G.i.p. di Gorizia, ordinanza 22 luglio 2013 -  S.r.l. e profitto di rilevante entità: D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 13


 

Il giudice (omissis).
a scioglimento della riserva assunta all’udienza ex art. 47 d.lgs. 231/01 letta la richiesta, pervenuta in data 2 luglio 2013, con la quale il pubblico ministero ha avanzato richiesta di applicazione della misura interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio, nei confronti degli enti:
1) (A) S.R.L. con sede legale in …, in persona del legale rappresentante pro tempore
2) (B) S.R.L. con sede legale in …, in persona del legale rappresentante pro tempore
3) (C) S.R.L, con sede legale in …, in persona del legale rappresentante pro tempore
4) (D) S.r.l. con sede legale in …, in persona del legale rappresentante pro tempore
5) (E) S.R.L. con sede legale in …, in persona del legale rappresentante pro tempore
6) (F) S.R.L. con sede legale in ...
7) (G) S.R.L. con sede legale in …, in persona del legale rappresentante pro tempore
Tutte sottoposte a procedimento penale per responsabilità amministrativa in relazione al reato di cui all’art. 416 c.p. ascritto agli amministratori o dirigenti delle predette società e al delitto di truffa aggravata ai danni di ente pubblico, come contestato nella richiesta di applicazione di misura cautelare (omissis)
Sia in dottrina che in giurisprudenza, è ormai del tutto consolidata l’interpretazione delle norme dettate dal d.lgs. 231/01 nel senso che il giudizio relativo alla sussi-stenza dei presupposti per l’applicabilità di una misura cautelare interdittiva nei confronti di un ente, implica un percorso valutativo più complesso rispetto a quello previsto per le misure cautelari personali, posto che oltre ai presupposti indicati dall’art. 45 deve sussistere almeno una delle condizioni previste dall’art. 13 comma 1 e deve escludersi la ricorrenza di una delle ipotesi previste dall’art. 12 comma 1.
I presupposti di applicabilità previsti dall’art. 13 d.lgs. 231/01 per le sanzioni interdittive, infatti, si ritengono senz’altro necessari anche per le relative misure cautelari come è stato affermato in modo dei tutto prevalente sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (cfr. tra le altre «è da escludere l’adozione, in via cautelare e anticipata, di sanzioni interdittive che non potranno essere applicate in via definitiva all’esito del giudizio di merito: ciò in coerenza con la funzione strumentale propria della misura cautelare e in applicazione del principio di adeguatezza, proporzionalità e gradualità sanciti dall’art. 46» Cass. 10500/07). Estremamente precisa e chiara appare, inoltre, l’indicazione al giudice effettuata dalla Suprema Corte. Il d.lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 45, subordina l’applicazione delle misure cautelari interdittive alla sussistenza dei gravi indizi di responsabilità dell’ente. Tale valutazione deve essere riferita alla fattispecie complessa che integra l’illecito amministrativo attribuito all’ente e che comprende anche il rapporto di dipendenza con il fatto reato. Ne consegue che l’ambito di valutazione del giudice deve comprendere non soltanto il fatto reato, cioè il presupposto dell’illecito amministrativo, ma estendersi ad accertare la sussistenza dell’interesse o del vantaggio derivante all’ente, il ruolo ricoperto in concreto dai soggetti indicati dal d.lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 5, comma 1, lett. a) e b), nonché verificare se tali soggetti abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi (art. 5, comma 2); inoltre, nel giudizio cautelare rientrano anche le condizioni in-dicate dal d.lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 13, che subordina l’applicabilità delle sanzioni interdittive alla circostanza che l’ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità ovvero, in alternativa, che l’ente abbia reiterato nel tempo gli illeciti, articolo che al comma 3 esclude l’applicabilità delle sanzioni interdittive nei casi in cui l’autore del reato abbia commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi ovvero quando il danno patrimoniale sia di particolare tenuità (art. 12, comma 1). Infine, anche nella fase cautelare il giudice deve fondare la sua valutazione in rapporto ad uno dei due modelli di imputazione individuati dal d.lgs. n. 231 del 2001 cit., artt. 6 e 7, l’uno riferito ai soggetti in posizione apicale, l’altro ai dipendenti, modelli che presuppongono un differente onere probatorio a carico dell’accusa.
