente’, ai fini penalistici, della delega di funzioni  - e a rafforzare, anche in vista di successivi esercizi interpretativi, la percezione della centralità della dimensione organizzativo/procedimentale propria della disciplina regolativa e dell’intervento penale in subiecta materia.
Al cui interno l’individuazione dei soggetti responsabili per l’illecito e la selezione delle condotte meritevoli di pena risentono, altresì, della presenza di un pluralismo delle fonti che si rivela, in entrambi i casi, strumentale a garantire la completezza delle informazioni necessarie per l’adozione di scelte consapevoli ed efficaci in tema di sicurezza dei luoghi di lavoro.

5. – Precisazioni.
Chiarito ciò, si tratta di esaminare le innovazioni apportate dal Dlgs 81/08, procedendo, però, ad un’inversione dell’ordine di approfondimento dei temi oggetto di queste brevi note.
Una trasposizione giustificata da una duplice considerazione:

a) la sostanziale continuità della nuova disciplina rispetto ai canoni assolutamente consolidati nella pregressa giurisprudenza.
Criteri che il legislatore ha oggi ufficialmente consacrato (art.16), mirando così a garantire la sostanziale stabilizzazione dei indirizzi interpretativi elaborati per definire le condizioni di validità della delega di funzioni quale esimente della responsabilità del soggetto originariamente obbligato;
 
b) la marginale  rilevanza dell’istituto della delega con riferimento alla posizione del Mc (è affare tra datore di lavoro e dirigenti o, più in generale, tra soggetti aziendali appartenenti alla c.d. ‘linea’).

6. – Sistema.
In primo luogo va ricordato che l’attuale sistema prevede una pluralità di livelli di responsabilità a carico del Mc:
1) illeciti di rischio o di scopo;
2) illeciti di offesa o di reazione.
Categorie che per la specificità delle problematiche che ciascuna di essa solleva debbono essere analizzate separatamente.
    
7. – Reati di scopo.
Gli illeciti di rischio o di scopo, contenuti nel Dlgs.81/08, hanno la finalità di prevenire l’omissione di comportamenti necessari all’effettività del sistema prevenzionale.
L’offesa che essi provocano è di tipo funzionale e prescinde dal verificarsi di eventi di danno.
Sono generalmente definiti dall’articolo 58: disposizione che, oltre a prevedere alcune sanzioni amministrative a carico della medesima figura, sanziona l’infrazione di taluni degli obblighi generali posti dal legislatore a carico del Mc.
Previsione alla quale si affiancano ipotesi di reato (articolo 264) riguardanti la violazione di norme speciali, relative alla violazione di doveri nella sostanza analoghi a quelli ai quali rinvia l’articolo 58, in materie ad altissimo tasso di complessità scientifica, quali tradizionalmente sono, ad esempio, quelle riguardanti il rischio associato all’esposizione ad agenti fisici o a sostanze pericolose.
Un insieme di contravvenzioni analogamente strutturate per le medesime finalità di prevenzione.
I rapporti tra queste disposizioni (articoli 58 e 264) sono chiaramente, ed opportunamente, regolati dal principio di specialità (articolo 298), a tenore del quale l’articolo 58 si applica solo se non ricorre alcuna delle ipotesi speciali da ultimo menzionate.
Tutti gli illeciti in parola sono “prescrivibili” secondo le ben note modalità definite dal Dlgs 758/95 (articolo 301).
Allo scopo di meglio definire i contorni del quadro delle responsabilità del Mc, limitando per brevità del discorso l’attenzione a quanto previsto dall’articolo 58, i singoli componenti della classe di illeciti in parola – precisato che non sono previste sanzioni con riferimento ai doveri di collaborazione nella valutazione dei rischi e nell’implementazione delle misure di sicurezza (articolo 25 comma 1 lett. a))- possono essere raggruppati in almeno tre macro-insiemi di violazioni:

