Cassazione Penale, Sez. 4, 23 maggio 2014, n. 21057 - Segheria e rischio incendio: cittadino ucraino assunto come dipendente e fatto alloggiare in locale inidoneo






 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIRENA Pietro Antonio - Presidente -
Dott. IZZO Fausto - Consigliere -
Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
Dott. IANNELLO Emilio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
L.M. N. IL (Omissis);
avverso la sentenza n. 1573/2009 CORTE APPELLO di SALERNO, del 15/01/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/04/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Oscar Cedrangolo, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per prescrizione e l'eliminazione della relativa pena per il capo b) e per il rigetto nel resto per il capo a);
Udito, per le parti civili, l'Avv. Roberto Mantella che ha chiesto il rigetto del ricorso;
Udito, per il ricorrente, il difensore Avv. Gustavo Pansini del Foro di Napoli che ha concluso per l'accoglimento del proprio ricorso.


Fatto


1. Con sentenza del 15/1/2013, la Corte d'appello di Salerno confermava la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore nella parte in cui pronunciava condanna di L.M., previo riconoscimento delle attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla contestata aggravante della violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, alla pena di un anno di reclusione per il reato di omicidio colposo (capo A) nonchè alla pena di mesi quattro di reclusione e Euro 6.000,00 di multa per i reati p. e p. dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 5, e art. 22, comma 12, (capo B): entrambi commessi in data (Omissis).

Secondo il primo giudice il L. doveva ritenersi responsabile, per colpa generica, del decesso del cittadino ucraino D. A. verificatosi all'interno della segheria dal primo gestita a seguito di incendio, avendo ritenuto accertato che l'imputato aveva assunto alle proprie dipendenze il predetto, affidandogli anche mansioni di custode notturno della fabbrica e consentendogli perciò di alloggiare e dormire in un locale soppalcato assolutamente inidoneo a tale scopo, in quanto privo di qualsiasi sistema di riscaldamento e di sicurezza.

L'incendio era stato innescato dai rudimentali sistemi di riscaldamento utilizzati dal D. per far fronte al freddo della stagione invernale e si era quindi facilmente propagato a causa della notevole presenza di legname nel deposito.

Secondo il Tribunale, in particolare, esclusi intenti suicidari della vittima, questa, per riscaldarsi, si era cimentata a riparare una bombola malfunzionante, ma la manovra improvvida non escludeva la responsabilità dell'imputato, che aveva dimostrato un alto grado di imprudenza consentendo il ricovero dell'ucraino in un ambiente gravido di rischi di incendio.

Riteneva pertanto integrate anche le ascritte violazioni della normativa in tema di immigrazione (capo B), oltre che della normativa in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547), contestate al capo C. Ciò premesso, la Corte d'appello - nel dichiarare estinti i reati in materia antinfortunistica (capo C) - rigettava nel resto il gravame proposto dall'imputato rilevando che le censure formulate - tendenti a dimostrare l'insussistenza dei reati contestati - si limitavano a riprendere le considerazioni del c.t. di parte, tutte già motivatamente disattese dal Tribunale, alla cui motivazione riteneva pertanto possibile richiamarsi, per relationem.

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l'imputato, per mezzo del proprio difensore, denunciando violazione di legge e mancanza assoluta di motivazione a fondamento del rigetto delle argomentazioni difensive poste a base dei motivi d'appello.

Premesso che queste ultime si erano concentrate soprattutto sulla mancata valutazione delle considerazioni svolte dal consulente tecnico di parte, che avevano evidenziato la correttezza del comportamento dell'imputato con riferimento alla normativa antincendio, nonchè della prospettata alternativa e verosimile ipotesi della manomissione volontaria per suicidio o per omicidio per mano estranea, lamenta che la Corte d'appello ha omesso ogni doveroso esame di tali motivate censure.



Diritto

 

3. Deve preliminarmente dichiararsi l'estinzione di tutti i reati per prescrizione, maturata anteriormente alla presente decisione e per uno di essi, il secondo di cui al capo B, anche prima della sentenza impugnata.

Trattandosi infatti di fatti anteriori all'entrata in vigore della L. 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. legge ex Cirielli) ma essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata in epoca successiva (10/10/2008), in forza delle disposizioni transitorie contenute nella L. Fall., art. 10, commi 2 e 3, occorre aver riguardo, ai fini dell'individuazione del regime prescrizionale applicabile, alla disciplina in concreto più favorevole.

