SENATO DELLA REPUBBLICA
XIII LEGISLATURA

DOCUMENTO APPROVATO DALLA 11ª COMMISSIONE PERMANENTE
(Lavoro, previdenza sociale)
nella seduta del 22 luglio 1997

Relatore SMURAGLIA

A CONCLUSIONE DELL’INDAGINE CONOSCITIVA
promossa dalla Commissione stessa nella seduta del 7 novembre 1996; svolta dal Comitato paritetico della 11ª Commissione permanente (lavoro e previdenza sociale) del Senato della Repubblica e della XI Commissione permanente (lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati nelle sedute del 21 e 28 gennaio 1997; 4 e 11 febbraio 1997; 3, 4 e 11 marzo 1997; 8 aprile 1997; 8, 13, 19, 20, 26 e 27 maggio 1997; 3, 6, 17 e 24 giugno 1997; 1 luglio 1997; con sopralluoghi a Terni e Perugia (17 febbraio 1997); a Ravenna (28 febbraio 1997); a Genova (14 marzo 1997); a Vicenza e Arzignano (4 aprile 1997); a Brescia (5 aprile 1997); a Bari e Taranto (16 e 17 maggio 1997); a Melfi (23 maggio 1997), e conclusa dalla Commissione nelle sedute del 16 e 22 luglio 1997

SULLA SICUREZZA E L’IGIENE DEL LAVORO
(articolo 48, comma 6, del Regolamento)

Comunicato alla Presidenza il 28 luglio 1997


INDICE

Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro
ALLEGATO. – Documento di sintesi dei lavori del Comitato paritetico delle Commissioni lavoro del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, per l’indagine conoscitiva sulla sicurezza e igiene del lavoro
CAPITOLO I. – Il Comitato paritetico delle Commissioni lavoro del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, per l’indagine conoscitiva sulla sicurezza e igiene del lavoro
1. La costituzione del Comitato e la formulazione del programma
2. Sintesi del lavoro svolto, in sede e nei sopralluoghi
CAPITOLO II. – Andamento e articolazione del fenomeno degli infortuni sul lavoro, delle malattie professionali e delle malattie da lavoro
1. I dati sugli infortuni
2. I dati sulle malattie professionali
3. I dati sulle malattie da lavoro
4. Prime valutazioni, anche a confronto con le risultanze della Commissione «Lama»
5. I costi della «non prevenzione» e le indicazioni degli altri Paesi
CAPITOLO III. – Le cause
1. Vecchi e nuovi rischi:
a) lavoro nero, caporalato, appalti
2. (segue): b) I rischi «classici»
3. I nuovi fattori di rischio
4. Il problema delle concause
5. Il comportamento dei lavoratori
CAPITOLO IV. – La disciplina normativa e la sua attuazione
1. Il sistema normativo e la sua evoluzione
2. Problemi e difficoltà di attuazione:
a) gli organi centrali pubblici
b) I soggetti privati
3. Gli altri Paesi dell’Unione europea
CAPITOLO V. – Gli organi della prevenzione
1. Gli organi centrali
2. Gli operatori periferici: le USL e la funzione di vigilanza
3. Ispettorati del lavoro ed altri organismi
4. Prescrizione, funzione giudiziaria e sistema sanzionatorio
CAPITOLO VI. – Le principali figure del sistema di prevenzione
1. Il responsabile del sistema di prevenzione, interno ed esterno; il problema dei consulenti; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
2. La formazione
3. I medici competenti
CAPITOLO VII. – La partecipazione dei lavoratori alla prevenzione e le relazioni sindacali
1. La linea partecipativa del decreto legislativo 626 del 1994
2. Gli accordi interconfederali
3. L’elezione o designazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
4. Gli organismi paritetici
CAPITOLO VIII. – Raccolta e circolazione dei dati e sistema informativo
1. Difficoltà nella raccolta ed elaborazione dei dati
2. Coordinamento, anche per la ricerca
3. L’informazione
CAPITOLO IX. – Indicazioni conclusive e operative
1. Una situazione preoccupante: necessità di una strategia di interventi a tutto campo
2. Completare e coordinare il sistema normativo
3. Rilanciare il ruolo dell’Amministrazione pubblica, nel suo complesso (ministeri, organi e istituti centrali, organismi periferici)
4. Migliorare il livello quantitativo e qualitativo degli addetti; potenziare la formazione
5. Favorire il rispetto delle norme di prevenzione
6. Migliorare e innovare il sistema dell’informazione, della raccolta e circolazione dei dati
7. Realizzare appieno la linea partecipativa del sistema di prevenzione
8. Realizzare una visione «globale» della prevenzione, con un grande impegno culturale
9. Approfondire le conoscenze sulla specificità del lavoro femminile, ai fini della prevenzione
10. Approfondire l’analisi del rapporto costi-benefici della prevenzione
11. Un salto di qualità, verso una vera «cultura della prevenzione»

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ONOREVOLI SENATORI. – La Commissione lavoro e previdenza sociale del Senato,
a conclusione dell’indagine conoscitiva sulla sicurezza e l’igiene del lavoro;
visto l’ampio ed efficace lavoro svolto dal Comitato paritetico costituito per lo svolgimento dell’indagine, con numerosissime audizioni, raccolta di dati e documenti, sopralluoghi;
apprezzate le valutazioni e le indicazioni anche operative contenute nel documento di sintesi dei lavori del Comitato stesso;
considerato che il documento ha raccolto il consenso unanime dei componenti del Comitato, del quale facevano parte parlamentari della Commissione lavoro della Camera e della Commissione lavoro del Senato, rappresentati in modo paritetico e proporzionalmente alla consistenza dei Gruppi politici;
ritenuta l’importanza e l’opportunità di affidare al lavoro svolto il ruolo di un preciso punto di riferimento per tutti coloro, soggetti privati e pubblici, che sono interessati alla materia della prevenzione;
fa proprie tutte le valutazioni e conclusioni emerse dall’indagine, così come elaborate nel documento di sintesi dei lavori del Comitato paritetico, che viene allegato al presente documento e ne costituisce parte integrante;
in particolare, considerato che ancor oggi il numero degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali continua a collocarsi a livelli inaccettabili, mentre tende ad aumentare il numero delle malattie da lavoro, ancora in parte poco conosciute, e che pertanto è indispensabile che vengano realizzate ed adottate tutte le misure necessarie per contenere ed infine abbattere un fenomeno così grave e così dannoso per l’intera collettività, ribadisce la necessità di un impegno a tutto campo dell’amministrazione pubblica, in tutti i suoi organi centrali e periferici, degli operatori, degli addetti, dei soggetti privati, delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, affinché tutto il sistema di prevenzione entri finalmente a regime, con l’adozione di tutte le misure necessarie e col pieno rispetto delle leggi vigenti, ma anche con l’aiuto di una vasta campagna d’informazione e della realizzazione di sistemi di formazione e di aggiornamento veramente efficaci e coordinati;
ravvisa altresì la necessità che l’adozione delle misure di sicurezza imposte dalla normativa vigente corrisponda ad una crescente convinzione che la prevenzione non solo determina oneri minori, nel complesso, ma addirittura produce benefici, prima di tutto sul piano umano, ma poi anche sotto il profilo economico; sottolinea pertanto l’esigenza, ampiamente evidenziata nel documento del Comitato, di concentrare ogni sforzo sulla formazione di una diffusa cultura della prevenzione, come presupposto indispensabile per ottenere risultati concreti nella difficile battaglia per la tutela della salute e dell’integrità fisica di chi lavora;
ribadisce il proprio impegno a compiere un’attenta e continuativa opera di monitoraggio del fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali e collegate al lavoro, nonché a promuovere e verificare gli interventi individuati come necessari nel corso dell’indagine ed evidenziati nel documento del Comitato.

ALLEGATO

DOCUMENTO DI SINTESI DEI LAVORI DEL COMITATO PARITETICO DELLE COMMISSIONI

11ª (Lavoro e previdenza sociale) del Senato della Repubblica
e
XI (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati
(Estensore: senatore SMURAGLIA)



CAPITOLO PRIMO
IL COMITATO PARITETICO DELLE COMMISSIONI LAVORO DEL SENATO DELLA REPUBBLICA E DELLA CAMERA DEI DEPUTATI, PER L’INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SICUREZZA E L’IGIENE DEL LAVORO

1. La costituzione del Comitato e la formulazione del programma
Il 2 ottobre 1996 si verificava a Genova, sulla nave metaniera «Snam Portovenere» un gravissimo infortunio, nel quale trovavano la morte sei lavoratori, nel corso delle prove tecniche di collaudo della nave stessa, nel Mar Ligure. La tragedia provocava forte emozione anche nell’opinione pubblica, oltre che nelle istituzioni, nelle organizzazioni sociali, negli operatori, nei lavoratori, non solo per le sue terribili dimensioni, ma anche perché questa volta, e a differenza del tragico infortunio di Ravenna del 1987, nel quale erano rimasti uccisi ben tredici lavoratori, il fatto si verificava su una nave di recentissima costruzione, addirittura in fase di collaudo e con la disponibilità di sofisticati apparati di sicurezza.
Le organizzazioni sindacali di categoria chiedevano la costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sicurezza nei posti di lavoro. Ma da varie parti si riteneva preferibile un’indagine conoscitiva, anche per non costituire ulteriori organismi e per non sovrapporsi alle indagini di competenza dell’Autorità giudiziaria.
Il 7 novembre 1996, su proposta del Presidente, senatore Smuraglia, la Commissione lavoro del Senato deliberava di procedere ad una indagine di particolare ampiezza, sui problemi della sicurezza, dell’igiene del lavoro e della prevenzione in genere. L’indagine veniva prontamente autorizzata dal Presidente del Senato (12 novembre 1996). Nella fase di determinazione del programma, si veniva peraltro a conoscenza che ad analoga iniziativa aveva deciso di procedere l’Ufficio di Presidenza della Commissione lavoro della Camera; che la Commissione l’aveva fatta propria a seguito anche di autorizzazione del Presidente della Camera (28 novembre 1996). Venivano allora avviati contatti tra i Presidenti delle rispettive Commissioni, al fine di evitare inutili duplicazioni e di procedere unitariamente. Raggiunta agevolmente un’intesa di massima, la questione veniva sottoposta ai Presidenti del Senato e della Camera, con la proposta formale di istituire un Comitato paritetico, che avrebbe dovuto cominciare ad operare non appena conclusi i lavori parlamentari relativi alla legge finanziaria.
In data 12 dicembre, il Presidente del Senato, anche a nome del Presidente della Camera, comunicava di aver raggiunto col medesimo le intese necessarie e che pertanto l’indagine veniva affidata ad un Comitato paritetico costituito da 12 senatori e 12 deputati, con i consueti criteri anche di proporzionalità vigenti per la formazione degli organi bicamerali; il Comitato stesso, che avrebbe avuto sede presso la Camera cui apparteneva la Commissione che per prima aveva deliberato l’indagine (nella fattispecie, il Senato), avrebbe elaborato il programma dei lavori, da concludere entro quattro mesi dalla sua costituzione, lasciando poi integra l’autonomia di ciascuna delle due Commissioni di valutarne i risultati.
In effetti, il Comitato veniva costituito d’intesa tra le due Commissioni (componenti, per il Senato, i senatori Smuraglia, Pelella, Gruosso, Tapparo, Mundi, Cortelloni, Mulas, Tabladini, Montagnino, Duva, Napoli, Ripamonti; e per la Camera, gli onorevoli Scrivani, Cordoni, Stelluti, Santori, De Luca, Iacobellis, Polizzi, Colombo, Delbono, Bastianoni, Strambi).
In una seduta congiunta del 20 dicembre 1996, gli Uffici di Presidenza delle due Commissioni designavano all’unanimità l’Ufficio di Presidenza del Comitato (Presidente, il senatore Smuraglia; Vicepresidenti, gli onorevoli Santori e Delbono; Segretari, gli onorevoli Strambi e Bastianoni).
Approvata la legge finanziaria, il Comitato poteva insediarsi e cominciare il suo lavoro. Su proposta del Presidente, nella seduta del 14 gennaio 1997 veniva approvato il programma dei lavori, con le integrazioni e le precisazioni emerse nel corso della discussione. Programma che può così sintetizzarsi:
1) Acquisire notizie, informazioni e documentazione:
a) sull’andamento degli infortuni sul lavoro, con dati riferiti anche ai livelli di occupazione, suddivisi per settori e per aree geografiche e con comparazione anche con dati relativi ad altri Paesi;
b) sull’andamento delle malattie professionali tabellate e sulle malattie da lavoro in genere, acquisendo anche elementi di comparazione con l’andamento del fenomeno in altri Paesi;
c) sulle cause principali degli infortuni e delle malattie (vecchi e nuovi rischi, tipologie tradizionali e tipologie più recenti e meno conosciute);
d) sul funzionamento e sull’adeguatezza degli organi di sorveglianza prevenzionale e di vigilanza sanitaria e in particolare degli operatori delle USL, con riferimento ai dati numerici, agli organici, alle strumentazioni e apparecchiature disponibili ed alle competenze, ecc.; e) sul funzionamento e sull’adeguatezza degli Ispettorati del lavoro, con riferimento agli organici, alle dotazioni strumentali ed alle competenze;
f) sui rapporti e sulle eventuali forme di collaborazione o di interferenza tra i vari organi di sorveglianza e controllo;
g) sulle modalità e sulle effettive possibilità di sorveglianza per le aziende di modesta entità;
h) sul quadro complessivo della normativa vigente, con particolare riferimento all’introduzione nel nostro sistema di diverse direttive comunitarie e sui rapporti fra i decreti legislativi che le recepiscono e la normativa preesistente;
i) sui problemi relativi alla attuazione ed alla concreta applicazione della normativa vigente, sia nel settore privato che in quello pubblico;
j) sulla funzionalità ed efficacia, in concreto, del sistema di prescrizioni introdotto con il Capo II del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758;
k) sugli effetti esterni ed ambientali delle produzioni pericolose o nocive e sull’adozione di misure di sicurezza negli ambienti non solo di lavoro, ma anche di vita;
l) sul funzionamento dei presidi sanitari e di soccorso nelle aziende e sui loro rapporti con le USL;
2) Aggiornare i dati, gli accertamenti di fatto e le valutazioni contenute nella relazione conclusiva dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle aziende istituita con deliberazione del Senato del 7 luglio 1988 (relazione approvata il 2 agosto 1989).
3) Acquisire elementi di conoscenza e di valutazione circa l’attuazione del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 626, con specifico riferimento alla nomina dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, nelle varie zone d’Italia, alla attuazione del sistema di relazioni previsto dall’articolo 20 e da altre norme di rinvio agli accordi collettivi ed infine ai sistemi di formazione di tutti gli addetti alla sicurezza, concretamente posti in essere.
Il Comitato decideva di acquisire documentazione attraverso invio di richieste a numerosi Ministeri, Enti, Istituti, soggetti pubblici e privati. Decideva altresì di procedere ad audizioni presso la sede del Comitato stesso, il Senato, di effettuare dei sopralluoghi in località significative ed espressive di varie realtà e di compiere, nel corso dei sopralluoghi, tutte le audizioni necessarie al fine di disporre di elementi conoscitivi, valutazioni e dati di rilievo. La scelta cadeva sulle seguenti località: 1) Terni e Perugia, sia per il fatto che a Terni si erano verificati, in epoca recentissima, numerosi infortuni sul lavoro, anche mortali, sia perché la regione Umbria presentava un quadro complessivo e variegato, per la presenza di industrie rilevanti, di numerose piccole e medie aziende e di una forte attività produttiva in agricoltura; 2) Ravenna, anche in occasione della ricorrenza dell’anniversario del tragico infortunio del 1987, soprattutto al fine di verificare se le condizioni di lavoro e le strutture di prevenzione fossero mutate nel frattempo; 3) Genova, in relazione all’infortunio gravissimo cui si è già accennato e ad altri incidenti verificatisi successivamente, oltretutto in presenza di un’importante area portuale; 4) Vicenza-Arzignano-Brescia, per conoscere l’andamento della prevenzione in un’area a forte attività produttiva, per esaminare la situazione di una cittadina a forte densità di concerie e con forte presenza di lavoratori extracomunitari ed, infine, per comprendere la ragione dei rilevanti e numerosi infortuni verificatisi a Brescia nei primi mesi dell’anno; 5) Bari-Taranto, per conoscere la situazione in un’area del Sud contrassegnata da diverse attività industriali di vario tipo e da notevole esposizione, in diverse zone, a rischio lavorativo ed ambientale; 6) Melfi, per verificare la situazione di uno stabilimento di recentissima costruzione e dotato di apparati tecnologici sofisticati, in una zona priva, fino a quel momento, di impianti produttivi così rilevanti.
Anche i sopralluoghi venivano autorizzati dai Presidenti del Senato e della Camera, unitamente all’approvazione del programma.

2. Sintesi del lavoro svolto, in sede e nei sopralluoghi
Il Comitato ha lavorato intensamente, da gennaio a tutto il mese di giugno 1997, avendo ottenuto una proroga per la conclusione dei lavori, a causa delle molteplici difficoltà operative insorte per effetto del sovrapporsi – nonostante ogni sforzo – di sedute di Aula, o della Camera o del Senato, della sconvocazione di tutte le Commissioni nei casi in cui il Governo poneva la fiducia, e così via.
Per dare l’idea delle difficili condizioni in cui si è svolto il lavoro del Comitato, in una fase così impegnativa del lavoro delle due Assemblee, basterà dire che ben undici sedute già calendarizzate dovevano essere sconvocate e rinviate per cause indipendenti dalla volontà del Comitato; ed altrettanto accadeva per due sopralluoghi (rispettivamente a Bari-Taranto e Melfi).
L’impegno dei componenti del Comitato è stato eccezionale soprattutto tenendo conto del fatto che ognuno di loro è già occupato in varie Commissioni ed organismi, oltre alla presenza in Aula. In particolare, alcuni dei componenti, a turno (con la sola eccezione del Presidente, che ha partecipato a tutti i sopralluoghi, anche per assicurare unitarietà di indirizzi), si sono sobbarcati allo sforzo supplementare di recarsi in varie località, impegnando i fine settimana, per non interferire con le sedute di Commissione e di Aula (hanno partecipato ai sopralluoghi i senatori Pelella, Mulas, Gruosso, Cortelloni, Tabladini, Montagnino, Napoli e i deputati Stelluti, Santori, De Luca, Polizzi, Delbono, Bastianoni, Scrivani, Strambi).
Alle audizioni in sede hanno partecipato 121 persone; nel corso dei sopralluoghi sono state audite 239 persone, giungendo così ad un totale complessivo di 360. Moltissimi, nel corso delle audizioni, hanno consegnato memorie scritte e documentazione, recando così un forte contributo alle conoscenze del Comitato.
Tutti gli incontri si sono svolti in un clima di grande interesse e di forte collaborazione, con ampie esposizioni da parte degli interessati e con moltissime domande da parte dei componenti del Comitato.
In occasione dei sopralluoghi, svoltisi presso le Prefetture, si è ritenuto opportuno informare la stampa, che in effetti ha partecipato numerosa agli incontri al termine delle sedute, mostrando vivo interesse e dando poi ampio resoconto dei lavori del Comitato sulle pubblicazioni locali.
Nel mese di maggio, una delegazione del Comitato, composta dal presidente Smuraglia, dal Vice Presidente Santori e dall’onorevole Polizzi, ha partecipato all’Aja alla Conferenza internazionale sui «costi e benefici» della prevenzione, acquisendo informazioni e materiale di notevole interesse.
È opportuno dare atto che le informazioni, i dati, le valutazioni e le proposte sono state raccolte attraverso audizioni di soggetti pubblici e privati, di rappresentanti di diversi Ministeri, di istituti ed organismi centrali, di associazioni che operano nel campo della prevenzione, delle organizzazioni imprenditoriali, delle associazioni sindacali. Sono stati interpellati anche magistrati, docenti di medicina del lavoro e di medicina sociale, di ergonomia, di igiene industriale e di epidemiologia, ed altri numerosi esperti, nello sforzo di cogliere le problematiche anche sotto un moderno profilo culturale.
Più difficile è risultata la comparazione dei dati con quelli degli altri Paesi, data la mancanza di omogeneità nella raccolta e l’elaborazione dei dati da parte dei singoli Paesi. Si sono quindi potute raccogliere solo alcune notizie ed alcune valutazioni, di cui si darà conto via via nel corso del presente documento.
Va sottolineato un elemento di grande rilievo: nel lavoro del Comitato non sono mai emerse differenziazioni ascrivibili a posizioni ideologiche diverse o ad appartenenze politiche. Il Comitato ha lavorato di pieno accordo, costituendo al suo interno proficui rapporti di collaborazione, senza che mai si presentasse la necessità, né all’interno del Comitato, né in Ufficio di Presidenza, di procedere a votazioni. Si tratta di un esempio che merita di essere evidenziato con soddisfazione e che rende giustizia al personale impegno e alle intrinseche qualità di tutti i componenti del Comitato stesso.
Dei lavori del Comitato svolti a Roma sono stati effettuati resoconti stenografici (in tutto 18), mentre dei lavori svolti fuori sede sono stati redatti sintetici verbali, raccogliendosi poi in appositi volumi le numerose produzioni di memorie e documenti effettuate nel corso degli incontri (*).
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(*) Un ringraziamento sincero va rivolto a tutti coloro che hanno favorito, aiutato, reso possibile il lavoro del Comitato.
Un particolare ringraziamento è dovuto ai Prefetti di Ravenna, Genova, Vicenza, Bari, Taranto, Terni, Perugia, Potenza e Brescia, che hanno fornito, con impareggiabile cortesia, tutto l’appoggio necessario per i lavori del Comitato nel corso dei sopralluoghi.
Doveroso anche rivolgere un caloroso ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato alle audizioni, fornendo risposte precise agli interrogativi del Comitato, producendo documenti, spesso sobbarcandosi attese e disagi, con grandissima comprensione e forte spirito di collaborazione.
Bisogna infine dare atto a tutto il personale delle due Commissioni lavoro e particolarmente a quello del Senato, sul quale – per ragioni logistiche – si è riversato il maggior onere, dell’impegno profuso, della dedizione e della competenza con la quale ha svolto il lavoro necessario, in periodi spesso non facili, anche per il sovrapporsi dell’ordinario lavoro delle Commissioni stesse. A tutti, va rivolto un apprezzamento e un ringraziamento sincero.


CAPITOLO SECONDO
ANDAMENTO E ARTICOLAZIONE DEL FENOMENO DEGLI INFORTUNI SUL LAVORO, DELLE MALATTIE PROFESSIONALI E DELLE MALATTIE DA LAVORO

1. I dati sugli infortuni
Secondo l’INAIL, che costituisce, attualmente, la fonte principale di tutte le statistiche e analisi del fenomeno infortunistico, gli infortuni sul lavoro avvenuti e denunciati all’ente assicuratore nel 1995 sono stati 897.913, di cui 778.759 nell’industria e 119.154 nell’agricoltura. Nel 1996 gli infortuni avvenuti e denunciati all’ente assicuratore, secondo dati ancora provvisori, sono stati in totale 864.041, di cui 755.483 nel settore industriale e 108.558 in quello agricolo. Le malattie professionali manifestatesi e denunciate sono state, nel 1995, 33.046, di cui 31.969 nell’industria e 1077 nell’agricoltura e, nel 1996, secondo dati ancora provvisori, sono state 29.234, di cui 28.329 nell’industria e 905 nell’agricoltura.
Gli infortuni mortali sono stati, nel 1995, 1287 e, nel 1996, 1125; quelli che hanno comportato un’invalidità permanente superiore al 10 per cento sono stati, nel 1995, 16.720.
I settori nei quali risulta maggiore l’evento infortunistico sono, secondo i dati INAIL del 1996 relativi all’industria, la metallurgia e il settore delle costruzioni, con rispettivamente 144.714 e 105.553 infortuni denunciati, di cui, rispettivamente, 132 e 253 mortali. L’incidenza percentuale di tali dati è pari al 23,4 per cento per il settore metallurgico e al 20 per cento per quello delle costruzioni.
Le regioni più colpite dal fenomeno infortunistico, secondo i dati INAIL del 1995 relativi al settore industriale, sono la Lombardia, con 135.490 casi, pari al 17,5 per cento, seguita dall’Emilia Romagna, con 97.902 casi, pari al 12,7 per cento, e dal Veneto, con 90.277 casi, pari all’11,7 per cento.
Maggiormente significativi, rispetto a questi dati, sono però gli indici di frequenza, cioè il rapporto tra eventi infortunistici e il numero di ore lavorate. Questi indici, tenendo conto della consistenza occupazionale, consentono infatti di individuare le aree del Paese e i settori produttivi maggiormente pericolosi.
Secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 1994, la regione che risulta avere un indice di frequenza degli infortuni maggiore è l’Abruzzo, con un indice pari a 52,9, contro il 34,6 della media nazionale, seguito dalla Basilicata, con un indice pari a 51,4 e dall’Umbria, con un indice pari a 50,7. Hanno, inoltre, un indice di frequenza superiore alla media nazionale il Molise (49,1), la Puglia (46,9), la Liguria (46,8), l’Emilia Romagna (45,9), la Valle d’Aosta (45,2), le Marche (43,9), la Toscana (42,9), il Friuli Venezia Giulia (42,2), il Veneto (40,7), il Trentino Alto Adige (40,2) e la Calabria (37). Mantengono, invece, un indice di frequenza al disotto della media nazionale il Piemonte (27,3), la Lombardia (25,3), la Campania (34) e la Sicilia (28,4).
Il settore che presenta l’indice di frequenza più elevato, secondo i dati relativi al 1995, è quello minerario, con un indice pari a 57,15, seguito da quello della lavorazione del legno, con un indice di 53,52, e da quello delle costruzioni, con un indice di 52,94. Presentano elevati livelli di pericolosità anche i settori della metallurgia (43,04), delle lavorazioni agricole (39,96), dei trasporti (37,38 ( e della chimica (31,02). Da alcune analisi è inoltre emersa la presenza di forti rischi anche in altri settori e, in particolare, nel settore alimentare e in quello sanitario.
I soggetti maggiormente infortunati sono i lavoratori e le lavoratrici con un’età compresa tra i 26 e i 30 anni, con rilevanti percentuali anche tra i soggetti con un’età compresa tra i 21 e i 25 anni. Superata la fascia di età a maggior rischio, la percentuale degli infortuni cala con l’aumentare dell’età, mantenendo, comunque, livelli significativi sino ai 55 anni. I lavoratori più giovani, con un’età inferiore ai 20 anni, risultano i meno colpiti, tuttavia, non si può non rilevare che, solo nel 1995, ci sono stati nel nostro Paese ben 1638 infortuni occorsi a giovani di età inferiore ai 14 anni, 8.485 infortuni occorsi a giovani compresi tra i 15 e i 16 anni, 17.910 a giovani tra i 17 e i 18 anni e 26.491 a giovani tra i 19 e i 20 anni. Resta elevato anche il numero degli infortuni occorsi a lavoratori vicini al pensionamento: 35.657 infortuni hanno riguardato lavoratori aventi un’età compresa tra i 56 e i 60 anni, 10.199 infortuni hanno riguardato lavoratori con un’età tra i 61 e i 65 anni e 4.889 lavoratori di oltre 65 anni. Si tratta di un dato non irrilevante, se si considera che le conseguenze dell’infortunio si aggravano con l’aumentare dell’età del lavoratore.
Il fenomeno infortunistico sembra colpire in misura proporzionalmente simile i lavoratori rispetto alle lavoratrici, senza che vi siano significative differenziazioni per quanto riguarda le classi di età. Una recente analisi, tuttavia, ha posto in evidenza un dato singolare: mentre per il genere maschile le aspettative di vita aumentano man mano che si sale lungo la scala gerarchica delle professioni, per il genere femminile il rapporto aspettative di vita – professione si inverte: le impiegate presentano rischi di morte più elevati delle operaie. Inoltre, mentre nei settori industriali tradizionali, siano essi a prevalenza di impiego maschile, come il metalmeccanico, o femminile, come il tessile, a parità di età e di mansione, il rischio di infortunio grave è più basso per le donne in confronto agli uomini, in altri settori, come quello sanitario, si registra tra le donne un eccesso di infortuni gravi rispetto a quelli lievi.
Significativi, soprattutto ai fini prevenzionistici, sono inoltre i dati relativi al momento dell’infortunio. In merito si deve infatti rilevare che l’incidenza giornaliera degli infortuni è più alta il lunedì, per calare lentamente nel corso della settimana. Dai dati emerge inoltre che gli infortuni sono più frequenti nelle prime tre ore di attività lavorativa (indipendentemente dall’ora solare), mentre i più gravi disastri, come quelli avvenuti all’Icmesa, alla Farmoplant e alla Sandoz, si sono verificati in giorni e orari particolari: il sabato e la domenica, durante il cambio di turno o l’intervallo mensa, quando cioè i servizi di prevenzione e/o di emergenza delle aziende non sono pienamente efficienti a causa di assenze o disattenzioni. Sotto questo profilo, è altresì opportuno ricordare che durante le fasi di manutenzione e installazione degli impianti, si verifica circa il 7 per cento del totale degli infortuni.
Un discorso diverso va fatto per il settore agricolo, che si caratterizza per la elevata parcellizzazione dell’attività produttiva, con oltre 858.900 aziende assicurate all’INAIL nel 1995 (dati dell’Unione Europea del 1989 segnalano la presenza di 2.655.000 aziende agricole), per la fortissima percentuale di lavoratori autonomi, per la presenza di personale dipendente in netta prevalenza assunto per lavori a giornata, e per l’età più elevata dei lavoratori.
Gli infortuni denunciati nel 1996 sono stati 108.558, di cui 163 mortali e 4.563 con postumi permanenti di grado superiore al 10 per cento.
Le attività più pericolose sono quelle connesse alla raccolta e alla trasformazione dei prodotti, con 21.300 infortuni, pari al 19.6 per cento, alla riproduzione e all’allevamento di animali, con 20.085 casi, pari al 18,5 per cento, e alla preparazione del terreno, con 17.047 casi, pari al 15,7 per cento.
Le regioni più colpite dal fenomeno infortunistico, secondo dati del 1995, sono l’Emilia Romagna, con 15.514 casi, pari al 13,1 per cento; il Veneto, con 10.281 casi, pari all’8,7 per cento e la Lombardia, con 9573 casi, pari all’8,1 per cento.
Considerato l’indice di frequenza, hanno una media superiore a quella nazionale, pari, nel 1994, a 52,6, l’Umbria, con un indice di 121,8, le Marche, con un indice di 98, la Toscana, con un indice di 97,2, l’Abruzzo, con un indice di 77,9, il Trentino Alto Adige, con un indice di 75,4, il Molise, con un indice di 70,3, l’Emilia Romagna, con un indice di 69,7, la Liguria, con un indice di 69,5, la Basilicata, con un indice di 64,8, la Lombardia, con un indice di 63,3, il Friuli Venezia Giulia, con un indice di 61,4, il Veneto, con un indice di 56,7. Hanno invece un indice di frequenza inferiore a quello nazionale il Lazio, con un indice di 52,3, il Piemonte, con un indice di 48,5, la Valle d’Aosta, con un indice di 48,3, la Sardegna, con un indice di 46,5, la Campania, con un indice di 38,2, la Calabria, con un indice di 35, la Puglia, con un indice di 29,8, la Sicilia, con un indice di 21.
I soggetti maggiormente infortunati sono i lavoratori e le lavoratrici con un’età compresa tra i 56 e i 60 anni, con 16.844 infortuni, pari al 14,2 per cento ma con rilevanti percentuali anche nelle fasce di età tra i 26 e i 55 anni. La percentuale degli infortuni cala, anche nel settore agricolo, con l’aumentare dell’età, ma, a differenza di quanto avviene nel settore industriale, continua a mantenere livelli decisamente elevati: sempre nel 1995 i lavoratori infortunati tra i 61 e i 65 anni sono stati 9.997, pari all’8,5 per cento, e gli infortuni occorsi a lavoratori con oltre 66 anni sono stati 6.456, pari al 5,4 per cento. I giovani di età inferiore ai 14 anni infortunati sono stati 64, pari allo 0,1 per cento, gli infortunati di 15 e 16 anni sono stati 355, pari allo 0,7 per cento, gli infortunati di 17 e 18 anni sono stati 874 e 1566 gli infortunati di 19 e 20 anni, con percentuali rispettivamente dell’1,3 per cento e del 6,1 per cento. Questi dati collocano l’agricoltura al primo posto della graduatoria di frequenza e gravità dell’infortunio.
Come nel settore industriale, il giorno più a rischio di infortunio è il lunedì; nell’agricoltura, tuttavia, non vi sono grandi differenze giornaliere; la maggior parte degli infortuni, inoltre, avviene verso le 10 del mattino o verso le 4 del pomeriggio.
Va precisato, tuttavia, che i dati «ufficiali» forniti dall’INAIL richiedono alcuni chiarimenti e una approfondita riflessione. Anzitutto, i dati si riferiscono soltanto agli infortuni denunciati e indennizzati; quindi, l’unità informativa non è costituita dall’evento infortunistico in sé considerato, ma dall’evento amministrativamente definito in un certo anno. Questi dati, dunque, non tengono conto degli infortuni che hanno comportato un’assenza dal lavoro di durata non superiore a tre giorni e degli infortuni che hanno comportato la morte di soggetti privi di eredi. Il Comitato ha ricercato informazioni e dati relativi agli infortuni comportanti un’invalidità di durata inferiore ai quattro giorni, senza tuttavia riuscire ad ottenere informazioni sufficienti per valutare il fenomeno: non esiste, allo stato, alcun sistema di raccolta dei dati e di monitoraggio di questi eventi. Va comunque rilevato sin da ora che il decreto legislativo n. 626 del 1994 ha previsto l’obbligo per i datori di lavoro di riportare, sul registro infortuni che tutte le imprese devono conservare sui luoghi di lavoro, anche gli infortuni comportanti l’assenza dal lavoro di un solo giorno. In futuro, dunque, sarà possibile ottenere maggiori informazioni in materia. In secondo luogo, i dati INAIL si riferiscono solo ai settori nei quali trova applicazione l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro gestita dall’INAIL stesso. Non rientrano, di conseguenza, nelle statistiche i dipendenti di gran parte delle pubbliche amministrazioni, delle Ferrovie dello Stato, i lavoratori marittimi, il personale navigante delle compagnie aeree e i dipendenti delle Poste e Telecomunicazioni.
Secondo un’analisi svolta da un’associazione da tempo operante nel campo della tutela della sicurezza del lavoro, dal 1981 al 1995 i morti per infortunio sul lavoro non riportati dalle statistiche INAIL sono stati 2.333 nel settore agricolo e 6.302 in quello industriale e artigianale, pari al 30,14 per cento delle morti riportate nei dati ufficiali dell’INAIL. Da tali dati, e secondo analisi statistiche, la stessa associazione, ha poi calcolato che i dati INAIL sono mediamente inferiori ai dati reali del 30 per cento.
A prescindere dalla obiettiva attendibilità di una percentuale così determinata, è certo che il giudizio unanime di tutti coloro che sono stati auditi dal Comitato è che i dati «ufficiali» sono tutti sottostimati, per quel complesso di ragioni cui si è fatto più sopra riferimento.
Quanto all’andamento del fenomeno infortunistico nel corso degli anni, i dati relativi al numero degli eventi indicano una certa tendenza alla diminuzione. La riduzione maggiore si è verificata nel periodo compreso tra il 1970 e il 1986, durante il quale si è potuta registrare una diminuzione degli infortuni di circa il 50 per cento. Dal 1986, tuttavia, si è dovuto registrare un nuovo incremento del dato infortunistico, stimato attorno al 22 per cento. L’inversione di tendenza, secondo l’opinione di alcuni operatori del settore, fu causata da diversi fattori, tra i quali rilevano le grandi ristrutturazioni aziendali, che hanno influito negativamente sugli investimenti per la sicurezza, la forte caduta del controllo sindacale sulle condizioni di lavoro, la scarsità dei controlli pubblici, resi più difficili dal decentramento e dalla dispersione sul territorio delle attività produttive, la mancanza di una informazione e formazione adeguata dei lavoratori. Soltanto a partire dal 1991 il numero degli infortuni ricomincia a diminuire, passando dai 1.177.004 del 1991 agli 833.456 del 1996.
Anche sotto questo profilo, si deve tuttavia rilevare che diversi operatori del settore e, con essi, lo stesso INAIL, nutrono forti dubbi sull’effettiva diminuzione dell’incidenza del fenomeno infortunistico. È stato infatti rilevato che il calo degli infortuni risultante dai dati è, per diverse ragioni, un calo soltanto nominale, non dovuto ad un complessivo miglioramento delle condizioni di lavoro e di sicurezza. Infatti, dall’analisi dei dati emerge che, se il numero complessivo degli infortuni risulta in diminuzione, restano pressoché costanti i dati relativi agli indici di frequenza e al numero di morti. Il calo del numero totale degli infortuni si spiegherebbe, quindi, con il passaggio di consistenti quote di lavoratori al settore terziario, notoriamente meno soggetto a rischio di infortunio rispetto a quello industriale, con il calo generale del numero di ore lavorate dovuto alla situazione di crisi e ai conseguenti processi di ristrutturazione industriale, all’aumento del lavoro nero e alla diminuzione delle denunce degli infortuni e, per quanto riguarda il settore agricolo, al mutamento della normativa in materia di assicurazione obbligatoria che, a seguito del decreto-legge 22 maggio 1993, n. 155, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 243, ha escluso la possibilità di iscrizione all’assicurazione per i lavoratori che hanno compiuto l’età pensionabile e non risultino contemporaneamente iscritti anche al fondo pensione. Di conseguenza, un rilevante numero di lavoratori anziani continua a svolgere attività lavorativa agricola senza essere assicurato contro gli infortuni e senza, perciò, rientrare nelle statistiche ufficiali.