a) Illeciti di omessa consegna al datore di lavoro, al lavoratore e ad organi pubblici  - articolo 58 comma 1 lett. b) con riferimento all’articolo 25 comma 1 lett.re d), e) ed f)  - della documentazione riguardante gli esiti dell’attività espletata;  
 
b) Illeciti di omesso adempimento di obblighi strumentali all’ottimizzazione funzionale del sistema di regolazione del rischio (articolo 58 comma 1 lett. a) con riferimento all’articolo 25 comma 1 lett.re c) e g)).
Classe alla quale va ascritta anche l’ipotesi che sanziona la mancata effettuazione della visita agli ambienti di lavoro (articolo 58 comma 1 lett. c) con riferimento all’ articolo 25 comma 1 lett. l));
 
c) Omessa effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi in cui sia obbligatoria (articolo 41 comma 1).
Si tratta, in particolare della contravvenzione prevista e punita dall’articolo 58 comma 1 lett. b) con riferimento a quanto disposto dall’ articolo 25 comma 1 lett. b).
A differenza di quanto induce a credere la bizzarra decisione di considerare fatto più grave l’omissione dei ‘doveri di visita aziendale’ (articolo 58 comma 1 lett. d), quella in commento è la previsione penalistica più significativa, in un’ottica teleologica e funzionale, tra quelle che compongono il catalogo delle incriminazioni riferite al Mc.
Mirando a garantire la disponibilità di saperi specialistici, altrimenti inattingibili,  necessari a dar corpo a decisioni informate da parte del datore di lavoro, aspira a soddisfare la capacità del sistema di prevenzione di assicurare livelli di protezione adeguati.
Vincolando l’attività del Mc all’applicazione di selezionati parametri qualitativi garantisce la piena funzionalità dell’informazione acquisita ed elaborata.
Ragguagli che, in assenza di una specifica indicazione in tale senso, si rivelerebbero, nella sostanza, potenzialmente disallineati rispetto all’obbiettivo dichiarato e, dunque, non idonei a garantire i necessari livelli di sicurezza.

7.1. – Sorveglianza sanitaria e responsabilità penale.
Tacendo le generali perplessità indotte da una tecnica legislativa, quella del rinvio, che rende i reati in commento più simili ad un foglio di calcolo che a chiare e tassative determinazioni dal confine dell’agire lecito , la prima impressione che si ricava dalla lettura del complesso delle ipotesi contravvenzionali di cui all’articolo in commento, riguarda la censurabile tendenza ad un utilizzo ridondante del diritto penale.
Accantonati altresì i dubbi che suscita il generico rinvio ai “casi previsti […] dalle direttive comunitarie” (articolo 41 comma 1 lett. a)) quale criterio definitorio dei presupposti di doverosità dell’effettuazione della sorveglianza sanitaria, la riferita preoccupazione emerge con nettezza, esaminando quella che, nella prospettiva sopra delineata, assume la funzione di ‘norma di sistema’: l’articolo 58 comma 1 lett. b) con riferimento all’articolo 25 comma 1 lett. b).
Disposizione che sembra fare ‘di tutta l’erba un fascio’, nonostante la permanente esigenza di garantire, anche in questa materia, un intervento ponderato della norma penale, in omaggio al fondamentale canone di extrema ratio.
La norma in commento, oltre a sanzionare l’intero articolo 41, considera infatti penalmente rilevante, e ciò è di certo assai meno sorprendente, anche la violazione di due ulteriori parametri esplicitati in una diversa disposizione (articolo 25 comma 1 lett. b):
a) il mancato impiego di protocolli specifici calibrati sulla peculiarità del rischio;
b) l’omessa applicazione degli indirizzi scientifici più avanzati, il mancato impiego dei quali rende l’esito della sorveglianza sanitaria inutiliter data.
Su di un piano letterale, salvo volersi lanciare in spregiudicate ortopedie interpretative di assai dubbia legittimità, ad essere sanzionata è infatti la violazione della programmazione della sorveglianza sanitaria e l’omissione dell’effettuazione della stessa.
Infrazioni alle quali risultano parificate le ipotesi in cui la programmazione e la realizzazione della sorveglianza avvenga in  violazione dei parametri qualitativi in precedenza indicati sub a) e b).

