Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4,  06 marzo 2015, n. 9864 - Appalto e infortunio. Prescrizione


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Presidente -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. MARINELLI Felicetta - Consigliere -
Dott. CIAMPI Francesco Mari - Consigliere -
Dott. SERRAO Eugenia - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
V.O.S. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 6500/2013 CORTE APPELLO di MILANO, del 08/01/2014;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/02/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. EUGENIA SERRAO;
Udito il Procuratore Generale in persona della Dr.ssa Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
Udito il difensore della parte civile, Avv. Oglialoro Giovanni, che ha concluso per la conferma della sentenza impugnata;
Udito il difensore, Avv. Rubiu Stefano, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.


Fatto

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 8/01/2014, ha confermato la pronuncia di condanna emessa in data 4/04/2012 dal Tribunale di Milano - Sezione Distaccata di Rho nei confronti di V.O.S., imputata del reato di cui all'art. 113, art. 590, commi 1 e 3, in relazione all'art. 583 c.p., comma 1, n. 1 e n. 2 e in relazione al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, comma 2, artt. 21 e 22, art. 35, comma 4 ter, lett. e), art. 7, comma 1, per avere cagionato, nella qualità di delegato alla sicurezza degli impianti ed all'incolumità delle maestranze della Forgiatura Moderna Arese s.p.a., il giorno 17 luglio 2006, al lavoratore T. R. lesioni personali gravi.

2. L'infortunio è stato così ricostruito dai giudici di merito: il lavoratore era stato assunto alle dipendenze dell'impresa A. G., appaltatrice della Forgiatura, lo stesso giorno dell'incidente; un dipendente dell'impresa committente gli aveva portato un cerchio di acciaio del peso di quattro tonnellate e lo aveva appoggiato per terra, dentro il capannone, per consentirgli di effettuare il lavoro di saldatura, senza toccare il pezzo in alcun modo; il lavoratore, una volta terminata la saldatura, si era girato dando le spalle all'anello tentando di liberare un cavo che vi era rimasto imbrigliato; il pezzo si era mosso e il piede vi era rimasto incastrato sotto.

3. Il Tribunale aveva ritenuto dimostrato che l'incidente fosse imputabile al fatto che l'anello non fosse stato adeguatamente bloccato, al fine di evitare almeno quello scivolamento che aveva schiacciato il piede del lavoratore; che non risultasse alcuna procedura scritta relativa all'importantissimo aspetto della messa in sicurezza del pezzo da lavorare; che non fosse contemplato il relativo rischio in alcun documento; che non vi fosse traccia di un preventivo coordinamento tra committente e appaltatore o di documentazione comprovante la formazione del personale dell'appaltatore per l'utilizzo dei mezzi necessari allo spostamento dei pezzi da parte degli addetti dell'impresa A.G.;

che vi fosse una grave lacuna di coordinamento tra committente e appaltatore relativamente alla movimentazione e alla successiva messa in sicurezza del pezzo, una volta che questo era stato trasportato e messo a terra a disposizione dell'impresa A. per la sua attività di saldatura. Si trattava, secondo il giudice di primo grado, di un rischio specifico insito nello stabilimento dell'impresa committente che l'imputata aveva omesso di indicare all'appaltatore, nè la committente aveva accertato che i dipendenti dell'appaltatore fossero in possesso della necessaria formazione.

4. V.O.S. ricorre per cassazione censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:

a) vizio di motivazione e violazione degli artt. 192 e 546 c.p.p..

La ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale abbia omesso totalmente di valutare il contributo dei testi della difesa, abbia riportato in modo parziale ed erroneo la testimonianza del teste dell'accusa e non abbia riportato alcune fondamentali affermazioni della parte offesa. Nel ricorso sono riprodotti alcuni passi delle trascrizioni dei verbali di udienza al fine di dimostrare che le testimonianze trascurate avevano introdotto nel giudizio la prova che l'imputata avesse verificato l'idoneità tecnico- professionale dell'impresa A.G. e che la documentazione comprovante l'attività di reciproca informazione tra committente e appaltatore fosse esistente;

b) inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, comma 3: nel ricorso tale motivo non è sviluppato;

c) inosservanza o erronea applicazione dell'art. 521 c.p.p..