2. I dati sulle malattie professionali
Le malattie professionali denunciate all’INAIL nel 1996, secondo dati ancora provvisori, sono state 28.329 nell’industria e 905 nell’agricoltura. Nel 1995 sono state 31.969 nell’industria e 1.077 nell’agricoltura. Il numero di malattie professionali denunciate all’INAIL ha tendenzialmente lo stesso andamento del fenomeno infortunistico, sicché, anche per quanto riguarda le malattie professionali, si registra un calo. Alcune analisi dell’INAIL rilevano che, dopo un lungo periodo in cui il rischio ha segnato un drastico e progressivo calo, ci si posiziona su livelli che, allo stato, possono ritenersi «fisiologici», con un’evoluzione uniforme nei settori industriale e agricolo. Nettamente inferiore è, tuttavia, il numero delle malattie professionali che vengono effettivamente indennizzate, pari, secondo i dati del 1996, a 5.952. I settori più colpiti sono quello della metallurgia, con 4.919 casi denunciati nel 1995 e 3.351 nel 1996, il settore delle costruzioni, con 2.707 casi denunciati nel 1995 e 2.055 nel 1996, il settore minerario, con 1.470 casi denunciati nel 1995 e 936 nel 1996, il settore chimico, con 876 casi denunciati nel 1995 e 648 nel 1996, il tessile, con 815 casi denunciati nel 1995 e 676 nel 1996 e il settore dei trasporti, con 449 casi denunciati nel 1995 e 450 nel 1996.
Per il settore industriale la malattia professionale maggiormente denunciata riconosciuta è l’ipoacusia da rumore, con 11.977 casi nel 1995 e 10.452 nel 1996, seguita dalle malattie cutanee, con 1.996 casi denunciati nel 1995 e 1.590 nel 1996, dalla silicosi, con 1626 casi nel 195 e 1.177 nel 1996, dall’asbestosi, con 858 casi nel 1995 e 1.132 nel 1996 e dalle malattie osteoarticolari, con 699 casi nel 1995 e 530 nel 1996.
Nel settore agricolo, invece, le principali malattie denunciate sono l’asma bronchiale, con 144 casi nel 1995 e 111 nel 1996, seguite dall’ipoacusia, con 114 casi nel 1995 e 110 nel 1996 e dalle alveoliti allergiche, con 118 casi nel 1995 e 73 nel 1996.
Per comprendere il significato di questi dati, che sono decisamente inferiori a quelli relativi agli infortuni sul lavoro, è necessario ricordare che fino al 1988 l’INAIL riconosceva e indennizzata soltanto gli eventi contemplati in un’apposita tabella, che predeterminava in modo tassativo sia le patologie, sia le lavorazioni in relazione alle quali era possibile il riconoscimento della malattia professionale. Con le sentenze n. 179 e n. 206 del 1988 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo tale sistema assicurativo, proprio perché non consentiva l’indennizzo di malattie professionali non rientranti nella tabella specificatamente prevista dalla legge e composta da 58 malattie per l’industria e 27 per l’agricoltura (la tabella è stata aggiornata con DPR. 13 aprile 1994, n. 336, mentre il precedente aggiornamento risale al DPR: 9 giugno 1975, n. 482).
Con l’intervento della Corte costituzionale ci si attendeva un notevole aumento delle malattie professionali, ma il numero dei riconoscimenti è stato piuttosto modesto: tra il 1989 e il 1994, i casi di malattia professionale non tabellata riconosciuti dall’INAIL sono stati circa 1.200. Nel 1996, a fronte di 11.082 denunce di malattie non tabellate, per il settore industriale e 549 per il settore agricolo, ne sono state riconosciute rispettivamente 528 e 97. Il mancato aumento dei riconoscimenti è prevalentemente dovuto alle difficoltà relative alla prova della natura professionale della malattia. Mentre, infatti, per le malattie rientranti nella tabella l’origine lavorativa è presunta, negli altri casi spetta al lavoratore l’onere di provare che l’attività lavorativa ne ha costituito la causa determinante. Tale prova è, nella maggior parte dei casi, estremamente difficile, per diverse ragioni. In primo luogo, si deve sottolineare che il tipo di patologie è mutato in relazione all’evoluzione dei rischi, al punto che non si parla più di malattie professionali in senso stretto ma di «work related deseases» – cioè di malattie correlate al lavoro che trovano nell’attività lavorativa un fattore determinante, ma la cui eziologia è connessa anche ad altri fattori legati alle condizioni di vita del soggetto assicurato – e di «malattie professionali perdute», cioè di malattie che, per le difficoltà di rilevazione, non vengono diagnosticate come professionali. In secondo luogo perché si è passati da patologie caratterizzate da alte frequenze di lesioni acute a patologie ad insorgenza «lenta» e «subdola», con una serie di sintomi che si confondono facilmente con quelli delle malattie comuni, o che si manifestano dopo un lungo periodo di tempo dall’esposizione al lavoro nocivo e, in molti casi, dopo che l’attività lavorativa è cessata del tutto, sottraendosi così ad ogni forma di sorveglianza sanitaria mirata.
A ciò si devono anche aggiungere le difficoltà degli stessi operatori sanitari ad individuare le malattie da lavoro, dovute alla carenza di informazioni adeguate. È stato infatti rilevato che le maggiori difficoltà nella diagnosi delle malattie da lavoro sono dovute al diverso contesto in cui operano i vari operatori sanitari e al conseguente livello di conoscenza, da parte degli stessi operatori, delle condizioni di lavoro e di rischio. Per le malattie che non vengono denunciate frequentemente infatti l’operatore è costretto a raccogliere dati senza avere un quadro orientativo di supporto, dovendo ricostruire la vita lavorativa del soggetto e conoscere gli ambienti di lavoro in cui ha operato. Con la conseguenza che, a seconda delle zone, vi è una maggiore facilità di accertamento di un determinato tipo di malattia e grandi difficoltà nel trattare il resto della casistica.
Secondo una valutazione condivisa da tutti gli operatori, il calo delle malattie professionali che emerge dai dati INAIL è quindi dovuto al mutamento dei rischi e delle patologie connesse al lavoro, che comporta una consistente riduzione di malattie che in passato costituivano le principali cause di indennizzo, come ad esempio la silicosi, l’asbestosi e la stessa ipoacusia (che, comunque, resta ancora la principale causa di indennizzo), non sostituite, nel sistema assicurativo, dalle nuove malattie da lavoro, sulle quali si hanno ancora conoscenze limitate.
Sulla questione dell’aggiornamento delle tabelle delle malattie professionali sono stati espressi gravi giudizi. Si è detto, infatti (regione Piemonte), che le tabelle vengono aggiornate secondo criteri «ambigui» e «oscuri», evitando di prevedere importanti e diffusi rischi, come quelli cancerogeni e teratogeni e altre malattie diffuse e riconosciute in altri Paesi. Sotto questo profilo si è altresì rilevato, in uno studio condotto dallo stesso INAIL (Monografie 1994), che non si è in alcun modo tenuto conto della raccomandazione dell’Unione europea, che prevede tra le malattie professionali quelle causate da posture incongrue e movimenti ripetuti, come l’artrosi, le tendiniti e le condiliti.

3. I dati sulle malattie da lavoro
Come si è detto, il fenomeno delle malattie da lavoro è essenzialmente un fenomeno nascosto: molte malattie da lavoro non si scoprono perché non vengono denunciate o diagnosticate come tali.
Di conseguenza, non esistono dati attendibili sul fenomeno delle malattie da lavoro. Tuttavia, si ha notizia dello sviluppo di diverse nuove malattie. Infatti, come è stato rilevato da diversi operatori del settore, nei rari casi in cui vengono posti in essere interventi mirati alla rilevazione delle malattie da lavoro, si perviene a notevoli incrementi dei tassi di incidenza. Esemplare, in questo senso è la situazione relativa ai tumori causati dall’amianto: benché sia noto che l’impiego di tale sostanza sia all’origine dei tumori all’apparato respiratorio e che l’utilizzo eccessivo che se ne è fatto negli anni passati avrebbe determinato, secondo una stima approssimativa, circa 4.000 casi di tumore di origine professionale all’anno, i riconoscimenti dei tumori all’apparato respiratorio come malattia professionale sono soltanto una decina ogni anno. Inoltre è stato rilevato, dagli esperti del settore, che oggi, in sostituzione dell’amianto, si utilizzano altre materie fibrose che sono ugualmente pericolose.
Si è già accennato alla diffusione di nuove malattie causate da posture incongrue e da movimenti ripetuti, che, negli Stati Uniti d’America costituiscono la prima causa di indennizzo e che nel nostro Paese vengono riconosciute soltanto in rari casi. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di disturbi agli arti superiori, conosciuti nella letteratura internazionale come CTD (cumulative trauma disorders), e causati dallo svolgimento di movimenti altamente ripetitivi e comportanti sforzi fisici non rispondenti al normale movimento degli arti.
A queste si devono aggiungere le nuove patologie connesse all’utilizzo dei videoterminali, incidenti sia sull’apparato visivo, sia su quello osteoarticolare e – secondo alcune ipotesi di lavoro tuttora in corso di verifica – le possibili patologie connesse all’esposizione a campi elettromagnetici.
Del tutto sconosciute, anche se se ne preventiva una rapida crescita, sono le malattie connesse all’uso di fitofarmaci, pesticidi e di altre sostanze chimiche in agricoltura, spesso all’origine di dermatiti e di manifestazioni allergiche di vario tipo, e i cui effetti di lungo periodo sono ancora sconosciuti.
Parimenti sconosciute, ma in aumento, sono le malattie del personale sanitario, spesso a contatto con prodotti e sostanze pericolose oltre che a rischio di lesioni connesse alla movimentazione di carichi pesanti.
In sostanza, dai più recenti studi sulla materia, l’accento viene posto su un complesso di patologie che occorre tenere sotto osservazione, perché ben spesso collegate – casualmente o concasualmente – alla prestazione lavorativa: si tratta, oltre che delle patologie delle articolazioni e dei tessuti perarticolari, cui si è già accennato, delle malattie che interessano le strutture muscolo-tendinee con eventuale coinvolgimento di quelle nervose e vascolari (sindrome del tunnel carpale, epicondiliti, sindromi meniscali, ecc., delle malattie degenerative a carico dei diversi segmenti della colonna vertebrale, di patologie respiratorie di origine meno nota rispetto alla casistica tradizionale. Ma si tratta soprattutto delle forme tumorali più direttamente collegabili alla attività lavorativa (ad esempio il carcinoma dei seni nasali nei lavoratori del cuoio e del legno, il mesotelioma pleuricoperitoneale, tipico dei lavoratori esposti ad amianto, il tumore vescicale, associabile a molteplici agenti chimici). Sono stati segnalati anche altri tipi di patologia tumorale, meno diffusi ma sospetti di forte associazione col lavoro: l’angiosarcoma del fegato e il tumore in sede scrotale.
Né va dimenticato un complesso di patologie collegate a varie forme di stress da lavoro, su cui si vanno diffondendo ampi studi in altri Paesi, ma sui quali l’attenzione – nel nostro – è ancora troppo ridotta. Eppure, secondo alcuni studiosi, queste sono le patologie tipiche del futuro; e non pochi avanzano l’ipotesi che si tratti già (benché poco conosciute e approfondite) di patologie tipiche del presente.
Orbene, tutto questo quadro – così imponente e così carico di rischiosità – non corrisponde affatto ad un riconoscimento «formale», non entra, se non in limiti modestissimi, nelle statistiche INAIL; e tuttavia tutti concordano sulla necessità di seguire con attenzione questi fenomeni, proprio per la loro gravità e per la loro diffusibilità a livello collettivo.
Ma per ottenere dei risultati, occorrono due presupposti che, allo stato, appaiono piuttosto carenti: da un lato, che in qualunque valutazione anamnestica compiuta da un medico su un lavoratore si tenga sempre in particolare considerazione la storia lavorativa del soggetto; e dall’altro che si effettuino vaste e ripetute indagini epidemiologiche, tali da consentire l’individuazione anche dei fenomeni più latenti. Insomma si tratta di andare alla ricerca di molte malattie «perdute» e tuttavia collegabili al lavoro. Fino a quando non ci si muoverà su questa strada, i dati sulle malattie da lavoro resteranno poco significanti e privi di una reale attendibilità. È proprio a questi fenomeni che hanno inteso far riferimento quegli studiosi ed esperti, che, al Comitato, hanno parlato di una «mancanza di cultura sanitaria adeguata», nel nostro Paese e di una impostazione epidemiologicamente non corretta. In questo contesto si è osservato che la storia della medicina è ricca di esempi in cui il contributo della epidemiologia al riconoscimento di specifiche patologie di origine professionale è stato determinante: e tuttavia, manca tuttora – si è detto – una visione epidemiologica complessiva e difettano strumenti di uso corrente che permettano di monitorare i fenomeni sanitari di maggiore interesse.
A tutto questo va aggiunta la scarsa considerazione finora dedicata alla specificità femminile: stanno emergendo, ma ancora con lentezza, dati interessanti e significativi sull’incidenza del lavoro sulla capacità riproduttiva e di alcuni tipi di lavorazioni sulla stessa salute della donna che lavora. Malattie e fenomeni comunque rilevanti appaiono sempre più strutturalmente collegabili al doppio lavoro, con un potenziale di rischiosità e patologie davvero enormi. Anche qui, possiamo ben dire di essere in una fase troppo arretrata rispetto a quanto richiederebbe la diffusione crescente del lavoro femminile. E dunque, anche questo, nel quadro complessivo di una valutazione dei dati, è un elemento da non sottovalutare, ma sul quale – anzi – bisogna affrettarsi ad approfondire, per conoscere e quindi per prevenire.

4. Prime valutazioni, anche a confronto con le risultanze della Commissione «Lama»
In conclusione, i dati di cui disponiamo sono tutt’altro che tranquillizzanti. Se li confrontiamo con quelli della Commissione «Lama», ci accorgiamo che non è cambiato molto il quadro complessivo. Le preoccupazioni espresse in quel documento sono tuttora presenti alla nostra attenzione. Alcuni dei problemi su cui ci siamo soffermati più sopra erano già emersi in quella sede e tuttavia non sembra si siano fatti grandi passi avanti nella conoscenza e nella prevenzione dei fenomeni meno noti. Anche in quella relazione si parlava, con qualche scetticismo, di una certa diminuzione numerica degli infortuni e delle malattie, ma si rilevava come il dato complessivo risultasse ancora troppo elevato. Tant’è che nella relazione si traevano «conclusioni estremamente allarmanti: in molte aree del Paese e in molti settori produttivi persiste un altro rischio per i lavoratori di subire menomazioni, malattie invalidanti o di morire a causa della propria attività professionale; nel contempo il nostro sistema non dispone di strumenti idonei per fornire valutazioni attendibili del fenomeno e dell’efficacia delle soluzioni messe in atto per contrastarlo».
Semmai, rispetto a queste valutazioni, c’è da osservare che oggi disporremmo di qualche possibilità in più rispetto ad allora: si sono prodotte significative evoluzioni nella diagnostica di molte patologie e si sono aperte nuove vie alla conoscenza per quanto riguarda le relazioni causa/effetto tra malattie e attività professionali. Resta, però, come vedremo, il problema di come tali conoscenze e possibilità vengano in concreto utilizzate a livello diffuso ed epidemiologico. Ma su tutto questo ci si soffermerà ampiamente più oltre.
In questa fase ed a prescindere da altri elementi di novità anche sul piano normativo, l’allarme rimane giustificato e fondato persino sul piano della conoscenza di elementi e dati essenziali.
È grave, infatti, che si sia costretti a far riferimento a dati non del tutto affidabili e spesso incompleti e non rispondenti alla reale situazione.
Altrettanto grave il fatto che non si riesca a fare una comparazione con i dati degli altri Paesi; tutti hanno infatti rilevato come sia impossibile istituire un riferimento valido tra dati non omogenei. Anche questo, senza dubbio non aiuta, se è vero che molti dei fenomeni considerati hanno un andamento non dissimile nei vari Paesi e dunque una ricerca comune delle cause, degli effetti e delle misure da adottare sarebbe non solo giustificata ed utile, ma anzi addirittura necessaria e doverosa.
Ad avviso del Comitato, un dibattito ulteriormente approfondito sulle cifre e sulla loro attendibilità sarebbe frustraneo, posto che è certo che in ogni caso sono sempre troppi gli infortuni, troppe le malattie professionali tabellate, troppe le malattie da lavoro note e meno note.
L’unica vera conclusione da trarre è che i dati attuali vanno abbattuti con uno sforzo veramente grande e serio, non essendo accettabile che il lavoro produca effetti così disastrosi prima di tutto sul fattore umano (che è poi il patrimonio più alto di una società) ma poi anche sul terreno economico, su quello dei costi e perfino – come vedremo – della produttività e della competitività.

5. I costi della non prevenzione e le indicazioni degli altri Paesi
Occorre soffermarsi, sia pure rapidamente, su un dato che va posto adeguatamente in rilievo: si tratta del costo degli infortuni e delle malattie, vale a dire, quello che è stato definito, in un recente incontro internazionale all’Aia, come il «costo della non prevenzione».
Secondo calcoli effettuati dall’INAIL, il costo complessivo degli infortuni sul lavoro in Italia si aggira intorno ai 55.000 miliardi l’anno, pari a circa il 3 per cento del Prodotto interno lordo. Questa cifra, non si riferisce al solo bilancio INAIL, che ammonta a circa 16-17.000 miliardi, pari a circa il 20 per cento del totale, ma tiene conto di diversi costi, anche indiretti che le imprese e più in generale la collettività devono sostenere. In particolare, il calcolo è stato effettuato tenendo conto dei costi riguardanti le spese sostenute dalle imprese per la prevenzione, per l’assicurazione dei lavoratori, per la sospensione del lavoro a seguito dell’infortunio e per la sostituzione del lavoratore infortunato, per il primo soccorso e per le eventuali spese legali, i danni che inevitabilmente rimangono a carico della vittima, le spese sostenute dalla collettività per i controlli pubblici sull’osservanza della normativa prevenzionistica e i danni all’economia in generale.
Il costo assicurativo di un infortunio mortale si aggira intorno ai 300-400 milioni (cifra pari al valore capitalizzato di una rendita ai superstiti).
Non esistono stime attendibili sul costo delle malattie professionali: il costo degli indennizzi INAIL è di 2.205 miliardi, a cui si devono aggiungere 59 miliardi per le malattie dei dipendenti dello Stato, i costi sostenuti dalle imprese nella fase di impianto delle attività produttive e per la prevenzione, e i costi degli organismi che si occupano di prevenzione a livello di controllo. I costi sostenuti dalle imprese, secondo una stima approssimativa, si aggira intorno ai 2.250 miliardi e quelli sostenuti dagli organismi di prevenzione attorno ai 500 miliardi.
A questi si devono aggiungere i costi di riparazione della macchine, delle spese legali collegate all’evento lesivo, del tempo di lavoro perduto per i soccorsi e per lo stress psicologico subito dai compagni di lavoro, il costo della «medicheria» e dell’addestramento del sanitario. In definitiva, si può giungere ad un stima complessiva di 8.500 miliardi.
Si è già accennato all’enorme difficoltà di comparare i dati del nostro Paese con quelli degli altri Paesi, quantomeno con quelli della UE.
La comparazione non è facile, come si è visto, per quanto riguarda gli infortuni e le malattie, ma anche per quanto riguarda i costi.
Quello che è certo è che il fenomeno è grave in tutti i Paesi; che nella sola UE oltre 10 milioni di lavoratori sono vittime di infortunio ogni anno; che l’esposizione a fattori di rischio vede l’Italia ad un livello di frequenza comparabile sostanzialmente con gli altri Paesi europei per quanto riguarda lavoro notturno, spostamento di carichi pesanti, ripetitività, intensità dei ritmi, mentre la frequenza è decisamente superiore alla media europea, nel nostro Paese, per quanto riguarda orari di lavoro prolungati, posture inadeguate, attrezzature, sedi inadatte, informazioni insufficienti.
Per quanto riguarda i costi, nel corso della Conferenza europea su costi e benefici della sicurezza del lavoro, sono stati acquisiti dati di notevole interesse, anche se tutti hanno bisogno di essere ulteriormente analizzati e approfonditi. Nella UE, il denaro versato ogni anno per trattamenti e indennizzi per infortuni, supera i 26 miliardi di ECU, mentre è pacifico che i costi indiretti, calcolabili solo con molta difficoltà, sono di gran lunga superiori.
Basterà riflettere sul fatto che l’Olanda denuncia un costo complessivo, per la sicurezza, di 16,5 miliardi di fiorini olandesi all’anno; la Gran Bretagna circa 25 miliardi di sterline, la Germania circa 52 miliardi di marchi; la Norvegia circa 40 miliardi di corone.
Come si vede, si tratta di costi ingentissimi che portano a concludere che bisognerebbe fare ogni sforzo, da noi come negli altri Paesi, per vedere – anche sul piano puramente economico e tralasciando per il momento il fondamentale aspetto umano – come ridurre i costi della non prevenzione e incentivare, su ogni terreno, i benefici di una attività seria, strategica e approfondita volta ad evitare il maggior numero possibile di eventi dannosi collegati con il lavoro.
In sostanza, non è tanto rilevante stabilire se l’Italia sia da collocare in coda alle classifiche o resti nella media, quanto sottolineare il fatto che esiste un problema grave e preoccupante relativo alla sicurezza del lavoro, comune a tutti i Paesi di avanzata civilizzazione e che ad esso nessun Paese può restare insensibile, e tanto meno l’Italia.

CAPITOLO TERZO
LE CAUSE

1. Vecchi e nuovi rischi: lavoro nero, caporalato, appalti.
Per quanto riguarda le cause degli infortuni, si deve anzitutto rilevare che un primo, grande gruppo di fattori di rischio dipende da alcune particolari caratteristiche della nostra organizzazione produttiva e, in particolare, dalla diffusione di forme di lavoro nero, irregolare e dal decentramento produttivo che, negli ultimi anni ha subìto un processo di accelerazione. Tali caratteristiche del tessuto produttivo fanno sì che, accanto a nuovi rischi connessi alla modernizzazione dell’organizzazione e dei mezzi di lavoro, di cui si dirà più avanti, vecchie forme di sfruttamento della manodopera continuino ad assumere una posizione centrale tra le cause che sono all’origine degli infortuni e delle malattie professionali.
Più in specifico, occorre rilevare che dall’indagine svolta, è emersa la sussistenza di una stretta correlazione tra il lavoro nero e il fenomeno infortunistico. Sia le organizzazioni dei lavoratori, sia le associazioni di categoria dei datori di lavoro, sia, infine, gli organi istituzionali deputati al controllo del territorio (Prefetture, Ispettorati del lavoro, Servizi di prevenzione delle USL) hanno più volte rilevato la presenza diffusa in tutto il Paese del lavoro nero e del caporalato, e hanno altresì sottolineato come all’evasione contributiva e alla più generale violazione delle norme relative alla costituzione e allo svolgimento del rapporto di lavoro si accompagni la violazione della specifica normativa in materia di prevenzione degli infortuni e igiene del lavoro. In particolare, è stato sottolineato dalle stesse organizzazioni di categoria dei datori di lavoro come il settore edile sia devastato dal lavoro nero, con pesanti conseguenze sulla capacità stessa delle imprese di investire in sicurezza.
I processi di riorganizzazione produttiva degli ultimi anni hanno determinato un’ulteriore spinta verso il decentramento delle attività all’esterno della grande impresa, con il conseguente aumento di imprese di dimensioni modeste, appaltatrici di fasi dei procedimenti produttivi. Inoltre, il sistema dei ribassi d’asta, adottato per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, ha inciso pesantemente sulle condizioni di lavoro, poiché il corrispettivo che in questo modo viene pattuito per lo svolgimento del lavoro appaltato non tiene conto della qualità delle imprese appaltatrici e del rispetto da parte di queste delle disposizioni relative alla tutela dei lavoratori e, in particolare, dell’adozione delle misure necessarie per la prevenzione degli infortuni e dell’igiene del lavoro. Le ristrettezze economiche e la situazione di crisi degli ultimi anni hanno poi esasperato la concorrenza tra tali imprese, facendo sì che l’abbassamento dei corrispettivi per le opere e i servizi svolti in appalto venisse compensato attraverso la riduzione dei costi della prevenzione.
Il fenomeno, come è altresì emerso, non riguarda soltanto alcuni settori o zone particolari, ma investe tutte le attività produttive e tutto il territorio nazionale. In linea generale, si deve infatti rilevare che l’affidamento di determinati lavori ad imprese appaltatrici, come, ad esempio, quelli relativi alla manutenzione degli impianti, può essere fonte di gravi pericoli, perché l’impresa che svolge i lavori non conosce i possibili rischi dell’ambiente in cui si trova ad operare e le eventuali sostanze pericolose o nocive in esso presenti. Le disposizioni per il coordinamento delle imprese per quanto attiene all’adozione delle misure di sicurezza in caso di appalto previste dalla legislazione antimafia per gli appalti pubblici prima e dal decreto legislativo n. 626 del 1994 poi, sinora sono state spesso disattese, anche se non mancano settori in cui uno sforzo di coordinamento è stato realizzato.
Vi sono, comunque, alcuni settori maggiormente esposti ai rischi connessi al sistema del lavoro in appalto. L’edilizia e la cantieristica navale, in particolare, sono i settori maggiormente esposti a questo tipo di rischi, in quanto svolgono attività tali da richiedere il concentramento di più imprese appaltatrici e subappaltatrici per brevi tempi negli stessi luoghi di lavoro.
La questione del sistema degli appalti risulta essere particolarmente sentita da parte delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro del settore edile, nel quale si è registrato un forte aumento di ditte individuali, di lavoratori autonomi e di lavoro nero, la mancanza di professionalità e di misure di prevenzione da parte delle ditte appaltatrici e la mancanza di controlli delle imprese committenti. Questa situazione, hanno denunciato le stesse organizzazioni imprenditoriali, può determinare l’espulsione dal mercato delle imprese più qualificate e operanti nel rispetto della normativa prevenzionistica.

2. I rischi «classici».
Da un’indagine svolta dall’Eurostat nel 1992 è emerso che la situazione italiana si caratterizza rispetto a quella degli altri Paesi europei per le carenze nella progettazione dei posti e degli ambienti di lavoro. Secondo i dati INAIL, l’ambiente di lavoro è all’origine del 23 per cento degli infortuni, mentre l’utilizzo di apparecchiature, utensili e macchinari vari è la causa del 37 per cento circa degli infortuni (le apparecchiature e gli utensili sono la causa del 13,2 per cento degli infortuni, l’impiego di mezzi di sollevamento e trasporto del 12 per cento e l’utilizzo di parti di macchine e di impianti del 12 per cento).
I settori maggiormente a rischio, come si è già accennato, sono quelli minerario, della lavorazione del legno e delle costruzioni, che presentano i più elevati indici di frequenza. Anche altri settori, come quello della metallurgia e metalmeccanico, quello agricolo, quello chimico e quello dei trasporti, presentano elevati livelli di rischiosità.
Per ciascun settore sono inoltre individuabili specifici fattori di rischio. In alcuni, i principali fattori di rischio sono imputabili all’ambiente di lavoro. È il caso del settore edile, nel quale la maggior parte degli infortuni è rappresentata da cadute dall’alto e il settore dei trasporti, in cui oltre il 30 per cento degli infortuni è dovuto a cadute dall’alto nelle operazioni di carico e scarico delle merci e il 20 per cento è causato da colpi ricevuti da materiali vari. Nel comparto sanitario, infine, la maggior parte degli infortuni è rappresentato da cadute e scivolamenti.
In altri settori produttivi, invece, la principale fonte di pericolo è data dall’impiego di macchinari e utensili. Questo tipo di infortunio, nel settore del legno rappresenta quasi un quarto di tutti gli infortuni di tutti i comparti. Nella lavorazione dei metalli, la maggior parte degli infortuni è determinata dall’impiego di macchine e utensili e da schegge e frammenti che colpiscono il lavoratore. Nel settore della lavorazione delle carni il 30 per cento degli infortuni è costituito da ferite provocate dagli utensili.
Un discorso particolare va fatto per il settore agricolo, nel quale i principali rischi sono legati alla lavorazione dei terreni e all’utilizzo di macchine agricole e, in particolare al ribaltamento di queste, a cui si devono aggiungere anche ulteriori rischi, legati prevalentemente all’utilizzo di impianti inadeguati e al contatto con sostanze pericolose.