7.2. – Proiezioni.
Considerata più in dettaglio, la trama normativa che intesse il quadro dei doveri comportamentali del Mc e le pertinenti disposizioni sanzionatorie intese a garantire il corretto ed esaustivo adempimento di quegli obblighi, evidenzia almeno quattro profili degni di specifica attenzione da parte degli interpreti.

a) Eccesso di criminalizzazione.
Una disposizione che sanziona, con la medesima pena, l’integrale omissione di tale obbligo e le ipotesi di adempimento dello stesso in assenza delle prescritte formalità e, cosa ancor più rilevante, parifica la mancata applicazione delle conoscenze specialistiche necessarie alle ipotesi in cui gli esiti della sorveglianza non vengano annotati, come prescritto, su di un apposito formulario secondo le modalità burocratiche definite ex lege (articolo 41 comma 5), non sorprende limitatamente all’ipotesi per primo citata ma si presta ad una sferzante critica in relazione alla seconda.
E’ infatti vero, come si è altrove cercato di dimostrare, che la prima equiparazione è conseguenza necessaria della filosofia procedurale che innerva la disciplina della sicurezza dei luoghi di lavoro. Altrettanto vero è però che l’inclusione dell’ipotesi da ultimo citata nel novero delle condotte penalmente sanzionate può trovare spiegazione solo in una criticabile propensione a piegare il diritto penale a compiti burocratici che non gli competono.  

b) Direttrici deontologiche e responsabilità per la decisione.
Di rilievo è anche il riferimento alla necessaria applicazione degli “indirizzi scientifici più avanzati” (articolo comma 1 lett. b).
Formula che richiama, assai da vicino, quella impiegata per definire la qualità della principale tra le misure generali di tutela poste a carico del datore di lavoro: “la riduzione la minimo [dei rischi] in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico”(articolo 15 comma 1 lett.c)). Appaiono dunque destinate a riproporsi, almeno a prima lettura, le difficoltà interpretative che hanno investito quest’ultima formulazione che, nonostante l’impegno da tutti profuso, stenta ancora a trovare un consolidato risultato ermeneutico, contesa, come è, tra riferimenti:
 
a) a misure generalmente praticate, come indicato dalla Corte costituzionale;
b) alla più aggiornata informazione disponibile, come prescritto dalla Corte di Cassazione e, infine,
c) “alla costante ricerca di conoscenze prevenzionali sempre più progredite rispetto a quelle” proprie, hinc et nunc,  dall’agente modello, come induce a ritenere altra parte delle decisioni della giurisprudenza di legittimità.   
 