Si tratta di requisiti che concorrono su un piano di assoluta parità a configurare l’illecito amministrativo dell’ente, per cui l’accertamento della gravità indiziaria deve riguardare ciascun elemento della fattispecie complessa (Cass. 32627/06). Laddove sussistano tali presupposti è inoltre da verificare se ricorrono «fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede».
Anche in relazione al periculum individuato, la Suprema Corte ha fornito un’interpretazione specifica effettuando un chiaro collegamento con quanto disposto dall’art. 274 lett. c) c.p.p. «In realtà, tenendo conto che il procedimento cautelare previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001, è stato delineato sul modello di quello codicistico, deve ritenersi che anche in questo caso - come del resto per l’art. 274 c.p.p., lett. c) - l’esigenza cautelare emerga dalla va-lutazione di due tipologie di elementi, il primo di carattere obiettivo, relativo alle specifiche modalità e circostanze del fatto, l’altro di natura soggettiva, attinente alla “personalità” dell’ente. Così, per quanto riguarda il primo aspetto si tratterà di valutare la gravità dell’illecito, ad esempio considerando il numero di illeciti commessi, nonché gli stessi elementi che il d.lgs. art. 13 indica come condizioni per l’applicabilità delle sanzioni, come l’entità del profitto, ovvero lo stato dell’organizzazione dell’ente; d’altra parte, il fatto che si tratti di una persona giuridica non impedisce di considerarne la “personalità”, attraverso una valutazione che abbia come oggetto l’ente collettivo stesso, esaminandone, ad esempio, la politica d’impresa attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza» (Cass. 32626/06). Tenendo presenti tali parametri interpretativi possono essere analizzati gli elementi probatori acquisiti e verificare la sussistenza dei presupposti indicati. Innanzitutto, va sottolineato che la misura richiesta è certamente applicabile agli illeciti contestati in quanto sia l’art. 24 che l’art. 24 ter prevedono la sanzione interdittiva indicata dall’art. 9 comma 2 lett. c), corrispondente alla misura cautelare richiesta dal pubblico ministero.
Per quanto riguarda, invece, gli elementi costitutivi dei reati presupposto va rappresentato che il quadro probatorio è frutto di una complessa ed articolata attività in-vestigativa nel corso della quale sono state effettuate in-tercettazioni telefoniche ed ambientali, perquisizioni, sequestri, acquisizione di documentazione e audizione di persone informate sul fatti. (omissis)
Innanzitutto va indicata la composizione degli enti nei confronti dei quali il pubblico ministero avanza la richiesta, all’epoca della commissione dei reati, delle società così come emergeva dalle indagini, con le eventuali modifiche segnalate dalle difese delle società. (omissis)
Allo stato attuale, sono state modificate alcune strutture societarie come emerge dalla documentazione depositata dai difensori degli enti. (omissis)
Discende da tali analisi che all’epoca della commissione dei fatti - reato, gli autori degli stessi … svolgevano fun-zioni di rappresentanza o amministrazione e esercitavano anche di fatto la gestione ed il controllo dell’ente ai sensi dell’art. 5 lett. a). Gli altri due indagati … erano sottoposti alla direzione e alla vigilanza diretta, rispettivamente, degli amministratori della (C) e della (A) con i quali concorrevano nella realizzazione dei reati. Si tratta ora di verificare se i reati sono stati commessi nell’interesse o vantaggio dell’ente ai sensi dell’art. 5 prima parte.
