Cassazione Penale, Sez. 4, 10 ottobre 2014, n. 42309 - Clausola contrattuale che trasferisce tutti gli obblighi antinfortunistici gravanti sul datore di lavoro all'impresa utilizzatrice


 

 

 

Durante le operazioni di carico di attrezzature e materiali di scarto depositati al secondo piano di un centro commerciale, un lavoratore precipitava dalla sommità di un parapetto in muratura mentre tentava di parlare con un collega che si trovava al piano strada.
Gli imputati, due dirigenti della società fornitrice di manodopera della quale era dipendente il lavoratore infortunato, e due soci della società utilizzatrice erano stati condannati per il reato di cui agli artt. 113 e 590, commi 2 e 3, c.p., per aver cagionato per colpa lesioni al dipendente. In particolare, essi avrebbero omesso di fornire al lavoratore scarpe antinfortunistiche (art.4, comma 5, lett. d), d.lgs. n. 626/1994) e avrebbero consentito prestazioni lavorative giornaliere eccedenti le 13 ore, non seguite da un periodo di riposo di almeno 11 ore (art. 7, d.lgs. n. 66/2003).

La Corte di Cassazione afferma che "il giudice del rinvio non dovrà trascurare l'assunto difensivo secondo il quale con una clausola contrattuale erano stati trasferiti all'utilizzatore tutti gli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro, da esaminare tenendo conto del principio interpretativo affermato da questa Suprema Corte, in base al quale, in tema di delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità della circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 cod. civ., che fa carico all'imprenditore di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011, Tessari e altro, Rv. 250761)."


 

 

Presidente Bianchi – Relatore Serrao

 