3. I nuovi fattori di rischio
Ai fattori tradizionali di rischio si sono recentemente aggiunti nuovi pericoli, prima inesistenti o sconosciuti.
Un primo grande fattore di rischio è dato dall’impiego di sostanze pericolose o nocive. Oltre alle sostanze i cui effetti dannosi per la salute sono già noti, come ad esempio il piombo o il benzene, altre sostanze si sono rivelate estremamente pericolose.
Una vera e propria situazione di emergenza è quella relativa all’amianto, in passato ampiamente utilizzato nei settori edilizio, della cantieristica navale e ferroviario senza particolari precauzioni e in seguito rivelatosi cancerogeno. La legge 27 marzo 1992, n. 257, è intervenuta sulla questione, al fine di assicurare la cessazione dell’impiego dell’amianto e la bonifica dell’ambiente. Oltre ai problemi relativi all’accertamento delle situazioni passate di esposizione ad amianto e alla tutela dei lavoratori che vi sono stati esposti, si pone quindi anche il problema delle misure di prevenzione da adottare nelle operazioni di bonifica, estremamente pericolose a causa dei danni che un’ulteriore dispersione di fibre cancerogene potrebbe causare. Tra l’altro, nel corso dell’indagine è anche emerso che su tutto il territorio nazionale esistono solo due discariche attrezzate per l’amianto e che in genere le tubature di amianto rimosse vengono rotte «a martellate» e «abbandonate» nei cassonetti dell’immondizia o nelle discariche comunali.
È assolutamente evidente la necessità di un congruo aumento e di una corretta distribuzione sul territorio, delle discariche attrezzate, posto che l’opera di demolizione dei manufatti contenenti materiali nocivi, è sicuramente destinata ad espandersi. Per altro verso, appaiono necessarie misure severe contro l’«abbandono» di materiali nocivi in luoghi o ambienti inadatti e comunque per combattere i fenomeni più sopra richiamati.
Inoltre, altre sostanze che sono considerate «probabilmente» o «possibilmente» cancerogene, e i cui effetti sulla salute non sono sufficientemente conosciuti, sono impiegate nelle attività produttive. Diverse fonti concordano nell’affermare che in Italia ogni anno si hanno circa 4000 casi di tumore professionale. Un grosso problema relativo all’impiego di sostanze cancerogene è dato dal fatto che, mentre per la maggior parte degli agenti nocivi è concepibile una dose soglia al di sotto della quale non sussistono rischi per la salute, quelli cancerogeni sono considerati privi di soglia: anche la presenza di piccole quantità potrebbe essere all’origine di un numero sostanzioso di tumori.
Nel settore agricolo, ai rischi tradizionali connessi alla lavorazione del terreno, si è aggiunto quello derivante dall’impiego di fitofarmaci, sul quale sussistono però poche informazioni. Non vi sono, infatti, dati relativi ai soggetti esposti a queste sostanze; sono ben noti gli effetti connessi alle intossicazioni acute, ma non vi sono dati statistici sul fenomeno; infine, le conoscenze scientifiche relative agli effetti a lungo termine connessi all’impiego di fitofarmaci non sono sufficienti, benché siano sospettati di essere all’origine di neoplasie, di danni gravi a numerosi organi vitali e di effetti teratogeni.
Altri nuovi agenti sono all’origine di danni alla salute dei lavoratori. Sono da tempo noti i danni causati all’apparato uditivo e, più in generale, alla salute dei lavoratori, dall’esposizione a rumore. Vanno poi considerati e sottoposti a studi approfonditi gli eventuali pericoli derivanti dall’esposizione a campi elettrici ed elettromagnetici, fino a qualche tempo fa ritenuti innocui dalla letteratura scientifica e recentemente considerati quanto meno con sospetto.
Gravi rischi per l’apparato muscolo-scheletrico sono causati da condizioni di lavoro inadeguate e, in particolare da movimenti e posture incongrue. Nonostante manchino indagini epidemiologiche estese a tutto il territorio nazionale, alcune ricerche hanno individuato la diffusione di patologie definite nella letteratura scientifica internazionale cumulative trauma disorders, ossia malattie, quali la sindrome del tunnel carpale, alcune forme artritiche e tendiniti, associate allo svolgimento di movimenti estremi degli arti superiori e a frequenti e ripetitivi sforzi muscolari, all’uso di utensili pesanti e alla scarsità di pause e di rotazione delle mansioni.
Altri gravi rischi per l’apparato muscolo-scheletrico sono determinati, oltre che da posture incongrue, come l’artrosi o la discopatia del rachide diffuse tra gli autotrasportatori, dalla movimentazione manuale dei carichi, soprattutto nel settore sanitario e dei servizi assistenziali.
In linea generale, si deve rilevare che sono sempre più numerose le evidenze scientifiche della correlazione tra le patologie all’apparato muscolo-scheletrico e lo svolgimento di determinate attività lavorative. In alcuni Paesi europei, questo genere di patologie costituisce la più frequente causa di indennizzo per malattia professionale e, secondo alcune ricerche, anche nel nostro Paese sarebbe all’origine di una consistente parte delle assenze per inidoneità temporanea al lavoro.
In questi ultimi anni, inoltre, con i processi di terziarizzazione e informatizzazione sono emerse nuove malattie causate o associate al lavoro.
Un caso emblematico, in questo senso è quello relativo all’impiego dei videoterminali, potenzialmente dannoso per l’apparato visivo e per quello osteo-articolare. Queste apparecchiature, ormai, sono utilizzate da quasi tutta la popolazione e quindi è assolutamente indispensabile l’adozione di misure idonee a minimizzare i rischi che derivano da un impiego così diffuso. In ogni caso, è urgente il pieno adeguamento alle direttive comunitarie, anche nel senso recentemente precisato dalla Corte di Giustizia Europea; ed è fondamentale una corretta progettazione dei posti di lavoro anche sotto il profilo ergonomico.
Stanno inoltre emergendo professioni che presentano ulteriori rischi per la salute, non tanto a causa della monotonia o ripetitività del lavoro quanto per lo stress che provocano a causa dell’estrema tensione dovuta al carico di lavoro, tensione che non termina alla fine della giornata lavorativa ma che continua nel tempo. Il problema dello stress e della fatica mentale è stato analizzato in specifici studi, dai quali è emersa l’esistenza di una stretta relazione tra stress-errore umano-incidente.
Infine, alcune ricerche scientifiche hanno evidenziato la presenza di nuovi rischi negli ambienti di lavoro di tipo non industriale, dovuti alla presenza di agenti chimici, fisici e microbiologici, al microclima e alla ventilazione degli ambienti. Si tratta della cosiddetta «sindrome dell’edificio malato»: un edificio è malato quando la maggior parte dei soggetti che soggiornano nell’edificio manifesta sintomi associabili alla permanenza nell’edificio stesso. L’inadeguatezza di questi ambienti di lavoro può infatti causare malattie respiratorie, della cute, dell’apparato cardio-vascolare e del sistema immunologico.
In conclusione, si deve sottolineare la presenza e l’aumento di nuovi rischi, derivanti dall’impiego di sostanze pericolose, da movimenti o posture inadeguati o dallo stress.
È bene sottolineare anche che questo genere di rischi si distingue rispetto a quelli tradizionali in quanto non dipendente dall’utilizzo di macchinari non dotati dei necessari sistemi di prevenzione, ma collegato alla progettazione dei luoghi di lavoro e all’organizzazione del lavoro.
Quest’ultima appare, oggi, come uno dei fattori fondamentali da considerare con estrema attenzione, nel senso che gioca un ruolo essenziale nel determinismo degli infortuni e delle malattie. Una inadeguata organizzazione del lavoro può vanificare perfino l’adozione di misure e apparecchiature strumentali altamente innovative.
Parimenti, va considerato con estrema attenzione, il problema della durata del lavoro come potenziale causa di infortuni e malattie.
Nel corso della discussione conclusiva, un componente del Comitato (onorevole Strambi) ha rilevato che il problema della riduzione dell’orario di lavoro, in discussione in tutti i Paesi europei, dovrebbe essere considerato anche sotto il profilo della prevenzione. Si tratta di un profilo certamente meritevole di ulteriore riflessione
D’altra parte, un ulteriore fattore di rischio è dato dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro: come il ricorso all’appalto, anche l’ampio utilizzo di contratti di formazione e lavoro, di rapporti di collaborazione e di altre forme di lavoro atipico è all’origine di un maggior rischio sotto il profilo della sicurezza del lavoro. In alcuni sopralluoghi è emerso infatti come la minor durata di questi rapporti e, conseguentemente, la minor esperienza dei lavoratori, determini un calo complessivo delle condizioni di sicurezza, a causa della diminuzione della conoscenza degli ambienti di lavoro e dei potenziali fattori di rischio in esso presenti e della mancanza di una adeguata preparazione sulle procedure di prevenzione da adottare.
Naturalmente, questo non implica alcuna ostilità contro le nuove forme di lavoro e in particolare contro i cosiddetti lavori atipici; ma è evidente che, a fronte di sistemi di lavoro «diffusi» e quindi più difficilmente controllabili, occorre l’adozione di cautele maggiori, o comunque particolari, ai fini di un’efficace prevenzione dei rischi.

4. Il problema delle concause
Una delle principali difficoltà della prevenzione dei nuovi rischi deriva dalla loro difficile identificabilità. Mentre infatti lo sviluppo tecnologico determina rapide innovazioni, che comportano l’impiego di nuove sostanze e il ricorso a nuovi e diversi procedimenti lavorativi, le nuove patologie non si presentano più sotto l’aspetto tradizionale della malattia conclamata, ma sotto quello più subdolo e altamente pericoloso dell’alterazione dei parametri biologici e dell’interferenza con il funzionamento degli organi e apparati più diversi del corpo umano. Inoltre, le più recenti acquisizioni della medicina del lavoro portano a parlare di work related deseases, ossia di malattie correlate al lavoro piuttosto che di malattie professionali in senso stretto, proprio per sottolineare il fatto che la malattia è sicuramente riportabile o in vario modo associabile al lavoro, ma che è anche originata dal concorso di altri fattori legati all’ambiente di vita. Per queste patologie, occorre di conseguenza capire quanto il lavoro sia determinante. Ulteriori problemi di prevenzione sono dati dal fatto che non sussiste una corrispondenza temporale tra l’esposizione al rischio durante il lavoro e l’insorgere o il manifestarsi della malattia.
Il confine tra rischio lavorativo e rischio ambientale, insomma, tende a divenire sempre meno netto e preciso. La questione non si pone solo con riferimento all’accertamento e alla prevenzione di certi rischi sul lavoro, ma anche sotto il profilo della tutela della salute di tutti i cittadini e dell’ambiente: i nuovi metodi produttivi, le nuove forme di organizzazione del lavoro, l’utilizzo di sostanze nocive o sconosciute hanno gravi conseguenze anche all’esterno dei luoghi di lavoro. In una recente ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state individuate sul territorio nazionale ben 16 aree ad elevato rischio ambientale, dovuto alla presenza di poli industriali e alla dispersione nell’ambiente di sostanze inquinanti. Queste aree sono state individuate sulla base dell’analisi dei tassi di mortalità, in quanto hanno evidenziato un eccesso di morti causate da tumori e da malattie all’apparato respiratorio rispetto alla media della popolazione. L’aumento del tasso di mortalità, è altresì emerso, non riguarda soltanto i lavoratori, ma tutta la popolazione esposta, insieme ai lavoratori, alle sostanze nocive per la salute.
Anche durante i sopralluoghi svolti è più volte emerso come le attività produttive incidano sulla salute di tutti i cittadini e sulle condizioni ambientali: si è infatti potuto verificare come i processi di ristrutturazione aziendale avvenuti negli ultimi anni abbiano comportato l’adozione di modalità gestionali nuove, caratterizzate dalla riduzione delle scorte di magazzino e, conseguentemente, da un forte incremento del trasporto su gomma dei semilavorati da un’impresa all’altra, con gravi danni alla sicurezza stradale e all’ambiente.

5. Il comportamento dei lavoratori
Già la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle aziende svolta nel 1988-89 e presieduta dal senatore Lama aveva sottolineato come la tutela della salute dipendesse dal coincidere di due condizioni indispensabili ma di per sé non sufficienti: «che l’ambiente, le macchine e gli impianti siano sicuri e che il comportamento dei lavoratori sia conforme alle esigenze di sicurezza».
Si è già visto che la prima condizione, oggi, è più complessa e non si limita soltanto all’ambiente, alle macchine ed agli impianti, investendo la stessa organizzazione del lavoro, la progettazione ergonomica della sicurezza e l’adozione di idonee procedure di lavoro.
Quanto alla seconda condizione, essa è ricorrente ancor oggi, in termini non molto diversi dal passato, come è chiaramente emerso da non poche audizioni.
Vi sono ancora infortuni (secondo alcuni, numerosi) determinati da mancate cautele, mancato rispetto delle misure di sicurezza, mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Ma anche queste sono cause tutt’altro che ineliminabili, a condizione – naturalmente – che se ne comprenda la genesi e si sappia come ed in quali termini intervenire.
In alcuni casi, si tratta di semplice disattenzione; in altri, di assuefazione o sottovalutazione del rischio, in altri ancora di desiderio di semplificare il lavoro, eliminando appesantimenti ritenuti inutili o comunque disagevoli (l’elmetto o le cinture di sicurezza nell’edilizia, tanto per fare un esempio).
Ci sono, però, anche casi in cui i sistemi di blocco o i dispositivi di sicurezza delle macchine vengono neutralizzati o addirittura rimossi. In queste ipotesi, le spiegazioni sono complesse e variegate, perché può accadere che il lavoratore voglia guadagnare tempo, ma può anche succedere che si tratti di eliminare un appesantimento della prestazione, evitare ritardi ed accumuli o semplicemente cercare di mantenere meglio i ritmi. Ma è semplicistico pensare solo a fenomeni soggettivi, magari di tipo egoistico; il lavoratore, in genere, non è un minus habens e tanto meno un autolesionista. Ed allora, bisogna approfondire la riflessione e ricordare che il fenomeno della assuefazione e della sottovalutazione del rischio è talmente noto che gli studiosi, già molti anni fa, avevano coniato un’espressione caratteristica, per descriverlo, parlando di «impotenza di controllo», vale a dire dell’incapacità del soggetto che svolga attività lavorativa continuativa e ripetitiva, di controllare sé stesso, essere sempre vigile ed accorto ed ispirare sempre i propri comportamenti a razionalità.
Ma per questo fenomeno si prospettava, già allora, una soluzione ben più complessa di un semplice richiamo o di un cartello di avviso: si sosteneva, cioè, che trattandosi di comportamenti prevedibili, doveva scattare un sistema di controlli affinché in concreto fossero attuate tutte le misure di sicurezza. Nacque così la figura del preposto, anche nella versione e con le funzioni di cui all’articolo 4 del DPR 27 aprile 1995, n. 547, come colui che deve «disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione».
Certo, non è sempre possibile un controllo su ogni lavoratore, specialmente nei lavori complessi, dispersi, parcellizzati (si pensi, ad esempio, all’agricoltura e ad altri settori). Ma allora deve soccorrere una corretta e completa informazione, certo non limitata a qualche strumento cartaceo e burocratico; e soprattutto occorre una vera, costante, formazione di base e permanente. E, naturalmente, nei casi estremi, potrà giovare un accorto uso del sistema disciplinare.
Bisogna anche dire che vi sono casi in cui certi comportamenti (esclusione dei dispositivi di blocco o di sicurezza e simili) vengono tollerati, per sottovalutazione oppure in nome dei ritmi e della produttività. È chiaro che anche questi sistemi sono da eliminare, addirittura a livello di organizzazione del lavoro e di cultura della sicurezza.
Influiscono, inoltre, negativamente, sulle condizioni e sulla sicurezza del lavoro diversi fattori collegati all’ambiente di vita dei lavoratori. Si è già accennato al fatto che il decentramento produttivo determina un maggior numero di incidenti stradali e un maggiore degrado ambientale. A ciò si deve aggiungere l’influenza negativa che il fenomeno del pendolarismo e la mancanza di infrastrutture adeguate determinano sulle condizioni di lavoro: le difficoltà che si incontrano nel viaggio verso il luogo di lavoro e nel ritorno a casa costituiscono un ulteriore fattore di indebolimento e affaticamento, che incide negativamente sullo svolgimento della prestazione lavorativa. I pericoli connessi al fenomeno del pendolarismo sono emersi chiaramente nel corso di alcuni sopralluoghi e, in particolare, in quelli effettuati a Vicenza e Arzignano e a Melfi, e sono altresì dimostrati dal fatto che, secondo le statistiche INAIL, la maggior frequenza degli incidenti avviene nel primo giorno lavorativo dopo il riposo settimanale e nelle prime ore di lavoro.
Alcuni interrogativi si stanno ponendo per quanto riguarda i lavoratori extracomunitari. E stato infatti rilevato da alcuni epidemiologi che il fenomeno dell’immigrazione riguarda una forza lavoro giovane e selezionata proprio perché in buona salute, che, tuttavia, in quanto occupata in posizioni professionali particolarmente sfavorevoli, sia per quanto riguarda il tipo di mansioni svolte, sia per tutto ciò che attiene agli orari e ai turni di lavoro, al tempo necessario per raggiungere il posto di lavoro e alle condizioni abitative, rischia di disperdere tutto il proprio patrimonio di salute.
Il Comitato ha potuto cogliere, ad Arzignano, una situazione del tutto peculiare: molte lavorazioni nelle concerie sono effettuate da immigrati, complessivamente integrati nelle aziende e nella città. Ma l’interrogativo fondamentale nasce dalle condizioni di vita (soprattutto per il gravissimo problema abitativo): quali saranno, alla lunga, gli effetti sulla salute e sugli stessi comportamenti sul lavoro? Un problema serio, di cui si sta facendo carico anche l’amministrazione comunale, ma che forse dovrebbe interessare tutti (imprenditori, sindacati, USL, eccetera).
In conclusione, anche per ciò che attiene ai comportamenti dei lavoratori, è valida la conclusione cui si è pervenuti in linea generale: non c’è nulla di ineliminabile, nulla a cui si debba rassegnarsi come inevitabile. Solo, bisogna rendersi conto che si tratta di fenomeni complessi, che bisogna studiare e capire, anche per individuare le misure più idonee a contrastarli, a livello interno delle attività produttive, ma anche a livello esterno, con adeguata considerazione anche di tutti i fattori
«ambientali».

CAPITOLO QUARTO
LA DISCIPLINA NORMATIVA E LA SUA ATTUAZIONE

1. Il sistema normativo e la sua evoluzione
Sul piano della disciplina normativa, l’Italia è forse il Paese che ha dedicato maggior attenzione al problema della sicurezza del lavoro.
Già nel codice penale del 1930 veniva introdotta una norma (articolo 437) che prevede sanzioni di particolare gravità per coloro che dolosamente creino situazioni di grave pericolo per l’incolumità dei lavoratori.
Nel codice civile del 1942 veniva introdotta una disposizione di grande rilievo (articolo 2087), che imponeva al datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a garantire la completa tutela del lavoratore.
Con l’articolo 32 della Costituzione (tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività), anche le disposizioni precedenti assumevano un valore ancora più pregnante, proprio perché il bene salute veniva elevato a rango costituzionale.
Successivamente, veniva emanata una disciplina analitica di particolarissimo rilievo, tanto che in gran parte conserva ancora il suo valore, nonostante il decorso del tempo: col DPR 27 aprile 1955 n. 547 si dettavano disposizioni generali di prevenzione e di sicurezza, mentre col DPR 19 marzo 1956, n. 303, si prevedeva un regolamento generale di igiene del lavoro. Una serie di altri provvedimenti specifici ed analitici completava, via via, il quadro.
Con lo Statuto dei lavoratori (articolo 9) veniva riconosciuto il diritto dei lavoratori al controllo ed alla promozione delle misure di prevenzione di sicurezza.
Infine, con la legge di riforma sanitaria (23 dicembre 1978, n. 833), la sicurezza del lavoro veniva inserita fra gli obiettivi principali del Servizio Sanitario Nazionale e alle USL era devoluto il compito di provvedere alla prevenzione degli infortuni e delle malattie; con l’articolo 24 si conferiva una delega ad emanare un nuovo testo unico, fissando in 18 punti i princìpi fondamentali del sistema. La delega non veniva rispettata e quindi del testo unico si finiva per non parlare più; ma restavano i princìpi fondamentali attorno ai quali avrebbe dovuto ruotare il sistema: l’unificazione della disciplina attorno al concetto di prevenzione, la visione globale della salute negli «ambienti di lavoro e di vita», il coordinamento delle attività attraverso le strutture pubbliche e particolarmente attorno a quelle della Sanità, la partecipazione all’opera di prevenzione delle organizzazioni sindacali e degli stessi lavoratori.
Un sistema, dunque, completo e in qualche modo anticipatore di quelli che sarebbero andati emergendo come orientamenti comuni dei Paesi più industrializzati del mondo.
E tuttavia un sistema operante con molte difficoltà, sia di coordinamento che di attuazione. Del testo unico, come si è già detto, non si fece nulla; la riforma sanitaria ha vivacchiato, anche per questa parte, tra disfunzioni, venti di controriforma, inattuazione; la legislazione successiva al 1978, in materia di sicurezza, è apparsa frammentaria e discontinua e si è ridotta ad un affastellamento di leggi e decreti su materie disparate, spesso senza alcun coordinamento (disposizioni sul cloruro di vinile, sulle funi metalliche, sulla segnaletica di sicurezza, sulla prevenzione degli incendi, sulla sicurezza degli impianti, sulle mole abrasive, sui ponteggi sospesi, e così via).
Intanto, però, si andava profilando un crescente interesse della Comunità europea sui problemi della sicurezza e della prevenzione, tanto che venivano emanate – in costante progressione – una serie di direttive di enorme importanza, che il nostro Paese avrebbe dovuto recepire. E, in effetti, si è provveduto (o meglio si è «dovuto» provvedere), ma con costante e sistematico ritardo, col risultato non solo di un’ovvia incertezza, ma anche del sovrapporsi di disposizioni e di discipline e con quello, ancor più grave, della attuazione, in un unico provvedimento, di numerose direttive ormai abbastanza arretrate. L’attuazione delle direttive è stata, dunque, costantemente in ritardo, compiuta in modo affannoso in prossimità delle scadenze, spesso sottraendo al Parlamento buona parte del tempo necessario per esprimere i prescritti pareri. Ciò è accaduto, tanto per fare qualche esempio, col DPR 17 maggio 1988, n. 175 sui rischi rilevanti (6 anni di ritardo e proprio nel Paese che era stato teatro della tragedia di Seveso), col DPR 15 agosto 1991, n. 277 (che doveva attuare la direttiva emanata in un arco temporale assai ampio, dal 1980 al 1988, su materie di grande rilievo come gli agenti chimici, il piombo, l’amianto, il rumore), col decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 77, che attuava una direttiva vecchia di quattro anni in materia di protezione contro i rischi di esposizione agli agenti chimici, fisici, biologici. Ma il caso più clamoroso è quello del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, col quale si dava attuazione a ben 8 direttive (4 del 1989 e 4 del 1990) riguardanti il miglioramento complessivo della sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro e delle quali una – la 391/1989 – era comunemente definita come «direttiva-quadro».
Questo provvedimento, emesso proprio alla scadenza della delega, appariva subito di enorme importanza. Tant’è che è accaduto che in questi anni ci si sia abituati, da parte di molti, a parlare del «626» come se si trattasse dell’unica disposizione esistente in Italia in materia di sicurezza.
Ma non era finita; poco dopo, si è dovuto dare attuazione (sempre con ritardo) alla direttiva sulle industrie estrattive, a quella sulla segnaletica di sicurezza, a quella sulle lavoratrici madri e infine a quella sui cantieri mobili e temporanei.
Insomma, un’invasione a tutto campo, con risultati – come si vedrà – alterni.
In effetti, questo diluvio di direttive comunitarie si è sovrapposto al sistema precedente, senza cancellarlo e così producendo anche l’impressione di un complesso farraginoso di norme, talora di non agevole interpretazione ed applicazione.
Molti hanno attribuito a questo dato non poche delle difficoltà di applicazione concreta della normativa. Vi sarebbe, cioè, scarsa chiarezza, la farraginosità produrrebbe incertezze interpretative, gli stessi organi di vigilanza non riuscirebbero ad attenersi a criteri uniformi. Tutto ciò è senza dubbio reale, per alcuni versi e torna a proporre con forza l’esigenza di un testo unico, già recepita – come si è detto – nella legge di riforma sanitaria, poi caduta nel nulla (salvo che nei convegni e negli incontri di specialisti ed operatori del settore, nei quali il tema è rimasto sempre vivo) ed oggi tornata nuovamente di attualità. Ma la prospettiva del testo unico, – sulla quale si tornerà più oltre – non può costituire un alibi per l’inosservanza della normativa. Esso potrà costituire, nel tempo, un ulteriore passo avanti, sulla via della semplificazione e della certezza del sistema. Ma già oggi vi è quanto basta perché i principali obblighi siano chiari e dunque debbano essere rispettati.
Per altro verso, va anche osservato che la novità rappresentata dalla introduzione di un simile complesso di direttive comunitarie, è apparsa così dirompente da far quasi dimenticare i precedenti normativi, peraltro – come si è visto – tutt’altro che insignificanti. Sul piano psicologico è da rilevare un fatto curioso: che, cioè, in tutte le audizioni del Comitato, praticamente quasi nessuno abbia fatto riferimento alle discipline precedenti e tutti abbiano fatto riferimento al mitico «626», nel bene e nel male.
Ciò fa pensare anche che ci si fosse abituati al sistema normativo fino al punto da dimenticarne la precettività. Non ci si può nascondere, infatti – ed alcuni lo hanno lealmente rilevato nel corso delle audizioni – che soprattutto in alcuni settori, le inadempienze sono state vistose e continue.
E forse anche questo ha concorso ad attribuire al «626» un valore così dirompente, quasi che per la prima volta, molti scoprissero che esistono norme precettive in tema di prevenzione, sicurezza ed igiene e che esse vanno rispettate.
Da rilevare, peraltro, che ad un complessivo chiarimento della situazione normativa e degli obblighi derivanti dalla legislazione nel suo complesso, non ha certo concorso una linea coerente dei massimi organi del Paese. Infatti, le direttive – come si è detto – sono state attuate tutte con forte ritardo e non sempre si è riusciti a resistere alle pressioni di chi invocava proroghe, dilazioni o comunque modifiche. Col risultato di un’incertezza di fondo e di un’attesa – ancora oggi da parte di alcuni settori – di ulteriori dilazioni.
Per restare, per ora, agli aspetti più generali, si può rilevare che, in alcuni settori si è riscontrato un notevole difetto di informazione sulla nuova disciplina (sono state più efficaci, bisogna dirlo, le iniziative delle organizzazioni imprenditoriali e delle organizzazioni sindacali che quelle della pubblica amministrazione). E va anche detto che vi è stata, e vi è tuttora, una qualche difficoltà, sempre per alcuni settori, a cogliere «la filosofia» di fondo del sistema proveniente dalle direttive comunitarie e soprattutto il suo profondo carattere innovativo. Alcuni ne hanno dato una lettura riduttiva e passiva, ispirando i propri comportamenti più ad una esigenza di evitare sanzioni che non ad una convinzione sentita della necessità, e addirittura della convenienza, della prevenzione. Assai diffusa è anche una concezione puramente burocratica, che riduce gli adempimenti di maggior rilievo, come la valutazione dei rischi, ad un dato cartaceo e formalistico.
Insomma, come è stato esattamente rilevato, l’aspetto fondamentale del «626» – quello di modernizzazione culturale, di investimenti in risorse umane e formative, di analisi consapevole di rischi e di progettazione della prevenzione – resta ancora un obiettivo da raggiungere.
L’effetto più positivo e pregnante del «626», ad oggi, è quello di aver rappresentato uno «scossone» in quella che stava diventando una paludosa rassegnazione al fatalismo.
Del «626» tutti sono stati costretti a parlare, nel bene e nel male, per coglierne l’essenza, per individuare i modi per attuarlo, per protestare, per chiedere proroghe. Mai c’erano stati tanti convegni, seminari, incontri tra esperti ed operatori; mai tanto fervore di iniziative e di discussioni. Mai la dottrina, compresa quella specialistica, era apparsa così interessata ai problemi della sicurezza; i testi sulla sicurezza e la prevenzione, assai scarsi fino ai primi anni ’90, si sono improvvisamente moltiplicati dopo il «626», arricchendosi di pubblicazioni scientifiche, divulgative ed operative, come mai era accaduto nel passato (nel materiale che verrà allegato alla sintesi dei lavori del Comitato sarà inserito, per la parte più strettamente giuridica, un elenco – molto ampio – delle pubblicazioni in tema di sicurezza e di prevenzione di questi ultimi anni; per la parte più «tecnica» basterà la consultazione dei più recenti trattati di medicina del lavoro, rispettivamente a cura di Ambrosi e Foà per la UTET e di Casula per Monduzzi Editore).
Insomma, il «626» e le norme successive hanno assunto il ruolo di «protagoniste», soprattutto sul terreno delle prospettiva della formazione di una nuova cultura della prevenzione.

