Cassazione Penale, Sez. 4, 25 giugno 2015, n. 27006 - Infortunio mortale di un addetto all'impianto di laminazione di una società siderurgica. Responsabilità di un RSPP


 

Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE Relatore: SERRAO EUGENIA Data Udienza: 09/06/2015


Fatto


1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 11/06/2013, ha riformato limitatamente alla misura della pena, ridotta a mesi quattro di reclusione a seguito di giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante, la pronuncia di condanna emessa il 7/07/2010 dal Tribunale di Brescia, che aveva dichiarato L.L. responsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di S.A., avendo omesso, in qualità di responsabile in materia di sicurezza e prevenzione, di far predisporre idonee misure a tutela dei lavoratori addetti all'impianto di laminazione della F. Siderurgica s.p.a.
2. L'infortunio era stato così ricostruito dai giudici di merito: il ciclo produttivo della laminazione comprendeva tre fasi destinate alla formazione di lingotti d'acciaio, alla trasformazione di essi in verghe e alla fase di raffreddamento, nella quale transitavano per una via a rulli, coperta in un primo tratto e munita solo di ripari verticali nell'ulteriore tratto; il lavoratore, in quest'ultima fase, dopo aver rimosso un incaglio, si era avvicinato alla linea di laminazione per verificarne il funzionamento ed era stato trafitto da una verga di acciaio uscita dal canale di scorrimento, che lo aveva infilzato alla nuca.
3. Il giudice di primo grado aveva ritenuto l'imputato responsabile della mancata predisposizione di misure tecnico-organizzative che evitassero, durante il ciclo produttivo in corso, l'accesso alla linea di laminazione dei lavoratori addetti al controllo. La Corte territoriale, dopo aver sottolineato che la ricostruzione dell'infortunio operata dal primo giudice non fosse contestata, ha condiviso la centralità del profilo di colpa inerente alle misure di protezione finalizzate a salvaguardare l'incolumità del lavoratore che, per qualsivoglia motivo, si fosse avvicinato alla linea di laminazione sporgendosi all'interno di essa. Il giudice di appello ha, in proposito, ritenuto che le misure adottate non fossero idonee a precludere in modo assoluto il transito dei lavoratori nella zona alla quale il lavoratore deceduto aveva avuto accesso, deducendo ciò dal fatto che la totale segregazione di tale zona fosse stata attuata dal datore di lavoro dopo l'infortunio, con l'aggiuntiva misura per cui l'ingresso all'area segregata era stato vincolato da un sistema automatico che consentiva l'accesso soltanto a laminatoio fermo.
4.  L.L. propone ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
a) erronea applicazione degli artt. 43 e 589 cod. pen. e mancanza di motivazione in relazione alla colpa. Secondo il ricorrente, avendo la società datrice di lavoro apportato nell'anno 2004 rilevanti modifiche all'impianto di laminazione, ottemperando alle prescrizioni date dall'Azienda Sanitaria Locale, i dirigenti della società e lo stesso  L.L. avevano la ragionevole convinzione che l'impianto fosse conforme alle esigenze di sicurezza, anche perché stabilimenti con analoga attività produttiva avevano anch'essi