Sembra così perpetuarsi il rischio di letture ‘penalistiche’ che, in ragione della qualità degli interessi in gioco, ne sospingono l’esegesi verso i ‘perigliosi lidi’ disegnati da una traslazione della semantica dell’espressione in commento da un piano oggettivo (ricorso alle migliori conoscenze disponibili e validate) ad uno prettamente deontologico (elaborazione individuale delle informazioni più opportune anche se non peer rewieved).
In realtà, ad una valutazione più ravvicinata, la formula in commento, oltre a certificare l’insufficienza di un ricorso a quadri conoscitivi generalmente praticati in settori omogenei di rischio, sembra altresì escludere la fondatezza di letture spiccatamente deontologiche che pongono a carico del soggetto autonomi obblighi di ricerca: doveroso essendo solo l’onere di impiegare il più elevato grado di sapere corroborato.
Ad entrare nel quadro valutativo del giudice penale, anche in ragione del dovere di costante aggiornamento statuito a carico del Mc (articolo 38),  è dunque ‘soltanto’ il mancato impiego, nella realizzazione della sorveglianza sanitaria, delle migliori acquisizioni scientifiche consolidate e disponibili al momento dell’azione.
Dovere operativamente e, prima ancora, deontologicamente esigibile e, quindi, rimproverabile al Mc competente in caso di omissione.
Conclusione a supporto della quale possono invocarsi, oltre alla limpidezza del dettato testuale qui commentato, l’irrilevanza del problema dei costi materiali di tale adeguamento - argomento che tanta parte gioca invece nella definizione del livello di cautela doverosa per il datore di lavoro  -  e, soprattutto, il generale disposto di cui all’articolo 39 comma 1, a tenore del quale il Mc svolge la sua attività secondo “i principi della medicina del lavoro e del codice etico della Commissione internazionale per la salute occupazionale (ICOH)”.
Una fonte scorrendo la  quale si apprende che i doveri comportamentali della figura in esame debbono essere improntati ai “più alti standards professionali”, all’applicazione di conoscenze dotate di “solide basi scientifiche” e che, in presenza di dubbi in merito alla sufficienza delle conoscenze scientifiche esistenti, è dovere del Mc competente di informare, senza ritardo, il datore di lavoro ed i lavoratori ma anche comunicare pubblicamente l’incertezza riscontrata in vista della attivazione dei poteri di intervento da parte della pubblica autorità – sul tacito presupposto della loro inesigibilità a livello privato -   e dell’altrettanto necessario controllo di merito della comunità scientifica sulla fondatezza della nuova stima di rischio.
La circostanza che, è ancora il codice deontologico a disporre in merito (articolo 4), “qualora vi siano dubbi sulla gravità di un fattore di rischio, bisogna immediatamente […] mettere in atto prudenti misure cautelative”, scompagina, però, i risultati così acquisiti.
La giuridificazione della fonte di tale disposizione rende infatti cogente la regola comportamentale in commento ben al di là del perimetro dell’etica professionale e, per l’effetto, giustifica che il Mc competente venga chiamato al banco degli imputati per aver omesso le necessarie misure cautelative imposte dal codice etico in commento.   

c) Qualità delle conoscenze.
Rinviando ad un successivo momento la soluzione del dubbio da ultimo evocato, è ora necessario sottolineare che quella qui delineata è una  prospettiva in cui è altresì agevole apprezzare il rilievo da assegnare a standards elaborati dalle società scientifiche e alle linee guida di fonte internazionale: quantomeno per la loro essenziale funzione di indicazioni euristiche circa i parametri applicabili nell’assolvimento del fondamentale compito di esercizio della sorveglianza sanitaria. 
Indicazioni che il riferimento “ai rischi specifici” sotteso alla formula “indirizzi scientifici più avanzati” non consente di considerare unica ed esaustiva misura del dovere di agire con perizia, residuando pur sempre, in forza di quella regola, un obbligo di adeguamento delle conoscenze corroborate alla specificità del processo lavorativo, come riconosciuto anche dall’articolo 2 del codice etico ICOH.
Ciò nonostante, la loro esistenza e fruibilità ha l’indubbio merito di consentire al Mc l’assolvimento dei suoi obblighi nel contesto di valutazioni pre-definite e di limitare il generale dovere di sindacato del singolo Mc sulle stesse alle ipotesi in cui le indicazioni ricavabili da tali fonti appaiono manifestamente obsolete.
Linee guida che, oltre a limitare gli spazi della responsabilità del Mc, nella misura in cui vincolano il giudizio di responsabilità alla mancata attualizzazione delle stesse al contesto lavorativo specifico e all’applicazione di indicazioni superate o screditate, appaiono idonee, come si è altrove cercato di dimostrare, a ridurre l’incertezza della situazione operativa ed il costo, immateriale, della decisione, sterilizzando così fattori di rilievo nella definizione di decisioni operative lontane dalla soglia della correttezza.
In questo modo il sistema disciplinare contribuisce ad allentare la pressione del sistema penale sulla figura del medico competente perché innalza il livello di efficacia delle misure intraprese.  