Fatto


1. Con sentenza emessa in data 1/02/2012 la Corte di Appello di Milano ha parzialmente riformato, ai soli effetti civili, la sentenza assolutoria emessa il 12/02/2010 dal Tribunale di Monza, condannando G.R. , L.M.D. , Gr.Pi. e S.M. in solido al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore di Si.Gi. , assegnando alla parte civile una provvisionale di Euro 25.000,00.
2. G.R. , L.M.D. , Gr.Pi. e S.M. erano imputati del reato previsto dagli artt. 113 e 590, commi 2 e 3, cod. pen. perché, agendo in cooperazione colposa tra loro, G.R. e L.M.D. quali dirigenti della Manpower s.p.a., Gr.Pi. e S.M. quali soci della Gr. s.n.c. di Gr. Pietro e C, avevano cagionato per colpa lesioni a Si.Gi. , dipendente della Manpower s.p.a. con qualifica di lavoratore interinale, che era precipitato dalla sommità di un parapetto in muratura dal secondo piano del centro commerciale (omissis). Secondo l'ipotesi accusatoria, Si.Gi. si trovava ad eseguire un'attività lavorativa consistente nel ritiro di attrezzature commerciali per conto della Gr. s.n.c. in virtù di un contratto di prestazione di lavoro temporaneo tra quest'ultima e la Manpower s.p.a.. Agli imputati G.R. e L.M.D. era stata contestata la violazione dell'art. 4, comma 5, lett. d) d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626, per aver omesso di fornire al lavoratore scarpe antinfortunistiche, e dell'art. 7 d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, per aver consentito al lavoratore dipendente prestazioni lavorative giornaliere eccedenti le 13 ore non seguite da un periodo di riposo di almeno 11 ore; a Gr.Pi. e S.M. era contestata la violazione dell'art. 6, comma 1, l. 24 giugno 1997, n. 196 per avere omesso di fornire al lavoratore scarpe antinfortunistiche.
3. La dinamica dell'infortunio era stata così ricostruita dal giudice di primo grado: Si.Gi. si trovava insieme ad un altro dipendente della Manpower s.p.a. presso il centro commerciale (omissis) al fine di eseguire, per conto della Gr. s.n.c., una prestazione di lavoro temporaneo consistente nel prelevare da un esercizio commerciale e caricare su un furgone attrezzature e scarti di lavorazione. Il contratto di prestazione di lavoro temporaneo a favore della Gr. s.n.c. aveva avuto inizio in data 11 luglio 2003 e fino al 23 luglio Si.Gi. aveva lavorato a (…), da cui era partito la mattina del 24 luglio alle ore sei, diretto al predetto centro commerciale. L'altro lavoratore si trovava al piano terra vicino al furgone da caricare, mentre Si.Gi. era sul ballatoio posto al secondo piano, attraverso il quale i carrelli con il materiale da scaricare venivano inviati mediante ascensori al cortile sito al piano terra; il parapetto del ballatoio era alto m.1,5 e spesso cm.50 ed era sormontato da una lamiera zincata, che quel giorno era bagnata per la pioggia; ai piedi del parapetto si trovava una canalina a forma di parallelepipedo alta circa cm. 32; nel tentare di comunicare con il collega che si trovava nei pressi del furgone, Si.Gi. era salito sul parapetto posando sullo stesso le estremità inferiori e perdendo l'equilibrio. Premessa tale ricostruzione, il giudice di primo grado era pervenuto all'assoluzione degli imputati, ritenendo che il comportamento del lavoratore fosse stato così imprudente ed imprevedibile da escludere che l'utilizzo delle scarpe antinfortunistiche ovvero un adeguato riposo avrebbero evitato l'evento.
4. Avverso la sentenza con la quale la Corte territoriale ha, invece, ritenuto gli imputati responsabili ai soli effetti civili propongono ricorso per cassazione Gr.Pi. e S.M. , con unico atto, L.M.D. e G.R. , con distinti ricorsi.
4.1. G.P. e S.M. censurano la sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Secondo i ricorrenti la motivazione con la quale la Corte territoriale ha ribaltato la decisione di primo grado sarebbe contraddittoria per avere ritenuto attendibile la testimonianza della parte civile nonostante Si.Gi. avesse fornito tre differenti versioni della vicenda; sarebbe omissiva nella parte in cui ha apoditticamente aderito ai motivi di appello proposti dalla difesa della parte civile; avrebbe illogicamente desunto: a) che l'evento si è verificato durante l'attività lavorativa, nonostante le dichiarazioni di Si.Gi. fossero state smentite da altri testimoni; b) che l'adozione di sistemi di sicurezza avrebbe evitato l'evento, nonostante gli organi competenti avessero accertato che il lavoratore aveva tenuto un comportamento abnorme; c) che il rispetto degli orari destinati al riposo del lavoratore avrebbe evitato l'evento, nonostante la condotta abnorme di quest'ultimo si ponesse come atto interruttivo del nesso di causalità.