l'impianto non completamente segregato; la società aveva dato, già dal mese di luglio 2003, precise e rigorose direttive in base alle quali in caso di incaglio si sarebbe dovuta rispettare una procedura di intervento secondo la quale la rimozione di un incaglio doveva essere effettuata solo dopo che l'impianto di lavorazione fosse stato fermato, e la Corte di Appello aveva tuttavia fondato il giudizio di condotta colposa dell'imputato sul solo fatto che questi non avesse proposto la segregazione totale dell'impianto, mentre avrebbe dovuto accertare quali fossero i sistemi più sicuri suggeriti nelle facoltà universitarie di ingegneria e realizzati nell'industria italiana ed estera di produzione e lavorazione dell'acciaio, potendosi fondare tale giudizio solo sulla non conformità dell'impianto a quelli ritenuti più sicuri secondo la miglior scienza e la migliore tecnica nel periodo precedente il verificarsi dell'infortunio;
b) inosservanza degli artt. 9 d. lgs. 19 settembre 1994, n.626, 40, primo comma, cod. pen., 530, comma 2, cod. proc. pen. ed erronea applicazione dell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen. Il ricorrente deduce che, a norma del d.lgs. n.626/94 in vigore all'epoca dell'infortunio, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione aveva il compito di indicare al datore di lavoro, del quale era un ausiliario, i rischi nell'ambiente di lavoro, le misure per eliminarli e le procedure da adottare per le varie attività aziendali, ma non aveva alcun potere decisionale. Dalla mancanza di poteri decisionali, secondo il ricorrente, derivava la mancanza di una responsabilità di natura penale, non avendo egli alcun potere di decidere la modifica dell'impianto di laminazione. Il giudice di appello, si assume, ha erroneamente invertito l'onere della prova nel processo penale ponendo a carico della difesa dell'imputato l'onere di dimostrare che un'eventuale proposta di modifica dell'impianto con certezza sarebbe stata rifiutata dal datore di lavoro, essendo invece onere dell'accusa dimostrare che una eventuale proposta di modifica dell'impianto sarebbe stata con certezza accolta dal datore di lavoro;
e) inosservanza dell'art. 40, secondo comma, cod. pen.; secondo il ricorrente, anche sotto tale profilo la sentenza sarebbe erronea perché non può configurarsi un obbligo giuridico di impedire l'evento a carico di colui che, per mancanza di poteri decisionali, non abbia il potere di impedirlo;
d) inosservanza dell'art. 62 n.6 cod. pen.; il ricorrente si duole del fatto che la Corte di Appello abbia rigettato la richiesta di riconoscimento della circostanza attenuante speciale di cui all'art. 62 n.6 cod. pen. sul presupposto che il risarcimento del danno fosse avvenuto per opera della compagnia assicuratrice della società datrice di lavoro e non di quella dell'imputato, sebbene il contratto di assicurazione stipulato dalla Feralpi Siderurgica s.p.a. prevedesse che il risarcimento dei danni derivanti da infortuni sul lavoro fosse effettuato sia nell'interesse della società datrice sia nell'interesse di qualunque altra persona che, svolgendo attività presso la Feralpi Siderurgica s.p.a., potesse essere accusata di aver concorso nel determinare l'infortunio sul lavoro.

