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Responsabilità del responsabile di un centro di immersioni per infortunio mortale di istruttore subacqueo suo dipendente - Sussiste.

La Cassazione respinge il ricorso: il ricorrente ha violato tutti gli obblighi derivanti dalla sua posizione di garanzia consentendo ai sub suoi dipendenti, non solo di immergersi ad una profondità maggiore di quella consentita dall'autorità egiziana, ma di utilizzare bombole assolutamente inidonee e in più omettendo di fornire adeguata formazione e informazione.




LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARINI Lionello - Presidente -
Dott. CAMPANATO Graziana - Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
T.C. nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 5 maggio 2004 della Corte di Appello di Milano;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Patrizia Piccialli;
udito il Procuratore generale nella persona del sostituto Dott. Vittorio Martusciello che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore dell'imputato, avv.to Della Penna Lodovico del Foro di Milano, che ha concluso per l'accoglimento di tutti i motivi di ricorso.



FattoDiritto

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva T. C. responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica ex art. 589 c.p., commi 1 e 2, in danno di P.M. (fatto avvenuto in data 27.1.1996) e, ritenute le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
Il T. era stato chiamato a rispondere del reato in questione in qualità di responsabile del centro immersioni (diving center) "Sheikh Coast", facente capo alla società egiziana che gestiva anche il vicino albergo situato in località (OMISSIS) di (OMISSIS), presso il quale alloggiavano sia i clienti interessati ad effettuare le immersioni sia gli istruttori alle sue dipendenze.
Tra questi ultimi vi era P.M., che, nel pomeriggio del 27 gennaio 1996, nel tentativo di recuperare il corpo di altro istruttore (Stefano lotti), suo amico, scomparso nella mattinata, effettuava un' immersione, nel corso della quale, dopo aver raggiunto raggiungeva una profondità di mt. 80/90 (così nella sentenza di secondo grado), decedeva (il cadavere veniva recuperato qualche giorno dopo ad una profondità di circa mt. 103, come quello dell'altro istruttore, a circa mt. 117).
La causa della morte veniva individuata in una narcosi da azoto di livello molto elevato che comportava la perdita di coscienza prima che il subacqueo attivasse i meccanismi per la risalita rapida.
A carico del T. era stato formulato l'addebito di omicidio colposo, perchè, disattendendo gli inviti rivoltigli dalla impresa specializzata nei recuperi a grande profondità (la Impresub) e dal medico in servizio presso la camera iperbarica, organizzava e partecipava all'operazione di recupero del corpo dello lotti, consentendo ai sub, a lui legati da rapporto di lavoro subordinato, tra cui il P., già immersosi nella mattinata per lo stesso scopo, di immergersi ad una profondità maggiore di quella di 40 mt. - l'unica permessa dall'autorità egiziana - utilizzando le bombole del diving center, inidonee (per mancanza di elio nella miscela) ad immersioni di profondità fra i 60 ed i 100 mt.
L'imputazione era stata contestata al T. sul rilevo che, in violazione degli obblighi gravanti in virtù della sua posizione di garanzia - che traeva origine, oltre che dalla posizione di responsabile del diving center, da quella di datore di lavoro degli istruttori subacquei - aveva posto in essere i comportamenti colposi sopra individuati, omettendo altresì di fornire ai propri dipendenti una adeguata formazione informazione sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro e di richiedere ai predetti lavoratori l'osservanza delle predette norme in materia di sicurezza, così da cagionare la morte del P. (mentre in relazione all'omicidio colposo dell'altro sub, era stata invece dichiarata l'i istanza di procedimento presentata l'improcedibilità dell'azione penale per l'irregolarità della ex art. 341 c.p.p., dalle persone offese)..
La Corte di appello di Milano, con la sentenza impugnata, riteneva che il comportamento dell'imputato, al quale era attribuibile, nella qualità sopra indicate, la decisione di effettuare l'uscita per recuperare il corpo del primo sub, fosse "illogica, temeraria ed incomprensibile", tenuto conto della mancanza di urgenza di dare corso alle operazioni di ricerca, del mancato ascolto degli inviti alla prudenza rivolti dall'impresa Impresub, della sottovalutazione delle condizioni psicofisiche stressate del giovane P., che si era già immerso al mattino, e della impossibilità di procedere, in quelle condizioni di tempo e di visibilità, ad una mera ricerca di superficie, così come invece sostenuto dalla tesi difensiva.
I giudici di secondo grado affermavano altresì che il T., con un comportamento imprudente, aveva consentito al P. l'immersione stessa ad elevata profondità in dispregio ai più elementari accorgimenti derivanti tanto dalle norme vigenti in loco, quanto alle regole delle immersioni ripetitive universalmente osservate.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione il T., articolando due motivi.
Con il primo lamenta la mancanza di motivazione in relazione alla sussistenza del rapporto di causalità materiale tra la condotta dell'imputato e l'evento letale, che il primo giudice aveva ricondotto al comportamento del tutto illogico ed imprevedibile della stessa persona deceduta, con la conseguente manifesta illogicità di tutta la sentenza.
Dopo aver riportato il passo della sentenza di primo grado in cui il giudice afferma che il raggiungimento della quota di mt. 50- 60 e non di una superiore, appare compatibile con quella che viene ritenuta la causa del decesso del P., il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe arbitrariamente affermato che il P. - la cui immersione si colloca temporalmente tra quelle compiute da un altro sub e dallo stesso T. - doveva aver raggiunto una profondità di mt 89/90, omettendo qualsiasi motivazione su siffatto argomento, oggetto di ampia discussione in secondo grado.
In sostanza, si sostiene che, mentre secondo il primo giudice mancava ogni prova che il malore o perdita di conoscenza fosse avvenuto a quota vietata o pericolosa, essendo anzi possibile che fosse avvenuto ad una quota minima, il giudice di appello aveva omesso ogni motivazione sul rapporto di causalità esistente tra la violazione delle norme cautelari e l'evento, dando per accertato un dato (quello relativo alla profondità della immersione del P.) tutt'altro che incontrovertibile alla luce degli elementi probatori in atti.
Con il secondo motivo si duole della mancanza di motivazione anche con riferimento alla richiesta di concessione della declaratoria di prevalenza delle attenuanti che avrebbe comportato l'estinzione del reato per prescrizione.