4.2. L.M.D. censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, inosservanza o erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche, nonché travisamento del fatto. Secondo il ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe contraddittoria nella parte in cui, pur avendo in precedenza affermato che la responsabilità degli imputati si sarebbe potuta affermare indipendentemente dall'accertamento della dinamica del sinistro e anche aderendo alla ricostruzione operata dal primo giudice, ha argomentato la ricorrenza del nesso di causalità tra la violazione delle norme cautelari e l'evento sulla base di una diversa ricostruzione della dinamica dell'infortunio. Nella motivazione, si assume, sarebbe stata omessa ogni valutazione in merito al giudizio espresso dal Tribunale sulla non credibilità della persona offesa, risultando incomprensibile il percorso logico-giuridico seguito sul punto dalla Corte territoriale. Il ricorrente sostiene, altresì, l'illogicità della motivazione con riguardo al nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento, sia nella parte in cui si è affermato che l'utilizzo delle scarpe antinfortunistiche avrebbe evitato l'evento per la maggior aderenza al suolo dei dispositivi di protezione, nonostante sia pacifico che il lavoratore infortunato si sia spinto verso l'alto per riversarsi sul bordo esterno del parapetto, sia nella parte in cui si è affermato che l'abnorme numero di ore di lavoro a cui il lavoratore era sottoposto avrebbe inciso sulla sua capacità di apprezzare la rischiosità della situazione, pur in difetto di una legge di copertura in base alla quale si possa sostenere che l'esecuzione di quel numero di ore di lavoro da parte di un soggetto medio determinerebbe il compimento di azioni dissennate nella generalità dei casi. Nel ricorso si lamenta l'attribuzione di responsabilità al ricorrente quale dirigente della Manpower s.p.a. nonostante gli obblighi dell'impresa fornitrice consistano in obblighi di informazione e addestramento piuttosto che di fornitura di presidi antinfortunistici, nonostante in base ad una clausola contrattuale debitamente sottoscritta dall'utilizzatore l'impresa fornitrice avesse trasferito a quest'ultimo anche gli obblighi di informazione e addestramento, nonostante all'impresa utilizzatrice fosse integralmente trasferito ogni obbligo in materia di protezione, igiene e sicurezza sul lavoro e nonostante fosse documentato che l'orario di lavoro prestato in violazione del d. lgs. n. 66/2003 non potesse essere conosciuto dalla Manpower s.p.a. in quanto, per contratto, il lavoratore era tenuto a trasmettere all'impresa fornitrice il foglio presenze solo il primo giorno lavorativo successivo al mese di riferimento. Con specifico riguardo alla posizione del ricorrente all'interno dell'impresa, quest'ultimo si duole che la Corte territoriale abbia desunto la fonte della sua posizione di garanzia dalla mera circostanza che egli fosse legittimato a sottoscrivere contratti di assunzione, nonostante ad altro procuratore della Manpower s.p.a. fosse espressamente e in via esclusiva concesso il potere di provvedere a tutti gli adempimenti richiesti dalla normativa sulla sicurezza del lavoro, nominando anche i relativi responsabili.
4.3. G.R. censura la sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe erroneamente individuato a suo carico la titolarità di una posizione di garanzia in contrasto con la lettera di licenziamento del 7 luglio 2003, sostenendo che fosse documento privo di data certa nonostante la data fosse stata confermata in dibattimento dalla teste Laura D'Amico; ma la pronuncia sarebbe erronea anche per aver desunto la sua posizione di garanzia dalla mera qualifica di procuratore della società, nonostante nel corso del giudizio di primo grado fosse stata prodotta la procura notarile in base alla quale il delegato alla sicurezza interno della società risultava essere un altro procuratore. Sul punto, si assume, la Corte territoriale avrebbe omesso di fornire motivazione.
5. Con memoria depositata il 19 luglio 2014 Si.Gi.An. ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili o rigettati in quanto infondati.