In merito all’interpretazione di tali locuzioni, è del tutto prevalente l’orientamento secondo il quale la norma esprime concetti diversi che possono ricorrere alternati-vamente. In questo senso depongono la relazione mini-steriale e le pronunce della giurisprudenza di legittimità. Dal primo punto di vista, dalla relazione si evince che «il richiamo all’interesse dell’ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e si “accontenta” di una verifica ex ante; viceversa il vantaggio, che può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica abbia agito nel suo inte-resse, richiede sempre una verifica ex post». Nella mede-sima direzione si è espressa la Suprema Corte, laddove ha ritenuto che «In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, l’espressione nor-mativa, con cui se ne individua il presupposto nella commissione dei reati” nel suo interesse o a suo vantag-gio”, non contiene un’endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi di-stinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obbiettiva-mente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato “ex ante”, sicché l’interesse ed il vantaggio sono in concorso reale» (Cass. 3615/06). Può quindi concludersi affermando che l’interesse va valutato ponendosi da punto di vista del contesto temporale in cui si è svolta l’azione e, quindi, ex ante, tenendo conto del fatto che il risultato avuto di mira può rimanere una mera potenzialità. Il vantaggio, invece, deve essere individuato con un apprezzamento oggettivo necessariamente successivo all’evento reato ed ancorato ad un concetto materiale/patrimoniale.
Dal compendio in atti è certamente ravvisabile, nella condotta degli indagati, il perseguimento di un interesse delle rispettive società nel riuscire ad aggiudicarsi il maggior numero di gare pubbliche e quindi, nell’ottene-re commesse e ricavi per l’impresa. Non vi sono, altresì, dubbi in ordine alla circostanza che all’epoca di commissione dei fatti contestati e, soprattutto, fino all’ultimo dei reati fine accertati, nessuna delle società aveva adottato un modello organizzativo con le caratteristiche indicate dall’art. 6. Tale circostanza non è stata in alcun modo contestata dalle società costituitesi e comunque deriva dagli accertamenti effettuati dalla guardia di finanza (cfr. annotazione dd. 22 novembre 2011) e dal fatto che nell’ambito dei presente procedimento gli enti hanno depositato o modelli successivi a tale data o proposte o incarichi di redigerli. (omissis)
Corollario di tali considerazioni è che il reato di cui all'art. 416 c.p. è attribuibile anche ad una responsabilità degli enti nel confronti dei quali il pubblico ministero chiede l’applicazione della misura cautelare. Trattandosi di una misura interdittiva, però, come si è già detto, bisogna altresì verificare se sussista una delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 13 comma 1. Nel caso di specie, poiché non risultano a carico degli enti, ipotesi di reiterazione di illeciti (qualificata ai sensi dell’art. 20), si dovrebbe affermare che “l’ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità”. Sul punto il pubblico ministero, dopo aver richiamato la decisione della Cass. 44992/05, ha ritenuto la sussistenza di tale presupposizione sulla base “degli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza e riassunti nella annotazione conclusiva dal quale emergono le gare aggiudicata da ciascuna delle società o i lavori acquisiti illecitamente in sub appalto da ciascuna di esse”. In questo ambito va sottolineato che la norma non fa riferimento, come l’art. 19, al profitto del reato, ma al profitto che l’ente ha tratto dal reato. Ne discende che appare necessario verificare se ciascuna singola società per la quale viene chiesta la misura, ha ottenuto un’utilità economica o un accrescimento patrimoniale di rilevante gravità. Questa precisazione si rivela determinante nel caso che ci occupa in quanto il fatto illecito presupposto riguarda un delitto associativo. Il concetto di “rilevante entità”, che non contiene ulteriori specificazioni, rappresenta l’attuazione di quello che aveva richiesto il legislatore delegante laddove aveva imposto di prevedere l’applicazione di sanzioni interdittive nei casi di particolare gravità” (art. 11 lett. I, L. 300/00).
La genericità dei requisito ha determinato uno dei punti più discussi della disciplina della responsabilità degli enti, in ragione della necessità di individuare dei criteri che orientino l’interprete.
Innanzitutto può affermarsi che il profitto è identificabile in un’utilità economica la cui sussistenza va valutata ex post, in quanto deve verificarsi un effettivo accrescimento patrimoniale in capo all’ente. Tale conclusione risulta certamente coerente con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, che ha nel tempo espresso alcuni principi che appare necessario esaminare.