In ragione di tale criterio, nella specie devono trovare applicazione in relazione al "tempus commissi delicti":

- quanto al più grave delitto di cui al capo A, il termine prescrizionale previsto dall'art. 157 c.p., nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte dalla citata legge, pari dunque anni cinque (trattandosi di omicidio colposo con applicazione delle circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti alla contestata aggravante, punito dunque con pena inferiore nel massimo a cinque anni), prolungato della metà per effetto degli atti interruttivi ai sensi dell'art. 160 c.p., comma 3, nella previgente formulazione, per un totale dunque di sette anni e mezzo;

- quanto al primo dei reati di cui al capo B (delitto p. e p. dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 5), punito con la pena della reclusione inferiore a cinque anni, indifferentemente il termine prescrizionale previsto dalla vecchia o dalla nuova formulazione dell'art. 157 c.p., in entrambi i casi giungendosi al medesimo risultato: prescrizione in sette anni e sei mesi;

- quanto al secondo dei reati di cui al capo B (reato p. e p. dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 22, comma 12, punito, alla data della sua commissione, con l'arresto da tre mesi ad un anno e con l'ammenda di 5.000 Euro), il termine prescrizionale previsto dalle previgente formulazione dell'art. 157 c.p., pari dunque ad anni tre, prolungato della metà per effetto degli atti interruttivi, per un totale di quattro anni e mezzo.

Ne discende che, alla data della odierna decisione - anche tenendosi conto delle sospensioni derivanti: i) dal rinvio disposto all'udienza del 7/1/2011 per impedimento dell'imputato derivante da malattia certificata con una prognosi di sei giorni (sospensione pari a 66 giorni, ai sensi dell'art. 159 c.p.); ii) dal rinvio disposto ai sensi dell'art. 132 bis disp. att. c.p.p., all'udienza del 27/9/2011 (per una sospensione pari all'intero intervallo dalla successiva udienza, e dunque nella specie a 476 giorni, ai sensi del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 2 ter, comma 2, introdotto dalla legge di conversione 24 luglio 2008, n. 125) - la prescrizione per ciascuno dei predetti reati deve ritenersi ad oggi già maturata, segnatamente alle date del:
9 gennaio 2014, per il delitto di cui al capo A e per il primo reato di cui al capo B;

9 gennaio 2011, per il secondo reato di cui al capo B. Deve invece escludersi che abbiano effetto sospensivo della prescrizione i rinvii disposti all'udienza del 19/1/2007 (in quanto motivato dalla ravvisata opportunità della riunione a procedimento connesso segnalato dalla difesa, scelta dunque imputabile all'ufficio e certamente non riconducibile ad alcuno dei casi previsti dall'art. 159 c.p.) e all'udienza del 14/6/2007 (trattandosi di udienza regolarmente tenuta al termine della quale, solo nel fissare la data per la prosecuzione dell'istruzione, il giudice ha tenuto conto dell'impedimento rappresentato dal difensore per quella inizialmente ipotizzata).

4. In presenza di tale causa estintiva potrebbe pervenirsi a una pronuncia diversa da quella di annullamento della sentenza impugnata per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione solo nel caso in cui le prove rendano evidente che i fatti addebitati non sussistono, o che l'imputato non li ha commessi, o che i fatti non sono preveduti dalla legge come reati.

Perchè possa applicarsi, infatti, la norma di cui all'art. 129 cpv.

c.p.p., che impone il proscioglimento nel merito in presenza di una causa di estinzione del reato, è necessario che risulti evidente dagli atti processuali la prova dell'insussistenza del fatto, o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non è preveduto dalla legge come reato.

Pertanto, quando il processo si trova nella fase di legittimità, il sindacato della Corte di Cassazione deve limitarsi ad accertare se una delle ipotesi di cui all'art. 129 cpv. c.p.p., ricorra in maniera evidente in base alla situazione di fatto risultante dalla stessa sentenza impugnata, senza che possa estendersi ad una critica del materiale probatorio acquisito al processo, implicando ciò indagini e valutazioni di fatto che esulano dai compiti costituzionali della Corte (v. e pluribus Sez. 4, n. 12724 del 28/10/1988, Fermo, Rv. 180023).

Tanto premesso, nella fattispecie che ci occupa non può ritenersi che risulti evidente l'esistenza di una delle ipotesi di cui all'art. 129 cpv. c.p.p..

5. Per contro non può nemmeno ritenersi che sia intervenuto il giudicato in punto di responsabilità (predicabile in astratto, come motivo ostativo alla declaratoria di estinzione, per i due reati prescritti in data successiva alla sentenza impugnata).