Diritto

 



1. Va osservato, in primo luogo, che il ricorso proposto da Gr.Pi. e S.M. è inammissibile.
1.1. I ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, svolgono in realtà considerazioni in fatto che hanno lo scopo di evidenziare la maggiore aderenza delle valutazioni operate dal primo giudice alle risultanze istruttorie e di illustrare le ragioni per le quali la versione dei fatti fornita dalla parte civile sarebbe inattendibile. Si tratta di doglianza che, per come è stata formulata, è inammissibile in sede di legittimità.
1.2. In particolare, quando nel ricorso si esaminano i temi dello svolgimento dell'attività lavorativa e della violazione di norme antinfortunistiche, vengono sviluppate argomentazioni in fatto che richiedono una nuova valutazione delle risultanze istruttorie in senso più favorevole al ricorrente, senza evidenziare il pur dedotto vizio di motivazione.
1.3. A tale riguardo è opportuno ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte, hanno affrontato il tema dei limiti del sindacato di legittimità in diverse sentenze che costituiscono il quadro di riferimento per la valutazione di ammissibilità del ricorso che denunci il vizio di motivazione. In particolare, con una pronuncia del 1995 (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 29/01/1996, Clarke, Rv. 203428) si è ritenuto che il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre; nel 1996 (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621) si è affermato il principio che la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica. E nel 1997 (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944) si è anche ritenuto che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.
Nel 2000 (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv.216260) l'ambito di valutazione è stato ulteriormente messo a punto nel senso che, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di Cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno, e, nel 2003 (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074) si è puntualizzato che l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi. Il ricorso in esame in nulla si conforma alle predette direttive del giudizio di legittimità perché non individua fratture argomentative della motivazione ma si limita a sostituire il proprio ragionamento a quello svolto dalla Corte per accreditare una ricostruzione della vicenda più favorevole al ricorrente. Le censure, come già detto, si risolvono in mere deduzioni di fatto dirette a sovvertire le conclusioni cui perviene la Corte di merito e ad accreditare una ricostruzione alternativa dei fatti, procedendo da una diversa interpretazione degli elementi probatori e sollecitando un sindacato di merito che resta precluso nel giudizio di legittimità.
1.4. Conclusivamente, il ricorso proposto da Gr.Pi. e S.M. deve dichiararsi inammissibile; tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell'art. 616 cod.proc.pen. l'onere delle spese del procedimento e del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, nella misura di Euro 1.000,00 a carico di ciascuno dei ricorrenti. Segue, altresì, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore della costituita parte civile, liquidate come in dispositivo.
2. A diversa conclusione deve giungersi con riferimento al ricorso proposto da L.M.D. e da G.R. .
2.1. Occorre premettere che, nel caso in esame, la sentenza di appello è pervenuta a conclusione diametralmente opposta a quella del giudice di primo grado in merito al giudizio di responsabilità, sia pure ai soli effetti civili, sostanzialmente ritenendo che il comportamento abnorme attribuito al lavoratore dal Tribunale non trovasse alcun riscontro obiettivo e costituisse mera congettura. Prendendo in esame l'altezza della persona offesa, l'altezza del parapetto da terra, l'ampiezza del piano di quest'ultimo, le tracce delle ditate presenti sulla parte superiore del muretto, visibili nei rilievi fotografici effettuati nell'immediatezza del fatto, e sottolineando la contestuale mancanza di tracce di piedi dell'infortunato, la Corte territoriale ha avallato una diversa ricostruzione dell'infortunio ritenendo che il lavoratore, non potendo guardare al di là del muretto per contattare il collega, fosse stato costretto a tirarsi su con le mani, dopo aver preso lo slancio che gli consentisse di andare oltre il bordo esterno del muretto, ponendo in essere un'operazione che lo aveva sbilanciato in avanti facendolo cadere al suolo.
2.2. Va, in proposito, ricordato come sia ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte il principio per cui il giudice che, in grado di appello, pervenga alla riforma di una pronuncia assolutoria è tenuto ad un particolare obbligo di motivazione, non potendosi limitare a prospettare una soluzione alternativa rispetto alla ricostruzione dei fatti accolta in primo grado, ma dovendo confrontarsi con gli argomenti addotti a sostegno della prima decisione, evidenziarne l'eventuale incongruenza e fornire una lettura del materiale probatorio scevra da ogni possibilità di dubbio; la motivazione della sentenza di condanna in appello deve, pertanto, fondarsi su “argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, nemmeno nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza” (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, P.C. in proc. Rastegar, Rv. 254638; Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066 Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008, Pappalardo, Rv. 242330; Sez. 4, n.32970 del 23/06/2004, Santilli, Rv. 229144; Sez. 1, n. 1381 del 16/12/1994, dep. 10/02/1995, Felice e altro, Rv. 201487).