2. Problemi e difficoltà di attuazione:
a) gli organi centrali pubblici.
Naturalmente, tra un salutare «scossone culturale» e l’attuazione concreta ci corre un universo. Ai tanti aspetti positivi (le iniziative delle organizzazioni imprenditoriali, le prese di posizione e le scelte delle organizzazioni sindacali, il rinnovato interesse persino della dottrina e della pubblicistica) non ha fatto ancora riscontro un quadro di reale e diffusa attuazione della normativa. Anzi, a voler cogliere gli aspetti essenziali della sintomatologia di cui disponiamo, bisogna riconoscere che non solo non c’è da essere rassicurati, ma anzi addirittura permangono forti preoccupazioni per il futuro e soprattutto per quello immediato, quanto meno se non ci sarà una svolta positiva, da parte di tutti, soggetti pubblici e privati.
Dall’intera indagine del Comitato è apparso evidente che i ritardi e le inadempienze sono distribuite in modo non uniforme sia a livello geografico sia a livello dimensionale delle imprese. Ci sono zone d’Italia in cui il «626», più che inattuato, è addirittura sconosciuto; per altri versi, è assolutamente evidente che le maggiori difficoltà ed i maggiori ritardi si realizzano a livello di piccole (e talora medie) imprese ed a livello di artigianato.
Ma nonostante l’ottimismo di alcune dichiarazioni, l’elusione della normativa è assai diffusa e deve considerarsi ancora come prevalente, almeno per alcuni aspetti.
L’impressione è che l’emanazione del decreto legislativo n. 626 del 1994 sia stata colta senza troppa fretta, in alcuni settori, ed anzi con la convinzione che i termini dei principali adempimenti fossero ancora lontani; per di più si era diffuso, a livello più o meno latente, il convincimento che ci sarebbero state delle proroghe o degli alleggerimenti e che dunque non era il caso di affrettarsi. La vicenda delle proroghe parziali, concesse per decreto legge e poi con le modifiche al «626» è significativa. Ancor di più è l’attesa messianica che aveva circondato il cosiddetto decreto «mille proroghe», poi decaduto per mancata conversione in legge. Come si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che molti abbiano affermato di essere stati colti di sorpresa, di aver avuto poco tempo a disposizione, di essersi trovati scoperti a seguito della mancata conversione del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 670? Tutto questo, è ovvio, non significa che non ci si renda conto di alcune difficoltà oggettive e di alcuni problemi che la nuova normativa ha posto per la pubblica amministrazione, per un verso e per artigiani e piccole imprese sotto altro profilo. Ma, per quanto riguarda la pubblica Amministrazione, il problema vero sta nel fatto che non si è previsto nulla, diversi Ministeri si sono fatti cogliere di sorpresa e impreparati, non si è provveduto a stanziare i fondi necessari o ad irrobustire, con destinazione specifica, i fondi a disposizione dei Ministeri maggiormente interessati. È mancata una progettazione complessiva, anche sul piano economico, e la definizione di una strategia di intervento. E forse anche in questo caso, è prevalsa la convinzione che poi tutto sarebbe andato a posto in qualche modo. Non ci si è resi conto che, così operando, si sarebbe dato un cattivo esempio; né ci si è resi conto di quale effetto dirompente avrebbe necessariamente assunto, anche sul piano psicologico, la notizia della lunghissima proroga, inserita in extremis, nel disegno di legge collegato alla Finanziaria 1996, per gli adempimenti di sicurezza relativi alle scuole. Neppure si è compresa la negatività del segnale che sarebbe derivato, per tutti, dall’inserimento nel decreto-legge n. 670 del 1996, prima di ogni altra cosa, di una proroga per l’emanazione di provvedimenti imposti dal decreto legislativo n. 626 del 1994 ed attesi, giustamente, da molte amministrazioni pubbliche. Dalle audizioni è inoltre emerso il ritardo con cui la pubblica amministrazione ha pensato alla propria organizzazione come «datore di lavoro» e responsabile degli edifici pubblici. C’è stata anche qualche incertezza nella normativa; ma anche i chiarimenti apportati col decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 242, non hanno prodotto apprezzabili risultati.
Infine, se molti ritardi nell’emanazione di decreti ministeriali previsti dal «626» sono stati e sono, senza dubbio, negativi, occorre sottolineare che da moltissime parti è stata fatta osservare la particolare gravità della mancata emanazione dell’atto di indirizzo e coordinamento da parte del Consiglio dei Ministri «per assicurare unità ed organicità di comportamento in tutto il territorio nazionale» (articolo 25).
Bisogna riconoscere che tutte le audizioni di rappresentanti dei Ministeri più direttamente interessati, hanno suscitato nel Comitato una sensazione di insoddisfazione, di inadeguatezza, di mancanza di collegamenti, di ritardo. Il Ministero della sanità, in concorso col Ministero del lavoro, avrebbe dovuto rappresentare il perno del sistema della prevenzione. Ma le critiche, soprattutto da parte della periferia e particolarmente dalle regioni, sono state fortissime, perché del Ministero della sanità è stata notata soprattutto l’assenza (il documento del coordinamento delle regioni parla di un «ruolo marginale, quasi inesistente» del Ministero della sanità). Il decreto 17 gennaio 1997, n. 58, relativo al tecnico della prevenzione, da alcuni considerato l’unico vero segno di vita, ha raccolto più critiche che consensi; un altro provvedimento in gestazione ha suscitato solo preoccupazione ed allarme in molti soggetti. Ma soprattutto è mancato un qualsiasi ruolo di indirizzo, una concreta attenzione al problema della prevenzione come prioritario, la rivendicazione di quel ruolo preminente che alla struttura sanitaria nel suo complesso è attribuito dalla legislazione vigente. È ben vero che, da parte del Ministero della sanità, si è fatto rilevare che ad un questionario diffuso alle regioni per conoscere lo stato degli organismi della prevenzione si è molto stentato ad avere risposte sollecite ed adeguate; ma questo è un altro segnale di preoccupazione, per la scarsità e difficoltà di rapporti tra regioni e Ministero. D’altronde, l’attribuzione di reciproche responsabilità non farebbe certo fare un passo avanti all’opera di prevenzione ed anzi rappresenterebbe un ulteriore aspetto di negatività. D’altronde, la stessa strutturazione del Ministero, per ciò che attiene ai servizi della prevenzione, appare assolutamente inadeguata non solo allo svolgimento di compiti reali ma anche alla finalità di rappresentare un punto di riferimento importante, per tutti gli organismi impegnati nella materia della sicurezza e dell’igiene.
Fin qui si è detto della pubblica amministrazione e degli organi centrali preposti al delicato settore di cui ci stiamo occupando.

b) I soggetti privati.
Ma si era accennato anche all’inadempimento da parte dei privati. Dall’indagine è emerso che il livello di attuazione della normativa è sicuramente superiore per ciò che attiene alle imprese medio-grandi, delle quali non poche avevano già sentito l’esigenza di adoperarsi per ridurre i rischi ed altre avevano colto la necessità di uniformarsi alla nuova disciplina. Tuttavia, i dati disponibili non sono indicativi di un adempimento totale. Rimangono ancora molte zone di ombra; e va anche detto che se una buona sensibilità è stata dimostrata dalle maggiori organizzazioni imprenditoriali, ciò non significa che il messaggio sia stato raccolto da tutte le imprese e ci si possa considerare soddisfatti; tanto più che poi restano aree di elusione soprattutto tra le imprese che non sono neppure associate e quindi sono meno sensibilizzate alla problematica.
Ma i problemi principali, come è noto, sono insorti soprattutto per gli artigiani e per le piccole imprese. In questo caso, benché sia difficile disporre di dati precisi e benché si siano raccolte anche informazioni contraddittorie, tuttavia emerge con evidenza che assai maggiore, in questo caso, è il livello di inadempimento della normativa.
Delle difficoltà reali, anche di ordine economico ed organizzativo, esistono certamente e vanno riconosciute; per alcune piccole aziende i costi possono apparire consistenti, mentre in non pochi casi l’adempimento anche ad obblighi rilevanti, come quello della valutazione dei rischi, si scontra contro problemi di capacità professionali, tecniche ed organizzative, imponendo il ricorso a consulenti, non sempre adeguatamente preparati e spesso ingiustificatamente costosi.
In ripetute occasioni, e già fin dal primo parere espresso a riguardo dello schema di decreto legislativo predisposto dal Governo e destinato a trasformarsi, poi, nel decreto legislativo n. 626 del 1994, le Commissioni lavoro della Camera e del Senato avevano richiamato l’attenzione sulla necessità di prevedere misure di sostegno e norme premiali a favore di coloro (soprattutto piccole imprese e artigiani) che intendessero davvero mettersi in regola ma incontrassero difficoltà reali ed oggettivamente dimostrate. Nel parere emesso dalla Commissione lavoro del Senato in data 2 agosto 1994, ci si era soffermati addirittura in una elencazione delle misure che sarebbe stato opportuno adottare (agevolazioni, sgravi contributivi, stanziamenti a favore delle Regioni per il finanziamento di programmi di risanamento ai fini della sicurezza, crediti agevolati, predisposizione e fornitura di servizi, riduzione di tariffe INAIL). Tutto questo non fu recepito e l’unico provvedimento emanato in questi anni è stato il decreto ministeriale che autorizzava, solo per settori e casi limitati, una modesta riduzione dei contributi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro; provvedimento peraltro limitato e ritenuto sostanzialmente inefficace da tutti coloro che sono stati ascoltati dal Comitato. È stata prospettata, nell’ambito del Comitato (onorevole Anna Maria De Luca), la possibilità di ottenere finanziamenti comunitari proprio per aiutare le aziende ad ottemperare alle direttive in materia di sicurezza. Il Comitato non dispone di elementi sufficienti per stabilire se ciò sia – allo stato – concretamente possibile, nell’ambito dei rapporti comunitari. Tuttavia, ritiene giusto sottoporre all’attenzione degli organi competenti il problema, nell’ambito delle misure che, come meglio si preciserà più avanti, devono essere poste in campo per agevolare l’attuazione della normativa di sicurezza anche con adeguati strumenti di sostegno alle imprese.
Su questo tema si tornerà ancora in sede propositiva; in questa sede, però, mette conto di soffermarsi su un interrogativo basilare, se cioè queste difficoltà possano giustificare l’inadempimento. Il Comitato è dell’avviso che sarebbe stata opportuna una maggiore insistenza sul tema delle misure di sostegno, da parte dei soggetti interessati, piuttosto che esercitare pressioni per ottenere proroghe. L’azione sarebbe stata, forse, più produttiva ed efficace.
Infatti, le proroghe hanno, notoriamente, gravi difetti: quello di creare una situazione di disparità rispetto a chi ha regolarmente e tempestivamente adempiuto, e quello di creare uno stato psicologico di attesa, magari, di ulteriori proroghe. È un dato dimostrato da una diffusa esperienza; e basterebbe ricordare, per tutti, il caso della legge sull’adeguamento degli impianti elettrici alle regole di sicurezza, che risale al 1990, che ha avuto più proroghe e si voleva gratificare di un’ulteriore proroga nel più volte nominato decreto-legge n. 670 del 1996; tutto ciò a sette anni di distanza dall’emanazione e in un settore di fortissima esposizione a rischio.
L’opinione del Comitato è che, a fronte della situazione cui si è accennato, il problema sia quello di ottenere un progressivo adempimento da parte di tutti, quali che siano le dimensioni delle imprese, senza creare illusioni o provocare ulteriori ritardi. Per «accompagnare» le aziende verso l’adempimento, ci sono due misure che possono essere concretamente adottate (anzi «debbono» esserlo): la prima è quella di un provvedimento, congruamente finanziato, che contenga norme di sostegno e premiali; la seconda è quella di un consapevole ed equilibrato utilizzo da parte degli organi della vigilanza, della «prescrizione» prevista dal decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758. Non si tratta, cioè, di chiudere gli occhi di fronte alla inadempienza ma di avvalersi con saggezza di una facoltà prevista dalla legge, che può condurre verso l’adeguamento alla normativa senza strappi eccessivi, pur restando in vita – come è giusto – la sanzione puramente economica prevista dallo stesso provvedimento.
È noto che si è tentato anche di azzerare questo tipo di sanzione ovvero di ridurla ulteriormente; ma non va dimenticato che il decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 242, contenente disposizioni integrative e modificative del decreto legislativo n. 626 del 1994, ha già provveduto, per le contravvenzioni accertate fino al 31 dicembre 1997, a raddoppiare i termini ordinari per le prescrizioni ed a ridurre della metà le sanzioni amministrative finali. Ed anche di recente, in altro provvedimento in favore dell’occupazione si è presentata un’altra misura di alleggerimento (c’è da sperare che sia l’ultima). Al di là di questo, non sembra sia possibile andare, senza compromettere l’intero sistema e far venire meno una congrua risposta alle esigenze della prevenzione. Da ultimo va ricordato, ma il tema sarà oggetto di specifica trattazione in prosieguo, che il problema dei costi non deve mai essere considerato in modo isolato e che è tempo che tutta la problematica dei rapporti tra costi e benefici venga affrontata con serio approfondimento, così come sta avvenendo in tutti i Paesi più avanzati.

3. Gli altri Paesi della UE
Ci si è chiesti, spesso, che cosa sia accaduto negli altri Paesi, a seguito delle direttive comunitarie di cui si è detto. Si sono scritte molte cose improvvisate e non sempre attendibili, anche approfittando della carenza di pubblicazioni aggiornate sull’argomento. In realtà, gli altri Paesi della Comunità hanno proceduto all’attuazione delle direttive spesso con maggior tempestività dell’Italia; alcuni Paesi non hanno accusato difficoltà o ritardi proprio perché alcune delle indicazioni delle direttive non solo erano state realizzate da tempo, ma anzi avevano costituito proprio lo spunto fondamentale per la costruzione di quelle direttive. D’altronde, è evidente che non può realizzarsi un’applicazione uniforme di un nuovo sistema, in tutti i Paesi, se non altro perché esso si cala su discipline diverse. È così accaduto, ad esempio, che la filosofia «partecipativa» delle parti sociali non ha trovato difficoltà di sorta in Francia, Svezia e Germania, dove era in atto da tempo, mentre lo «scossone» è stato più forte – su quel piano – in altri Paesi, come il Portogallo, il Regno Unito e la Spagna.
Da un recente convegno presso il CNEL, a livello di comparazione, è emerso: che la realizzazione di un nuovo modello di tutela ha costretto tutte le legislazioni a modifiche anche di sostanza; che la garanzia di una migliore sicurezza passa necessariamente attraverso una migliore formazione anche dei lavoratori; che i nuovi sistemi hanno rivelato, ovunque, l’insufficienza di una vera cultura della prevenzione e che la loro effettiva attuazione si fonda soprattutto sul potenziamento dei sistemi formativi e dei diritti di informazione e consultazione.
Il resto, ovviamente, è costituito da aspetti specifici, sui quali non è possibile la comparazione, essendosi le direttive calate su sistemi completamente diversi.
È interessante, però, rilevare che della famosa direttiva-quadro e delle direttive particolari successive, poi tradotte nel decreto legislativo n. 626 del 1994, si sono colti, in Europa, i due aspetti fondamentali: la responsabilizzazione dei soggetti, soprattutto mediante l’obbligo di procedere ad una valutazione preventiva dei rischi e delle misure da adottare nelle singole aziende; e la valorizzazione di un sistema di relazioni industriali di tipo partecipativo e collaborativo, sul terreno della prevenzione. È un monito esplicito per coloro che continuano a ritenere che dal decreto legislativo n. 626 del 1994 e dintorni siano scaturiti soltanto nuovi obblighi, nuove procedure e nuove formalità.

CAPITOLO QUINTO
GLI ORGANI DELLA PREVENZIONE

1. Gli organi centrali
Un efficace sistema di prevenzione, in generale ma soprattutto a seguito della più recente disciplina, richiede un perfetto e pieno funzionamento degli organismi centrali e periferici, un reale coordinamento fra i vari organi, l’assolvimento con adeguate strutture e dotazioni e con forte impegno complessivo, dei compiti a ciascuno riservati.
Se infatti il «motore» centrale non funziona, se non vi è adeguata assistenza e consulenza, se manca una reale forma di sorveglianza prevenzionale, tutto rischia di incepparsi e la buona volontà degli operatori rischia di scontrarsi con ostacoli insormontabili. Tutti i dati e le notizie raccolte confermano che siamo ben lontani da un sistema che funzioni a regime.
Quell’esercito della sicurezza di cui si è parlato in qualche pubblicazione e che dovrebbe essere tutto in campo per compiere un’opera di prevenzione davvero efficace, è tuttora in via di formazione; ma è ben lontano – ancora – sia numericamente che qualitativamente da quello che dovrebbe essere il reale obiettivo.
Sulle varie figure soggettive dei protagonisti della sicurezza (responsabili dei servizi di prevenzione, medici e tecnici competenti, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) ci si soffermerà più oltre. Conviene ora cominciare dai vertici, vale a dire dagli organi centrali, per esaminare poi che cosa risulti a riguardo della funzione di assistenza, consulenza e vigilanza. Da ciò si potrà anche cominciare a delineare la concreta effettività del sistema in atto e soprattutto la sua corrispondenza o meno rispetto alle prospettive.
Bisogna dire che, allo stato, il sistema appare molto lacunoso anche sul versante dei «generali» che dovrebbero presiedere all’esercito della sicurezza. Sono state espresse, nel corso delle indagini, molte notazioni non positive, a partire dalla funzionalità degli organismi centrali.
Si è già accennato alle critiche che da molte parti vengono indirizzate nei confronti dei Ministeri competenti, per ciò che attiene alla loro iniziativa, al loro ruolo di indirizzo e di coordinamento, alle modalità con cui essi si collegano fra loro e – a loro volta – con i centri di ricerca e, in generale, con le istituzioni pubbliche. Molti si aspettano benefici sostanziali da un complessivo riordino del sistema dei soggetti pubblici in attuazione dei provvedimenti di delega e di decentramento, di recente approvati. Si dovrebbero, in sostanza, mantenere a livello centrale le funzioni di pianificazione generale, le funzioni di supporto tecnico di alto livello e i compiti di indirizzo, trasferendo il resto al livello regionale. Opinioni da condividere, ma che presuppongono il superamento della attuale incapacità da parte di molti organi centrali di svolgere le funzioni sopra indicate e in particolare quella di programmazione, coordinamento e indirizzo. Insomma, se non si rafforza su questo terreno il dipartimento di prevenzione del Ministero della sanità e se non trova il modo di collegarsi strettamente con gli altri Ministeri competenti, in particolare con quello del lavoro, e di mantenere stretti legami con le regioni, il problema resterà insoluto e insolubile. Critiche sono state avanzate anche nei confronti della Commissione consultiva permanente per la prevenzione di cui all’articolo 26 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche. Per la verità, era intuibile (e le Commissioni parlamentari lo avevano rilevato, in sede di parere sullo schema di decreto legislativo) che una Commissione così complessa ed elefantiaca avrebbe trovato serie difficoltà di funzionamento. In effetti, così è avvenuto; e l’adempimento degli importantissimi compiti fissati nell’articolo 26 è rimasto troppo spesso sulla carta o arretrato rispetto alle esigenze e rispetto alle attese degli operatori e della «periferia». I processi decisionali risultano assai lenti; la funzionalità è limitata, al punto che è stato rilevato anche un qualche malessere fra i componenti della Commissione maggiormente impegnati (e maggiormente delusi dallo scontro con troppe difficoltà); spesso, i pareri richiesti giacciono a lungo prima di essere evasi. È chiaro che tutto questo rappresenta una grave lacuna, che bisognerà rimuovere con celerità.
Ma da critiche non vanno esenti anche altri Istituti, come l’Ispesl, che – secondo non pochi – non riesce ad assolvere alle sue funzioni in modo adeguato, nonostante disponga di strutture e di mezzi tutt’altro che modesti. Vi è un divario, sul punto, nel senso che la direzione dell’Ispesl lamenta carenze, soprattutto di personale e di mezzi; da altre parti, invece, si esprime un giudizio critico, nel senso che le risorse non sarebbero adeguatamente utilizzate, i settori di lavoro procederebbero in modo separato e senza reali coordinamenti, le verifiche e omologazioni di competenza dell’Ispesl verrebbero svolte spesso con enormi ritardi. Si tratta, certamente, di un problema da approfondire e da risolvere, perché un Istituto che ha compiti di ricerca, studio, sperimentazione, elaborazione di criteri innovativi, consulenza, informazione e documentazione, che dovrebbe al tempo stesso costituire l’organo tecnico del Servizio sanitario nazionale e un importante strumento di assistenza per i privati, non si giustifica se non riesce a svolgere tempestivamente ed adeguatamente i suoi compiti. L’ambiziosa iniziativa cui ha fatto riferimento il Ministro del lavoro, della creazione e messa in funzione di una task-force unitaria costituita dal Ministero del lavoro, dall’INAIL, dall’Ispesl, dal CNR e dall’Istituto di medicina sociale, può essere di indubbia utilità, a condizione che ognuno degli organismi destinati a farne parte non solo sia efficiente e impegnato sul terreno della prevenzione, ma anche disponibile a rapporti intensi di collaborazione e di coordinamento.
Ma anche altre critiche sono state formulate all’indirizzo della concreta attuazione dell’articolo 24 del decreto legislativo n. 626 del 1994, in virtù del quale diversi Enti o Istituti sono incaricati di svolgere attività di informazione, consulenza e assistenza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, in particolare nei confronti delle imprese artigiane e delle piccole e medie imprese e rispettive associazioni. Poiché è diffusa la lamentela relativa alla carenza di un sistema informativo, di consulenza e assistenza e poiché molti soggetti privati fanno riferimento più alle proprie associazioni (o addirittura a consulenti privati) che non ai soggetti indicati nell’articolo 24 del predetto decreto, ciò significa che quanto meno, il sistema deve considerarsi ancora oggi tutt’altro che a regime, nel senso che non si è ancora creato quel circuito continuativo ed efficiente che era chiaramente nelle intenzioni del legislatore.
A prescindere dalle considerazioni di carattere generale, allo stesso INAIL viene attribuita un’impostazione ancora eccessivamente di tipo assicurativo e quindi poco corrispondente alle finalità e ad alle funzioni di cui al predetto articolo 24. L’Istituto ha riferito delle iniziative assunte, in questo campo, a seguito del decreto legislativo n. 242, del 1996 tuttavia, forse anche per la ristrettezza dei tempi, sembra che l’area degli interventi possibili e dovuti sia ancora lontana dall’essere coperta e che le iniziative adottate debbano essere accelerate e poste in campo nella loro interezza al più presto; tanto più che l’Istituto dispone di mezzi e strumenti importanti e dunque, almeno sul piano economico, non deve scontrarsi – come invece accade ad altri organismi – con serie difficoltà.
Certo, ogni sistema presenta delle difficoltà prima di entrare a regime; ma qui non c’è dubbio che occorre una forte accelerazione ed un forte impegno da parte di tutti. Altrimenti, gli effetti possibili, visto che di assistenza, informazione e consulenza c’è grande bisogno, come tutti affermano, saranno due ed entrambi con potenzialità fortemente negative: da un lato saranno le ASL ad assumere questo tipo di attività, a danno dei compiti di prevenzione e con gli squilibri e difetti che si sono già verificati e che sono stati segnalati (con riferimento, particolarmente, a situazioni verificatesi a Roma, Napoli e in altre sedi); dall’altro, prenderanno sempre più campo i consulenti privati e purtroppo, molti di quelli «improvvisati» che costituiscono attualmente uno dei problemi più seri da affrontare e risolvere, come meglio si vedrà più avanti.

2. Gli operatori periferici: le USL e la funzione di vigilanza
Ma la situazione non è migliore per quanto riguarda gli operatori periferici, a più diretto contatto con la realtà.
Anzitutto, va lamentato un consistente ritardo nella creazione dei Dipartimenti di prevenzione; in alcune regioni mancano tuttora; in altre, ci sono, ma non brillano per funzionalità. Eppure, è questo sistema che, posto a regime, può consentire una vera impostazione del sistema prevenzionale, a tutti i livelli e in tutti i settori.
Ma l’aspetto più grave è quello che riguarda la funzionalità complessiva degli organi di vigilanza.
Partendo da quelli sanitari, va riscontrato anzitutto un fenomeno serio e preoccupante. Con la costituzione delle ASL, è accaduto in molti luoghi che l’attività di vigilanza vera e propria, intesa non solo e non tanto come attività di repressione quanto come attività di prevenzione a tutto campo, sia stata la più sacrificata. D’altronde, se l’obiettivo di un’Azienda è solo quello di pareggiare il bilancio, il rischio è quello di privilegiare il servizio offerto in cambio di pagamenti; ed è proprio questo che sta avvenendo da molte parti, con grande svantaggio per l’attività di vigilanza.
Ma i fenomeni di disfunzione e di carenze sono assai più complessi.
Non intendiamo soffermarci su casi clamorosi come quello della ASL di Venosa (Melfi) che – avendo nel suo territorio alcuni ospedali, lo stabilimento Fiat e ben 23 aziende dell’indotto – è strutturata in modo da potersi occupare al più degli ospedali: fatto gravissimo perché, se si deve presumere che nello stabilimento della Fiat sia interesse precipuo dell’organizzazione aziendale non avere interruzioni dell’attività produttiva e quindi evitare incidenti, è clamoroso il fatto che le 23 aziende su indicate non siano mai state visitate da nessuno e non siano neppure destinate ad esserlo, data la scarsità di risorse umane e di strumenti a disposizione dell’organo di vigilanza locale. Ancora più grave il fatto che all’interno di quella ASL non vi sia un solo operatore dotato di qualifica d’ufficiale di polizia giudiziaria. Ma, anche a prescindere da questi casi-limite, ci sono moltissime situazioni in cui l’organo di vigilanza non può svolgere i suoi compiti in modo adeguato, per carenza di personale, di strumenti e di mezzi.
Ciò risulta, del resto, evidente anche dal fatto che solo in pochissimi casi questi organi di vigilanza programmano le loro visite, mentre nella stragrande maggioranza delle ipotesi agiscono su input esterno, o di privati o di organizzazioni dei lavoratori o addirittura della magistratura. Questo è un limite gravissimo, perché finisce per affidare la vigilanza alla casualità oppure all’ipotesi in cui qualcosa si è verificato o sta per verificarsi, lasciando in ombra tutte le situazioni che invece avrebbero bisogno di controlli assidui ed efficaci, ai fini della prevenzione.
Molti operatori hanno lamentato carenze di personale; ciò deriva, in parte dai limiti previsti dalla normativa vigente per le assunzioni nella pubblica amministrazione e in parte anche da una fuga verso il privato che, soprattutto nei centri maggiori, sta diventando preoccupante; ed infine, c’è il fenomeno cui si è già accennato, di una ripartizione di compiti, all’interno delle ASL, a tutto sfavore dell’attività di vigilanza.
Così accade che mentre ci sarebbe bisogno di una sorveglianza più attenta, assidua e qualificata, si assiste ad un depauperamento perfino delle strutture operative già esistenti. Va detto, per lealtà e chiarezza, che ci sono aree in cui per varie ragioni (tra cui una certa tradizione di interessamento serio alla prevenzione, la presenza di soggetti particolarmente preparati ed impegnati, e così via) si riesce a programmare ed a operare con efficienza (Torino, alcune aree della Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, eccetera). Ma non è casuale il fatto che queste aree «privilegiate» si trovino tutte nel Centro-Nord. Ed è altrettanto significativo il fatto che operatori impegnati ed attenti di alcune aree del Sud, nell’assoluta mancanza di qualsiasi punto serio di riferimento, si rivolgano spontaneamente ai colleghi di queste aree del Nord per avere informazioni, suggerimenti, scambi di esperienze. In sostanza, se è esatta la valutazione proposta da alcune importanti organizzazioni sindacali, secondo cui solo il 3 per cento dell’universo delle imprese sarebbe oggetto di vigilanza annualmente programmata, c’è da essere seriamente preoccupati sull’efficacia del sistema e sull’avvenire della prevenzione.
Oltre tutto, ciò accade proprio mentre aumentano e divengono più complessi i compiti degli organi di vigilanza.
Praticamente da tutte le parti è giunta una forte indicazione perché la vigilanza non sia ispirata a concetti meramente repressivi, ma sia improntata anche e soprattutto alla volontà di ottenere rapidamente l’adempimento agli obblighi di legge anche mediante suggerimenti e incoraggiamenti.
Tutto questo è senza dubbio esatto, anche perché corrisponde allo spirito ed alla filosofia del decreto legislativo n. 626 del 1994. Ma si tratta di un aspetto sul quale non sono utili gli equivoci.
Anzitutto, i soggetti che svolgono attività di controllo e vigilanza non possono svolgere attività di consulenza (articolo 24, comma 2). E quindi occorre evitare pericolose e illegittime commistioni. Diverso è il caso della assistenza; e va considerato a parte lo strumento della prescrizione.
Si è a lungo parlato, nel passato, della cosiddetta «sorveglianza prevenzionale», utilizzando un termine assai significativo soprattutto per la finalizzazione delle attività di vigilanza e per la sottolineatura di un dato essenziale: che cioè interessa non tanto punire, quanto e piuttosto ottenere sicurezza e dunque fare prevenzione.
Ciò era evidente, per alcuni, anche prima della più recente normativa. Ma è stato giustamente osservato che il decreto legislativo n. 626 del 1994 ha inciso profondamente sul ruolo degli organi di controllo, presupponendo lo svolgimento di attività di prevenzione nelle aziende, la verifica e la gestione delle comunicazioni, l’attività di informazione e formazione nei confronti dei soggetti coinvolti, il dialogo e la partecipazione con i responsabili dei servizi di prevenzione e con i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza.
Che dunque gli organi di vigilanza debbano agire con questo spirito appare evidente, senza fiscalismi e senza formalismi inutili e dannosi.
Ma è anche certo che la sanzione è prevista dalla legge anche come deterrente. Ed è indubbio (ma questo vale per tutto il settore penale) che l’ideale sarebbe che ognuno si attenesse alla legalità per convinzione e non perché indotto dalla necessità di evitare una pena. Ma questa situazione è – appunto solo ideale, perché alcuni preferiscono comunque scegliere l’illegalità, o sperano, nell’impunità. La sanzione, dunque, sia pure come ultima ratio, è prevista dalla legge per punire i colpevoli e per scoraggiare i potenziali inosservanti.
In una materia come quella della sicurezza, l’obiettivo fondamentale è quello di prevenire. Ed allora, se le varie forme di incoraggiamento e di assistenza non bastano, è stato individuato, col decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 il sistema delle prescrizioni, che mira soprattutto ad ottenere l’adempimento, l’eliminazione della situazione di potenziale pericolo. Si tratta di un sistema eccellente, che ha posto fine ad una querelle protrattasi per venti anni e che è perfettamente in grado di funzionare, anche se alcuni pensano che i termini previsti (sia pure come massimi, ma anche con possibilità di proroga) siano troppo lunghi, a fronte delle situazioni di pericolo su cui, appunto, le prescrizioni devono operare. Ma il punto fondamentale è che la prescrizione comporta una forte carica di discrezionalità; e per garantirne il buon uso, l’unico sistema è costituito dall’efficienza dell’organo e dalla professionalità dell’operatore.
Su questo terreno si lamentano ancora molte carenze: da più parti si è detto che troppi operano ancora con spirito repressivo e fiscale; non pochi hanno lamentato diversità di comportamenti e divergenze interpretative perfino all’interno della stessa USL; molti vorrebbero una maggior uniformità di indirizzi e di orientamenti.
Questo è proprio il limite principale, che induce a ritenere urgente e indispensabile non solo un ampliamento degli organici, ma anche un processo di formazione continuo ed incessante ed un reale coordinamento di azioni e di indirizzi.
Riassumendo, la situazione complessiva può essere sintetizzata in relazione a quanto emerso da tutte le audizioni e sopralluoghi e dalle stesse ammissioni del Sottosegretario alla sanità: il personale impiegato nei servizi di igiene e sicurezza è meno dell’1 per cento del personale complessivo del Servizio sanitario nazionale; la dotazione strumentale è scarsa; il personale di vigilanza è spesso sottratto a questo compito per essere adibito ad altre funzioni all’interno delle ASL; manca una programmazione degli interventi e la verifica dei risultati; c’è una forte disparità tra le regioni del Sud e quelle del Nord, in termini di disponibilità di risorse, di strutture e talora anche di impegno; ci sono professionalità anche valide e qualificate, ma in numero insufficiente e comunque con necessità di formazione e aggiornamenti continui. Infine se il piano sanitario nazionale assegnava il 5,3 per cento del fondo sanitario alla prevenzione, e la delibera del CIPE il 6 per cento, in realtà, nelle concrete assegnazioni, non si va oltre il 2,5 per cento. A tutto questo va aggiunto il complesso di carenze, discontinuità, disattenzione per il lavoro di prevenzione e di vigilanza, che caratterizzano non poche regioni, le quali molto spesso si comportano come gli organi centrali, occupandosi d’altro o restando assenti da questo settore o comunque non intervenendo in modo adeguato per sostenere con strumenti operativi, destinazioni di risorse e attribuzioni di mezzi, la complessiva attività di prevenzione e dei rischi da lavoro.
In questo quadro così preoccupante, assumono particolare rilievo e meritano di essere valorizzati i casi in cui, con encomiabile impegno, gli operatori di alcune USL hanno cercato volontariamente di superare le carenze e le difficoltà, ponendo in campo energie ed iniziative di grande rilievo, arrivando perfino ad istituire osservatori sulle malattie da lavoro, in stretto collegamento con organismi universitari o sistemi di monitoraggio. Non è possibile, tuttavia, che il volontarismo e l’impegno individuale possano sopperire a lacune e carenze così gravi come quelle più sopra denunciate. Occorre dunque mettere in campo un progetto globale di prevenzione, che aiuti a colmare le disparità geografiche, incrementi i livelli di professionalità e le dotazioni strumentali; altrimenti, finirà che si scoraggeranno e rientreranno nelle file dell’ordinaria amministrazione perfino i volonterosi che a Torino, Brescia, Ravenna, Bologna, Genova, Vicenza (per dire solo di alcuni casi) stanno cercando di fare da soli ciò che dovrebbe costituire attuazione di un programma comune su tutto il territorio nazionale.