La ricorrente sostiene che l'imputazione non prevedeva la contestazione di profili di colpa generica, mentre la responsabilità della ricorrente è stata fondata su un preteso profilo di colpa generica inerente al rischio definito dalla Corte generico e da tutti riconoscibile;

d) vizio di motivazione in relazione al rischio interferenziale. La ricorrente deduce che la Corte ha omesso di prendere in considerazione la censura in ordine al mutamento del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 3, intervenuta successivamente al fatto oggetto d'imputazione, che esclude la responsabilità del committente per i rischi specifici dell'appaltatore. I testi S. e F., si assume, avevano ben precisato i rispettivi ambiti di lavoro delle due aziende, descrivendo le varie e distinte fasi della produzione e le modalità con le quali il pezzo, una volta lasciato dalla Forgeria, veniva tratto nel luogo di attività della A. G. e qui ulteriormente movimentato nella lavorazione.

Lo stesso lavoratore, si deduce, aveva dato atto che l'infortunio si era verificato durante la lavorazione affidata alla ditta A. e con il pezzo movimentato da quest'ultima, mentre nessuna indagine era stata svolta in merito alle disposizioni aziendali dell'impresa committente. Nel ricorso si censura l'affermazione contenuta nella sentenza a proposito del fatto che neppure la difesa avrebbe ipotizzato un'interruzione del nesso causale in correlazione alla condotta negligente del lavoratore, deducendo che la difesa aveva evidenziato che la parte offesa avesse fornito numerose e discordanti versioni dei fatti, nonchè l'attribuzione all'imputata dell'omessa informazione e formazione del personale dell'appaltatore.

5. Con memoria difensiva depositata il 10 febbraio 2015 il difensore di T.R. ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, che sia dichiarato infondato, nonchè la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile.

Diritto

1. Osserva preliminarmente il Collegio che il reato per il quale l'imputata è stata tratta a giudizio è prescritto.

2. Si tratta di fatto commesso in data (OMISSIS). A seguito delle modifiche apportate all'art. 590 c.p., comma 3, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 102, art. 2, la pena per le lesioni personali colpose gravi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro è da tre mesi a un anno di reclusione o da Euro 500,00 ad Euro 2.000,00 di multa. Quanto al tempo necessario a prescrivere, la disciplina attualmente vigente, applicabile in quanto si tratta di fatto commesso successivamente alla data di entrata in vigore della L. 5 dicembre 2005, n. 251, prevede il termine prescrizionale di sei anni, in ogni caso non ulteriormente estensibile oltre un quarto in caso di interruzioni, per complessivi sette anni e sei mesi. Posto che la pronuncia della sentenza di primo grado in data 24/04/2012 ha interrotto il decorso della prescrizione, in base al combinato disposto degli artt. 156, 160 e 161 c.p., come modificati con L. n. 251 del 2005, alla data del 17/01/2014, ossia in data successiva alla pronuncia della sentenza in grado di appello, si è compiuto il termine massimo previsto dalle norme citate.

3. Al riguardo, rilevato che il ricorso non risulta affetto da profili di inammissibilità, occorre sottolineare, in conformità all'insegnamento ripetutamente impartito dalla Corte di Cassazione, come, in presenza di una causa estintiva del reato, il giudice sia legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosi che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione, ossia di percezione ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275). Sul punto, l'orientamento della Corte è univoco.

3.1. Coerente con questa impostazione è la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull'obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all'annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l'estinzione del reato (Sez. 4, n. 14450 del 19/03/2009, Stafissi, Rv. 244001).