2.3. Deve, per altro verso, tenersi conto dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U n. 20 del 30/10/2003, P.G., Andreotti e altro, Rv. 226093), che hanno affrontato la questione se e in quali limiti l'imputato, assolto in primo grado e condannato in appello, possa dedurre mediante ricorso in cassazione la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione della sentenza di condanna, sull'assunto che entrambe le sentenze avrebbero omesso di valutare decisive risultanze probatorie.
2.4. Com'è noto, le Sezioni Unite sono pervenute ad affermare, su questo tema, che "ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di Cassazione possa e debba fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche (non certo ai motivi d'appello dell'imputato carente d'interesse all'impugnazione, perciò inesistenti) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contrastare il gravame del Pubblico Ministero (nel caso in esame la sentenza è stata appellata dalla sola parte civile), abbia prospettato al giudice d'appello l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed utilizzate per fondare la decisione assolutoria... la mancata risposta dei giudici d'appello alle prospettazioni della difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficerebbe la completezza e la coerenza logica della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la renderebbe suscettibile di annullamento".
2.5. Su questo aspetto, gli atti d'impugnazione dei ricorrenti L.M.D. e G.R. hanno reiterato argomentazioni difensive che erano state già sottoposte ai giudici di merito, secondo quanto si evince sia dalla pag. 8 della sentenza di primo grado sia dalle pagg. 10 el8 della sentenza impugnata. È, dunque, possibile, in altre parole, desumere dal ricorso, e dal testo della sentenza impugnata, quali siano state le argomentazioni difensive sottoposte all'esame del giudice di appello, rispetto alle quali la motivazione risulterebbe carente, con specifico riguardo all'esame delle emergenze documentali e testimoniali indicate dai ricorrenti per porre in dubbio la sussistenza di una loro posizione di garanzia quali procuratori della Manpower s.p.a..
2.6. Se, infatti, il ricorso proposto da L.M.D. presenta una doglianza infondata laddove lamenta la contraddittorietà della sentenza impugnata, o l'omessa motivazione in merito al giudizio relativo alla credibilità della persona offesa, l'impugnazione coglie nel segno laddove censura per illogicità la motivazione concernente il nesso di causalità tra la violazione dell'art. 4, comma 5, lett. b) d.lgs. n.626/94 e l'evento lesivo.
2.7. Il ricorso proposto da G.R. , d'altro canto evidenzia le carenze motivazionali concernenti le emergenze istruttorie relative alla sua posizione dirigenziale all'interno della Manpower s.p.a. al momento dell'infortunio, segnatamente la deposizione della teste D'Amico e la procura notarile del 13 aprile 2000.
3. Esaminando in dettaglio i ricorsi, quello proposto da L.M.D. svolge una censura non condivisibile, laddove si duole della contraddittorietà della motivazione concernente la ricostruzione della dinamica dell'infortunio; se, infatti, si raffronta l'affermazione riportata a pag. 12 (secondo la quale la responsabilità degli imputati può essere affermata anche indipendentemente dalla ricostruzione della meccanica del sinistro ed anche se si aderisse alla ricostruzione ritenuta dal primo giudice) con le considerazioni sviluppate alle pagg. 14 e 15 della sentenza, a proposito dell'efficienza causale degli stressanti turni di lavoro sulla capacità di autocontrollo del lavoratore, è chiara la logicità del ragionamento espresso dalla Corte, che ha ritenuto che il mancato rispetto del turni di riposo dovesse considerarsi causa principale dell'evento anche ove si fosse condivisa la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale. Né risulta contraddittorio il ragionamento seguito dalla Corte laddove ha indicato la ricostruzione del fatto ritenuta più aderente alle emergenze istruttorie, non tralasciando di illustrare l'ulteriore argomentazione logica per cui anche la ricostruzione operata dal giudice di primo grado avrebbe dovuto condurre al giudizio di responsabilità.
3.1. La doglianza inerente all'omessa motivazione in merito al giudizio svolto dal Tribunale sulla non credibilità della parte offesa, seppure corrispondente al testo della sentenza impugnata, non è idonea a scardinare la congruenza logica della pronuncia, che ha strutturato la ricostruzione dei fatti basandosi su una serie di elementi fattuali idonei ad avvalorare le dichiarazioni rese da Si.Gi. nella fase dibattimentale e, al contempo, ad evidenziare la non decisività di quelle dichiarazioni circostanziali dal medesimo variamente rese in merito alle ragioni per le quali si fosse appoggiato al parapetto con l'intento di sporgersi dal medesimo.
3.2. Secondo quanto si è già accennato, coglie, invece, nel segno la censura che lamenta l'illogicità della motivazione inerente al nesso di causalità tra l'omessa consegna al lavoratore delle scarpe antinfortunistiche e l'evento, essendo palese l'illogicità dell'affermazione secondo la quale, se il lavoratore avesse indossato scarpe dotate di maggiore aderenza al suolo e tali da evitare cadute, inciampi o mancanza di aderenza, l'evento non si sarebbe verificato, ove si consideri che tale affermazione segue una ricostruzione del fatto (pagg. 11 - 12) in base alla quale l'altezza del parapetto da terra e la sua ampiezza non avrebbero in alcun modo consentito al lavoratore, data la sua altezza, di sporgersi mantenendo i piedi aderenti al suolo.