3. Ispettorati del lavoro e altri organismi
Fin qui, si è parlato degli operatori dei servizi di vigilanza delle ASL; ma occorre far riferimento anche alla complessa questione inerente agli ispettori del lavoro. Come è noto, l’intera funzione di vigilanza è passata alle USL, fin dalla legge di riforma sanitaria, restando agli ispettori soltanto funzioni residuali molto limitate. (Per una conclusiva chiarezza sul punto, v. il recente scritto di O. Colato, Prevenzione dei rischi lavorativi e poteri residuali di indagine degli ispettori del lavoro, in «Medicina del lavoro», 1971, 1, pag. 77 e successive).
A questa situazione, però, molti ispettori hanno reagito negativamente, considerandosi privati di un ruolo molto importante; sicché, soprattutto nel corso di alcuni sopralluoghi, non sono mancate vere e proprie requisitorie contro il sistema, da un lato e contro gli operatori delle USL dall’altro. Per di più, in molti casi, l’autorità giudiziaria ha continuato a rivolgersi, per le indagini, agli ispettori del lavoro.
Il decreto legislativo n. 626 del 1994 non ha migliorato la situazione, nel senso che l’articolo 23, pur attribuendo i compiti principali, in tema di vigilanza, alle USL, ha in qualche modo previsto un reingresso dell’ispettorato per le attività che comportino rischi particolarmente rilevanti, da individuare con apposito decreto, peraltro ad oggi non ancora emanato. La stessa norma, nel prevedere i compiti residuali dell’ispettorato in materia di sicurezza, stabilisce l’obbligo di informare preventivamente il servizio di prevenzione e sicurezza dell’USL competente per territorio. Ma questo, ovviamente, non basta.
Dall’insieme della disciplina è derivata un’ulteriore confusione di ruoli e la possibilità di conflitti di competenza, laddove – anche in virtù di rapporti personali fra gli operatori non si riescano ad individuare e porre in essere precise forme di cooperazione.
A questi inconvenienti, bisogna aggiungere l’assoluta inadeguatezza degli organici degli ispettorati. Dai dati del Ministero del lavoro risulta che il personale con qualifica ispettiva in servizio al 31 dicembre 1996 era di 1455 ispettori e 330 assistenti, contro un organico previsto di 2468 e 1142 assistenti. E se il Senato ha provveduto di recente ad integrare tale organico, è un fatto certo che bisognerà prima completare almeno gli organici attuali e poi procedere anche alla copertura dei posti istituiti ex-novo; il che richiederà certamente non poco tempo, nonostante ogni sforzo. È del tutto evidente che in una situazione del genere, l’ispettorato non riesce neppure a svolgere il suo più tradizionale compito di istituto, vale a dire il controllo del rispetto della normativa del lavoro. Attività, quest’ultima, di fondamentale importanza anche ai fini della prevenzione. È noto che lavoro nero e mancanza di sicurezza procedono di pari passo; ne deriva che l’unica soluzione possibile è quella di un rafforzamento degli ispettorati per lo svolgimento dei loro compiti fondamentali, di un irrobustimento degli operatori sanitari per le ragioni già accennate e di un efficace coordinamento fra loro per tutti i casi in cui gli accertamenti debbano procedere di pari passo, come accade abitualmente nell’edilizia ed in altre attività particolarmente esposte a rischi e nelle quali è frequente il lavoro nero o anche solo irregolare.
L’assenza di un coordinamento è fortissima, al di là di ogni conflitto di competenza. In sostanza, c’è lavoro per tutti, ognuno nel proprio campo; ma c’è anche l’esigenza che tutti siano messi in condizioni di svolgerlo e soprattutto che non ci sia una miriade di interventi disparati e magari sovrapponibili. D’altronde, là dove vi sono stati Prefetti o altri organi dello stato che hanno compreso la delicatezza del problema e si sono fatti promotori di forme svariate di coordinamento, i conflitti sono scomparsi ed i risultati sono stati proficui.
Lecito, dunque, aspettarsi che anche il legislatore faccia chiarezza, sulla linea originaria (quella della legge di riforma sanitaria), senza creare ulteriori complicazioni come quella dell’articolo 23 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e provvedendo, invece, a creare vere e proprie strutture di coordinamento, per le finalità sopra indicate.
Del resto, questo discorso vale anche per le altre indicazioni dello stesso articolo 23, che ha finito per complicare le cose anche in materia di sicurezza negli ambiti aeroportuali. Col comma 4 dell’articolo 23, la confusione è arrivata al massimo e il rischio di sovrapposizioni, soprattutto tra USL, Ispettorato del lavoro, Autorità marittime ed Autorità portuali è diventato di grande attualità, col risultato che alcuni settori (ad esempio le navi) rischiano di essere troppo spesso «territorio di nessuno». Sotto questo profilo la situazione non è granché migliorata rispetto ai tempi della tragedia di Ravenna (1987) e nonostante alcune lodevoli iniziative di coordinamento e di definizione di protocolli di sicurezza, che conseguirono, appunto, all’emozione di quel terribile 1987.
Salvo rarissime eccezioni, giustificate da assoluti motivi di peculiarità dei servizi, sarebbe opportuno che i compiti della vigilanza e di prevenzione fossero tutti affidati alle USL, lasciando a loro il compito di avvalersi di volta in volta di specifiche competenze di altri organi. Per quanto il Comitato ha potuto constatare, nel corso di sopralluoghi in località marittime, molto oggi resta affidato allo spirito di collaborazione, a rapporti personali, all’adozione di iniziative di coordinamento. Ma ancora una volta non è possibile affidarsi allo spontaneismo; e chiarezza vorrebbe che una volta per tutte ci fosse una precisa e definitiva attribuzione delle competenze, in qualunque area o settore.
Oltretutto, il sovrapporsi di competenze fra organi diversi, ma tutti ugualmente carenti di organico, di strumenti, di dotazioni e di professionalità specifiche, non fa che incrementare la speranza dell’impunità, mantenendo non poche imprese in una situazione di attesa, nella speranza (in alcuni casi quasi la certezza) di riuscire a farla franca. Ed anche questo non è certamente un dato positivo.

4. Prescrizione, funzione giudiziaria e sistema sanzionatorio
Si è già accennato, più sopra, a proposito dei rapporti tra attività di vigilanza e attività repressiva, all’importanza dell’istituto della prescrizione.
Il Comitato ha cercato di stabilire se esso abbia funzionato in concreto e come sia stato complessivamente accolto. Salvo qualche voce discordante, che però proviene da chi vorrebbe eliminare ogni forma di sanzione (il che, come si è detto, non è ipotizzabile), il giudizio generale è estremamente positivo, pur rendendosi conto del maggior lavoro e della maggior professionalità che questo comporta.
I dati, come è noto, scarseggiano sia in materia di prescrizioni che in materia di giustizia. Ma da quello che è stato possibile acquisire, emerge che un buon uso della prescrizione produce risultati positivi, a tutti gli effetti, nel senso che – da un lato – induce all’adempimento e quindi alla eliminazione delle situazioni di pericolo e – dall’altro –deflaziona il carico della Giustizia.
I diversi magistrati ascoltati hanno infatti riferito che alla stragrande maggioranza delle prescrizioni (secondo alcuni, addirittura il 99 per cento) fa seguito l’adempimento e conseguentemente l’estinzione dell’azione penale. E non hanno mancato di rilevare che, se alla fine il sistema può assimilarsi a quello di una sostanziale depenalizzazione, è tuttavia importante che resti pur sempre il deterrente della sanzione penale, come esito conclusivo, non auspicato da nessuno, ma in qualche modo inevitabile quando vi sia un’inosservanza grave degli obblighi di legge e perfino delle prescrizioni.
Per altro verso questo sistema può costituire, come accennato, uno strumento di deflazione dell’attività giudiziaria, che alcuni hanno paragonato ad un «motore imballato». Certo, i dati restano impressionanti; praticamente, a quanto è stato riferito, si fanno pochissimi processi per le contravvenzioni e questo non solo nei casi in cui ci sia adempimento alla prescrizione, ma anche perché i pochi casi residui finiscono per prescriversi prima del dibattimento; in vista del quale va ricordato, esisterebbe ancora la possibilità dell’oblazione, oltre che – nei casi più seri – quella del patteggiamento.
In sostanza, la giustizia riesce ad attivarsi solo nei casi in cui un evento (infortunio o malattia) si è già verificato, procedendo per il reato di lesioni colpose o per quello di omicidio colposo. Ma i tempi sono estremamente lunghi, sia per quanto riguarda le indagini preliminari (a Milano, sede in qualche modo privilegiata, occorre almeno un anno e mezzo per il rinvio a giudizio, dal momento del fatto), sia e soprattutto per quanto riguarda la fase del giudizio. Nei rari casi in cui a questi procedimenti si assegna una corsia preferenziale, la celebrazione del processo richiede non meno di due-tre anni e vi sono già udienze in calendario per il 2000.
Ciò si risolve in vero e proprio diniego di giustizia per il lavoratore (o i suoi aventi diritto) che sia stato colpito da infortunio o malattia con rilevanza penale. E non va dimenticato che, comunque, in vista del dibattimento e dopo magari lunghissime attese, c’è sempre la possibilità del patteggiamento, l’ammissione al quale solo in alcune sedi giudiziarie viene abitualmente subordinata alla prova della rimozione del pericolo o addirittura all’avvenuto risarcimento: nella stragrande maggioranza dei casi, al patteggiamento si è ammessi senza condizioni e resterà allora all’interessato la possibilità di promuovere ex novo un giudizio civile, con un’ulteriore, lunghissima attesa.
Queste considerazioni servono anche per disperdere alcuni equivoci, che permangono in questa materia e di cui qualche eco si è colta anche nel corso dell’indagine. Si è detto, da alcuni, che le sanzioni sono troppo rilevanti, non sempre graduate alla gravità dell’infrazione, e che il momento repressivo dovrebbe costituire l’ultima ratio.
La risposta è nei dati forniti più sopra. Si concorda in toto sul fatto che la sanzione penale deve essere l’ultima ratio e deve essere riservata ai fatti che compromettono beni rilevanti e di natura primaria, come l’incolumità fisica e la salute. Ma il sistema, come si è visto, consente di adempiere alla prescrizione con una semplice sanzione di natura amministrativa e non penale (ridotta della metà, fino al 31 dicembre 1997, al seguito del decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 242, e comunque non particolarmente rilevante anche senza tale riduzione). Per le semplici contravvenzioni, come si è detto, difficilmente si procede, o per l’adempimento della prescrizione o per l’oblazione o perché il reato finisce per prescriversi. Dunque, la sanzione penale è riservata ai reati di lesioni colpose e omicidio colposo, reati la cui capacità lesiva di beni primari non è posta in discussione da nessuno. Anche in quelle ipotesi, comunque, è ammesso il patteggiamento, che consente di concludere la vicenda penale senza ulteriori conseguenze e in ogni caso senza sanzioni accessorie.
Dunque, è opportuno che si faccia chiarezza e si dia atto che le tanto temute sanzioni penali sono riservate soltanto agli inosservanti ad ogni costo ed a coloro che hanno cagionato lesioni o morte, sia pure per colpa e non per dolo. Ciò non significa, comunque, che il sistema normativo sia perfetto e non abbia bisogno di qualche aggiustamento, anche al fine di eliminare alcune incongruenze. Ne è stata rilevata, ad esempio, una, inerente alla disparità del trattamento riservato a due diverse comunicazioni (quella relativa alla notizia della nomina del responsabile della sicurezza, la cui mancanza è sanzionata in via amministrativa e quella relativa alla notizia dell’assunzione, in proprio, di tale funzione da parte del datore di lavoro, sanzionata penalmente).
Occorrerà verificare se alla base della segnalata incongruenza vi sia una qualche motivazione razionale; altrimenti è chiaro che si imporrebbe un intervento normativo di adeguamento.

CAPITOLO SESTO
LE PRINCIPALI FIGURE DEL SISTEMA DI PREVENZIONE

1. Il responsabile del sistema di prevenzione, interno ed esterno; il problema dei consulenti; il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS)
Si è già accennato ad un esercito di operatori o addetti alla sicurezza che, secondo la disciplina vigente, dovrebbe essere già in campo; e si è già accennato al fatto che numerose carenze strutturali impediscono ancor oggi di parlare davvero di un impiego massiccio e qualificato dei soggetti principali della prevenzione.
Conviene ora soffermarsi su tre figure fondamentali, previste dal decreto legislativo n. 626 del 1994, per vedere come in concreto esse si siano andate realizzando. Ci riferiamo al responsabile del servizio di prevenzione e protezione (articolo 8), al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (articolo 18) ed al medico competente (articoli 2 e 17). Per quanto riguarda il primo, risulta che gran parte delle aziende medio-grandi ha provveduto a designarlo; nei casi consentiti, inoltre ci si è avvalsi spesso della facoltà prevista dall’articolo 10 (svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione e protezione dei rischi). Peraltro, mancano dati sicuri per valutare l’estensione effettiva degli adempimenti suindicati, nell’una e nell’altra ipotesi. Ciò che lascia, comunque, forti perplessità, è la qualità dei responsabili dei servizi di prevenzione, non solo perché non è detto che questa figura abbondi, con le necessarie capacità ed attitudini, ma anche perché l’indicazione normativa dei requisiti è sempre apparsa estremamente lacunosa e generica, sia per quanto riguarda il responsabile interno che per quello esterno (che devono essere «in possesso di attitudini e capacità adeguate»). Ma la formula è troppo generica anche per il caso in cui il datore di lavoro intenda avvalersi, per consulenza e assistenza, di persone esterne all’azienda, che devono essere in possesso «delle conoscenze professionali necessarie per integrare l’azione di prevenzione o protezione». A detta di molti, questo è uno dei punti più carenti dell’attuazione del sistema. Ed è chiaro che, da un lato occorrono processi formativi intensi ed adeguati e dall’altro occorre restringere l’area di speculazioni e abusi da parte di improvvisati consulenti.
Quanto all’ipotesi in cui il datore decida di svolgere direttamente il compito di prevenzione, va rilevato che in sede di prima applicazione e comunque non oltre il 31 dicembre 1996, il predetto era esonerato dalla frequenza del corso di formazione, restando però ferma l’osservanza degli altri adempimenti posti dallo stesso articolo 10, comma 2, lettera a), b) e c); è risultato che nell’attesa un po’ messianica di una proroga, parecchi datori di lavoro non hanno fatto le prescritte comunicazioni all’organo di vigilanza; sicché, si è creata una situazione non facile, a cui in varie occasioni è stato chiesto di porre rimedio con una sorta di sanatoria, almeno limitata al primo periodo. Non spetta al Comitato pronunciarsi sul punto, pur rendendosi conto che se davvero si trattasse – come si è sostenuto – della mancanza di un mero adempimento formale, la situazione meriterebbe una qualche comprensione e tolleranza, ovviamente in limiti estremamente contenuti di tempo e senza che ciò possa essere inteso come ulteriore proroga o dilazione.
È stato rilevato che una situazione in qualche modo analoga si è verificata anche in relazione ad altro adempimento formale (la comunicazione del nominativo del responsabile della sicurezza agli organi di vigilanza) che in diversi casi sarebbe stato omesso o ritardato sia per difetto di informazione, sia in relazione alle aspettative determinate dal famoso decreto-legge n. 670 del 1996, poi decaduto. Valgono, a questo riguardo, le stesse considerazioni formulate più sopra.
Con riserva di tornare ancora sul problema della formazione, è opportuno rilevare come il dilagare di consulenti privi di una reale qualificazione sia stato segnalato praticamente nel corso di tutte le audizioni, come un fenomeno estremamente negativo, che danneggia quel processo formativo e di riconoscimento di effettive capacità professionali, anche a livello concorrenziale cui si è già accennato, e reca inoltre gravi e ingiustificati pregiudizi economici soprattutto in danno degli artigiani e delle piccole imprese.
Sono stati segnalati casi numerosissimi di autentici abusi; alcuni hanno parlato di una vera e propria «barbarie» sia per quanto riguarda l’aspetto relativo alla mancanza di reali requisiti professionali, sia per ciò che attiene ai costi, in molti casi assolutamente ingiustificati. Si è richiesto, da molte parti, di porre rimedio ad un fatto così negativo, dando suggerimenti e indicazioni preziose su cui si tornerà specificamente nella parte conclusiva.
È da rilevare che un’importante Associazione di addetti alla sicurezza ha costituito un proprio sistema di certificazione, per ora solo per titoli (ma molti ritengono che occorrerebbe qualcosa di più), distinguendo varie figure di addetti alla sicurezza e consulenti.
Altri (vedi il contributo di un membro del Comitato, il senatore Napoli, ad un recente convegno) hanno proposto di fissare alcuni parametri e requisiti di riferimento, per i servizi esterni e per i consulenti (affidabilità, esperienza, controllo di qualità, garanzie per gli eventuali danni recati al committente, eccetera).
Tutti hanno comunque rilevato l’iniquità di un «mercato» privo di controllo e non sottoposto né a requisiti precisi né ad alcuna forma di certificazione. Se la soluzione più corretta sia quella della istituzione di un albo e della previsione di un tariffario o quella della determinazione di precisi requisiti di affidabilità e professionalità, basati su dati obiettivi, è questione su cui si tornerà più oltre. Per ora, è sufficiente registrare il fenomeno e constatarne l’estrema negatività, ma sottolineare al tempo stesso come vada progredendo anche una corretta e approfondita informazione su di esso e sulle soluzioni possibili.
Quanto alla figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, la legge non ha fissato (né, forse, avrebbe potuto farlo) alcun requisito; ma ha indicato, con l’art. 19, una tale quantità di attribuzioni da rendere indispensabile, in questa figura, il possesso di requisiti di informazione, conoscenze e competenze senza dei quali non riuscirebbe, certo, a svolgere il suo compito. Ciò a maggior ragione ove si consideri che se, come è evidente dal testo normativo, non si tratta più, come si riteneva un tempo, di un semplice «controllore», ma di un soggetto partecipe dell’opera complessiva di prevenzione, da una competenza specifica non si può assolutamente prescindere, se non si vuole vanificare tutto il disegno partecipativo ed il nuovo tipo di relazioni industriali. Oltre tutto, si tratta di vincere la tendenza, presente in non pochi datori di lavoro e rilevata nel corso di molte audizioni, a considerare il RLS come il destinatario di comunicazioni imposte dalla legge e nulla di più, se non addirittura – come accade fortunatamente in minor numero di – un fastidio che si è costretti a sopportare. Tendenze del genere ovviamente sono destinate a scomparire non solo col maturare di una vera cultura della prevenzione, ma anche con la progressiva acquisizione da parte di tutti i RLS dei necessari requisiti di conoscenze e competenze.

2. La formazione
Ma a questo punto bisogna tornare sul tema della formazione. Praticamente, non c’è stata una audizione in cui questo tema non sia stato sottoposto, e con forza, all’attenzione del Comitato; e questo non solo per i ripetuti riferimenti contenuti nella disciplina normativa vigente, ma anche perché tutti sentono che questo è uno dei nodi principali da sciogliere, se si vuol fare decollare davvero il sistema della prevenzione.
Orbene, bisogna riconoscere che da tutti gli elementi acquisiti, risulta che c’è stato uno sforzo notevole da parte delle organizzazioni imprenditoriali, delle organizzazioni sindacali e di molti soggetti privati che si occupano di sicurezza del lavoro, oltre che degli organismi paritetici tra le parti sociali. Uno sforzo di gran lunga superiore a quello messo in campo dalla pubblica amministrazione, in tutti i suoi organi, essendo emerso che le attività svolte in questo campo, dagli organi centrali, dalle regioni, dagli operatori periferici, sono stati limitati, discontinui e disorganici. Senza contare gli effetti negativi del grave ritardo con cui si è provveduto a definire – con apposito – i contenuti formativi e la relativa incompletezza anche delle indicazioni in essi contenute. E va anche rilevato che molti hanno sostenuto che il pacchetto formativo così delineato è troppo modesto, particolarmente per ciò che attiene alla brevità dei periodi formativi.
Ma le stesse forze sindacali e imprenditoriali non si ritengono soddisfatte di quanto compiuto finora, nonostante lo sforzo di cui si è detto. Anzitutto perché i processi di formazione hanno riguardato assai di più le aziende maggiori che non le piccole realtà produttive, nelle quali spesso una vera formazione non esiste oppure è limitata ai più volenterosi.
In secondo luogo, perché troppo spesso si fa confusione tra informazione e formazione quasi che si tratti di sinonimi. Infine, perché è tale il bisogno di formazione che è difficile sopperire a tutte le necessità. Ci sono casi, da segnalare, in cui – mediante accordi con le regioni – si è cercato di utilizzare anche i finanziamenti comunitari; altri, in cui le regioni stesse hanno stanziato decine di miliardi per la formazione specifica degli addetti alla sicurezza (fra le altre: Toscana, Emilia, Liguria); altri ancora in cui sono stati avviati sistemi formativi, con ricchezza di materiale a disposizione, da parte di organismi unitari (ad esempio il dipartimento ambiente e lavoro di CGIL-CISL-UIL Lombardia), specificamente destinati ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Vanno altresì ricordate le numerose iniziative dei comitati paritetici ex articolo 20 e degli Enti bilaterali costituiti da tempo. E va menzionato anche lo sforzo di alcune USL particolarmente impegnate, pur nella scarsità di mezzi a disposizione, anche su questo terreno.
Il rischio è che tutti questi sforzi non solo non siano sufficienti (come è pacifico), ma anche che la mancanza di precisi input da parte degli organi centrali e l’affollamento di iniziative scoordinate finiscano per creare sovrapposizioni inutili, lasciando poi ampie lacune e spazi vuoti. Ha ragione chi ha parlato della necessità di un vero e proprio new-deal, che si fondi sulla completezza e sul coordinamento delle iniziative e degli sforzi e che crei le condizioni anche per l’utilizzo di tutti i fondi disponibili, a livello centrale, regionale e comunitario. Certo, c’è anche il problema della formazione dei formatori, da molti rilevato; ma anche qui le forze in campo sono numerose; e non bisogna dimenticare che le regioni hanno compiti specifici in materia di formazione (legge 21 dicembre 1978, n. 845) e che è necessario che li utilizzino fino in fondo anche a questo fine specifico.
Insomma, si tratta di una grande sfida e di una vera e propria scommessa: non si vince una guerra così complessa e difficile se non mettendo in campo, davvero, un esercito di operatori e addetti seriamente qualificati e in possesso dei necessari requisiti. È inutile continuare a dire, come non pochi hanno fatto, che tutte queste competenze continuano a mancare, almeno in misura sufficiente per le necessità: bisogna coordinare e intensificare tutti gli sforzi per realizzare una formazione adeguata ed una professionalizzazione di tutti gli operatori. Su questa linea, vi è un convincimento radicato in tutti i Paesi della UE: bisogna che l’Italia si allinei a quelli più avanzati e che ai vari livelli e nei vari settori tutti si sentano impegnati a realizzare un così importante obiettivo.
Va solo osservato, per concludere sul punto, che un impegno del genere presuppone anche qualcosa di più, sul quale si tornerà nella parte propositiva: una formazione di base da realizzarsi in ogni ordine di scuola ed alla quale dovranno essere aggiunti appositi e specifici insegnamenti in tutte le scuole e istituti dai quali provengono gran parte dei tecnici e degli operatori della sicurezza (Istituti tecnici e professionali, facoltà di Ingegneria, corsi di laurea in materia di avanzata tecnologia, eccetera).

3. I medici competenti
Un capitolo a parte riguarda il «medico competente», come tale definito dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e successive modifiche, ed al quale la legge attribuisce compiti o funzioni di primaria importanza.
In questo caso la legge ha definito con precisione i titoli di cui si deve essere in possesso per acquisire la qualifica di medico competente, con una limitazione ispirata alla necessità di garantire un buon livello di professionalità e con una modesta apertura attuata col decreto legislativo n. 242 del 1996.
Si è discusso e si discute se il numero dei medici competenti disponibili sia sufficiente o meno. E di questo dibattito si è avuto riscontro in numerose audizioni. Dai dati acquisiti risulta che i medici competenti sono attualmente 8124 (vedi dichiarazioni del professor Albritti e lettera 18 novembre 1996 indirizzata dal Professor Franchini, per conto dell’Associazione Universitaria italiana di medicina del lavoro, ai Ministri dell’università, del lavoro e della sanità). L’opinione prevalente è che essi siano sufficienti e che, semmai, si tratta di garantire il ricambio predisponendo un piano almeno triennale, concordato tra Ministero dell’istruzione pubblica e Ministero della sanità, per determinare in maniera più consona il numero degli specializzandi, sì da portarli dagli attuali 80-90 l’anno a circa 180.
D’altronde, si sostiene che il potenziale dei medici competenti e disponibili è superiore a quello degli altri Paesi della UE.; e questa sarebbe un ulteriore conferma della congruità del potenziale disponibile. Tanto più che il decreto legislativo n. 242 del 1996 ha adottato misure di alleggerimento all’impegno complessivo del medico competente rispetto alla previsione originaria, facilitando quindi lo svolgimento del proprio ruolo, in condizione adeguate, per i medici già disponibili.
Peraltro, i dati di cui sopra sono stati sottoposti ad alcuni rilievi, da parte di componenti del Comitato ed in particolare dal senatore Roberto Napoli. Si è osservato che occorrerebbe accertare se davvero i medici indicati negli elenchi di cui sopra svolgano tutti la funzione loro attribuita e comunque se la svolgano a tempo pieno oppure in forma del tutto residuale rispetto ad altri tipi di attività. Si è sostenuto inoltre che il numero dei medici competenti risulterà inferiore alle necessità, a maggior ragione, a seguito dell’entrata in vigore delle norme sull’incompatibilità; e si è quindi proposto, manifestando perplessità circa l’effettiva praticabilità, in tempi brevi e con efficacia, dell’ampliamento di posti di specializzazione in medicina del lavoro, di estendere i requisiti previsti dalla legge anche ad altre specializzazioni e di valutare la possibilità di riaprire i termini di cui all’articolo 55 del decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277.
Come è evidente, siamo in presenza di problematiche ancora aperte, per le quali appare fondamentale – prima di ogni altra cosa – acclarare definitivamente i presupposti di fatto pur essendo doveroso rilevare che dalle audizioni non sono emerse doglianze circa la carenza numerica di medici competenti. Comunque, si rende sicuramente opportuno che il Ministero della sanità approfondisca l’accertamento circa la reale disponibilità di medici competenti e circa il loro effettivo impegno in questo lavoro; parimenti, sarebbe utile disporre di strumenti sicuri di raffronto dei dati con quelli degli altri Paesi dell’Unione europea.
Sarà infine opportuno acquisire vere e proprie mappe di disponibilità, anche a livello territoriale, per verificare se le disponibilità abbiano carattere omogeneo oppure vi siano squilibri per aree geografiche.
È certo comunque che preoccupazione diffusa e comune è quella di evitare il rischio di abbassare il livello qualitativo di una figura di tanta importanza, dalla quale si pretendono prestazioni oltremodo qualificate ed impegnative proprio sul terreno della prevenzione.
È stata sollevata una polemica a seguito di una modifica che il Ministro della sanità intenderebbe adottare rispetto al decreto legislativo n. 626 del 1994 (articoli 17 e 24) introducendo la possibilità di ricorso anche a medici «non specialisti»: l’opinione dei più qualificati docenti è che tale modifica costituirebbe un vero «attentato» all’aspettativa di qualità dell’assistenza.
Peraltro vi è anche chi sostiene autorevolmente che potrebbero ipotizzarsi due livelli di impegno: quello del medico competente in senso stretto, per lo svolgimento dei compiti fondamentali previsti dalla legge; e quello relativo alla possibilità di far operare nelle aziende una seconda fascia di medici per il solo svolgimento delle funzioni di pronto soccorso e prime cure.
Quali che siano le soluzioni da adottare in futuro, e condividendo comunque la critica che è stata formulata al progetto del Ministro della sanità, quello che appare certo è che i compiti più rilevanti del medico competente (articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994) presuppongono una severa ed accurata preparazione, competenza e specializzazione. Da questi presupposti, in nessun caso sembra possibile prescindere. Piuttosto, bisognerà trovare il modo per ampliare i livelli di preparazione e di competenza, in modo da garantire che il medico competente possieda conoscenze aggiornate anche in tema di ergonomia e di epidemiologia.

CAPITOLO SETTIMO
LA PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI ALLA PREVENZIONE E LE RELAZIONI SINDACALI

1. La linea partecipativa del decreto legislativo n. 626/94
Come si è già accennato, l’informazione, la formazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori rientrano tra le misure generali per la protezione della salute e la sicurezza del lavoro, in quanto necessarie per la realizzazione di un sistema di prevenzione che tenga conto di tutti i fattori di rischio presenti nell’organizzazione produttiva. Il comportamento attivo e collaborativo dei lavoratori costituisce anche il presupposto fondamentale per la circolazione delle informazioni e, dunque, per la conoscenza e la prevenzione di tutti i possibili fattori di rischio insiti nell’attività lavorativa. La previsione, contenuta negli articoli 18 e 19 del decreto legislativo n. 626 del 1994, di un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (d’ora in poi RLS), che deve essere nominato in tutte le unità produttive, risponde quindi all’esigenza di aprire un canale di partecipazione dei lavoratori, indispensabile per la realizzazione di un completo ed efficace sistema di prevenzione.
Se la previsione del RLS si è concretizzata con il recepimento nel nostro ordinamento delle direttive comunitarie, non si deve tuttavia trascurare che essa costituisce anche l’attuazione di una proposta della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle aziende svolta nel 1989, nella quale era stata evidenziata la necessità di estendere l’intervento dei lavoratori in materia di sicurezza e igiene del lavoro.
Un diritto di controllo e di promozione dell’attuazione delle misure di sicurezza, in effetti, era già previsto dall’art. 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, che, tuttavia, salvo alcune eccezioni, non aveva portato allo sviluppo e alla diffusione di relazioni aziendali volte alla promozione della sicurezza dei lavoratori.
Il decreto legislativo n. 626 del 1994, agli articoli 18 e 19, stabilisce le modalità di costituzione, le funzioni e le prerogative del RLS.
Per quanto riguarda le modalità di costituzione, il RLS è eletto direttamente dai lavoratori nelle imprese che occupano fino a 15 dipendenti, oppure è individuato in ambito territoriale per più aziende; nelle imprese di dimensioni maggiori, invece, il RLS è eletto o designato nell’ambito delle rappresentanze sindacali. Il legislatore ha poi fissato il numero minimo di membri della rappresentanza per la sicurezza, che varia a seconda delle dimensioni dell’impresa.
Al RLS sono riconosciuti i diritti di accesso nei luoghi di lavoro, di informazione, di consultazione e di proposta sull’adozione delle misure di sicurezza e il diritto di richiedere l’intervento dell’autorità.
La normativa è chiaramente orientata nel senso di privilegiare un ruolo attivo delle parti sociali. Infatti, le disposizioni sul RLS si limitano a definirne i caratteri e i diritti minimi, rinviando alla contrattazione collettiva il compito di definire in concreto il numero, le modalità di elezione o designazione, la formazione che deve ricevere, il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti di cui il RLS deve disporre per lo svolgimento dei propri compiti.
Alle parti sociali l’articolo 20 del decreto legislativo n. 626 del 1994 attribuisce anche un altro compito fondamentale: quello di orientare e promuovere, attraverso la costituzione di organismi paritetici, le iniziative di informazione e formazione dei lavoratori e di costituire la prima istanza di conciliazione delle controversie relative ai diritti di rappresentanza, di informazione e formazione. Con la previsione degli organismi paritetici, dunque, si completa l’assetto del sistema partecipativo delineato dalla nuova normativa.
La realizzazione pratica delle previsioni legislative, quindi, è strettamente collegata all’esito della contrattazione collettiva, che è chiamata a risolvere diversi problemi interpretativi e applicativi delle nuove disposizioni e a compiere consistenti sforzi per assicurare che il sistema prevenzionistico disegnato dal decreto legislativo n. 626 del 1994 trovi concreta realizzazione.

