Cassazione Penale, Sez. 4, 07 marzo 2014, n. 11162 - Manovratore privo di patentino e sovraccarico di ore lavorative: la saltuaria presenza nel luogo di lavoro non esclude la responsabilità di un datore di lavoro



Presidente Brusco – Relatore Iannello

 

 

Fatto


1. S.B. e E. venivano tratti a giudizio avanti il Tribunale di Udine per rispondere del reato p. e p. dagli artt. 113 e 590 cod. pen. perché, nelle rispettive qualità - la prima di legale rappresentante della R. S.r.l.; il secondo di direttore dell'ufficio di Udine che materialmente dava istruzioni in ordine alle mansioni da svolgere - creavano un antecedente causale all'infortunio di M.S. il quale, impiegato nella movimentazione di un convoglio composto da 30 carri merci proveniente dalla fonderia ABS e diretto allo scalo Partidor, scivolava dal predellino finendo nei binari e sbattendo la testa con ciò procurandosi una lesione personale consistita nella frattura della seconda vertebra cervicale e nella lussazione della quarta vertebra cervicale con postumi invalidanti nella misura del 18%.
Si contestava infatti agli imputati di aver violato le norme poste a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro consentendo che il M. svolgesse attività di manovratore pur essendo privo del prescritto patentino e inoltre lavorasse in condizioni di estremo sovraccarico venendo impiegato in attività lavorativa sino a 300 ore mensili (rispetto alle 168 ore mensili previste) e per 14 ore nella giornata precedente l'infortunio, in violazione del decreto d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro).
La responsabilità penale di entrambi i prevenuti, riconosciuta in primo grado, era confermata dalla Corte d'appello di Trieste, che, disattesi gli appelli proposti dagli imputati, in accoglimento di quello proposto dal procuratore generale distrettuale, aumentava la pena inflitta a S.E. revocando nei suoi confronti la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria.
2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione entrambi gli imputati, personalmente, sulla base di due motivi.
2.1. Con il primo motivo deducono vizio di motivazione censurando il convincimento espresso nella sentenza impugnata secondo cui essi dovevano ritenersi perfettamente consapevoli della situazione di rischio in cui versava il lavoratore.
Rilevano che, di contro, dagli atti dibattimentali era emerso come S.B. avesse ottemperato regolarmente a quanto previsto dall'art. 2087 c.c., alle prescrizioni in materia di sicurezza e prevenzione e non fosse mai presente nell'unità locale di (…) che era autonomamente gestita. Quanto a S.E. rilevano che dagli atti emergeva anche che egli non era sempre presente presso lo stabilimento di (…), e soprattutto non lo era il giorno del sinistro.
Lamentano che pertanto la motivazione è carente poiché non spiega come essi avrebbero potuto impedire che il M. manovrasse e ancor prima perché non da conto di come sarebbe avvenuto l'infortunio, non tenendo in considerazione in particolare le dichiarazioni del M. che dice di essere scivolato mentre pensava alle etichette, di avere sempre avuto a disposizione i presidi antinfortunistici e di non aver mai parlato di stanchezza.
2.2. Con un secondo motivo deducono violazione di legge penale e segnatamente degli art. 192, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen., per essere la condanna fondata su prova indiziaria priva dei necessari requisiti della gravità, univocità e concordanza e dunque sulla base di elementi inidonei a giustificarla al di la di ogni ragionevole dubbio.
Sotto altro profilo, con riferimento alla posizione di S.E. , deducono erronea applicazione dell'art. 133 cod. pen. con riferimento alla revoca del beneficio della conversione della pena, in quanto disposta sul presupposto di una precedente condanna per omicidio colposo, senza che fosse prodotta la relativa sentenza che, secondo il ricorrente, avrebbe meglio chiarito le circostanze dei fatti, peraltro risalenti nel tempo, e la personalità dell'imputato.