3.3. Giova, qui, ricordare che, nell'ipotesi in cui la condotta omissiva contestata si concretizzi nella violazione di più disposizioni concernenti l'obbligo di agire (e nelle fattispecie di reato cosiddette causalmente orientate la norma indica l'evento ma non il meccanismo di produzione del medesimo), l'accertamento del nesso di causalità tra le condotte contestate e l'evento verificatosi si atteggia come ricostruzione ipotetica dell'efficacia di ciascun comportamento omesso. Ciò comporta che, verificata a mezzo del cosiddetto giudizio controfattuale, l'efficacia anche di uno solo dei comportamenti la cui omissione sia stata ascritta all'imputato, e ritenuto dunque che l'osservanza di uno fra i vari obblighi che si assumono violati avrebbe potuto evitare il prodursi dell'evento, non risulta decisivo ai fini dell'accertamento del nesso di causalità fra condotta ed evento, potendo eventualmente incidere sul giudizio di gravità della colpa, che il giudice di merito abbia escluso o non abbia correttamente valutato la violazione di altro obbligo. In ragione di tale principio, l'illogicità della motivazione concernente la violazione di una norma cautelare non sarebbe idonea ad assumere rilievo ai fini della richiesta pronuncia di annullamento nel caso in cui la Corte territoriale avesse fatto buon governo delle emergenze istruttorie concernenti l'ascrivibilità ai ricorrenti L.M.D. e G.R. dell'altra condotta omissiva contestata.
3.4. Deve, invece, ritenersi che entrambi i ricorsi abbiano fondatamente evidenziato carenze della motivazione sulle acquisizioni istruttorie concernenti un punto decisivo, ovvero la titolarità della posizione di garanzia di L.M.D. e di G.R. rispetto alla normativa antinfortunistica, sia con riferimento alla ripartizione degli obblighi prevenzionistici gravanti sul somministratore e sull'utilizzatore a norma dell'art. 3, comma 5, L. 24 giugno 1997, n.196 nelle ipotesi di contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo (denominato contratto di somministrazione a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, artt. 20 ss. ed ora espressamente disciplinato, quanto agli obblighi prevenzionistici, dall'art.3, comma 5, d.lgs. 9 aprile 2008, n.81), sia sotto il profilo della conoscenza o conoscibilità da parte dei procuratori della Manpower s.p.a. dell'orario di lavoro al quale S.G. era stato adibito dalla Gr. s.n.c., sia per il profilo della delega specifica in materia di sicurezza del lavoro conferita ad altro procuratore, sia sotto il profilo del licenziamento intimato a G.R. in data antecedente l'evento. Tali argomenti, solo accennati nella sentenza di primo grado per l'evidente ultroneita degli stessi in presenza di una pronuncia che aveva escluso il nesso di causalità tra omissione ed evento, non risultano presi in esame con satisfattiva completezza nella sentenza impugnata, che si è limitata a motivare la condanna di L.M.D. e G.R. , in solido con i responsabili dell'impresa utilizzatrice, in ragione dei poteri che esercitavano in nome e per conto della società Manpower s.p.a. e sul mero presupposto che alla data del sinistro entrambi fossero procuratori della società dotati di ampi poteri, tra i quali anche quello di sottoscrivere contratti di assunzione di lavoratori.
3.5. In ragione della manifesta illogicità della pronuncia, nella parte in cui ha ravvisato il nesso di causalità tra l'evento e la violazione dell'art. 4, comma 5, lett. b) d.lgs. 626/94, risulta pertanto decisivo verificare con idoneo approfondimento delle emergenze istruttorie se i ricorrenti L.M.D. e G.R. fossero titolari di posizioni di garanzia con riguardo agli obblighi inerenti alla durata massima della giornata lavorativa del lavoratore dipendente ed ai periodi di riposo al medesimo spettanti (artt. 3 e 7 d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66), la cui violazione è stata congruamente posta dalla Corte territoriale in correlazione causale con l'evento, ovvero ai più generali obblighi antinfortunistici gravanti sul datore di lavoro.
3.6. Nell'accertamento di tale aspetto della vicenda, il giudice del rinvio non dovrà trascurare l'assunto difensivo secondo il quale con una clausola contrattuale erano stati trasferiti all'utilizzatore tutti gli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro, da esaminare tenendo conto del principio interpretativo affermato da questa Suprema Corte, in base al quale, in tema di delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità della circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 cod. civ., che fa carico all'imprenditore di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011, Tessari e altro, Rv. 250761).
4. Conclusivamente, la sentenza deve essere annullata per vizio di motivazione con esclusivo riferimento alla condanna di L.M.D. e G.R. , con rinvio ai sensi dell'art. 622 cod.proc.pen. al giudice civile competente per valore affinché ripercorra l'iter motivazionale secondo la trama argomentativa sopra enunciata. Al giudice del rinvio sarà rimessa la regolamentazione delle spese processuali anche per questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.



Dichiara inammissibili i ricorsi di Gr.Pi. e S.M. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro.1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché, in solido, alla rifusione delle spese in favore di S.G.A. , liquidate in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di L.M.D. e G.R. con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello cui rimette anche la statuizione sulle spese processuali tra le parti.