2. Gli accordi interconfederali
Nonostante alcune difficoltà incontrate dalle parti sociali, dovute principalmente alla questione dell’alternativa posta dalla legge tra elezione e designazione del RLS e alla definizione dei rapporti tra RLS e rappresentanze sindacali, in quasi tutti i grandi settori sono stati sottoscritti gli accordi interconfederali relativi alla costituzione del RLS e degli organismi paritetici.
Il primo accordo è stato quello sottoscritto il 22 giugno 1995 tra le organizzazioni sindacali e la Confindustria, al quale hanno poi fatto seguito gli accordi degli altri settori e la contrattazione di categoria. L’accordo si caratterizza principalmente per la scelta di una rappresentanza interna a quella sindacale, e per la definizione di un regime transitorio, che ha consentito la rapida attuazione delle disposizioni legislative. Infatti, il RLS dovrà essere eletto dai lavoratori contestualmente alle rappresentanze sindacali, ma, per consentirne l’immediata costituzione, è stato previsto che, sino alle prossime elezioni sindacali, il RLS è designato dalle rappresentanze sindacali al loro interno. Il numero dei RLS stabilito dall’accordo coincide con quello minimo previsto dalla legge, ciò perché, altrimenti, si sarebbe verificata una situazione in cui la rappresentanza competente in materia di sicurezza sarebbe stata numericamente più ampia di quella sindacale.
L’accordo disciplina poi le funzioni e le modalità di esercizio dei compiti del RLS.
Anzitutto, è stabilito uno specifico monte ore di permessi per il RLS, aggiuntivo rispetto a quello già riconosciuto ai membri delle rappresentanze sindacali, e differenziato a seconda delle dimensioni dell’impresa (12 ore per i RLS di aziende che occupano fino a 5 dipendenti, 30 nelle aziende che occupano fino a 15 dipendenti, e 40 ore per ogni rappresentante nelle imprese di dimensioni maggiori).
In secondo luogo, sono definite le modalità di accesso ai luoghi di lavoro, alle informazioni e alla documentazione aziendale e le modalità di consultazione del RLS. In merito, si deve rilevare che le disposizioni dell’accordo presentano alcuni aspetti innovativi rispetto a quanto stabilito dalle disposizioni legislative ma anche, sotto alcuni profili, alcune limitazioni alle prerogative del RLS. Un’importante innovazione si ha con la previsione della possibilità per il RLS di richiedere la convocazione della riunione periodica al presentarsi di gravi e motivate situazioni di rischio o di significative variazioni delle condizioni di prevenzione in azienda. Importante è altresì la disciplina prevista per la redazione dei verbali delle consultazioni del RLS, fondamentale per verificare il rispetto delle disposizioni di legge relative a questo aspetto dell’attività prevenzionistica.
Come si accennava sopra, tuttavia, alcune prerogative del RLS sembrano essere riconosciute in modo limitato. Così, per quanto riguarda il diritto di accesso nei luoghi di lavoro, riconosciuto incondizionatamente dalla legge, è stabilito che lo stesso dovrà essere esercitato nel rispetto delle esigenze produttive e previa segnalazione al datore di lavoro, mentre, per quanto riguarda il ruolo propositivo del RLS, l’accordo si limita a stabilire che il RLS ha facoltà di formulare proposte e opinioni in occasione della consultazione, avendone il tempo necessario.
L’accordo stabilisce inoltre le modalità di svolgimento della formazione del RLS, che deve avvenire mediante la fruizione di permessi retributivi aggiuntivi rispetto a quelli già previsti dall’accordo, deve prevedere un programma di 32 ore di base, che potrà essere integrato dalla contrattazione di categoria a seconda delle proprie specificità, e deve comprendere le conoscenze di base relative alla normativa prevenzionistica, ai rischi dell’attività e alle misure di prevenzione da adottare, alle metodologie di valutazione dei rischi e alle metodologie minime di comunicazione.
Gli altri accordi, come si accennava sopra, seguono abbastanza fedelmente le previsioni di quello sottoscritto da Confindustria, pur presentando alcuni significativi adattamenti alle particolarità dei settori disciplinati.
L’accordo relativo al settore delle piccole imprese è stato sottoscritto tra la Confapi e le organizzazioni sindacali il 27 ottobre 1995. Anche in questo accordo il numero dei RLS coincide con il numero minimo previsto dalla legge, ma agli stessi si riconoscono ulteriori prerogative, come quella di richiedere l’integrazione dell’ordine del giorno della riunione periodica di prevenzione o quella di avvalersi, qualora ciò sia comunemente valutato necessario, della consulenza di esperti esterni all’azienda.
Si distingue l’accordo sottoscritto il 3 settembre 1996 dalla Confartigianato, perché prevede l’istituzione del RLS territoriale per le imprese che occupano fino a 15 dipendenti. In questo accordo, tuttavia, i diritti del RLS appaiono fortemente limitati: il diritto di accesso ai luoghi di lavoro, infatti, è subordinato all’effettuazione di un’apposita richiesta almeno 7 giorni prima e alla presenza di un rappresentante dell’associazione a cui il datore di lavoro aderisce o conferisce mandato; inoltre, lo stesso diritto deve essere esercitato entro rigorosi limiti temporali.
L’elezione del rappresentante di bacino per le imprese di dimensioni minori è prevista anche dall’accordo interconfederale per il settore agricolo, sottoscritto il 18 dicembre 1996, che si differenzia per la composizione della rappresentanza, che varia in relazione al numero di giornate lavorative svolte nell’azienda anziché al numero dei dipendenti, essendo l’attività agricola caratterizzata dalla netta prevalenza del ricorso ad assunzioni a termine rispetto a quelle a tempo indeterminato. Questo accordo si distingue anche per quanto riguarda la formazione del RLS, limitata a 20 ore.
Per la pubblica amministrazione, il 7 maggio 1996 è stato siglato l’accordo quadro, che prevede modalità di costituzione, diritti e funzioni del RLS che sostanzialmente ricalcano quanto già previsto dall’accordo sottoscritto dalla Confindustria, prevedendo, però, per le amministrazioni che occupano fino a quindici dipendenti, la possibilità di nominare un RLS territoriale.
Gli accordi interconfederali hanno anche previsto l’istituzione degli organismi paritetici, come stabilito dall’articolo 20 del decreto legislativo n. 626 del 1994, realizzando un complesso sistema organizzativo per la gestione dei compiti attribuiti agli organismi in questione.
I principali accordi non hanno previsto la creazione di strutture completamente nuove: l’attuazione del dettato legislativo è avvenuta piuttosto attraverso la costituzione di apposite sezioni aggiuntive, competenti in materia di sicurezza, degli enti bilaterali per la formazione professionale già istituiti dalle parti sociali.
Il sistema degli organismi paritetici si articola su tre livelli: nazionale, regionale e provinciale.
Al livello nazionale sono attribuiti compiti di promozione della costituzione degli organismi territoriali, di definizione di linee guida e di coordinamento per l’attività degli organismi territoriali, di promozione dello scambio di informazioni e valutazioni relative agli aspetti applicativi della normativa vigente e delle proposte di riforma.
Agli organismi paritetici regionali sono attribuiti compiti di elaborazione dei progetti formativi e di raccordo con le regioni e con gli altri soggetti istituzionali operanti nel campo della sicurezza del lavoro, di coordinamento degli organismi provinciali e di tenuta degli elenchi dei RLS eletti.
Agli organismi paritetici territoriali sono attribuiti compiti di informazione e formazione dei soggetti interessati sui temi della sicurezza del lavoro, di raccolta dei dati relativi all’elezione del RLS e dell’istituzione del relativo elenco, di proposta nei confronti degli organismi regionali in materia di fabbisogni formativi e, come previsto dall’articolo 20 del decreto legislativo n. 626 del 1994, di composizione delle controversie relative all’applicazione della normativa in materia di rappresentanza, informazione e formazione dei lavoratori.
La contrattazione di categoria, per quanto risulta, si è limitata a ricalcare le disposizioni degli accordi interconfederali, salvo alcune eccezioni. Alcune categorie, come quella dei chimici e quella delle imprese a prevalente partecipazione statale, infatti, avevano sviluppato già prima dell’emanazione del decreto legislativo n. 626 del 1994 un proprio sistema di partecipazione dei lavoratori sulle tematiche della sicurezza, altre, invece si sono attivate grazie alla nuova normativa, prevedendo anche soluzioni originali. Nel comparto sanità, per esempio, il contratto nazionale di categoria ha previsto la costituzione di una rappresentanza aggiuntiva rispetto a quella sindacale e un livello di negoziazione regionale che avrà il compito di verificare la congruità del numero di RLS e delle ore di permesso che sono attribuite loro.
Del tutto assente, almeno per quanto risulta, è la contrattazione di comparto nel settore della pubblica amministrazione, dove l’accordo quadro non ha ancora trovato concreta attuazione.
Soltanto in alcune importanti aziende, come la Zanussi, la Fincantieri, l’ILVA e la Merloni, sono stati stipulati accordi integrativi aziendali in materia di partecipazione dei lavoratori alla sicurezza e igiene del lavoro, ma, da parte sindacale, è stato altresì sottolineato che in molte altre aziende nazionali, come le Poste, gli accordi applicativi non sono ancora stati stipulati, mentre, in altre, gli accordi firmati non hanno ancora trovato applicazione.

3. L’elezione o designazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
Come si è detto sopra, le parti sociali, pur con fatica, sono riuscite a trovare un accordo, procedendo alla stipulazione degli accordi interconfederali per l’applicazione delle disposizioni del decreto legislativo n. 626 del 1994 relative all’istituzione del RLS e degli organismi paritetici.
Le maggiori difficoltà però sono emerse dopo, nella fase di attuazione degli accordi sottoscritti.
Secondo i dati disponibili, sono stati eletti circa 13-15.000 RLS (13.346 secondo i dati forniti da Confindustria e 15.690 secondo quelli provenienti dalle confederazioni sindacali). La maggior parte dei RLS è stata eletta nelle regioni industrializzate del Centro-Nord: 2.986 in Lombardia, 2.281 in Piemonte, 2.004 in Veneto, 1.484 in Toscana, 1.190 in Emilia, 641 in Liguria, e 594 nelle Marche. Molti RLS sono stati eletti anche in altre regioni: 415 nel Lazio, 460 nel Friuli Venezia Giulia, e 324 in Trentino Alto Adige. Decisamente peggiore è la situazione nelle zone del meridione e di alcune altre regioni: in Puglia sono stati eletti 312 RLS, in Campania 228, in Umbria 180, in Abruzzo 114, in Sardegna 12, in Valle d’Aosta 11 e in Calabria 10. Per quanto risulta, nessun RLS è stato eletto in Molise, Basilicata e Sicilia.
Non sono disponibili dati sul totale dei RLS che a norma di legge avrebbero dovuto essere eletti.
Secondo valutazioni abbastanza concordi delle parti sociali, comunque, il numero di RLS eletti costituisce circa il 50 per cento del totale; tuttavia, stando alle comunicazioni effettuate agli organismi paritetici, il dato scende al 15 per cento circa. La mancanza di dati certi sul numero di RLS è dovuta alla transitorietà del sistema di designazione sindacale stabilito dagli accordi interconfederali che, se per un verso ha permesso di procedere alla costituzione dei RLS rapidamente, per un altro non ha consentito di consolidare un sistema di monitoraggio completo. Da alcune frammentarie informazioni raccolte nel corso dei sopralluoghi e delle audizioni emerge, in effetti, una situazione piuttosto variegata. Per esempio, per quanto riguarda l’azienda Ferrovie dello Stato sono stati nominati 491 RLS su 986 previsti; secondo la CGIL di Brescia, su 31.000 aziende censite dall’INPS sono stati nominati soltanto circa 800 RLS, mentre secondo l’Associazione degli industriali di Perugia, sulle 900 aziende della provincia, soltanto 63 hanno proceduto alla nomina del RLS.
Da entrambe le parti sociali, inoltre, sono state denunciate forti difficoltà, oltre che ritardi, nella designazione. Sotto questo profilo, è stato rilevato che sebbene le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro si siano attivate per la realizzazione delle previsioni legislative, l’ostacolo maggiore è dato dalla difficoltà di trasmettere all’interno delle sedi aziendali la sensibilità ai temi della prevenzione e lo spirito di coinvolgimento tra le imprese e i lavoratori. Ciò che, secondo una comune valutazione, ha determinato anche la mancanza di disponibilità dei lavoratori ad assumere l’incarico. A ciò si è aggiunta, secondo le organizzazioni imprenditoriali, la difficoltà data dalla permanenza, in capo alla parte sindacale, di un atteggiamento conflittuale, che ostacolerebbe la presa di coscienza sul problema della prevenzione. Da parte delle organizzazioni sindacali, invece, si è rilevato che la maggiore difficoltà è data dalla resistenza della controparte datoriale, che avrebbe diffuso nei luoghi di lavoro voci relative a presunte responsabilità penali e civili del RLS, determinando, così, l’indisponibilità di molti lavoratori ad assumere l’incarico.
In linea generale, si deve comunque rilevare che la designazione dei RLS è stata possibile nelle imprese dove già era presente il sindacato, grazie al sistema di designazione transitorio previsto dagli accordi interconfederali, mentre nelle altre situazioni, le previsioni legislative non hanno ancora trovato piena attuazione.
D’altra parte, occorre anche rilevare che secondo alcune associazioni di operatori della prevenzione e alcune organizzazioni sindacali, il meccanismo di designazione sindacale sarebbe controproducente, perché escluderebbe la possibilità di nominare RLS lavoratori che sarebbero disponibili e avrebbero le conoscenze e professionalità necessarie, ma che non potrebbero candidarsi perché non iscritti ai sindacati.
La situazione migliore si registra nel settore chimico, nel quale la contrattazione collettiva aveva previsto già prima dell’emanazione del decreto legislativo 626 del 1994 l’istituzione delle Commissioni ambiente e sicurezza, alle quali erano già riconosciuti i diritti e le prerogative poi attribuiti dalla legge al RLS. Sotto questo profilo, è stato rilevato da parte delle organizzazioni sindacali di categoria, il settore è stato in qualche misura danneggiato dalle nuove disposizioni dell’accordo interconfederale, perché questo ha tenuto conto di una situazione generale nettamente peggiore rispetto a quella della categoria dei chimici. Analoghe valutazioni, inoltre sono state espresse anche da esponenti dei datori di lavoro (Intersind, Enel) che hanno rilevato come alcune previsioni troppo dettagliate della normativa rischino di influire negativamente sull’assetto di quei sistemi di partecipazione dei lavoratori alla sicurezza del lavoro da tempo operanti con risultati positivi.
Le difficoltà maggiori, per la nomina dei RLS, si registrano nelle imprese di dimensioni minori, dove non vi è la presenza delle organizzazioni sindacali. La situazione peggiore, in questo senso, riguarda il settore artigiano, per il quale, come si è visto, l’accordo interconfederale ha previsto la costituzione del RLS territoriale, che, tuttavia, non ha ancora avuto attuazione.
Più in generale, si deve rilevare che le previsioni contrattuali relative alla nomina di rappresentanti territoriali non hanno avuto esito positivo in nessun settore. Per quanto risulta, soltanto nella provincia di Brescia e limitatamente al settore edile è stata effettivamente costituita una rappresentanza territoriale, composta da 5 tecnici operanti su diverse aree territoriali preassegnate. Informazioni discordanti provengono poi dall’Emilia Romagna: risulta che sono stati stipulati accordi per la costituzione del RLS territoriale, ma non sono giunti dati relativi alla loro concreta designazione.
Per quanto riguarda l’operato del RLS, si deve anzitutto rilevare che la maggior parte è stata avviata ai corsi di formazione necessari (circa l’80 per cento secondo stime di fonte sindacale). Non sono comunque mancati forti ritardi anche nello svolgimento delle attività formative, dovuti anche alla mancanza, fino all’ultimo momento, di adeguate indicazioni da parte del Ministero del lavoro. Secondo alcune valutazioni delle organizzazioni sindacali, inoltre, i percorsi formativi stanno procedendo abbastanza bene nelle grandi imprese, dove gli stessi vengono definiti con il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, mentre nelle piccole imprese la formazione viene effettuata con estrema lentezza e senza l’intervento sindacale.
Quanto ai contenuti della formazione, risulta che la maggior parte dei corsi si sia adeguata alle previsioni minime stabilite dagli accordi interconfederali, prevedendo un programma di base di 32 ore. Non mancano, tuttavia, previsioni di corsi di durata inferiore, limitati a 20 ore, e di durata superiore, con contenuti formativi rapportati alle particolarità dell’attività produttiva. Diversi corsi sono stati attivati con la collaborazione delle USL e prevedono programmi più approfonditi, con una durata di 40 ore. Anche con riferimento alle migliori esperienze formative, comunque, sono emerse alcune difficoltà, date soprattutto dall’esigenza di adeguare i percorsi formativi alle diverse capacità e ai diversi livelli di scolarizzazione e formazione dei RLS. In questo senso, si deve sottolineare che alcuni RLS hanno manifestato un certo disagio rispetto ai corsi ai quali sono stati avviati, rilevando che i programmi sono eccessivamente intensivi, costringendoli a ricevere in brevissimo tempo una quantità enorme di informazioni, che poi non riescono ad assimilare.
Anche per quanto riguarda l’operato concreto dei RLS sono state segnalate, soprattutto da parte sindacale, alcune difficoltà. È stato infatti sottolineato come in molte imprese, e soprattutto in quelle di dimensioni minori, la designazione del RLS sia considerata un adempimento formale, di tipo burocratico: ai RLS non verrebbe cioè richiesto di svolgere un ruolo attivo nell’attività preventiva ma soltanto di firmare i piani di sicurezza unilateralmente predisposti dai datori di lavoro. Con la conseguenza che, in molti casi, il ruolo del RLS viene svolto in modo assolutamente passivo, mentre in altri, quando i RLS rifiutano un ruolo appiattito sugli adempimenti burocratici, si creano situazioni di conflitto.
Sia a causa dei ritardi nello svolgimento dell’attività di formazione dei RLS, sia a causa dell’assenza delle organizzazioni sindacali, i rischi maggiori di una realizzazione soltanto formale del disegno partecipativo del decreto legislativo 626 del 1994 si verificano, quindi, nelle imprese di dimensioni minori.

4. Gli organismi paritetici
Come si è visto, il decreto legislativo n. 626 del 1994 riconosce agli organismi paritetici due importanti funzioni: quella di promuovere le iniziative di formazione e quella di costituire la prima istanza di conciliazione per le controversie in materia di diritti di rappresentanza, informazione e formazione. Agli organismi paritetici, si è altresì visto, è stato attribuito anche il ruolo di soggetti promotori della partecipazione dei lavoratori alle attività di prevenzione.
Secondo i dati forniti dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, gli organismi paritetici nazionali sono stati istituiti in tutti i grandi settori, mentre è ancora in fase di realizzazione la costituzione degli organismi regionali e provinciali. Prima di approfondire la questione è bene rilevare che le parti sociali hanno fornito dati tra loro non concordanti, per cui non è nemmeno possibile avere un quadro certo della situazione.
Per quanto riguarda le previsioni dell’accordo interconfederale sottoscritto dalla Confindustria, gli organismi paritetici regionali sono stati costituiti in molte regioni, ma sono ancora in fase di istituzione in Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige, mentre non sono ancora istituiti in Valle d’Aosta, in Campania, in Basilicata, in Calabria e in Sicilia. Per quanto riguarda la Liguria, la Sardegna e l’Abruzzo, secondo i dati forniti dalla Confindustria, l’organismo paritetico regionale sarebbe stato costituito, mentre secondo i dati della CGIL no. Sempre secondo i dati forniti dalla CGIL, l’organismo paritetico regionale non sarebbe stato costituito nemmeno in Molise, mentre sul punto non sono stati forniti dati dalla Confindustria. Nelle regioni in cui è operante l’organismo paritetico regionale, per quanto risulta, sono stati costituiti anche quasi tutti gli organismi paritetici provinciali.
Anche con riferimento agli accordi interconfederali sottoscritti dalle altre organizzazioni imprenditoriali, secondo i dati forniti dalla CGIL, la situazione appare caratterizzata da un grave ritardo: per quanto riguarda l’attuazione dell’accordo Confapi, sono stati costituiti alcuni organismi paritetici regionali e provinciali solo in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Marche e Lazio, mentre in Sicilia risulta costituito solo l’organismo paritetico regionale.
Per quanto riguarda l’Intersind, risultano costituiti soltanto gli organismi paritetici regionali, mentre il settore delle cooperative e quello artigiano, secondo i dati forniti dalla CGIL, non sono andati oltre la costituzione degli organismi nazionali, salvo per quanto riguarda la regione Emilia Romagna, dove risultano costituiti tutti gli organismi provinciali del settore artigiano, e la Sicilia, dove è stato costituito l’organismo regionale. Informazioni tra loro contrastanti sono state inoltre fornite nel corso delle audizioni da alcuni esponenti delle associazioni artigiane. Secondo alcuni sarebbero stati stipulati accordi in Piemonte, Sicilia, Emilia Romagna e Toscana, secondo altri sarebbero già stati costituiti tutti gli organismi paritetici regionali e il 20 per cento circa degli organismi paritetici provinciali, che, tuttavia, non avrebbero ancora iniziato a operare.
Per il settore agricolo non sono stati forniti dati; da quanto è emerso nel corso delle audizioni dei rappresentanti dei lavoratori risulta però che nessun organismo paritetico sia stato ancora costituito. Analoga situazione si registra, inoltre, con riferimento a tutto il settore della pubblica amministrazione.
In linea generale, quindi, si può concludere che la costituzione degli organismi paritetici è avvenuta prevalentemente nelle aree a più alta densità industriale, dove la presenza delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro è più radicata e principalmente nel Centro-Nord.
Una delle ragioni del ritardo nella costituzione degli organismi paritetici è data, secondo una comune valutazione delle parti, dal susseguirsi delle proroghe all’entrata in vigore della normativa, che hanno ritardato la sottoscrizione degli accordi interconfederali.
Quanto all’effettivo funzionamento degli organismi paritetici, nel corso delle audizioni e dei sopralluoghi è emerso che, in alcuni settori e in alcune zone, gli organismi paritetici costituiti si sono attrezzati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati e hanno realizzato attività formative sia per i RLS, sia per i responsabili dei servizi di prevenzione e protezione, sia, in taluni casi, per i lavoratori. In questi casi, le iniziative hanno potuto essere realizzate grazie al fatto che le associazioni di categoria si erano già dotate, in passato, di efficienti enti bilaterali operanti nel campo della formazione, i quali hanno di conseguenza potuto avviare anche i corsi relativi all’igiene e alla sicurezza del lavoro. È il caso, ad esempio, delle associazioni del settore edile, da tempo dotate di scuole di formazione e di comitati paritetici per la prevenzione, che hanno potuto effettuare numerosi corsi per i RLS e per i lavoratori.
Buona parte, però, almeno da quanto risulta dalle dichiarazioni delle parti sociali, degli organismi paritetici già costituiti o non hanno ancora iniziato a funzionare o stanno muovendo i primi passi, oppure ancora trovano qualche difficoltà ad operare a regime.
Secondo alcune valutazioni delle organizzazioni sindacali, il funzionamento degli organismi paritetici sarebbe ritardato e spesso ostacolato da comportamenti passivi delle controparti datoriali e dalla mancanza degli strumenti e delle risorse necessari per lo svolgimento dei compiti assegnati loro.
Di fatto, i ritardi nell’attuazione delle previsioni legislative hanno fatto sì che la maggior parte delle iniziative formative previste dalla legge per i RLS, per i lavoratori e per gli altri soggetti coinvolti nell’attività di prevenzione sui luoghi di lavoro, venisse realizzata dagli enti bilaterali per la formazione professionale o unilateralmente dalle imprese.

CAPITOLO OTTAVO
RACCOLTA E CIRCOLAZIONE DEI DATI E SISTEMA INFORMATIVO



1. Difficoltà nella raccolta ed elaborazione dei dati
Un settore sul quale si appuntano critiche vivaci e che risulta complessivamente insufficiente è quello relativo alla raccolta coordinata di dati, alla loro valutazione ed alla loro circolazione. Si tratta di un circuito inadeguato, con molte lacune, molto scoordinamento e molte interruzioni. Oltre alle varie disposizioni sulla tenuta di registri e di libretti sanitari, il decreto legislativo n. 626 del 1994 detta anche una disciplina per la raccolta e lo scambio dei dati. Bisogna riconoscere che essa è piuttosto limitata, perché prevede uno scambio di dati solo tra INAIL e Ispesl, si affida alle norme UNI per la definizione dei criteri per la raccolta ed elaborazione delle informazioni relative ai rischi e danni derivanti da infortunio, rinvia ad un decreto del Ministro del lavoro e del Ministro della Sanità la definizione dei criteri per la raccolta e l’elaborazione delle informazioni relative alle malattie professionali ed alle malattie da lavoro.
Tuttavia, neppure entro questi limiti ristretti, si può dire che il sistema abbia in qualche modo funzionato.
La doglianza è diffusa, sia per quanto riguarda le modalità di raccolta dei dati relativi agli infortuni, sia – soprattutto per ciò che attiene alle malattie, per le quali il livello di arretratezza del sistema è davvero preoccupante.
Occorrerebbe, infatti, disporre di parametri certi per la classificazioni dei casi di infortunio e di criteri sicuri per il calcolo degli indici di frequenza. Ma, come si è già accennato, perfino i dati disponibili sono considerati come malsicuri e poco affidabili. Del resto, basti pensare al fatto che non esiste un serio sistema di classificazioni e valutazione dei dati relativi agli infortuni di durata inferiore ai tre giorni, per rendersi conto dell’inadeguatezza del sistema. La ricerca e classificazione anche degli infortuni «minori» non è, infatti, rilevante tanto ai fini statistici, quanto per conoscere le cause e studiarle in modo approfondito ed anche per sapere quanti di quei microinfortuni restano tali oppure «scompaiono» per una molteplicità di ragioni, anche se in realtà gli effetti sono maggiori di quelli previsti e inizialmente configurabili.
Più grave ancora è il caso delle malattie per le quali la mancanza di un efficace sistema di rilevazione sottrae alla conoscenza una serie di fenomeni anche molto gravi. D’altronde, l’osservazione delle malattie (ci riferiamo soprattutto a quelle eziologicamente collegate alla prestazione lavorativa, anche se non tabellate) richiede tempi lunghi, valutazioni approfondite, anche per la difficoltà di distinguere tra varie possibili cause e concause.
Manca, dunque, un vero sistema di rilevazione dei dati ed un vero osservatorio epidemiologico; manca il punto di riferimento centrale e mancano centri di raccolta, sulla base di criteri omogenei, a livello periferico. L’obiettivo, come riconosciuto dall’INAIL, dovrebbe essere quello di costituire vere e proprie mappe di rischio, articolate su situazioni, cause ed effetti: ma esso nonostante alcuni sforzi, alcune manifestazioni di buona volontà ed alcune sporadiche iniziative, appare ancora assai lontano.
Ma è bene riaffermare che senza tutto questo, senza un vero monitoraggio dei fenomeni, una vera prevenzione è di difficilissima realizzazione.
È su questo terreno che occorre uno sforzo veramente enorme, per superare il grave gap che contraddistingue la situazione italiana anche rispetto a quella di altri Paesi più avanzati: se è certo che i dati ufficiali sono sottostimati e che vi è una costante pratica di «sottonotificazione» di elementi e dati certi, anche rilevanti, è chiaro che bisogna muoversi con celerità e impegno, per superare ogni difficoltà. Sentirsi dire che a Manfredonia nessuno ha compiuto o sta compiendo una seria indagine epidemiologica o che a Brindisi, Taranto ed altre località che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sono tra quelle in cui gli indici di mortalità per tumori ed altre malattie gravi superano la media, non si dispone di strumenti che consentano di stabilire quanti di questi fenomeni sono ricollegabili all’attività di lavoro, impressiona e preoccupa. (Sul punto relativo alla situazione in Puglia, sono assai utili anche gli spunti forniti, con un contributo scritto, da parte di un membro del Comitato, l’onorevole Polizzi).
Bisogna dunque immaginare un’impostazione diversa dell’intero sistema di raccolta ed elaborazione dati, che parta dalle USL, si colleghi con la ricerca universitaria, pervenga agli organi centrali e da questi venga ridistribuito, previa elaborazione, così creandosi un circuito senza interruzioni e senza lacune.
Si pone, certamente, anche il problema della circolazione dei dati, perché non mancano casi in cui essi vengano raccolti, ma non «socializzati», non messi a disposizione, cioè, di chi deve operare nel settore, per ulteriori elaborazioni ed anche per l’adozione di conclusioni operative. Sotto questo profilo, è indubbiamente fondamentale anche il livello regionale, perché sufficientemente vasto per costituire una rete di rilevazione e osservazione, disponibile per tutti gli operatori e facente parte di un vero flusso, inserito in un circuito aperto.

2. Coordinamento, anche per la ricerca
Un ulteriore rilievo va fatto per quanto riguarda la ricerca nel suo complesso e l’integrazione tra strutture pubbliche e strutture universitarie. È risultato che sono in atto alcuni interessanti processi di integrazione. Ma nel complesso vi è molta dispersione, talora isolamento, troppe diversità a seconda delle aree geografiche. È stato osservato che ci sono alcuni gruppi di epidemiologi che si occupano di tumori, per isolare quelli riferibili all’occupazione, ma sono scoordinati fra loro e allora l’impresa diventa ancora più «micidiale» come l’ha definita un esperto. D’altro lato va anche rilevato che non tutti gli Istituti di medicina del lavoro si muovono nello stesso modo e che anche i rapporti con le USL, ai fini della ricerca, sono molto variegati e spesso dipendono anche da fattori occasionali, come i rapporti personali.
Anche a livello centrale, si vanno avanzando (ma non sono ancora giunte a compimento) ipotesi di coordinamento e di integrazione, che presentano aspetti positivi. L’idea di realizzare una «rete» sistematica tra due Ministeri (lavoro e sanità), quattro Enti di ricerca (Ispesl, INAIL, CNR, Istituti di medicina sociale), appare, in sé positiva, tanto più se la rete si estenderà – come previsto – anche alle regioni e alle strutture periferiche del Ministero del lavoro. C’è solo da augurarsi che i tempi di formalizzazione e realizzazione del progetto non siano quelli consueti e che, alla fine, si possa dar vita non solo ad una realizzazione importante ma anche ad un utile esempio.
Qualche problema è stato segnalato per quanto riguarda la riservatezza dei dati, ai sensi della recente legge sulla privacy. Non c’è dubbio che alcune questioni si porranno; ma esse dovranno essere affrontate e risolte con ponderazione e con un corretto equilibrio tra la salvaguardia di interessi di natura varia, individuali e collettivi. Quello che occorre impedire è che si producano ingiustificate inerzie, proprio mentre bisogna rilanciare il discorso sulla raccolta, elaborazione e circolazione di dati, con l’alibi della legge 31 dicembre 1996, n. 675.

3. L’informazione
Diverso e in un certo senso ancora più ampio il discorso sulla informazione. Non c’è dubbio che, per funzionare, un sistema di prevenzione ha bisogno di una corretta e completa informazione. Anzitutto, bisogna che tutti conoscano la normativa e siano in grado di applicarla non per obbligo, ma per convinzione.
In secondo luogo bisogna che l’informazione riguardi anche i rischi che derivano dagli ambienti, dall’organizzazione del lavoro, dai prodotti impiegati e dagli stessi comportamenti, in modo che tutti abbiano piena contezza della situazione e ne traggano regole di convinta condotta.
È opinione diffusa che nel sistema dell’informazione sulla prevenzione quello che avrebbe dovuto essere l’anello più forte (l’informazione proveniente da organi pubblici) è risultato invece il più debole. Non c’è stata una campagna di sensibilizzazione, nessuno – al centro – ha pensato a spot pubblicitari diffusi sulle reti televisive, una continua comunicazione di elementi e dati almeno all’indirizzo delle organizzazioni sociali. Queste ultime, hanno fatto, in gran parte, da sé, adottando iniziative spesso importanti e spesso opportune, ma ancora una volta – per ovvie ragioni – «separate» e non coordinate.
Gli Istituti centrali pubblicano bollettini di informazione e divulgano le ricerche (l’Ispesl anche su Internet). Ma già questo è un livello diverso e comunque insufficiente. Associazioni private (ad esempio la SNOP) hanno aperto sportelli informativi e preparato schede di informazioni; altre (ad esempio l’Associazione Ambiente e lavoro) hanno assunto numerosissime iniziative anche di informazione e di scambio di esperienze, utilizzando tutti i sistemi tecnologici più avanzati; alcune organizzazioni imprenditoriali ed associazioni sindacali hanno prodotto opuscoli divulgativi, cercando di utilizzare tecniche più raffinate del consueto. Diverse USL hanno aperto spontaneamente «sportelli» informativi.
Ma, come si è detto, questo fervore di iniziative è, per sua natura, discontinuo, se non c’è un input dal centro, se dagli organi centrali non si dà la sensazione, con atti concreti, di puntare tutto sulla crescita di una cultura della prevenzione. I fondi stanziati dallo Stato per l’informazione non sono eccezionali, ma neppure irrilevanti (21 miliardi del Ministero del lavoro nel 1995; 7 miliardi del Ministero del lavoro oltre ai fondi della pubblicità-progresso, nel 1996). Ma non è certo che questi fondi siano spesi con efficacia, non si sa alcunché dei progetti finanziati, da quanto ci si sente dire in periferia, bisogna concludere che ben pochi dei messaggi informativi sono arrivati a destinazione.
Il fatto è che le campagne di informazione non si improvvisano e vanno condotte con gli strumenti indicati dalle più moderne tecniche di comunicazione. Ma per questo, occorrerebbe un programma che a tutt’oggi non c’è stato; ed occorrerebbe un coordinamento fra le varie iniziative, anche per verificare che non si spendano denaro ed energie inutilmente, che le pubblicazioni, il materiale informativo, eccetera giungano davvero a destinazione e producano effetti. Un magistrato ha riferito che risulta che ai lavoratori viene distribuito, dalle loro associazioni, del materiale divulgativo; ma poi, se li si interroga nel corso dei dibattimenti, si scopre che o non lo hanno letto o non lo hanno assimilato. In questi casi, non c’è da dare la colpa a chi non utilizza adeguatamente gli strumenti disponibili, ma piuttosto adoperarsi perché venga organizzata in modo adeguato e tecnicamente accorto la informazione.
Del resto, lo si è già detto a proposito della formazione, ma l’argomento vale anche per l’informazione, molto dipende anche da una cultura di base: su questo, piano l’opera della scuola, fin dai primi anni, ed a tutti i livelli, è veramente fondamentale. Singolare che si parli ogni tanto di educazione stradale anche nelle scuole, ma assai meno di educazione alla prevenzione, quasi che gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali avessero meno incidenza sulla salute collettiva e sulla salvaguardia del patrimonio umano di cui il Paese dispone.
Infine, va ricordato che l’informazione corretta e a tutto campo può servire per rendere chiara ai datori di lavoro anche la «convenienza» della prevenzione e del rispetto delle norme; al tempo stesso può aiutare a combattere la teoria della fatalità e inevitabilità del rischio; e da ultimo può rendere evidente anche ai lavoratori, che tutti i sistemi produttivi, anche i più avanzati, non possono fare a meno dell’intervento dell’uomo, per cui un margine di rischio resta sempre anche in presenza di adozione delle misure più attente; il che significa che solo informazione e formazione completa possono riuscire a minimizzare anche il rischio che deriva dal fattore umano.