Il ricorso è infondato.
 
Infondata, in particolare, è la censura concernente la ritenuta mancanza di motivazione in ordine al nesso di causalità materiale tra le condotte ascritte al prevenuto ed il decesso dell'istruttore P..
Il motivo si articola sulla contestazione di fatto della affermata individuazione, da parte del giudicante, della quota di profondità raggiunta dal P., cui è stato attribuito rilievo ai fini dell'eziologia del decesso.
Il ricorrente, sul punto, privilegia (rectius, preferisce) la ricostruzione operata dal giudice di primo grado, in ordine ad una diversa e minore profondità.
A ben vedere, la censura è inaccoglibile perchè dimentica di considerare che finanche il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Qui, oltre a non essere stati prospettati e tantomeno allegati gli atti del processo da cui dovrebbe desumersi il travisamento della prova in cui potrebbe essere incorso il giudicante nella ricostruzione dell'incidente, ci si limita molto sinteticamente ed in modo parcellizzato a rappresentare alcune espressioni contenute nelle deposizioni dei testimoni, sì da farne discendere l'arbitrarietà della ricostruzione operata dal giudicante.
Per converso, la decisione impugnata prospetta una ricostruzione della vicenda e, per quanto interessa, delle modalità di verificazione dell'occorso che appare solida e comunque idonea a reggere il vaglio di legittimità, non palesando macroscopiche illogicità intrinseche.
Basti riflettere, sul punto, alle considerazioni sviluppate non solo in ordine alle quote di profondità raggiunte nel contesto temporale della vicenda da altri sub, ma anche il rilievo della altrimenti sostanziale inutilità di immersioni a quote inferiori ai fini del recupero del corpo.
Non può trovare accoglimento anche l'altra censura, afferente la mancata concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza.
Va ricordato, in proposito, che, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione delle circostanze, nonchè per quanto riguarda in generale la dosimetria della pena, è da ammettere anche la cosiddetta motivazione implicita o con formule sintetiche (tipo "si ritiene congrua"), ma anche quando si impone un obbligo di motivazione espressa, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra le circostanze e, quindi, alla quantificazione della pena, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (cfr. Sezione 4^, 8 aprile 2008, Grimaldi).
In questa prospettiva, la decisione del giudicante non può essere qui sindacata, avendo sviluppato adeguata comunque non arbitraria motivazione sulla determinazione del trattamento sanzionatorio, comunque contenuto nei limiti minimi edittali, e, in particolare, sul giudizio di sola equivalenza tra le circostanze.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 maggio 2008.
Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2008