3.2. Nei casi in cui sia stata proposta azione civile nel processo penale, tale principio è, tuttavia, applicabile, con riferimento alla responsabilità penale dell'imputato, solo nel giudizio di primo grado, all'esito del quale il giudice non può dichiarare estinto il reato e pronunciarsi sull'azione civile (Sez.4, n. 10471 del 1/10/1993, Conversi, Rv. 195462). Nel giudizio di impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice o dal giudice di appello ed essendo ancora pendente l'azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell'art. 578 c.p.p., è invece tenuto, quando accerti l'estinzione del reato per prescrizione, ad esaminare il fondamento dell'azione civile. In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell'impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni ed al risarcimento pronunziata dal primo giudice o, come nel caso in esame, confermata dal giudice di appello.

4. Con riguardo, in particolare, all'impugnazione proposta anche in relazione alle statuizioni civili, secondo quanto già affermato da questa Sezione (Sez.4, n.10802 del 21/01/2009, Motta, Rv.243976), trova applicazione il principio cosiddetto di immanenza della costituzione di parte civile. In ragione di tale principio, normativamente previsto dall'art. 76 c.p.p., comma 2, secondo il quale "la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, il giudice di legittimità è tenuto a verificare l'esistenza dei presupposti per l'affermazione della responsabilità penale ai soli fini della pronuncia sull'azione civile, allorchè abbia rilevato una causa estintiva del reato. Tale principio comporta, infatti, che la parte civile, una volta costituita, debba ritenersi presente nel processo anche se non compaia, debba essere citata anche nei successivi gradi di giudizio anche se non impugnante e senza che sia necessario per ogni grado di giudizio un nuovo atto di costituzione.

4.1.Corollario di questo principio generale è che l'immanenza viene meno soltanto nel caso di revoca espressa e che i casi di revoca implicita - previsti dall'art. 82 c.p.p., comma 2, nel caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado o di promozione dell'azione davanti al giudice civile - non possono essere estesi al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla norma indicata (Sez. 5, n.39471 del 04/06/2013 , De Iuliis, Rv. 257199;Sez. 6, n.48397 del 11/12/2008,Russo,Rv. 242132;Sez. 4, n.24360 del 28/05/2008, Rago, Rv. 240942; Sez.5, n. 12959 del 8/02/2006, Lio, Rv.234536; Sez.6, n.25723 del 6/05/2003, Manfredi, Rv. 225576; Sez.l, n.9731 del 12/05/1998, Totano, Rv. 211323).

4.2. Esaminando il caso concreto, va rilevato che, dagli atti processuali, risulta che la parte civile ha partecipato sia al giudizio di primo grado che a quello di appello ed ha presentato una articolata memoria difensiva nel presente giudizio. Consegue, alle considerazioni svolte, che, dovendosi ancora ritenere in essere l'azione civile, i motivi d'impugnazione devono essere esaminati sotto tutti i profili e non soltanto ai fini dell'accertamento dell'eventuale esistenza dell'evidenza della prova dell'innocenza.

5. Va premessa l'inammissibilità delle censure prive di sufficiente specificità (si allude al primo ed al secondo motivo di ricorso).

E', peraltro, ripetutamente affermato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione il principio secondo il quale nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non sia tenuto a compiere un'esplicita analisi di tutte le deduzioni delle parti nè a fornire espressa spiegazione in merito al valore probatorio di tutte le emergenze istruttorie, essendo necessario e sufficiente che spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dalle quali si dovranno ritenere implicitamente disattese le opposte deduzioni difensive ancorchè non apertamente confutate. In altre parole, non rappresenta vizio censurabile l'omesso esame critico di ogni questione sottoposta all'attenzione del giudice di merito qualora dal complessivo contesto argomentativo sia desumibile che alcune questioni siano state implicitamente rigettate o ritenute non decisive, essendo a tal fine sufficiente che la pronuncia enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono ritenuti determinanti per la formazione del convincimento del giudice (Sez.2, n.9242 del 8/02/2013, Reggio, Rv.254988; Sez.6, n.49970 del 19/10/2012, Muià, Rv.254107; Sez.4, n.34747 del 17/05/2012, Parisi, Rv.253512; Sez.4, n.45126 del 6/11/2008, Ghisellini, Rv.241907).