Secondo la decisione allegata dal pubblico ministero, che risulta la prima pronunciata dalla Suprema Corte sul punto, la norma richiede la certezza e la rilevanza del profitto e non l’esatta quantificazione di esso, per cui la rilevante entità può essere legittimamente dedotta dalla natura e dal volume dell’attività d’impresa, non occorrendo che i singoli introiti che l’ente ha conseguito dall’attività illecita posta in essere siano specificamente individuati, né che se ne conoscano gli importi liquidati. Pertanto, viene correttamente ritenuto di rilevante entità il profitto dell’ente per il fatto della sua partecipazione a numerose gare con assegnazione di appalti pubblici, avuto riguardo alle caratteristiche e alle dimensioni dell’azienda (Cass. 44992/05). Tale orientamento sembra essere, almeno in parte, superato dalle - pronunce successive che richiedono l’accertamento di elementi più specifici. Da un primo punto di vista, la Suprema Corte, dopo aver escluso che il profitto debba individuarsi nell’utile netto tratto dalla società e avere invece fatto riferimento «un concetto di profitto dinamico, più ampio, che arrivi a ricomprendere vantaggi economici anche non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizza-zione dell’illecito» ha indicato la necessità di una valu-tazione un può più approfondita, laddove ha affermato «con questo, ovviamente, non si vuole dire, così come sembra affermare l’ordinanza impugnata, che il profitto di cui all’art. 13 cit. corrisponde, quasi automaticamente, al valore dei contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, potendo sostenersi semmai che tali valori rappresentino comunque un importante indizio a favore della rilevanza dei profitto» (Cass. 32627/06). È il caso di osservare che, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto sussistente il requisito a fronte di una posizione di quasi monopolio raggiunta dalla società indagata nel mercato e di un’acquisizione di appalti per un per un valore reale di oltre 40 milioni di euro. La più recente delle decisioni della Suprema Corte, relativa ad un procedimento penale riguardante un caso dei tutto analogo a quello che ci occupa, ossia un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, volti all’aggiudicazione di appalti pubblici, dopo aver richiamato un concetto di profitto dinamico, come quello individuato dalla citata sentenza 32627/06, ha effettuato una precisazione che appare però estremamente importante da un punto di vista pratico in quanto ha ritenuto «in via di principio corretta l’opzione adottata dal giudice della cautela, e confermata in appello, che ha determinato in via indiziaria il profitto riveniente alla società degli illeciti, e rilevante ai fini in esame, in una ragionevole percentuale del valore della commessa illecitamente acquisita. Resta peraltro il problema che deve comunque trattarsi di profitto che la società abbia sia pure a livello di gravità indiziaria concretamente “tratto” dal reato....-la ricordata locuzione della legge fa infatti chiaro riferimento a qualcosa che sia stato già concretamente incamerato dalla società ... non può evidentemente bastare la mera individuazione di crediti, in ordine al quali, per definizione è escluso l’effettivo conseguimento del dovuto» (Cass. 13061/13). Appare evidente che in questo caso si presuppone un’analisi ben più articolata rispetto a quella rappresentata dalla prima sentenza citata, in quanto la Suprema Corte ha individuato come parametro legittimo una quota del valore della commessa e poi ha richiesto una verifica, seppure a livello indiziario, in ordine all’effettivo incameramento di un utile. Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito è da riportare la decisione del Tribunale di Milano che, dopo aver richiamato la sentenza n. 44992/05 ha comunque ritenuto che si debba far riferimento ad valore del 10-15% del valore della commessa (sentenza n. 10088/11). Si può dedurre da tale breve analisi che la giurisprudenza della Suprema Corte abbia individuato la necessità di un’analisi specifica degli elementi concreti relativi ai casi trattati, laddove ha fatto riferimento ai “valore reale” delle commesse, come indizio della rilevanza del profitto, ed alla necessità di accertare che questi rappresenti un’utilità effettivamente “tratta” dal reato. Venendo ai caso che ci occupa, innanzitutto va sottolineato che anche il delitto associativo può determinare un profitto come ha ritenuto la Suprema Corte, con riferimento all’ipotesi della confisca, la quale ha espressamente stabilito che “il profitto inteso come l’insieme dei benefici tratti dall’illecito ed a questo intimamente attinenti, può consistere nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali è dei tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata proprio dall’esistenza di una stabile struttura organizzata e da un comune progetto delinquenziale” (Cass. 5869/11). Sulla base di queste premesse e tenendo conto degli indirizzi esposti, bisogna subito rilevare quelli che sono gli elementi valutativi a disposizione di questo giudice. Invero, non risultano agli atti accertamenti specifici sugli esiti delle aggiudicazioni o dei subappalti individuati nel corso delle indagini né verifiche contabili e documentali precise che indichino le somme incamerate dagli enti. Del pari, non sono state effettuate delle verifiche in merito all’attività concretamente svolta da ciascun ente con l’individuazione di un’analisi dei ricavi dello stesso, in modo da comprendere le fonti principali degli stessi. L’unica emergenza probatoria utilizzabile nella presente valutazione appare quella fornita dall’annotazione dd. 6.06.2013 laddove sono stati indicati i volumi d’affari dell’anno 2011 nei seguenti termini:
(E) S.r.l. € 8.853.512
(C) € 4.840.377
(A) € 9.750.811
(B) € 7.108.761
(F) S.r.l. € 3.467.622
(D) € 1.604.149
(G) € 1.051.335
Ciò posto, alla luce dei parametri valutativi sopra evidenziati appare necessario verificare quante gare si sia aggiudicata, direttamente o in subappalto, ogni società interessata.
Innanzitutto, può rilevarsi che le indagini hanno riguardato un numero considerevole di gare pubbliche e, in particolare, che l’informativa finale ha analizzato circa n. 30 gare pubbliche bandite dal maggio 2010 all’agosto 2011. Dalle risultanze istruttorie in atti, con l’ordinanza dd. 27 maggio 2013 già richiamata, si è ritenuto che 5 gare sono state aggiudicata ad uno degli enti oggi interessati in forza di accordi collusivi posti in essere in esecuzione dell’accordo associativo. In particolare: (omissis)
Ulteriormente, sono emersi elementi concreti, in ordine ad un coinvolgimento indiretto degli enti che hanno avuto il subappalto dei lavori, sebbene, come si osserverà, non vi sono sul punto accertamenti specifici che consentano di individuare concretamente l’entità di tali lavori ed il valore corrispondente che ne può aver tratto ciascuna società.
In ogni caso in questo senso possono indicarsi: (omissis)
Infine, sono stati acquisiti alcuni indizi dai quali emergeva un possibile subappalto di gare aggiudicata a terzi ma in ordine alle quali non appare concretamente individuabile l’esito. (omissis)
Riassumendo i dati appena esposti, si possono eviden-ziare alcuni punti sufficientemente precisi nell’analisi che ci occupa:
- la (D) S.r.l. e la (G) non hanno ottenuto alcun lavoro né in aggiudicazione diretta né in subappalto
- la (A) S.r.l. nel 2010 è risultata aggiudicataria dell’ap-palto sub 1 ed è stata autorizzata ad effettuare il subap-palto nell’ambito della gara sub 6);
- la (B) è risultata aggiudicataria dell’appalto sub 3) nel 2011
- la (C) S.r.l. si è aggiudicata le gare n. 2) e 4) e poi ha effettuato parte dei lavori nell’ambito degli appalti sub n. 1) e 9)
- la (E) ha effettuato dei lavori in subappalto nelle gare n. 7) e 8)
- la (F) S.r.l. si è aggiudicata, in A.T.I. con altra società, la gara n. 5 e poi ha effettuato parte dei lavori nell'ambito dell’appalto n. 9).
Ne discende che fin d’ora può escludersi che la (D) S.r.l. e la (G) abbiano ottenuto profitti per effetto dell'illecito amministrativo contestato sub a). Può, invece, individuarsi un utile economico riportato dalle altre società, in merito al quale, va effettuata la valutazione di “rilevanza”.