d) Alternative deontologiche?
Interrogativi di altra natura suscita invece il ricorso alla pena per sanzionare la violazione di quello che, da un punto di vista deontologico, sembra essere un dovere primario del Mc: l’informazione del lavoratore (articolo 25 comma 1 lett. g) 1 cpv).
A fronte di una disposizione di tale tenore viene infatti spontaneo interrogarsi in ordine alla sufficienza o meno del ricorso alla responsabilità deontologica del medico che venga meno a quest’obbligo.
A prescindere dal non trascurabile dato offerto, in termini di deterrenza, della maggior efficacia di tali forme di reazione rispetto ad una pena destinata a rimanere sulla carta, a dover essere richiamato, a supporto di una possibile decriminalizzazione, è il principio a tenore del quale la sicurezza è un obbligo condiviso per il quale ciascuno deve fare la sua parte.
Principio da tutti esaltato ed oggettivamente strumentale all’innalzamento dei livelli di effettiva sicurezza che il legislatore dimostra così di poco valorizzare, forse, e non del tutto a torto, per il sospetto che sempre destano forme di giurisdizione domestica quando in gioco vi sono beni di valore primario.
Disseminato nella fitta trama della nuova disciplina riguardante la sicurezza dei luoghi di lavoro vi è poi anche un altro indizio in ordine alla stimata, da parte del legislatore, debolezza ‘deontologica’ della categoria: la giuridificazione del codice ICOH.
Codice di cui si riconosce l’importanza ma del cui impatto sulla prassi si dubita, a tal punto da trasformare quello che per sua natura è un catalogo di valori in obblighi di legge coattivamente presidiati.
Osservazioni dalle quali è possibile trarre una più generale indicazione: difficile sembra infatti la giustificazione delle critiche rivolte all’eccessiva presenza del diritto penale se poi, pur avendo le possibilità, si preferisce all’impegno promozionale necessario il “quieto vivere” in attesa degli eventi e dell’intervento risolutore di altri.  
Resta invece aperta la questione circa l’individuazione delle ragioni utili ad illustrare il fondamento di una siffatta scelta legislativa.
Una possibile prima risposta a questa domanda, che interessa anche altre disposizioni del Dlgs n. 81/08 (articoli 25 comma 1 lett. a) cpv e 30), porta ad evidenziare, sulla base della considerazione della natura del codice richiamato all’articolo 39 comma 1, la volontà di giuridificare l’etica o, se si preferisce, la tendenza a moralizzare il diritto.
Un’opinione sintonica alla recente ripresa di interesse dell’etica di impresa quale possibile strumento di governance d’impresa in funzione di profilassi di comportamenti devianti, anche nell’ambito dei temi riguardanti, in generale, il lavoro ed in specie la sicurezza dei lavoratori. 
Prospettiva che, nonostante l’indubbio interesse che suscita almeno in linea di principio, si presta a critiche più o meno radicali se osservata nella prospettiva del sistema penale.
Uno strumento di tutela che per intima natura – si dice - mal tollera una piatta sovrapposizione dei suoi precetti su direttrici comportamentali di derivazione etica, traendo la sua legittimazione, per una ormai consolidata tradizione, dalla positiva formulazione di più neutri giudizi di dannosità sociale.
Critiche siffatte debbono tuttavia fare i conti con una generale tendenza evolutiva in atto nel sistema penale, intesa a ridurre sensibilmente le distanze tra disciplina penalistica e tutela dei valori in settori affini a quelli della sicurezza del lavoro (criminalità d’impresa, criminalità dell’impresa, tutela della persona ecc.).
Fedeli alla direttrice metodologica che più di ogni altra segna il grado di modernità della scienza penalistica e della politica criminale – l’integrazione tra conoscenza empirica e sapere normativo – quelle voci non possono neppure eludere il confronto con alcune indicazioni provenienti dal progredire delle conoscenze empiriche in merito ai processi cognitivi che governano la decisione individuale.
Anche a non voler considerare rilevante il generale andamento delle scelte della politica penale, sulla base della persistente riaffermazione di principio in merito all’inammissibilità del connubio tra diritto penale e morale, i risultati delle ricerche da ultimo ricordare sembrano poter giustificare una diversa conclusione.
Si tratta, più in particolare, ma senza poter qui entrare nel dettaglio della questione, di studi volti ad evidenziare la profonda interrelazione generalmente esistente tra regole deontologiche e correttezza delle decisioni individuali, i cui risultati forniscono, anche all’interprete del sistema penale, una chiave di lettura che permette di rinvenire un nesso di effettiva strumentalità tra la formalizzazione di codici etici e la disattivazione dei bias che naturalmente condizionano la correttezza delle decisione individuale; tra la diffusione di protocolli deontologici, la pratica di direttrici comportamentali da questi dettate e la neutralizzazione di ordinarie euristiche cognitive che per loro specifica natura possono con facilità condurre ad errori anche nelle scelte degli esperti e, quindi, in entrambi i qui casi considerati, a comportamenti socialmente disfunzionali.  
Dovrebbe pertanto risultare evidente, alla luce di queste nuove acquisizioni, che la scelta legislativa in commento, lungi dal presentarsi come un inammissibile ripiegamento etico del diritto penale, è un’opzione regolamentare che almeno in parte condivide la sensibilità di chi, giustamente, insiste nel richiedere il superamento di esigenti esami di dannosità sociale quale essenziale pre-requisito di legittimità del ricorso alle potenzialità preventive del sistema penale. 
E su questa base può essere più proficuamente discussa.