5.1. Giova, in merito al primo motivo di ricorso, rimarcare che in entrambe le sentenze di merito sono stati riportati i punti salienti delle testimonianze acquisite, ivi comprese quelle dei testimoni della difesa, e la trascrizione della prova dichiarativa contenuta nel ricorso non evidenzia alcun travisamento delle risultanze istruttorie. In particolare, nella seconda pagina della motivazione della sentenza di primo grado si legge che la teste Sp., in servizio presso la ASL, aveva acquisito la documentazione tanto dall'impresa committente quanto da quella appaltatrice, che le era stato prodotto un verbale di coordinamento lavori del 2000, ritenuto insufficiente ai fini della sicurezza, e un documento del 1997 redatto dall'impresa committente ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, ritenuto non idoneo; anche le dichiarazioni rese dai testimoni della difesa sono state ampiamente riportate ed espressamente esaminate tanto dal Tribunale quanto dalla Corte di Appello, con la precisazione che, nonostante il teste F. avesse dichiarato che vi fosse una prescrizione posta a carico sia dei dipendenti dell'impresa committente sia dei dipendenti della appaltatrice in merito alle operazioni di messa in sicurezza del pezzo da lavorare, non risultava dalla documentazione prodotta alcuna procedura scritta relativa a tale importantissimo aspetto.

5.2. Il secondo motivo di ricorso risulta privo di deduzioni e difetta palesemente di specificità.

6. Deve esaminarsi, quindi, la legittimità della decisione sul punto concernente la posizione di garanzia dell'imputata, perchè, nel caso concreto, assorbente rispetto alla questione della condotta abnorme del lavoratore, peraltro non espressamente dedotta se non in termini che denotano la sovrapposizione del concetto di abnormità della condotta al concetto di inattendibilità della testimonianza del lavoratore.

6.1. La giurisprudenza di legittimità è, infatti, ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l'infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (Sez.4, n. 22044 del 2/05/2012, Goracci, n.m.; Sez.4, n. 16888 del 07/02/2012, Pugliese, Rv. 252373; Sez.4, n.21511 del 15/04/2010, De Vita, n.m.). Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l'area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli (Sez.4, n.4114 del 13/01/2011, n.4114, Galante, n.m.; Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 2479962).

6.2. E' opportuno, qui, richiamare una pronuncia di questa Sezione (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, Rv. 254094) che ha fornito un analitico quadro delle attuali posizioni di garanzia nel sistema della sicurezza del lavoro, sottolineando come le stesse si conformino intorno all'idea centrale di rischio. La vigente tutela penale dell'integrità psicofisica dei lavoratori risente, infatti, della scelta di fondo del legislatore di attribuire rilievo dirimente al concetto di prevenzione dei rischi connessi all'attività lavorativa e di ritenere che la prevenzione si debba basare sulla programmazione del sistema di sicurezza aziendale nonchè su un modello "collaborativo" di gestione del rischio da attività lavorativa. Sono stati, così, delineati i compiti di una serie di soggetti -anche dotati di specifiche professionalità -, nonchè degli stessi lavoratori, funzionali ad individuare ed attuare le misure più adeguate a prevenire i rischi connessi all'esercizio dell'attività d'impresa. Le forme di protezione antinfortunistica, dopo l'entrata in vigore dei decreti d'ispirazione comunitaria, tendono, in altre parole, principalmente a minimizzare i rischi bilanciando gli interessi connessi alla sicurezza del lavoro con quelli che vi possano entrare in potenziale contrasto.