A tal fine si impongono alcune considerazioni, soprattutto in relazione all’individuazione dell’effettivo incremento patrimoniale ottenuto da ciascun ente, che non risulta accertato da un punto di vista contabile. Innanzi tutto come già anticipato, in molti casi è stato accertato che vi sono stati dei subappalti - sia a sodali che a terzi - senza però l’identificazione specifica dell’entità dei lavori svolti e del valore degli stessi. Ciò comporta che, certamente il prezzo di aggiudicazione non indica l’incremento patrimoniale effettivo per l’ente che, quindi, non può essere automaticamente preso in considerazione per valutare un rapporto con il volume d’affari complessivo. Né peraltro, si individua un parametro più sicuro in ragione dell’assenza di riscontri contabili sul punto e dell’inaffidabilità degli importi indicati nelle fatture acquisite o allegate, che non sembrano corrispondere allo stato di fatto che risultava dalle indagini. In questo senso, va sottolineato che la (F) ha depositato in udienza delle fatture in merito ai lavori eseguiti per la (I) S.p.A., dalle quali emergerebbero dei lavori corrispondenti al valore con-sentito di subappalto. In verità, come risulta chiaramente dagli esiti delle indagini esposti alla trattazione al capo h) dell’ordinanza, la formale aggiudicataria (I) S.p.A. non era presente nel cantiere né era interessata effettivamente ai lavori che sono stati svolti. Nel medesimo senso si pongono dubbi concreti per la gara n. 1 in quanto emerge dalla documentazione acquisita che sono stati comunicati dei subappalti effettuati alla ditta … ed alla (C) (in relazione a quest’ultima vi sono anche tre fatture con ricevuta bonifico). Per quanto concerne la gara n. 3, si pongono dubbi concreti in ordine all’individuazione dell’ente che ha effettuato i lavori posto che il … aveva manifestato, alla fine, la volontà di darlo in subappalto in quanto aveva ottenuto un altro lavoro. In merito alla gara n. 4, invece, risulta chiaramente che il lavoro è stato dato in subappalto alla (I) quale contropartita di quello effettuato in relazione gara indetta dalla … S.p.a. In questo senso è stata acquisita l’istanza di autorizzazione per affidamento in subappalto formulata dalla (C) ma vi è anche una registrazione tra … (cfr. progr. 596 dd. 4 giugno 2011 ris. 78/11).
Dal punto di vista meramente numerico, si deve rilevare che sulla base del raffronto tra gare analizzate e gare aggiudicato, non è individuabile una posizione di mono-polio, o di prevalente dominio sul mercato, dell’intero gruppo associativo né tanto meno di una o alcune delle società individuate.
Orbene, il quadro delineato non fornisce una rappresen-tazione chiara e precisa dell’incremento patrimoniale conseguito da ciascun ente per effetto della commissione del reato accertato. Ulteriormente, sono a disposizione solo i dati relativi ai volumi d’affari del 2011 ma non si comprende se nella somma indicata rientrino anche i valori delle gare ottenute nel 2010 e di tutte quelle del 2011. La valutazione complessiva generale che si può effettuare porta ad affermare che le società che hanno tratto un profitto dal reato non sono di piccole dimensioni e che, in relazione al valore numerico del volume d’affari, hanno certamente incamerato lavori nettamente superiori alle commesse accertate. Inoltre, come si è già sottolineato, sebbene le stesse hanno partecipato a numerose gare, sono risultate aggiudicatarie o comunque interessate, al numero limitato di lavori sopra specificato, nella maggior parte dei casi di valore nominale modesto.
Alla luce di tali risultanze e delle considerazioni esposte deve concludersi ritenendo che non vi sia un quadro di gravità indiziaria in merito alla sussistenza del presuppo-sto di cui all’art. 13 comma 1 d.lgs. n. 231/01. Poiché tale elemento è condizione di applicabilità della misura richiesta, la sua assenza ne preclude l’accoglimento a prescindere dalla verifica circa la sussistenza degli ulte-riori requisiti indicati dall’art. 45.

 

P.Q.M.

 

Rigetta la richiesta.