8. – Prospetti codicistici.
Richiamando quanto in precedenza osservato a proposito della duplicità dei livelli di responsabilità penale ai quali è esposto il Mc (illeciti di rischio + illeciti di offesa) l’indagine deve ora soffermarsi a descrivere le principali interrelazioni tra la nuova disciplina degli obblighi del Mc dettata dal Dlgs n. 81/08 e la classica infrastruttura di tutela approntata, in via generale, dal codice penale.
Gli illeciti di offesa o di reazione costituiscono una classe di reati la cui finalità è di reagire al constatato fallimento dell’attività prevenzionale.
Riaffermano il valore di un bene in presenza di una sua effettiva compromissione (danno per infortunio).
Sono tutti contenuti, sebbene variamente dislocati, nel codice penale (delitti contro l’incolumità pubblica; delitti contro la vita e l’incolumità personale), tipizzati come illeciti delittuosi e rispondono ai nomi di omicidio (articolo 589), lesioni personali (articolo 590), omessa collocazione di cautele antinfortunistiche (articolo 451) ecc.
Un insieme di illeciti dotati di uno spiccato livello di autonomia formale e sostanziale, che tuttavia trovano nella disciplina di cui al Dlg.81 i riferimenti essenziali al loro operare.
Le norme del decreto da ultimo citate definiscono infatti la misura della cautela necessaria e danno corpo alle generiche violazioni penalmente sanzionate, ad esempio, dall’articolo 451 c.p.
Una classe di illeciti la cui applicazione ha, almeno di recente. interessato anche il Mc.