6.3. Ne discende una diversa prospettiva dalla quale il giudice del merito è tenuto ad accertare la sussistenza delle posizioni di garanzia e le, conseguenti, responsabilità penali per omissione di dovute cautele; se il nuovo sistema di sicurezza aziendale si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi, si tratta, in sostanza, di ampliare il campo di osservazione dell'evento infortunistico, ricomprendendo nell'ambito delle omissioni penalmente rilevanti tutti quei comportamenti dai quali sia derivata una carente programmazione dei rischi. E' evidente, da questa diversa prospettiva, il rilievo che assumono, innanzitutto, i compiti non delegabili di predisposizione del documento di valutazione dei rischi e di nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione da parte del datore di lavoro.

6.4. Non dissimile, sebbene di più complessa definizione, è la logica che presiede alla gestione dei rischi in caso di affidamento dei lavori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno dell'azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonchè' nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, gravando sempre sul datore di lavoro, in questo caso anche committente, l'obbligo di predisporre il documento di valutazione dei rischi derivanti dalle possibili interferenze tra le diverse attività che si svolgono, in successione o contestualmente, all'interno di una stessa area e gravando, specularmente, su tutti i datori di lavoro ai quali siano stati appaltati segmenti dell'opera complessa, l'obbligo di collaborare all'attuazione del sistema prevenzionistico globalmente inteso, sia mediante la programmazione della prevenzione concernente i rischi specifici della singola attività, rispetto ai quali la posizione di garanzia permane a carico di ciascun datore di lavoro, sia mediante la cooperazione nella prevenzione dei rischi generici derivanti dall'interferenza tra le diverse attività, rispetto ai quali la posizione di garanzia si estende a tutti i datori di lavoro ai quali siano riferibili le plurime attività coinvolte nel processo causale da cui ha tratto origine l'infortunio (Sez.4, n.5420 del 15/12/2011, Intrevado, n.m.; Sez.4, n.36605 del 5/05/2011, Giordano, n.m.; Sez.4, n.32119 del 25/03/2011, D'Acquisto, n.m.).

6.5. Il giudice del merito è, dunque, in primo luogo tenuto ad individuare l'area di rischio la cui corretta prevenzione avrebbe evitato l'evento, onde successivamente individuare il titolare, o i titolari, della relativa posizione di garanzia.

7. Deve premettersi che, nella verifica della consistenza dei rilievi critici mossi dalla ricorrente, la sentenza della Corte territoriale non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, sviluppandosi entrambe secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, ditalchè - sulla base di un consolidato indirizzo della giurisprudenza della Corte di legittimità - deve ritenersi che la motivazione della prima si saldi con quella della seconda fino a formare un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile (Sez. U, n.6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229; Sez.3, n.44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906).

7.1. Analizzata alla luce dei principi sopra affermati, la sentenza impugnata presenta un impianto motivazionale esente da vizi. Un particolare esame merita la censura svolta a proposito del punto della decisione concernente il rischio, alla cui concretizzazione è stato causalmente collegato l'evento nella ricostruzione della sentenza impugnata, sotto il profilo della affermata genericità del medesimo.

7.2. Dopo aver ripercorso le acquisizioni istruttorie riportate anche nella sentenza di primo grado, la Corte territoriale ha esaminato il contenuto del documento redatto dall'impresa committente ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 ricordando come lo stesso collaboratore in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro della Forgeria s.p.a. avesse specificato che l'operazione di messa in sicurezza del pezzo da lavorare, una volta trasportato, fosse una prescrizione posta a carico sia dei dipendenti della A. G. che degli addetti della F.M.A., ma rimarcando l'assenza di documentazione atta a regolamentare per iscritto la procedura relativa a tale fondamentale aspetto per la sicurezza dei lavoratori.

Sul presupposto argomentativo che la ricostruzione dell'infortunio fornita dalla persona offesa e dai testimoni oculari fosse essenzialmente univoca nel senso che un dipendente della Forgeria avesse portato al lavoratore, dipendente della A.G., un cerchio d'acciaio da lavorare del peso di quattro tonnellate, appoggiandolo in piedi a terra senza bloccarlo alcun modo, la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione che l'imputata fosse responsabile per colpa specifica da omessa informazione sui rischi esistenti nell'ambiente di lavoro, da omessa cooperazione con l'impresa appaltatrice e da omesso coordinamento degli interventi per la protezione e la prevenzione in relazione a un rischio generico di schiacciamento dovuto allo scivolamento o al rotolamento del pezzo non adeguatamente bloccato.