CAPITOLO NONO
INDICAZIONI CONCLUSIVE ED OPERATIVE

1. Una situazione preoccupante: necessità di una strategia di interventi a tutto campo
Da tutto quanto è emerso dall’indagine e dalla sintesi che si è cercato di farne nelle pagine che precedono, è emerso che la situazione è tutt’altro che soddisfacente, nel suo complesso. Anzi, essa continua a destare fortissime preoccupazioni dato il rilevante numero di infortuni sul lavoro che continua ancora a verificarsi, l’estensione delle malattie professionali, la crescente (e in parte poco esplorata) diffusione delle malattie collegabili eziologicamente al lavoro; e soprattutto la complessiva inadeguatezza del sistema e delle strutture destinate alla prevenzione.
C’è, come si è detto, un aspetto positivo costituito dal rinnovato fervore di dibattiti, di iniziative e di interessi che si è risvegliato a seguito dell’emanazione di provvedimenti che hanno attuato importanti direttive comunitarie. È di questo, ovviamente, che occorre approfittare per compiere una svolta radicale nella attuazione di un vero sistema di prevenzione. Altrimenti, il rischio è che si torni gradualmente all’assuefazione, all’inerzia, alla mancanza di effettivo impegno.
Bisogna aver chiari, (e da molti sono stati rilevati) due aspetti di grande rilievo: il primo è che esiste una contraddizione tra gli sforzi che si compiono per prolungare in modo accettabile la durata della vita delle persone e la enorme perdita di energie, di integrità, addirittura di vita, che si realizza quotidianamente proprio sul lavoro e a causa del lavoro; il secondo è che ormai c’è un rovesciamento di posizioni molto netto rispetto alle antiche teorie fatalistiche circa i rischi del lavoro, nel senso che – come ha con nettezza osservato W. Von Richthofen, dirigente dell’OIL, alla conferenza internazionale dell’Aia, «infortuni e malattie possono essere evitati (e dunque, debbono essere evitati) secondo un assioma ormai universalmente accettato».
Se si tiene conto di queste due prospettazioni e si vuole eliminare da un lato una contraddizione e dall’altro gli effetti di fenomeni che possono essere abbattuti, è evidente che bisogna mettere in campo non tanto questa o quella misura, anche se di per sé ognuna potrebbe essere accettabile ed utile, ma una vera e propria strategia.
Naturalmente, ci sono interventi che è possibile attuare immediatamente e misure che si collocano in una prospettiva di più lungo periodo. Ma ciò non toglie che se si vogliono ottenere risultati concreti, e soprattutto se si vuole mutare radicalmente la situazione, bisogna mettere in campo tutti gli strumenti, le azioni e le iniziative che si prospettano come possibili.
Nella fase conclusiva dei lavori del Comitato sono state evidenziate, peraltro, alcune priorità sul piano puramente operativo che qui si ritiene di sintetizzare «per titoli»:
a) entrata a regime, senza ulteriori proroghe o dilazioni, di tutta la normativa di sicurezza, con rapido completamento del sistema normativo, ove occorra, e immediata emanazione di tutti i decreti attuativi previsti dal decreto legislativo n. 626 del 1994, e successive modifiche;
b) immediato e pieno adeguamento di tutti i settori della pubblica amministrazione alle esigenze di prevenzione e sicurezza;
c) revisione e coordinamento della normativa sugli appalti;
d) potenziamento, quantitativo e qualitativo, di tutti gli organismi di sorveglianza prevenzionale, con eventuale emanazione di disposizioni di deroga al blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, per settori limitati e in rispondenza a previste necessità; e forte impegno contro i fenomeni più gravi anche ai fini della sicurezza (lavoro nero, caporalato, lavoro irregolare, eccetera);
e) attivazione di forme di coordinamento di tutti gli organi della pubblica amministrazione che si occupano di prevenzione, sia a livello centrale che a livello periferico;
f) vincolo rigoroso ed effettivo della destinazione alla prevenzione del 6 per cento del Fondo sanitario nazionale;
g) emanazione di una efficace normativa di razionalizzazione e moralizzazione delle consulenze;
h) interventi immediati per i settori più «esposti» e per le categorie nelle quali si riscontrano le maggiori difficoltà dell’applicazione della normativa, anche mediante l’introduzione di norme premiali e di sostegno, particolarmente a favore degli artigiani e delle piccole imprese;
i) rafforzamento, riorganizzazione e razionalizzazione di tutte le attività di formazione degli addetti; e diffusione dell’informazione a tutti i livelli.
Come si è accennato, queste sono solo indicazioni di natura operativa, che non prescindono affatto dal quadro generale degli interventi possibili, così come sono emersi dalle audizioni e dalle osservazioni e proposte pervenute al Comitato anche da parte di studiosi ed esperti.

2. Completare e coordinare il sistema normativo
La prima questione attiene al dato normativo.
Anzitutto, è evidente che occorre integrarlo e completarlo nelle parti più lacunose e procedere ad un coordinamento tra disposizioni diverse, soprattutto per alcuni settori specifici.
Da più parti sono state fatte rilevare – ad esempio – le vistose lacune inerenti alla prevenzione nel settore dell’agricoltura ed alla necessità di disposizioni, che, integrando quelle di carattere generale già applicabili anche in questo campo, meglio si adeguino alle caratteristiche peculiari di queste attività produttive e di queste lavorazioni, contrassegnate, fra l’altro, da una forte presenza di lavoratori autonomi e loro familiari, come pure di lavoratori stagionali. Si impone, inoltre, un preciso coordinamento delle disposizioni, talora incomplete o incongrue, circa la protezione dei trattori e delle macchine semoventi anche contro i ribaltamenti.
In secondo luogo, va completato il sistema vigente nelle parti che per l’effettiva attuazione prevedono l’emanazione di ulteriori provvedimenti di natura ministeriale. Si è già detto che sono stati emanati dal Ministero del lavoro diversi decreti attuativi previsti dal decreto legislativo n. 626 del 1994; bisogna che quest’opera sia completata al più presto con l’emanazione di tutti i decreti che ancora mancano; e per tali si intendono sia quelli di competenza del Ministero del lavoro, sia quelli di competenza del Ministero della sanità, sia quelli riservati ad un’azione congiunta di entrambi, sia infine quelli che sono di spettanza dell’organo collegiale cioè del Consiglio dei ministri. Questa è, in realtà, la misura più urgente: colmare tutti i vuoti, non lasciare nulla di scoperto, proprio perché la mancanza di precise indicazioni, orientamenti e indirizzi su temi fondamentali finisce per costituire un ostacolo alla reale e convinta attuazione del sistema. Un ostacolo, dunque, da rimuovere senza indugio.
Va registrata anche la proposta di includere fra gli adempimenti previsti per l’avvio di nuove attività imprenditoriali anche quello relativo alla precisa indicazione del piano di sicurezza.
In molti casi peraltro, si impone un coordinamento tra disposizioni diverse, per ragioni evidenti: si pensi, ad esempio, al settore dell’edilizia e delle costruzioni. Ormai c’è una normativa piuttosto ampia (il decreto legislativo n. 626 del 1994, il decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494, mentre non è ancora stato abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164), ma essa ha bisogno di uno stretto collegamento con la legislazione sui lavori pubblici e con quella sugli appalti; un collegamento finora realizzato solo in modo molto parziale, se è vero che da tante parti è stato denunciato il fenomeno delle ditte che formulano, nelle gare d’appalto, offerte incredibilmente basse, vincendo così facilmente la concorrenza, per poi ricuperare con il lavoro nero, con lavori irregolari, con i risparmi sulla sicurezza. È chiaro che questa istanza, che emerge da moltissime esperienze di tutto il territorio italiano, va accolta rapidamente e bene, coordinando insieme normative diverse ma che – collegate – possono concorrere al medesimo fine.
In tutti gli altri casi, è chiaro che il sovrapporsi di tante disposizioni diverse richiede un riordino e in prospettiva l’adozione di un testo unico. Ma quella di poter provvedere con un testo di mera compilazione è solo un’illusione e rappresenterebbe addirittura un passo indietro rispetto alle scelte del legislatore del 1978, che aveva pensato a un testo unico non solo di coordinamento e di sistemazione, ma anche di innovazione. Oggi, quell’esigenza è ancora più forte, dato che nel frattempo sono intervenute numerose norme nuove e di diversa provenienza; per cui raccogliere e innovare è diventato un imperativo categorico, anche se non proprio urgentissimo. Innovare anche perché, nel riordino, bisognerà compiere necessariamente alcune scelte fra le varie opzioni possibili e bisognerà tener conto di dati che già vanno emergendo sul terreno sperimentale; oltre alla necessità di riaffermare che in nessun caso il livello delle tutele può essere abbassato in sede di riordino e di innovazione. Dunque, un testo unico che raccolga solo la parte generale, i princìpi, le norme quadro valide per tutti; al quale dovranno unirsi disposizioni specifiche di settore, mentre tutto l’apparato tecnico potrà essere delegificato e affidato a strumenti regolamentari di facile aggiornabilità e di rapido adeguamento al progresso tecnico. Ciò potrà consentire di disporre di un sistema dinamico, facilmente comprensibile e certo nell’indicazione dei princìpi e dei doveri; e di eliminare la complessità e talora la farraginosità di un sistema cresciuto in modo alluvionale.
Soluzioni del genere potranno essere realizzate in via di delega al Governo, intendendosi però necessario che la delega sia precisa e circostanziata, anche per ciò che attiene ai criteri e princìpi da seguire e che sia garantito in modo effettivo e forte, un reale concorso del Parlamento alla elaborazione di testi di tanto rilievo.

3. Rilanciare il ruolo dell’amministrazione pubblica, nel suo complesso
(Ministeri, Organi ed Istituti centrali, Organismi periferici)

Se le critiche all’amministrazione pubblica nel suo complesso sono state tante, è chiaro che bisogna agire sulle cause e adottare provvedimenti solleciti per eliminare ogni tipo di disfunzione.
Si tratta, anzitutto, di rilanciare il ruolo del Ministero della sanità, di integrare quello del Ministero del lavoro, di rafforzare quello della funzione pubblica, per tutte le ragioni già accennate, e assicurarne il coordinamento.
Naturalmente, per rafforzamento si intende la necessità di provvedere alle dotazioni strutturali e organizzative per ciò che attiene al settore della prevenzione, tutte piuttosto limitate se non addirittura carenti. Ma quando si parla di rilancio, si allude a qualcosa di più, e precisamente all’assunzione di una linea di piena adesione e di assoluta priorità di impegno sul terreno della prevenzione.
Il Ministero della sanità deve strutturarsi in modo da far fronte ai suoi compiti in materia di prevenzione, ma deve anche ispirare tutta la sua azione e la sua politica a questa finalità, facendo sentire la sua presenza e la sua forza di orientamento.
Il Ministero del lavoro, che oggi è impegnato su molti fronti e principalmente su quello della occupazione, deve strutturarsi con maggior robustezza nella materia della sicurezza del lavoro, eliminando la sensazione, riferita anche nel corso delle audizioni, che provvedimenti, misure e interventi importanti siano affidati, costantemente, a strutture insufficienti, soprattutto a livello quantitativo, anche se non mancano elementi di sicura esperienza e di forte professionalità e competenza.
Il Ministero della funzione pubblica deve assumere in primo piano il tema della sicurezza e della prevenzione e farsi garante di una reale, tempestiva attuazione delle misure necessarie in tutta la pubblica amministrazione, ove occorra rivendicando con forza anche gli strumenti e le dotazioni economiche adeguate.
Ma poiché per molte di queste cose si potrebbe dire lo stesso a proposito anche di altri Ministeri e primi fra tutti quelli dell’interno, della pubblica istruzione e della giustizia, è forse più semplice richiedere un impegno di tutto il Governo anche nel suo massimo organo collegiale.
In questo contesto, è indispensabile anche un rilancio di tutta l’attività dell’amministrazione pubblica, intesa come struttura centrale e periferica dello Stato, ma anche come strutture delle regioni, delle province, dei comuni. Se ci sono, come si è visto, ritardi imponenti e difficoltà rilevanti, bisogna colmarli, rendendosi conto che l’amministrazione pubblica deve essere la prima ad adeguarsi e non più porsi invece come cattivo esempio o come soggetto che gode di privilegi. Ciò a maggior ragione se si considera che non è vero, o almeno lo è solo in parte, che la pubblica amministrazione sia meno interessata al problema della prevenzione rispetto al settore dell’attività produttiva privata.
I problemi sono diversi solo all’apparenza; in realtà, poi, i fattori di rischio sono presenti ovunque, anche negli uffici, se si considerano gli aspetti meno tradizionali della tematica; senza contare il fatto che l’amministrazione pubblica deve fare i conti spesso con gli utenti dei servizi, ai quali è indispensabile garantire sicurezza (si pensi, per fare qualche esempio, alle scuole e alla giustizia dove i problemi di prevenzione non riguardano solo gli addetti, ma anche gli studenti, i genitori, i cittadini che ogni giorno si presentano per chiedere servizi e debbono dunque essere sicuri).
Potrà rendersi necessaria anche una migliore definizione dei criteri di applicazione delle norme di sicurezza a tutti i settori della pubblica amministrazione e una migliore individuazione delle funzioni e ruoli di riferimento dei soggetti investiti, in virtù del «626» e successive modifiche, di compiti fondamentali in tema di prevenzione; e forse sarà utile anche la determinazione di scadenze specifiche per l’adeguamento delle strutture per le singole amministrazioni.
Ma già ora c’è quanto basta perché l’amministrazione pubblica si metta al passo con le necessità, senza ulteriori dilazioni.
Fondamentale è anche l’esigenza di una ristrutturazione e di un coordinamento degli organi centrali.
Per alcuni (Ispesl) si pongono precise esigenze di riforma, a cui occorre provvedere al più presto. Per la Commissione consultiva permanente di cui all’articolo 26 del decreto legislativo n. 626 del 1994, occorrerà studiare formule che consentano di semplificare e rendere più agevole la sua azione e per metterla in condizione di svolgere i fondamentali compiti di cui all’articolo 26, comma 2, trasformandola in un vero e proprio «motore» della prevenzione, anche a livello culturale e come strumento che, più che esprimere pareri su questioni parziali, sia davvero un organo permanente di consulenza, di indirizzo tecnico e di promozione. Se poi si renderanno operanti – come è necessario – i Comitati regionali di cui all’articolo 27 e si adotteranno gli atti di indirizzo e di coordinamento e la determinazione di criteri di cui alla stessa norma, all’articolo 25 e ad altre disposizioni, si comincerà a realizzare quella organicità ed uniformità di intenti che è presupposto indispensabile per ogni efficace opera di prevenzione, facendo cessare ogni dispersione di strumenti e di energie e ogni duplicazione o sovrapposizione di atti e di comportamenti.
Ma il raccordo e il coordinamento è necessario tra tutti gli organi deputati alla materia, ove occorra anche con una più precisa delimitazione e razionalizzazione delle competenze.
L’articolo 24 del «626» elenca una serie di organismi (Ministero degli interni, Ispesl, Ministero del lavoro, Ministero dell’industria, Istituto di medicina sociale, INAIL, Enti di Patronato), che è assolutamente impensabile che possano agire separatamente ed autonomamente. Se oggi questo avviene assai spesso, è chiaro che si tratta di un difetto da correggere in fretta, creando strumenti e forme di raccordo continue e costanti, non solo ai fini della omogeneità, ma anche per la messa in comune e poi per la circolazione dei dati, delle ricerche, dell’esperienza. Se sono previsti tanti punti di riferimento, per vari fini, è imprescindibile un serio ed efficace raccordo fra loro; e soprattutto è necessario che anche dalla «periferia» si avverta il coordinamento, la omogeneità di indirizzo, la presenza, insomma, di un vero e proprio sistema organico e strutturale.
Un problema particolare è quello dell’INAIL; se si tende a non considerare questo Istituto unicamente sul piano di un Ente assicurativo e se si accetta l’idea di un concorso del medesimo all’opera di prevenzione, ci saranno forse modifiche da apportare alla sua struttura e alla sua filosofia. L’impostazione assicurativa conduce – di per – al rigetto di molti riconoscimenti di malattie da lavoro ed al rifiuto di considerazione di interi settori dell’infortunistica. Se si vuol passare anche al terreno della prevenzione (e questo è dimostrato anche dalle iniziative più recenti in materia di raccolta ed elaborazione di dati, nonché dallo stesso inserimento dell’Istituto tra gli organi di informazione, consulenza e assistenza), bisogna apportare modifiche sostanziali al modo di essere (e forse di ragionare) dell’Istituto. Bisognerà anche tenere conto delle indicazioni provenienti dagli altri Paesi e in particolare della recente conferenza dell’Aia secondo cui il ruolo dei sistemi assicurativi obbligatori può (o deve?) essere modificato radicalmente, anche in relazione ad una politica diversa del rapporto costi-benefici. Non pochi, ad esempio, sostengono che una parte dei capitali potrebbe essere convenientemente destinata e vincolata all’abbattimento dei costi della prevenzione. Problemi di grande respiro, ovviamente, sui quali si tornerà ancora, ma sui quali è giusto richiamare l’attenzione del Parlamento e del Governo, fin da ora.
Ma lo sforzo maggiore deve essere concentrato a livello degli organi che sono a più diretto contatto con la realtà produttiva e lavorativa. Occorrono precisi indirizzi perché gli organi della prevenzione e vigilanza, all’interno delle USL, abbiano il ruolo, le dotazioni di personale e strumentale indispensabili per compiere la loro opera. Occorre potenziare il livello di professionalità disponibili, in tutti i settori e colmare le attuali disparità a livello di competenze settoriali. La quota del Fondo Sanitario destinata alla prevenzione deve essere effettiva, intangibile e non scendere mai al di sotto di un vincolato 6 per cento; l’equilibrio tra le altre funzioni delle ASL e quelle della prevenzione e della vigilanza deve essere costantemente assicurato. Bisogna, come sempre, eliminare sperperi, sprechi di risorse ed abusi, ma anche ragionamenti di tipo esclusivamente economicistico. Le ASL sono aziende e come tali vanno gestite, ma con una mentalità che tenga sempre presente che si tratta di un servizio pubblico. Va prestata assistenza, oltre che svolgere vigilanza e va fatta formazione. Ma bisogna fare molta attenzione alla consulenza ed agli aspetti speculativi che essa può assumere, a puro danno del lavoro di prevenzione, specialmente quando all’interno di una stessa azienda si crea il pericolo di sommare attività diverse, che finiscono per interferire negativamente fra loro, con ovvio danno, in genere, per l’attività di sorveglianza prevenzionale. Occorre anche impegnare ogni sforzo per elevare qualitativamente la professionalità degli organi di vigilanza, specificando bene – ad ogni livello e soprattutto a livello di indirizzo generale – che da essi non ci si attende un’attività poliziesca, burocratica e meramente repressiva, ma una vera «sorveglianza prevenzionale» che cerchi di «condurre» verso l’ottemperanza agli obblighi di legge. Naturalmente, questo aspetto è collegato a quello della professionalità, perché questo tipo di attività – unitamente alla possibilità di emanare prescrizioni – comporta più discrezionalità, ma anche più competenza e maggior avvedutezza. E dunque, il lavoro di adeguamento e potenziamento delle strutture dovrà procedere di pari passo con quello della formazione. Si è già detto come appaia utile e necessario concentrare tutto attorno agli organi sanitari e come le funzioni dell’Ispettorato debbano essere sempre più «residuali», e ciò non per sminuirne i compiti, ma – semmai – per rafforzare il sistema senza sovrapposizioni e conflitti e contemporaneamente potenziare il ruolo dell’Ispettorato nel campo più specifico e congeniale (controllo del rispetto delle norme sul lavoro, impegno contro ogni forma di illegalità, contro il caporalato, contro il lavoro nero, contro lo sfruttamento del lavoro minorile, eccetera). È convinzione del Comitato che l’attuale struttura dell’Ispettorato sia del tutto insufficiente e che dunque gli organici debbano essere completati e irrobustiti, anche ai fini del settore di cui ci si occupa in questa sede, essendo evidente che attività di prevenzione e lotta contro l’illegalità non possono che procedere di pari passo.
Questo pone ancora una volta l’esigenza del coordinamento. Le iniziative assunte per costituire organi di coordinamento in singole località (Brescia, Liguria, eccetera) sono opportune e da estendere; per altre (si pensi ai cantieri per il Giubileo a Roma), saranno imposte dalla necessità e dall’emergenza. Ma appare sempre più indispensabile un intervento legislativo di preciso indirizzo (un’ipotesi era stata formulata all’interno del famoso decreto-legge n. 670 del 1996, poi decaduto), che valga per tutto il territorio nazionale, non abbia pretese di centralizzazione, sia rispettoso delle autonomie e delle competenze, ma garantisca il concorso coordinato di tutti gli organi ad un’efficace opera di prevenzione, facendo cessare ogni dispersione di strumenti e di energie e ogni duplicazione o sovrapposizione di atti e di comportamenti.
Infine, è forse il caso di tornare sul tema, già accennato, della vigilanza nelle zone aeroportuali. Si tratta di un problema che va affrontato con energia e risolto al più presto, per evitare i vuoti, le sovrapposizioni ed i possibili conflitti che già si configurano. Prevale, in genere, l’idea di un ruolo primario ed essenziale dei servizi di prevenzione della USL; ed in questo senso si auspica una significativa modifica della normativa vigente, a partire dal comma 4 dell’articolo 23 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e delle successive disposizioni in materia di autorità aeroportuali. In ogni caso, è certo che la soluzione fin qui adottata non è certo la migliore e che dunque una soluzione più appagante e «sicura» dovrà essere reperita al più presto.

4. Migliorare il livello quantitativo e qualitativo degli addetti; potenziare la formazione
Un deciso impegno va posto in campo ai fini del miglioramento quantitativo e qualitativo dei soggetti principali della prevenzione.
Si tratta, anzitutto, di definire meglio, con più precisione e più rigore i livelli qualitativi richiesti per tutti gli addetti e responsabili, interni ed esterni, delle imprese. La formulazione attuale, che poteva essere a malapena sufficiente nella fase di avvio, ha mostrato subito le sue mille crepe; ed a questo bisogna porre immediatamente rimedio, con un’indicazione precisa dei titoli qualificanti, delle esperienze necessarie, del modo con cui attitudini e capacità possono essere certificati in modo attendibile.
Quanto ai «consulenti», sui quali ci si è intrattenuti in apposito capitolo, la soluzione – secondo buona parte degli auditi – sarebbe quella della creazione di un albo, a cui si possa accedere solo qualora si sia in possesso di determinate qualità e competenze, oggettivamente certificabili, e di un tariffario. Come è noto esistono anche perplessità circa l’opportunità (e perfino circa la stessa possibilità, sul piano giuridico), di creare altri albi, spesso intesi come strumenti burocratici o di mera protezione corporativa. E vi è chi preferirebbe istituire un elenco degli operatori, con una precisa indicazione dei requisiti e del tariffario. Occorre comunque individuare una soluzione che consenta di combattere gli abusi, da tutti denunciati e di cui sono vittime soprattutto i più modesti imprenditori, e di istituire forme corrette di concorrenza, tra soggetti dotati tutti dei necessari requisiti e tra i quali si possa poi scegliere in base alla qualità.
Il senatore Roberto Napoli ha riferito circa la costituzione, presso il Ministero del lavoro, di un gruppo di studio per l’individuazione dei requisiti degli operatori, cioè per la certificazione di operatori singoli e costituiti in società per l’erogazione dei servizi di sicurezza negli ambienti di lavoro, interni ed esterni. Si concorda nell’auspicio che da questo lavoro escano al più presto dei risultati idonei a porre fine ad una situazione inaccettabile. I parametri che sono stati suggeriti (vedi appunto il contributo del predetto componente del Comitato) appaiono seri ed accettabili: affidabilità (per struttura operativa, capacità operativa sul territorio, qualità dei professionisti, strutture ed attrezzature disponibili), esperienza (tipologia dei servizi svolti, anche prima delle leggi più recenti), controllo di qualità e relative certificazioni, garanzia per i danni eventualmente derivanti dallo svolgimento dei servizi.
Insomma, non è tanto rilevante la scelta finale dell’una o dell’altra soluzione, quanto la garanzia che in campo possano scendere solo esperti esterni alle imprese o consulenti che siano in possesso dei necessari requisiti, soprattutto a livello di qualità e che cessi ogni abuso anche sul piano delle tariffe e dei costi.
Per altro verso, è urgente l’attuazione di un sistema di formazione veramente adeguato ed efficiente, per tutti gli operatori e addetti alla sicurezza.
È tempo di sostituire alle mille iniziative, anche utili ed importanti, ma scoordinate, un preciso programma, che si fondi sulle strutture pubbliche, a partire dalle regioni, ma che non trascuri il contributo, mediante apposite convenzioni, di strutture e soggetti privati davvero qualificati; che preveda il coordinamento del lavoro di tanti organismi a favore dei propri associati o più in generale di tutti gli interessati, che infine riguardi anche la formazione dei formatori.
Ma è anche importante che vengano definiti standards e certificazioni di programmi formativi, con la previsione di sistemi di accreditazione, controllo e verifiche di qualità delle strutture che fanno ricerca e formazione.
Da questo processo formativo non deve essere escluso nessuno, perché esso deve investire i soggetti pubblici (gli operatori delle USL e tutti gli addetti ai servizi di controllo) non meno che quelli privati (responsabili dei servizi di prevenzione interni ed esterni, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, e così via).
Si è già accennato all’esigenza della formazione e del ricambio dei medici competenti. Questo è un ruolo che spetta prima di tutto alle Università ed agli Istituti di medicina del lavoro, anche mediante le scuole di specializzazione. Queste ultime dovranno essere rafforzate, non solo per quanto riguarda il numero dei posti disponibili, ma anche per ciò che attiene alla qualità effettiva ed alla complessità degli insegnamenti, tra i quali assumono – per ragioni già dette – un rilievo particolare le conoscenze di epidemiologia e di ergonomia, a livello diffuso ed approfondito. Restano ferme, comunque, le esigenze di approfondimento dell’intera problematica, nel senso cui si è accennato nel paragrafo terzo del capitolo VI.

5. Favorire il rispetto delle norme di prevenzione
La prevenzione efficace si fonda e trova il suo presupposto anche e soprattutto sul rispetto della legalità.
Da ciò la necessità di misure e strumenti adeguati per combattere i fenomeni dai quali scaturiscono poi effetti negativi anche sulla sicurezza: il caporalato, il lavoro nero, il lavoro irregolare, vanno combattuti con strumenti adeguati e con convinzione ogni volta che non sia possibile ottenere (come si sta cercando di fare) almeno la emersione dei fenomeni nascosti attraverso forme diverse anche di incentivazione. Se ciò, tuttavia, è possibile per una parte del lavoro irregolare, più difficile è combattere il caporalato e quelle forme di lavoro nero e di sfruttamento dei minori che rappresentano piaghe quasi ataviche, contro le quali c’è da mettere in campo apparati di controllo e di repressione veramente adeguati. Vanno altresì combattute, nei modi cui si è accennato, le deviazioni rispetto ad una concorrenza corretta tra le imprese. E va estesa l’area di riconduzione alla legalità e di garanzia almeno di una qualche tutela per quel vasto settore di lavori «atipici», che si va sempre più estendendo e che – tra le mille tipologie – ha un solo elemento in comune, vale a dire l’assoluta mancanza di ogni forma di prevenzione e di sicurezza.
Se, come affermano le statistiche e tutti gli studi in materia, andiamo incontro ad una realtà lavorativa diversa da quella del passato, molto più frazionata e parcellizzata, è chiaro che i rischi aumenteranno anziché diminuire; verranno a ridursi quelli della fabbrica tradizionale, ma in compenso cresceranno i rischi nuovi e meno conosciuti, quelli del lavoro decentrato, del telelavoro, del lavoro atipico, del lavoro di breve durata, e così via. Su questo piano bisogna attrezzarsi e impegnarsi per tempo, anche perché il fenomeno è sicuramente imponente. Mancano cifre sicure: gli ultimi dati resi noti dall’ISTAT nel rapporto annuale per il 1996, indicano il totale dei lavoratori dipendenti in circa 14 milioni e quello dei lavoratori indipendenti in circa 5.700.000. I dati, ovviamente, non comprendono l’area più sconosciuta, quella che non è classificabile neppure tra gli «indipendenti». E tuttavia, le cifre sono imponenti e tali da esigere un nuovo modo di affrontare tutta la tematica della prevenzione, rispetto a quello tradizionale; e non solo in relazione al concreto numero dei soggetti da considerare, ma anche in rapporto alla «inafferrabilità» di molti di loro, alla estrema varietà dei lavori (e dunque dei rischi), alla estrema difficoltà di mettere in campo efficaci strumenti di controllo.
Non si tornerà, in questa sede, a ripetere quanto si è già detto circa il sistema sanzionatorio e repressivo, circa la sua necessità e circa l’opportunità di considerarlo come l’extrema ratio. È solo utile aggiungere che in una futura ristrutturazione del sistema sanzionatorio (ad esempio in occasione del testo unico) sarà opportuno tenere presenti le esperienze e gli studi degli altri Paesi, che tendono ad aggiungere – o spesso a sostituire – alle sanzioni di tipo tradizionale (reclusione, arresto, multa, ammenda), le sanzioni di tipo interdittivo, la cui maggiore efficacia anche come deterrente è ormai universalmente riconosciuta.
Si fa riferimento alle interdizioni o sospensioni da uffici o cariche anche in aziende private, alla incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione, alla perdita o sospensione di alcuni ruoli nell’ambito societario, e così via. A tutto ciò, insomma, che è scaturito dall’osservazione anche sperimentale, che è molto più temuta, da chi deve usare un’autovettura, la sospensione della patente piuttosto che non una sanzione di tipo penalistico classico.
Ma il discorso sulle sanzioni va accompagnato a quello sulle cosiddette sanzioni «positive», con un termine solo apparentemente contraddittorio. Si tratta insomma delle norme premiali e delle misure di sostegno.
La casistica di ciò che si può fare è molto vasta ed è stata tutta rappresentata al Comitato, sia nelle audizioni che nei sopralluoghi; ed altre indicazioni sono venute dalla Conferenza dell’Aia.
Anzitutto, va approfondito il sistema degli sgravi parziali dalla contribuzione per l’INAIL, in sé certamente positivo, come dimostrato anche dalla riflessione di altri Paesi.
Il decreto ministeriale 18 marzo 1996, che pure esprimeva un atto di buona volontà, non ha raccolto molti consensi; si è criticata la modestia della riduzione (5 per cento), la restrizione alle aziende con meno di sedici addetti e classificate con tasso medio di tariffa superiore al 30 per mille, la natura del presupposto richiesto per ottenere lo sgravio (essersi attenuti, alla scadenza fissata, alle disposizioni in materia di igiene, sicurezza e prevenzione). Ora, bisognerà verificare se questi rilievi siano fondati, in tutto o in parte, e riflettere seriamente sulle misure più efficaci da adottare. È certo che un provvedimento in qualche modo ristretto ad un numero limitato di imprese non è molto significativo; ma è singolare che vi siano state osservazioni così diffuse. Probabilmente, il punto vero di attrito sta nella necessità di dimostrazione dell’avvenuto adempimento alle regole di sicurezza, che non pochi hanno visto come il presupposto di una visita ispettiva. Si potrebbe obiettare che se si è davvero adempiuto non c’è nulla da temere; ma il problema non è così semplice, tant’è che se ne è avuta eco anche nelle discussioni in corso in altri Paesi. Di recente, è stato emanato un altro decreto ministeriale (7 maggio 1997) che amplia la riduzione del tasso di premio INAIL in favore di imprese edili. La riduzione prevista è del 10 per cento ed è concessa alle imprese che aderiscono a comitati paritetici territoriali previsti dall’articolo 20 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e che risultano aver ottemperato alle norme di prevenzione; per le imprese con meno di sedici addetti, la riduzione è commisurabile con quella del precedente decreto ministeriale.
Naturalmente, sull’efficacia di questo provvedimento non si sono potute raccogliere opinioni, anche se è indubbio che esso è già più estensivo del precedente.
Comunque, da più parti si erano anche in precedenza richieste soluzioni più «automatiche» (peraltro di difficile realizzazione), oppure l’utilizzo mirato ed efficace dell’oscillazione del premio pagato dalle aziende (insomma una politica di bonus-malus), oppure ancora – più semplicemente – un incremento delle riduzioni tale da compensare ogni possibile svantaggio. Quale sia il sistema migliore, va certo studiato rapidamente, di concerto con l’INAIL e con le organizzazioni produttive. Appare certo, comunque, che questa è una delle strade su cui bisogna operare.
Le altre vie sono tutte note, dalle agevolazioni creditizie, alla creazione di fondi per concedere un’IVA agevolata per le aziende che applicano la normativa, alle agevolazioni fiscali in genere, alla detassazione parziale degli investimenti in sicurezza, a misura che incentivano la sostituzione del materiale e del macchinario più obsoleto. Tra le tante proposte, c’è solo l’imbarazzo della scelta; o forse neppure quello, se si concorda che bisogna mettere in campo tutti gli strumenti e i mezzi necessari. C’è il problema delle compatibilità economiche; ma questo non solo non è insormontabile, ma va anche collocato in una prospettiva diversa, sulla quale si tornerà fra poco. Ciò che importa, in ogni modo, è che le norme premiali e di sostegno vanno inserite tra quelle più rilevanti ed efficaci, ai fini della prevenzione.