8.1. – Temi e problemi.
L’impatto della nuova disciplina della sicurezza dei luoghi di lavoro su principi statuiti da questa importante decisione necessitano di un seppur minimo approfondimento.
Dalla lettura delle motivazioni della decisione da ultimo citata emerge infatti, quale principio di diritto, che il comportamento del soggetto obbligato deve ritenersi negligente e, quindi, penalmente rilevante, anche quando si è astenuto dall’intraprendere misure precauzionali in presenza di una congetturata potenzialità di offesa generalmente associabile ad una certa sostanza, “anche se non siano ancora ben delineati i confini di tale pericolosità”.
Breve.
La sicurezza del lavoro come dominio del principio di precauzione: il dubbio come  giustificazione della punibilità di inerzie prevenzionali.
Affermazione quanto mai problematica che può trovare un fattore di sterilizzazione nel riferimento agli indirizzi scientifici più avanzati di cui all’articolo 25 comma 1  lett. b).
Poiché il principio di precauzione non è scienza ma principio normativo di comportamento, la cui opportunità è suggerita dal valore degli interessi in gioco, anche in assenza di congrui livelli di verità fattuale - un principio sospeso, si dice, tra “buon senso ed oscurantismo”  – la misura dell’imperizia rimproverabile al Mc può solo essere quella coincidente con il venir meno a doveri di intervento sostenuti da conoscenze scientificamente validate.
Conclusione restrittiva che vale in relazione ad omissioni riferite al tema della sorveglianza sanitaria ma non con riferimento alla valutazione del rischio, alla quale, pur in assenza di sanzioni legali tipizzate in caso di infrazione, il Mc è tenuto a collaborare  (articolo 25 comma 1 lett. a).
Attività che, nonostante il silenzio del legislatore, può ben dar luogo ad una responsabilità del Mc: come dimostra anche la più recente giurisprudenza relativa alla responsabilità del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (articolo 31) proprio in relazione alla classe di illeciti qui in esame.  
In questa prospettiva sembrano guadagnare nuova  legittimazione quei principi che la Cassazione, nella riferita sentenza sul c.d. “caso Porto Marghera”, ha tratteggiato come soluzione sufficiente a fondare la responsabilità in contesti di incertezza conoscitiva.
Criteri dedotti da una decisa accentuazione degli spazi di autonomia di tutela che si ritengono propri del diritto penale: obbiettivi di protezione perseguiti anche a costo di instillare nella trama delle nuova disciplina regolativa un principio ad essa estraneo. 
A farla da padrone sono infatti le generiche clausole di “negligenza, imprudenza ed imperizia” che caratterizzano l’illecito colposo ed il principio di precauzione che ad esse da corpo in contesti di incertezza conoscitiva.
A fronte di ciò, e senza voler minimamente sminuire la delicatezza della questione, un’interpretazione sistematica che coniughi il disposto della lett. a) e della lett. b) dell’articolo 25 dovrebbe essere sufficiente a dimostrare la fragilità di questa soluzione e la necessità di armonizzarla, anche alla luce dei sovraordinati principi penalistici (articolo 27 comma 1 Costituzione), a quanto previsto in relazione alla violazione degli obblighi di cui all’articolo 25 comma 1 lett. b).
L’intera problematica deve tuttavia confrontarsi con quanto generalmente previsto dall’articolo 4 del Codice etico ICOH.
Disposizione che, attraverso tortuosi percorsi di successivi livelli di rinvio (articoli 25; 39; 41 e 58), contribuisce a definire la tipicità dei reati di scopo propri del Mc e con ancor più prontamente, considerato l’humus sottostante i più recenti orientamenti della prassi applicativa, ad allargare il perimetro della responsabilità dello stesso in caso di constatati fallimenti del sistema prevenzionale (illeciti di offesa).
La circostanza che la disposizione di fonte deontologica cerchi di restringere la rilevanza delle situazioni che giustificano interventi cautelativi alle sole ipotesi in cui l’incertezza può considerarsi seria  - riferendosi alla gravità del potenziale di danno, tentativo apprezzabile alla luce della duplicità di parametri che definiscono la nozione di rischio (articolo 2 comma 1 lett. s); delineando una preliminare procedura di accertamento in ordine alla fondatezza dei sospetti riscontrati, finalizzata a garantire un approfondimento specialistico in ordine alla rilevanza e concludenza degli indizi raccolti e, infine, alla condivisione dell’esistenza di un fondato dubbio – non attenua le perplessità circa quest’esito.
Esitazioni in primo luogo alimentate dall’incerta compatibilità con i principi generali di forme di responsabilità penale fondate sulla violazione di doveri di matrice precauzionale.  
Ferma questa critica generale, non può esser tuttavia taciuto il fatto che dall’insieme delle disposizioni sin qui esaminate si evince la necessità di fondare il rimprovero nei confronti del Mc che abbia omesso i necessari interventi cautelativi di profilassi della probabilità dell’avverarsi di un danno potenziale sui dati forniti da rigorosi parametri conoscitivi.
Il già ricordato impianto di riferimenti alle conoscenze “scientifiche […] disponibili” marca infatti l’allontanamento da criteri di giudizio irrazionali, emozionali e di spicciolo senso comune e, pertanto, non esenta il giudice penale chiamato a ricostruire il quadro delle  responsabilità individuali dal dovere di far ricorso, in questa sua delicatissima operazione, a criteri di giudizio epistemologicamente fondati. 
Un sicuro passo in avanti in direzione di un intervento penale ragionevolmente sensibile alle ragioni della necessaria offensività dei fatti di reato.