7.3. Nella sentenza impugnata la condotta costitutiva del reato si è, dunque, individuata nella violazione di quelle norme prevenzionistiche funzionali alla neutralizzazione del rischio da interferenza inerente all'ambiente di lavoro del committente. A tale conclusione il giudice di appello è pervenuto spiegando che l'infortunio non potesse ricondursi ad un rischio specifico dell'impresa appaltatrice ma dipendesse dalla mancata organizzazione prevenzionale dei rischi derivanti da interferenze, ossia da "contatti rischiosi tra il personale delle due imprese.

7.4. Se ne deve desumere la corretta sussunzione del fatto nella fattispecie astratta descritta nel capo d'imputazione, non essendo condivisibile l'assunto della ricorrente, che vorrebbe delimitare l'area di rischio rilevante alla lavorazione specifica dell'impresa appaltatrice, focalizzando l'attenzione in via esclusiva sulle operazioni che avrebbe dovuto eseguire il lavoratore infortunato. Le argomentazioni svolte, sul punto, dai giudici di merito risultano rispettose del nuovo sistema prevenzionistico di matrice europea sopra delineato, sia con riferimento alla prospettiva di valutazione anticipata dei rischi, sia con riferimento alle misure di prevenzione, ulteriori rispetto a quelle specifiche di ciascuna lavorazione, da adottare nel caso di svolgimento contemporaneo di più attività.

7.5. Il presupposto dell'obbligo del committente di neutralizzare i rischi interferenziali si rinviene, dall'entrata in vigore del D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, nel D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 3, che è stato modificato ponendo espressamente a carico del datore di lavoro committente l'obbligo di stilare il D.U.V.R.I. (documento unico di valutazione dei rischi da interferenze), con riferimento alle attività che si svolgono all'interno della sua azienda (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 1), indipendentemente dal fatto che vi siano taluni rischi da interferenze che possano riguardare esclusivamente i dipendenti dell'appaltatore ovvero i lavoratori autonomi presenti nell'ambiente di lavoro e non anche i lavoratori dipendenti del committente. Si tratta di una regola evidentemente finalizzata ad individuare con certezza il titolare primario della posizione di garanzia relativa alla valutazione dei rischi da interferenze in colui che ha la posizione di dominio del rischio correlato alla compresenza nella sua unità produttiva di più imprese. Tale obbligo deve intendersi, poi, esclusivamente chiarito con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26, comma 1, successiva all'infortunio in esame, in base al quale si intende per datore di lavoro committente colui che ha la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo.

7.6. Incomprensibile risulta, alla luce delle suesposte considerazioni, la doglianza in base alla quale la responsabilità della ricorrente sarebbe stata fondata su un profilo di colpa generica mai contestato, desunto peraltro dal riferimento nella sentenza alla sussistenza di un rischio generico, in asserita violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza positivizzato nell'art. 521 c.p.p.. Tale assunto, oltre a non trovare riscontro nel capo d'imputazione, in cui risultano contestati anche profili di colpa generica, sovrappone la configurazione dell'elemento soggettivo del reato al rischio che la violazione della regola cautelare dalla quale si desume la colpa specifica tende a prevenire, con manifesta infondatezza delle argomentazioni svolte, sul punto, nel ricorso.

8. Conclusivamente, la sentenza impugnata deve essere annullata ai soli effetti penali per intervenuta prescrizione del reato. Il ricorso va, invece, rigettato agli effetti civili, con condanna della ricorrente al rimborso delle spese processuali, liquidate come in dispositivo, in favore della costituita parte civile.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali per essere il reato estinto per prescrizione.

Rigetta il ricorso ai fini civili e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della parte civile T.R. che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2015