6. Migliorare e innovare il sistema dell’informazione, della circolazione e raccolta dei dati
Le proposte inerenti alla informazione, al sistema di raccolta ed elaborazione dei dati, alla circolazione dei flussi informativi, risultano già con chiarezza da quanto si è detto nell’apposito capitolo. Basterà dire, in questa sede, che occorre superare un vuoto, che ha bisogno di essere colmato in tempi molto rapidi.
Sul versante della informazione, è chiaro che bisogna supplire ad una carenza soprattutto da parte degli organi dello Stato, comunemente denunciate. Va posta in atto una vasta campagna di informazione, con l’uso della stampa, della radio e della televisione e di tutti i principali strumenti di comunicazione; una campagna che deve essere di informazione ma anche di sensibilizzazione e che va condotta a livello continuo e permanente attraverso le scuole di ogni ordine e grado. Occorre un’azione concertata tra vari Ministeri e coordinata dalla Presidenza del Consiglio. Insomma, anche qui un’operazione strategica e programmata, da sostituire agli occasionali risvegli di interesse, magari determinati da tragedie. Occorrono sportelli informativi a tutti i livelli, numeri verdi a cui si possano chiedere informazioni e chiarimenti; occorrono notizie a validità generale e sensibilizzazione su rischi particolari anche per fasce specifiche di utenza; occorrono campagne generalizzate e campagne mirate.
Sul piano dei dati, è indispensabile creare un unico sistema di rilevazione, accompagnato da un’effettiva armonizzazione degli strumenti e metodi statistici, in modo da creare unicità di elaborazione e di lettura.
Va seriamente meditata la proposta di costituire un osservatorio centralizzato, ma anche con riferimenti periferici, in grado di fornire un quadro esatto ed aggiornato della situazione e di evidenziare le aree in cui si riscontrano specifiche anomalie, al fine di rafforzare e rendere più mirata l’opera di prevenzione.
Ma soprattutto occorre mettere in campo un sistema di circolazione continua di flussi di notizie a disposizione di tutti gli organi centrali (per le elaborazioni e valutazioni di maggior respiro), ma anche di tutti gli operatori (per l’utilizzazione ai fini del loro lavoro). Questo sistema complessivo deve creare le condizioni per la definizione di mappe di rischio attendibili e per la creazione di forme di monitoraggio di tutti i fenomeni.
Uno sforzo molto deciso va fatto in una duplice direzione: da un lato, coordinare meglio il lavoro degli organi sanitari di base con il lavoro degli Istituti ed organismi di ricerca, soprattutto a livello universitario; dall’altro, rafforzare e diffondere le ricerche epidemiologiche, indispensabili anche ai fini della conoscenza del rapporto salute/lavoro in collegamento con gli effetti dell’ambiente.

7. Realizzare appieno la linea partecipativa del sistema di prevenzione
Non si è finora formulata nessuna indicazione per ciò che attiene al sistema delle relazioni sindacali, della elezione dei RLS, del finanziamento dei comitati paritetici e degli enti bilaterali. Questo non dipende da sottovalutazione dell’importanza di tutti questi aspetti, ma anzi da una esigenza di rispetto della autonomia delle parti sociali e degli organismi imprenditoriali e sindacali interessati.
Su questo piano, un organo parlamentare non è legittimato a dare suggerimenti o a formulare proposte. Può solo sottolineare aspetti di fondo (e lo si è fatto più volte nel corso di questo documento) ed auspicare soluzioni che solo alle parti interessate compete di mettere in campo. Ci si limiterà, dunque, a sintetizzarle, dopo aver ribadito ancora una volta che, nella filosofia del nuovo sistema, le forme partecipative ed il nuovo assetto delle relazioni collettive sono di primaria importanza, così come lo è la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, intesa nel senso più volte ribadito:
a) è auspicabile che, in breve tempo, si completi il reticolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza a tutti i livelli. La notizia che in Lombardia si è pervenuti finalmente ad un accordo tra organizzazioni sindacali e associazioni dell’artigianato per assicurare la presenza dei rappresentanti dei lavoratori a livello territoriale, oltreché aziendale, è altamente positiva e giustifica la speranza che ovunque vengano superate, al più presto, le difficoltà che si sono frapposte all’estensione del reticolo delle RLS a tutti i livelli territoriali e di bacino;
b) parallelo a quello di cui al punto che precede è l’auspicio che tutti i RLS siano formati adeguatamente e dotati delle conoscenze necessarie per poter svolgere il loro ruolo al livello che è chiaramente indicato dal decreto legislativo n. 626 del 1994 e che conseguentemente essi acquistino ovunque quella autorevolezza che è indispensabile per apparire come veri interlocutori della prevenzione.
Naturalmente questo implica (e in questo caso si tratta di qualcosa di diverso da un auspicio) che ogni RLS possa svolgere il proprio ruolo, adeguatamente e senza ostacoli; ma a questo dovrebbe servire una rapida approvazione dei provvedimenti in corso di esame al Parlamento, volti proprio a garantire la libertà di svolgimento di questa funzione; c) si segnala parimenti l’opportunità di completa diffusione degli organismi di cui all’articolo 20 del decreto legislativo n. 626 del 1994 e il pieno assolvimento dei loro compiti. Ma in questo contesto, è forse possibile andare più oltre. Le prove fornite dai comitati paritetici operanti da tempo nell’edilizia, sicuramente positive, costituiscono un esempio da seguire e potenziare forse anche in altri settori. Allo stesso modo, le esperienze di organismi bilaterali riscontrate dal Comitato nel corso del proprio lavoro, sono sembrate tali da meritare incoraggiamento ed impulso, ad ogni livello e in ogni sede;
d) nel complesso, è da ritenere che il sistema di prevenzione sarà tanto più irrobustito e rafforzato, quanto più diffuso e convinto sarà l’intero complesso delle relazioni tra le parti interessate. Il superamento di ogni resistenza e di ogni conflittualità costituirà una premessa importante per la realizzazione convinta di un sistema partecipativo funzionale ad un opera di prevenzione davvero efficace.

8. Realizzare una visione «globale» della prevenzione, con un grande impegno culturale
Se fin qui le indicazioni hanno riguardato aspetti in qualche modo «tradizionali», un salto di qualità va compiuto con particolare vigore per alcuni aspetti più innovativi e solitamente meno approfonditi.
È stato rilevato che l’importante principio fissato dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833, per cui la prevenzione deve riguardare sempre «gli ambienti di lavoro e di vita» è stato in gran parte disatteso ed anzi in alcune occasioni si sono compiuti dei passi indietro rispetto a quello che era e che resta un principio fondamentale. E dunque, bisogna tornare ad inserire il discorso della prevenzione, nell’ambito di un discorso globale sulla salute, approfondendo alcune tematiche che pure sono state evidenziate con forza da esperti e studiosi.
Inoltre, tutte le questioni attinenti ai rischi da lavoro vanno affrontate con spirito di maggior apertura e soprattutto con maggior estensione.
Non ci è ancora ben chiaro come incide l’ambiente circostante ai luoghi di lavoro, come incidono le condizioni di vita complessive, quali sono gli effetti delle differenze sociali, perfino nel computo della speranza di vita, e soprattutto come una serie di fattori può assumere un efficacia causale, o almeno concausale, rispetto agli infortuni ed alle malattie più strettamente collegate al lavoro.
Uno studioso si è chiesto come mai, a parità di attività lavorativa, di dimensioni aziendali, di parco tecnologico, di pressioni di mercato, alcune aziende presentano un indice di frequenza di infortuni più elevato. Le risposte possibili sono diverse. Inadempienze specifiche agli obblighi di sicurezza, inadeguata organizzazione del lavoro, cattive relazioni industriali; oppure addirittura diversi fattori ambientali esterni. Oggi non siamo in grado di dare una sola risposta oppure di produrre un mix di risposte coordinate fra loro e soddisfacenti. Ma questo basta da solo a rendere evidente una inadeguatezza di impostazione anche culturale e dunque la necessità di compiere un salto qualitativo assai rilevante.
La stessa organizzazione del lavoro può produrre – ancora oggi – effetti devastanti. Si è avuto notizia, un mese fa, di un procedimento per lesioni colpose in danno di diversi lavoratori costretti – secondo l’accusa – a subire ritmi eccessivi, con la conseguenza di patologie muscolari, scheletriche e psicologiche di notevole intensità. È la versione attuale del fenomeno denunciato da Chaplin in «Tempi moderni»? Può darsi, se è vero che proprio quelle malattie sono tra le più diffuse, oggi, in Francia e negli Stati Uniti. Abbiamo, anche in Italia, stabilimenti modernissimi, quasi avveniristici: ma è proprio certo che all’abbattimento di alcuni fattori tradizionali di rischio non si sostituiscano fenomeni nuovi, verificabili solo nel tempo?
E poi, i fattori esterni: gli incidenti su strada, la stanchezza dopo il lavoro, come vanno classificati? E soprattutto come vanno prevenuti? Difficilmente si potrebbe pretendere che a questo provvedano le aziende, ma se entrano in gioco i servizi pubblici e l’impegno delle pubbliche amministrazioni competenti, allora è anche la riflessione su queste ultime che va modificata, perché l’attuazione di misure adeguate, per la circolazione, la viabilità, i trasporti è funzionale, oltre che alle consuete necessità collettive, anche alla prevenzione. E dunque, anche questa è una tematica – come è dimostrato da quanto si è riscontrato a Melfi – da rimeditare integralmente.
Ancora: risulta ancora oggi ben poco approfondito il problema delle differenze sociali nella speranza di vita dei soggetti che prestano (o hanno prestato a lungo) attività lavorativa. Sappiamo con certezza che in testa alla classifica ci sono le professioni cosiddette dei colletti bianchi e in coda quelle meno ambite, più disagevoli per ambiente, oneri, ritmi, eccetera, e in genere – ovviamente – quelle più usuranti. Ma con questa constatazione, abbastanza ovvia, si è risolto ben poco, se non si tiene conto anche di un complesso di altri fattori, attinenti alla vita sociale. Già in questa esistono differenze profonde agli effetti della salute. Per compiere un’opera di prevenzione efficace, bisognerebbe tener conto di tutti questi elementi e della potenziale sommatoria di fattori diversi. Le disuguaglianze sociali, che incidono su tutte le forme morbose, salvo poche e spiegabili eccezioni, rappresentano un fattore da analizzare e di cui tenere conto, soprattutto per tutta quella vasta area di patologie che non appaiono interamente spiegabili sulla base di fattori estranei alla storia professionale, ma che non trovano neppure una spiegazione convincente solo sulla base dell’analisi dei fattori di rischio professionale. In tutti questi casi, un’azione approfondita di monitoraggio, anche a lunga scadenza, una seria ricerca epidemiologica e studi approfonditi, sono componenti e presupposti essenziali di una vera opera di prevenzione.
Si deve andare ancora più in là, considerando quanto poco si conosce circa le correlazioni fra ambienti di vita e lavoro, ai fini delle condizioni fisiche e della durata di vita di chi presta attività lavorativa.
Una indagine epidemiologica svolta nella zona di Torino ha evidenziato una notevole dispersione di un patrimonio di salute, a proposito dei lavoratori immigrati dal Mezzogiorno d’Italia e dalle isole, a partire dal primo dopoguerra. Inizialmente, questi emigrati presentavano una protezione contro il rischio di morte del 58 per cento in più rispetto ai torinesi originali; dopo dieci anni il margine di vantaggio si era ridotto al 41 per cento, dopo altri dieci al 24 per cento e dopo quaranta anni si era azzerato. Effetti dell’ambiente di vita o dell’ambiente di lavoro o di entrambi? In ogni caso, uno studioso ha posto di recente il problema se proprio il luogo di lavoro non dovrebbe costituire la sede privilegiata per contrastare questi processi, con un’opera di prevenzione tanto più efficace quanto più diffusa.
Sono tutte indicazioni e rilievi che inducono a ravvisare la necessità di un salto di qualità a tutti i livelli.
Ma consideriamo ancora due aspetti più specifici, ma fondamentali: la ricerca epidemiologica e l’ergonomia.
Per quanto riguarda la prima, si è accennato più volte alla sua importanza ai fini di individuare tempestivamente le cause (complessive) dei fenomeni e valutare l’efficacia di possibili interventi. Ma la dottrina specializzata (vedi «Metodologie epidemiologiche in medicina del lavoro» – di G. Assennato ed altri A.A., in Trattato di medicina del lavoro, di Ambrosi e Foà, cit.) mette in guardia contro ogni semplicismo. Si tratta di indagini che richiedono metodi raffinati, impiego di strutture e competenze protratto nel tempo, rigore scientifico: altrimenti, c’è il rischio di ottenere risultati non significativi e non probanti. Se è vero che è possibile che uno studio non dimostri alcun eccesso di rischio, quando invece esso esiste in realtà, oppure che, al contrario, si evidenzi un eccesso di rischio in realtà inesistente, ciò significa che il compito dell’epidemiologo occupazionale è di particolare complessità e impegno. Ma è sempre più indispensabile, specialmente a fronte di patologie di eziologia poco conosciuta e della difficoltà di discernere nel novero delle cause, lavorative e non. Ma noi siamo molto indietro, come risulta da molte delle audizioni degli studiosi e degli esperti: ed allora, è chiaro che bisogna superare questo grave divario tra la realtà e la necessità, colmando le lacune, evitando che ognuno lavori per conto proprio, che i mezzi non siano adeguati, che le competenze vadano disperse. In questo senso, è logico dire che occorre un forte salto di qualità.
Ma un discorso analogo va fatto anche per l’ergonomia, una scienza «giovane», in Italia, che ha ottenuto un primo accenno, nel nostro sistema normativo, con un ritardo di 40/50 anni rispetto agli altri Paesi. Ma ancora oggi regnano luoghi comuni, pregiudizi, limitazioni culturali; manca la definizione di precisi standards ergonomici, col risultato che le misure imposte dalla normativa finiscono per diventare spesso un affare e una speculazione per molti commercianti o produttori senza scrupoli. In questo campo, dunque, c’è ancora molto da fare, anzitutto sul piano culturale e scientifico, ma anche sul terreno degli interventi normativi. Bisogna convincere tutti che ergonomia non significa solo prevenzione dei disturbi muscolo-scheletrici da movimentazione manuale di carichi e da VDT, ma persegue la coerenza e la compatibilità tra il mondo che ci circonda (quello lavorativo e quello «esterno») ed esigenze e requisiti minimi di natura psicofisica e sociale. In questo contesto, è chiaro che la ricerca ergonomica si occupa di progettazione di software e interfacce per migliorare il rapporto uomo-macchina-procedure, di strumenti di lavoro e posizioni di lavoro, ma anche di organizzazione del lavoro, di fatica, di stress, e infine di formazione e addestramento.
Un adeguato salto culturale si impone, non solo per ampliare la ricerca delle cause e delle soluzioni, ma anche per rendere più efficaci i controlli, attraverso la definizione di regole per la certificazione e per la corrispondenza obbligatoria agli standards previsti.
Sono solo alcune delle numerose cose da fare per arrivare ad un concetto «globale» di prevenzione, esteso anche agli ambienti di vita, dedicato all’analisi delle cause e concause, culturalmente approfondito e aggiornato. Impostare un concetto così complesso significa anche uscire dall’ambito delle misure più tradizionali (e sempre necessarie) per occuparsi anche della politica educativa, delle politiche attive del lavoro, delle politiche assistenziali, col fine di provvedere ad un concetto globale della salute, come bene dei singoli e della collettività.
È vero che tutto questo richiede un disegno centrale e strategico e l’impiego di numerose energie e competenze. Ma molti degli studiosi ed esperti consultati hanno affermato che le energie ci sono, troppo spesso vanno disperse, troppo spesso vengono fagocitate dal mercato.
Dunque, si tratta di attivarle e metterle in campo, di aiutarle ad impegnarsi, di responsabilizzarle verso la realizzazione delle finalità della prevenzione.
Un forte investimento in una così vasta operazione culturale non ha, in conclusione, meno importanza di quello che bisogna fare sulle strutture, sui mezzi, sulle dotazioni di cui più volte si è parlato. Ed anzi si rivela come fattore imprescindibile, proprio per le evidenti interazioni che si vanno diffondendo tra i vari settori, rami e discipline. Anche in questo senso, si potrebbe parlare di «globalizzazione». Il che, si badi bene, non significa affatto sminuire o affondare in un magma indistinto gli aspetti più specificamente collegati al lavoro dell’intero sistema della prevenzione; che anzi, senza far venir meno questa specificità, è indispensabile collocare il tutto anche culturalmente, in una dimensione più vasta e complessa e più suscettibile, dunque, di produrre effetti positivi a tutto campo.

9. Approfondire le conoscenze sulla specificità del lavoro femminile, ai fini della prevenzione
Nel 1994, la popolazione femminile italiana rappresentava il 51,4 per cento della popolazione totale; nello stesso anno le donne costituivano il 36 per cento della forza lavoro complessiva del Paese. Non siamo ancora alla parità quantitativa di altri Paesi, come gli USA, ma certo il fenomeno è sempre più rilevante. E tuttavia la gran parte degli studi, delle analisi, delle ricerche in materia di sicurezza, è impostata, ancora, attorno alla figura «tipica» del lavoratore maschio. Tutt’al più, si coglie la specificità in relazione alla capacità riproduttiva e dunque alla gravidanza, al parto, al puerperio. Non solo il legislatore, ma spesso anche molti studi e ricerche hanno concentrato l’attenzione su questi aspetti, trascurando il resto, che non è fatto – come alcuni hanno potuto pensare nel passato – di maggior fragilità della donna, ma piuttosto di alcuni connotati specifici, che esigono attenzione ed anche misure preventive particolari.
Se è vero che il 92,8 per cento delle donne occupate impiega parte del suo tempo nei lavori domestici e nelle attività di cura, ciò pone già di per sé un problema di non poco conto, circa gli effetti ed i rischi di questa duplicità di impegni, considerando anche il fatto che se in teoria alcuni di questi oneri potrebbero gravare su diversi soggetti, in realtà la massima parte di essi si riversa sui soggetti di sesso femminile.
Uno studio recente ha evidenziato che il lavoro, per le donne, presenta molto spesso, minori fonti di soddisfazione e in compenso è sicuramente la base di maggiori disagi e conflitti, suscettibili di incidere sulla salute.
Si è evidenziato che le principali fonti di «disagio» si riscontrano nel doppio lavoro, nella esistenza di coppie «a doppia carriera», nel lavoro a turni e nelle molestie sessuali (M.L. Urbano, in Trattato di medicina del lavoro, a cura di Ambrosi e Foà, 1996, cit.). Di solito, si pensa al doppio lavoro come ad una fonte di maggiore fatica, ed è vero; ma la medicina del lavoro evidenzia un complesso di disturbi che confinano con forme di vera e propria patologia (cefalee assidue, rachialgie, dermopatie di natura professionale, aritmie, artropatie, eccetera). Assai spesso da tutto questo la donna si difende con malesseri fastidiosi, che possono preludere a stress con effetti più devastanti, soprattutto quando la fatica si accumula, senza mai scaricarsi appieno. I fenomeni della «doppia carriera» e del lavoro a turni, così come quelli che derivano dalle molestie sessuali producono spesso effetti molto complessi, dando vita a vere e proprie sindromi ansioso-depressive. Ma poi ci sono i veri e propri rischi lavorativi «classici» non solo nell’ambiente domestico, (si parla di circa 1.000.000 di incidenti domestici all’anno, di cui un numero oscillante tra 4.500 e 6.500 casi mortali), ma anche sul lavoro in azienda, a causa delle posture, dei ritmi, degli effetti di particolari lavorazioni (in ospedali, nei negozi di parrucchiere, negli esercizi di lavaggio a secco, nei laboratori chimici, e così via).
È vero che i rischi di insorgenza di tumori professionali nelle donne che lavorano sono maggiori? Può considerarsi dimostrata la maggiore incidenza per le donne, di rischi riguardanti il sistema scheletrico-muscolare? È fondata l’ipotesi secondo cui le donne che lavorano hanno vicende riproduttive più complesse e disagevoli delle altre, che il rischio di aborti spontanei e di parti prematuri è assai maggiore? Sono interrogativi ai quali nel corso delle indagini sono state date ben poche riposte: anzi, è emerso che alla specificità del lavoro femminile e dei suoi rischi, l’attenzione dedicata, è in genere piuttosto limitata. Ma questo non si giustifica più, a fronte di un numero così elevato di donne che lavorano (e di cui tante fanno il doppio lavoro).
D’altronde, lo stesso saggio sopra ricordato afferma che gli studi italiani in materia non sono molti e che ben pochi affrontano il problema del confronto fra lavoratori e lavoratrici esposti a identici fattori di rischio. Un altro saggio (in «Medicina del lavoro», a cura di D. Casula – Seconda edizione, 1996) riconosce che «vi sono molti vuoti nella nostra conoscenza, perfino per i rischi con accertata azione mutagena e teratogena» (riferiti ai rapporti tra lavoro e gravidanza) e si conclude che «i casi residui di vecchie patologie o i casi emergenti di nuovi rischi per la donna e per la riproduzione sono oggi ancora più inaccettabili che nel passato, perché quasi sempre evitabili».
Da queste considerazioni nasce un imperativo assoluto: porre all’attenzione di tutti, operatori sanitari, organi di vigilanza, studiosi, ricercatori, il problema della specificità dei rischi per il lavoro della donna, per ottenere un approfondimento di quanto già si conosce e il superamento dei vuoti troppo ampi nel sistema delle conoscenze, al fine di individuare corrette e tempestive forme di prevenzione in un campo finora troppo trascurato.

10. Approfondire l’analisi del rapporto costi-benefici della prevenzione
Un salto di qualità va compiuto anche in un altro campo, vale a dire sulla riflessione in materia di rapporti fra costi e benefici. Può sembrare singolare, ma anche qui il problema, più che economico in senso stretto, è di natura culturale, con effetti facilmente individuabili sull’intero sistema della prevenzione.
Tutti i Paesi industrializzati stanno riflettendo su questa tematica, con risultati alterni, ma sempre con la ricerca e l’ansia di un reale approfondimento. Noi siamo ancora fermi all’antica e vexata quaestio dei costi della sicurezza, visti dall’angolo visuale delle singole aziende.
Il problema è molto più vasto, perché riguarda al tempo stesso la collettività ed i singoli, il patrimonio economico e quello umano, l’esigenza di tutela del bene salute e perfino la stessa convenienza.
Gli studiosi degli altri Paesi ci avvertono che la prevenzione comporta costi, per le azioni preventive, l’attuazione delle misure di sicurezza, la formazione degli addetti e così via; ma al tempo stesso ci insegnano che i costi della non prevenzione (riparazione di danni, effetti indiretti sull’attività produttiva e perfino sulla competitività) sono rilevantissimi; e ci raccomandano di considerare e valutare adeguatamente anche i benefici, di carattere monetario e non (produttività, incrementi qualitativi, competitività, relazioni sindacali positive, miglior livello psicologico degli addetti e così via). Tutti considerano pacifico che un’opera efficace di prevenzione migliora i rapporti aziendali, evita bruschi conflitti, stimola l’innovazione.
È certo, tuttavia, che anche a livello internazionale, mancano ancora dati precisi soprattutto per ciò che attiene ai benefici; aspetto, questo di grande rilievo, anche ai fini della formazione di una convinta cultura della prevenzione. Ma mentre tutti si adoperano per mettere a punto modelli e metodi di valutazione, soprattutto per ciò che attiene ai benefici non monetari, il nostro Paese è fermo perfino nella ricerca su questi temi, praticamente assenti dalla riflessione generale. Questo conferisce al dibattito sui costi un carattere un po’ ristretto, addirittura provinciale, perché è certo che se non ci poniamo il problema, non riusciremo neppure a individuare sistemi e misure adeguate per ottenere risultati più proficui.
D’altronde, uno degli aspetti che si sta cercando di approfondire, non solo a livello comunitario ma anche negli USA è quello degli investimenti nella prevenzione, tentando di rispondere all’interrogativo se convenga riversare la maggior parte dei costi sulla collettività, oppure sia più utile «internalizzarli» nelle imprese, equilibrandoli poi con i benefici. Non è a caso che all’Aia si sia molto discusso sui sistemi assicurativi e soprattutto sul punto relativo all’utilità o meno di assimilare i sistemi obbligatori a quelli privati (con maggiore elasticità, sistemi di bonus-malus e così via) e si sia posta al centro dell’attenzione anche tutta la tematica della incentivazione, oltre a quella di un rinnovato impegno e di impiego di mezzi da parte anche degli Istituti assicuratori ai fini della prevenzione.
Non è certo questa la sede per approfondire questo complesso e affascinante dibattito. Ma non si può fare a meno di segnalarne la rilevanza e di porre in evidenza la necessità assoluta di approfondire la ricerca, rendersi conto dello stato di riflessione degli altri Paesi, estendere anche a questo campo tutta la nostra riflessione.
L’affermazione contenuta in un importante contributo alla conferenza dell’Aia (Richthofen, dell’OIL) secondo cui «gli investimenti sulla riduzione delle perdite contribuiscono direttamente all’aumento dei profitti e si rivelano altamente efficaci sul piano dei costi» è tale da imporre un serio impegno di studiosi e ricercatori; e non solo perché si tratta di impostare il problema della prevenzione anche in termini economici, ma anche perché in definitiva è in gioco la stessa adesione convinta ad un sistema di prevenzione perfino da parte dei più riottosi.
È opportuno, prima di concludere sul punto, fare un solo esempio: da noi la ricerca sugli effetti dello stress nel lavoro è ancora piuttosto arretrata, mentre in altri Paesi (per esempio negli USA, ma anche in Olanda ed altri Paesi europei), si considera già pacifico che si tratta di uno dei fattori di rischio di infortuni e di malattie da collocare ai primissimi posti, anche ai fini della valutazione degli effetti dell’assenteismo dal lavoro.
Ebbene, in questi Paesi si ritiene che la riduzione dello stress contribuisce non solo all’eliminazione dei costi, ma allo stesso vantaggio concorrenziale delle aziende. Ma come si riduce lo stress, se non lo si definisce e se ne individuano le cause? In uno dei più recenti trattati di medicina del lavoro (Ambrosi e Foà, UTET, 1996) si afferma che «nei Paesi socialmente avanzati si stima che oltre la metà della popolazione lavorativa sia insoddisfatta del proprio lavoro» e trovi serie difficoltà di adattamento nel lavoro. Una recente monografia dell’Organizzazione mondiale della sanità elenca una complessa tipologia di variabili psico-sociali e organizzative, capaci di produrre stress, determinare rischi coronarici, ipertensione, coronariopatie (variabili intrinseche al lavoro, variabili legate alla carriera, variabili organizzative, variabili relazionali). Il problema, dunque, è di estrema complessità: quanto costa non approfondirlo? Quali benefici deriverebbero dalla interruzione della relazione possibile tra stress e malattie cardiovascolari? Bisogna fermarsi qui. Ma l’esempio può essere sufficiente ad indicare un indirizzo e una proiezione culturale radicalmente diversi rispetto ad alcune tematiche legate, sì alla salute, ma in definitiva anche all’economia. Davvero un efficace coordinamento tra Ispesl, INAIL, Istituto di medicina sociale, CNR, Istituto superiore della Sanità, non potrebbe essere assai utile per compiere, anche in questo campo, un salto di qualità per convincere tutti dei benefici che deriverebbero da un efficace e completa opera di prevenzione?

11. Un salto di qualità: verso una nuova «cultura della prevenzione»
A questo punto si può davvero concludere. La pur sommaria indagine ha posto in evidenza la gravità della situazione e l’insufficienza dell’apparato predisposto per combatterla e prevenire i rischi. Si è visto che misure serie e concrete possono essere adottate per combattere un nemico che sicuramente non è invincibile. Si è dovuto rilevare, però, che c’è anche un deficit, accanto a quello strutturale, di natura culturale, con un grave gap che è indispensabile colmare al più presto.
Bisogna puntare tutto sulla formazione di una vera cultura della prevenzione, senza la quale sarebbe davvero difficile ottenere risultati concreti ed esaustivi.
Una cultura che deve essere basata prima di tutto sulla più completa informazione, che si estenda poi ad un sistema complessivo di formazione e di aggiornamento, che si basi su un salto qualitativo nella ricerca, nello studio, nel confronto con le acquisizioni degli altri Paesi. Una cultura della prevenzione che divenga soprattutto convincimento diffuso e non imposizione: un’adesione, cioè, all’idea della prevenzione come problema della collettività nel suo complesso prima ancora che dei singoli, come esigenza etica e «politica», nel senso più alto e nobile della parola, piuttosto che come obbedienza a doveri imposti o alla necessità di evitare effetti negativi o sanzioni.
Una cultura della prevenzione che deve – prima di ogni altra cosa – diventare «diffusa», coinvolgendo le mille iniziative che possono nascere dalla scuola e dalla società civile, oltre che dal mondo della produzione e del lavoro. Per questo, il Comitato ha molto apprezzato l’iniziativa assunta dal dipartimento di prevenzione della ASL di Reggio Emilia e dal Provveditorato agli studi di Reggio Emilia, dal 26 aprile al 1 maggio 1997, che ha visto l’intera città impegnata in una serie di iniziative degli studenti e degli insegnanti sul tema della sicurezza del lavoro, con un pieno coinvolgimento delle scuole, degli Enti, delle associazioni imprenditoriali e delle organizzazioni sindacali della Provincia e con la produzione di materiale informativo ed educativo di grande interesse.
È questa strada di un coinvolgimento complessivo, di un impegno globale a tutti i livelli, che può sconfiggere ogni forma di fatalismo, di assuefazione, di rassegnazione a fronte di fenomeni che continuano ad offendere e colpire un patrimonio umano che rappresenta il primo, fondamentale valore di una società.
Su questa base diffusa di conoscenze, di informazioni, di convinzioni si potrà costruire un complesso di comportamenti diversi da parte di tutti i protagonisti della vicenda della prevenzione, datori di lavoro, lavoratori, operatori della sicurezza, studiosi, nella ricerca continua e ferma di come anticipare le misure contro ogni forma di rischio, di come conoscere tempestivamente i pericoli che si annidano nella attività produttiva di lavoro e negli ambienti di vita, nello sforzo di riuscire a sconfiggerli.
La cultura della prevenzione non rappresenta solo un obiettivo da perseguire, ma costituisce – per tutti – una vera, autentica sfida: le acquisizioni scientifiche e le nuove tecnologie devono costituire un fattore di progresso, ma il progresso deve esaltare e valorizzare la personalità umana soprattutto nel lavoro, superando la profonda contraddizione di un sistema che ancora oggi consente che di lavoro ci si ammali e si muoia.


Fonte: senato.it