9. – Delega di funzioni.
Tre aforismi, infine, sulla delega di funzioni.
Il Dlgs 81/08 conosce due diverse tipologie di trasferimento privatistico di doveri e responsabilità: 1) generale [rectius: organizzativa per ruoli funzionali (articolo 28 comma 2 lett. f)]; 2) speciale [rectius: per atto di autonomia privata (articolo 16)].
Considerato che la prassi applicativa precedente aveva già riconosciuto la validità di entrambe le forme di delega,  enucleando, quali criteri di validità dell’ipotesi speciale, tutti  i requisiti oggi elencati nella disposizione dell’articolo 16, le sole novità sono rappresentate:  
 
a) dall’omesso riferimento alle dimensioni dell’impresa.
Il ricorso alla delega è oggi valido a prescindere da riferimenti alla complessità organizzativa. Silenzio con il quale il legislatore riconosce l’efficacia preventiva di questo strumento a fronte dell’adempimento di obblighi di non comune difficoltà ;
 
b) dalla specificazione delle modalità di esercizio del residuo potere di controllo in capo al soggetto delegante (articolo 16 comma 3). Diposizione che, rimarcando il tratto organizzativo procedurale della disciplina regolativa generale, conferma altresì che con la delega il soggetto originariamente obbligato non si spoglia di ogni dovere in materia. Persiste, infatti, un obbligo di monitoraggio sull’attività svolta dal delegato, la cui omissione fonda, su nuove basi, la responsabilità penale del soggetto originariamente obbligato;
 
c) dall’inclusione delle determinazioni riguardanti la disciplina interna delle competenze dell’organigramma aziendale in tema di sicurezza e delle procedure di attuazione della gestione del rischio (articolo 28 comma 2 lett. d) nell’area dei doveri non delegabili del datore di lavoro (articolo 17 comma 1 lett. b)).
Una scelta dalla quale possono trarsi anche decisivi argomenti per rafforzare la percezione della primaria caratura dell’istituto della delega di funzioni (articolo 16), al di fuori del ristretto catalogo di obblighi da ultimo indicati, nel contesto della definizione dei tratti essenziali dei doveri di sicurezza propri degli organi apicali dell’impresa.

10. – Questioni aperte.
Stupisce, alla luce di queste brevissime considerazioni, la scelta legislativa di espungere dal novero dei doveri esclusivi del datore di lavoro la nomina del Mc.
A maggior ragione se si considera l’opposta conclusione a cui il Dlgs n. 81/08 è pervenuto in relazione all’analogo adempimento riguardante la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (articolo 17 comma 1 lett. b)).
Si legittima, così, un’evidente asimmetria in punto di determinazioni riguardanti la qualità dei saperi esperti sui quali la struttura aziendale deve fare affidamento per l’esaustivo adempimento degli obblighi di sicurezza.
Disarmonia che, nel merito, non è agevole comprendere anche in considerazione della già evidenziata omogeneità funzionale intercorrente tra la designazione del Mc e gli interventi di organizzazione interna dell’organigramma aziendale per finalità di sicurezza: stante, altresì, la naturale inerenza della prima a quella funzione di alta direzione che la nuova disciplina della sicurezza dei luoghi di lavoro riserva a chi riveste la qualifica datoriale.