5.1. Con il motivo di ricorso si denuncia infatti vizio di omessa motivazione, per essere la sentenza d'appello motivata per relationem.

Una tale tecnica motivazionale in realtà deve ritenersi consentita, secondo costante giurisprudenza, tutte le volte in cui le censure formulate dall'appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (v. Sez. 2, n. 30838 del 19/03/2013, Autieri e aa., Rv. 257056; Sez. 4, n. 38824 del 17/09/2008, Raso e aa., Rv. 241062; Sez. 5, n. 3751 del 15/02/2000, Re Carlo, Rv. 215722; Sez. 5, n. 7572 del 22/04/1999, Maffeis, Rv. 213643).

Ed infatti, in coerenza (e a corollario) del principio, da tempo pacificamente acquisito nella giurisprudenza di questa S.C., della integrazione reciproca fra la sentenza di primo grado e quella di appello che si pronunci in conformità (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, PM in proc. c. Musumeci e aa., Rv. 191229; Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906), il giudice del gravame non è tenuto a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello, sulla quale il primo giudice si sia già soffermato ed abbia risolto con argomentazioni corrette e prive di vizi logici (Sez. 5, n. 18732 del 31/01/2012, Riccitelli, Rv. 252522; Sez. 5, n. 4415 del 05/03/1999, Tedesco, Rv. 213114).

Si è, in sostanza, ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice che l'apparato motivazionale del provvedimento, che può anche essere succinto, deve dare dimostrazione dell'iter cognitivo e valutativo seguito dal decidente per giungere ad un certo risultato decisorio, in modo che sia salvaguardato la facoltà di critica da parte di chi ha titolo per impugnare o contestare la decisione e l'esercizio del potere di controllo da parte dell'organo funzionalmente sovraordinato. Più specificamente deve rilevarsi che l'ambito della necessaria autonoma motivazione del giudice d'appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall'appellante.

Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati.

Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall'appellante, sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione.

Nel caso in esame può ritenersi che sussistessero le condizioni legittimanti una motivazione per relationem della sentenza di secondo grado risultando per vero che tutte le contestazioni in punto di fatto mosse dall'appellante, sulla scorta in particolare della ricostruzione operata dal C.T. di parte, erano state puntualmente esaminate e confutate nella sentenza di primo grado alla luce in particolare delle conclusioni del perito nominato dal Tribunale, che con le prime (oltre che con quelle parzialmente diverse del C.T. del P.M.) puntualmente si confrontava, confutandole con argomenti di sicura pregnanza logica e tecnica.

L'appello non conteneva elementi di novità rispetto agli elementi di fatto e alle considerazioni tecniche già esaminate in primo grado, ma si risolveva nella mera ripresa delle argomentazioni del consulente di parte, già come detto oggetto di puntuale disamina in primo grado.

Legittimamente, pertanto, la Corte d'appello ha motivato con mero rimando alle argomentazioni già svolte nella sentenza di primo grado (peraltro diligentemente riportate nella parte narrativa insieme con quelle di parte) in quanto idonee a rispondere alle contestazioni di merito già svolte dalla difesa dell'imputato nel corso del processo di prime cure e meramente iterate, senza sostanziali elementi di novità, con l'atto di gravame.

Ciò dunque deve condurre a una valutazione di infondatezza del ricorso, in quanto motivato esclusivamente dalla asserita (ma insussistente) inadeguatezza nel caso di specie del ricorso alla motivazione per relationem.

5.2. Non può, però, tale valutazione di infondatezza, ritenersi qualificata anche da connotati di evidenza tale da condurre ad un giudizio di inammissibilità del ricorso per cassazione e dunque impedire - ai fini sopra indicati (par. 5) - il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, avendo comunque richiesto essa, inevitabilmente, una lettura degli atti e in particolare dei motivi d'appello in relazione alle questioni già dibattute in primo grado e alle considerazioni svolte nella sentenza che lo ha concluso: ciò che di per sè esclude possa predicarsi una manifesta emersione della infondatezza del ricorso già (ictu oculi) dalla lettura del ricorso medesimo e della sola sentenza d'appello.

6. In ragione delle considerazioni che precedono, deve dunque, da un lato, agli effetti penali, pronunciarsi l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere i residui reati ascritti tutti estinti per prescrizione; dall'altro, agli effetti civili, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, in favore delle parti civili.


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perchè estinti i reati di cui ai capi a) e b) per prescrizione;

rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna L.M. alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, eredi di D.A., liquidate in complessivi Euro 2.000,00 oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 16 aprile 2014.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2014