Diritto

3. Il ricorso è infondato.
Le osservazioni dei ricorrenti non scalfiscono l'impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa, ma appaiono, piuttosto, ripetitive di argomenti, già disattesi in termini congrui e logici dai giudici di merito.
In particolare, la ricostruzione del fatto risulta incensurabile in questa sede, non ravvisandosi alcun contrasto disarticolante tra le emergenze processuali e il ragionamento seguito.
La Corte d'appello, invero, ha dato adeguatamente conto del proprio convincimento, evidenziando tra l'altro, per quello che qui maggiormente rileva in relazione agli aspetti della vicenda specificamente investiti dei motivi di ricorso, che:
- in ordine al rilevante eccesso di ore lavorate e all'assenza di giorni di riposo, nonché in ordine all'impiego del giorno precedente quello dell'infortunio, confortano l'ipotesi d'accusa sia gli elementi documentali rimessi agli atti e relativi ai turni di lavoro e alle presenze, sia le conformi e in equivoche deposizioni della stessa persona offesa nonché dei testi Ma. , P. e N. ;
- non è poi contestabile la posizione dell'infortunato al momento dell'incidente perché, al posto del manovratore e nell'esercizio delle relative funzioni, era stato visto anche dai testi P. e Mi. ; del resto, egli dichiara di essere scivolato da un predellino del carro di testa che era appositamente predisposto per il manovratore e che P. si era allarmato proprio perché non sentiva più, via radio, le comunicazioni del M. ;
- la circostanza che S.B. non era quasi mai presente nell'unità locale di Udine e si limitava a compiti meramente amministrativi, non vale ad escluderne la responsabilità, discendendo essa dalla sua qualifica di datore di lavoro come tale certamente tenuto a conoscere e governare l'organizzazione del lavoro e dei turni dei dipendenti, tanto più considerando che la predetta era perfettamente a conoscenza del dato di causa più rilevante, e cioè del numero esorbitante di ore lavorate dai dipendenti, se non anche delle loro specifiche funzioni, posto che i dati le erano direttamente comunicati dall'impiegata amministrativa N.M. , e che sulla base di tali dati erano anche predisposti i pagamenti dei lavoratori;
- altrettanto deve affermarsi quanto a S.E. atteso che egli, in quanto direttore dello stabilimento udinese, era proprio colui che materialmente impartiva le istruzioni ai dipendenti e aveva incaricato la persona offesa di svolgere quei compiti di manovratore per i quali non era abilitato (testi M. , P. e N. ): ad ancor maggior ragione, dunque, non giova all'imputato la presunta, sua, saltuaria presenza in azienda non essendo pensabile che una decisione strategica, quale quella di far lavorare i dipendenti un numero esorbitante di ore e di non concedere riposi non fosse riconducibile alla società, al datore di lavoro e al di lei padre e direttore di stabilimento, S.E. .
Con tali ampie e stringenti considerazioni, i motivi di ricorso non si confrontano minimamente, risolvendosi in buona sostanza nella mera apodittica negazione della contestata responsabilità penale.
4. Ad analoghi rilievi si espone anche il secondo motivo di ricorso, nella sua prima parte in sostanza meramente e ancor più sinteticamente ripetitivo della prima generica censura.
Appare evidente, infatti, che - in mancanza di precisazione del motivo per cui i vari elementi istruttori raccolti debbano ritenersi dotati di debole valenza indiziaria ovvero dei motivi per cui il collegamento inferenziale che da essi conduce il giudice a quo alla affermazione della responsabilità degli imputati debba ritenersi debole sul piano logico - la dedotta violazione dei canoni di cui all'art. 192, comma 2, cod. proc. pen. in null'altro si risolva se non in una generica contestazione del convincimento espresso o, tutt'al più, nella mera sintetica riproposizione delle medesime prospettazioni difensive già svolte nel precedente motivo e della cui manifesta infondatezza già s'è detto.
Tanto deve dirsi anche della dedotta violazione della regola di giudizio dell'oltre il ragionevole dubbio.
Questa invero rappresenta nient'altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento inferenziale con cui il giudice ricollega, sulla base delle prove raccolte, il fatto concreto alla ipotizzata spiegazione causale.
Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica ed in grado pertanto di supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa dell'imputato ed evento con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l'evento possa essere stato determinato da una causa diversa.
Né ad una diversa conclusione sul punto può indurre la modifica introdotta dall'art. 5 della legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell'art. 533 del codice di procedura penale con la disposizione secondo cui “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Secondo l'opinione prevalente in giurisprudenza, infatti, tale novella non ha avuto sul punto un reale contenuto innovativo, non avendo introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, essendosi invece limitata a codificare un principio già desumibile dal sistema, in forza del quale il giudice può pronunciare sentenza di condanna solo quando non ha ragionevoli dubbi sulla responsabilità dell'imputato. La novella, dunque, non avrebbe inciso sulla funzione di controllo del giudice di legittimità che rimarrebbe limitata alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento, con l'impossibilità di procedere alla rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della sentenza e dunque di adottare autonomamente nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (v., in tal senso, tra le ultime pronunce, Sez. 5, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579, la quale ha precisato che tale regola di giudizio impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità; cfr. anche in tal senso Sez. 1, n. 41110 del 24/10/2011, Javad, Rv. 251507).
5. Generica è infine la doglianza in punto di trattamento sanzionatorio, non essendo spiegato per quale motivo la precedente condanna, in sé non contestata, dovrebbe ritenersi elemento insufficiente a giustificare la risposta revoca della conversione della pena.
6. Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.