Diritto


1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre richiamare alcuni principi consolidati, con specifico riferimento al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nella giurisprudenza di legittimità.
2.1. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha, recentemente, ribadito il principio interpretativo secondo il quale il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente all'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261107).
2.2. Si è, poi, affermato che, ancorché non dotato di poteri decisionali, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur in assenza di una previsione normativa di sanzioni penali a suo specifico carico, debba ritenersi responsabile, in concorso con il datore di lavoro od anche a titolo esclusivo, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione (Sez. 4, n. 32195 del 15/07/2010, Scagliarmi, Rv. 248555).
2.3. Più in generale con riguardo all'elemento soggettivo del reato, si è chiarito che il soggetto al quale sono stati affidati i compiti del servizio di prevenzione e protezione, previsti dall'art.9 d.lgs. n.626/1994, può essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare. Ciò sul presupposto che il sistema prevenzionistico voluto dal legislatore affida alla informazione e alla prevenzione, organizzate in un servizio obbligatorio, un fondamentale compito per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. La necessità di competenze specifiche e di requisiti professionali fissata dall'art. 8 bis d. lgs. n.626/94 per i responsabili e gli addetti al servizio in questione è il miglior riscontro della centralità della prevenzione e della informazione nel sistema di tutela della integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori (Sez. 4, n. 16134 del 18/03/2010, Santoro, Rv. 247098). La configurazione della mappa dei rischi come strumento essenziale dell'intero sistema antinfortunistico attribuisce specifico contenuto all'omissione di condotte doverose in relazione alla funzione di responsabile o di addetto al servizio di prevenzione e protezione; tali condotte non possono essere surrogate dai compiti di controllo della sicurezza nei luoghi di lavoro demandati alla pubblica amministrazione ed, anzi, ne integrano le prescrizioni in correlazione alla concreta possibilità per il responsabile del servizio di prevenzione di percepire con maggiore aderenza alle dinamiche di ciascuna azienda le situazioni di rischio peculiari del singolo ciclo lavorativo.
3. Esaminata alla luce di tali principi, la sentenza impugnata resiste alle prime tre censure svolte nel ricorso.
3.1. La Corte di Appello ha, infatti, replicato ad analogo motivo di impugnazione ritenendo che il fatto che la A.S.L., in occasione di precedenti interventi, non avesse imposto le misure antinfortunistiche indicate dopo l'infortunio non escludesse l'elemento soggettivo del reato, sul presupposto che spetti al soggetto onerato autonomamente individuare ed emendare i profili di rischio immanenti al ciclo produttivo. La Corte territoriale ha, in ogni caso, desunto che, nel caso concreto, le circostanze dell'infortunio non potessero ragionevolmente convincere l'imputato dell'idoneità delle misure in atto al momento dell'infortunio: in particolare, ha evidenziato la pericolosità derivante dalla possibilità che il pannello che si apriva per controllare i difetti di lavorazione o per rimuovere i frequenti incagli rimanesse aperto ad impianto funzionante, esponendo a rischio il lavoratore che si fosse sporto per controllarne il funzionamento. Nella sentenza si è anche posto l'accento sulle specifiche competenza e preparazione professionale dell'imputato, nonché sulla sua pregressa intraneità all'organico dirigenziale della società, desumendosene la possibilità per il L.L. di rendersi conto dell'inidoneità delle misure adottate in quanto circoscritte a barriere che non segregavano una zona pericolosa dell'impianto, affidandone lo stesso funzionamento ai lavoratori addetti alla conduzione dell'impianto.
3.2. La Corte di Appello ha, poi, indicato i compiti richiesti dalla legge al responsabile del servizio di prevenzione e protezione ritenendo che, pur in assenza di sanzioni penali specificamente previste dalla legge a suo carico, la sua responsabilità penale derivasse dall'obbligo giuridico di lavorare con il datore di lavoro individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, concorrendo la colpa professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione con quella dell'imprenditore in relazione agli eventi dannosi derivanti da suoi suggerimenti errati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio. Il giudice di appello, ha quindi correttamente affermato che, nel sistema elaborato dal legislatore, si presume che alla segnalazione di una situazione pericolosa da parte del responsabile del servizio di prevenzione segua l'adozione delle misure necessarie per ovviarvi da parte del datore di lavoro.
4. Il quarto motivo di ricorso concerne l'ambito di operatività della circostanza attenuante speciale prevista dall'art.62 n.6 cod. pen. Limitando il tema di analisi all'ipotesi dell'attenuante della riparazione totale del danno, va innanzitutto evidenziata la significativa differenza - quanto all'ambito di applicabilità - tra l'attenuante in argomento e quella prevista dall'art. 62 n. 4 cod. pen. sia perché la prima, a differenza della seconda, non è limitata ai reati con una determinata oggettività giuridica (contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio) o connotati da un particolare elemento soggettivo (motivi di lucro), sia perché il testo normativo non istituisce alcun vincolo di identità nella prima, a differenza di quanto avviene nella seconda (danno cagionato alla persona offesa dal reato), tra persona offesa e danneggiato.
4.1. È rilevante richiamare, ai fini che qui interessano, la pronuncia con cui nel 1983 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Sez. U, n. 145 del 29/10/1983), giudicando in merito all'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. ai reati contro la fede pubblica, aveva affermato come solo l'art. 62 n. 4 , cod. pen., richiamandosi al concetto di patrimonio nella sua duplice funzione di oggetto giuridico della tutela penale e di oggetto del danno risarcibile, avesse riguardo a quei reati dalla lesione del cui oggetto giuridico discende un danno patrimoniale, rendendo doveroso, al fine di verificare l'applicabilità di questa circostanza, effettuare un'indagine circa l'oggettività giuridica dei reati contemplati.
4.2. Diversamente, osservava la Corte, la circostanza di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. attiene non già al patrimonio e all'offesa che può derivare ai reati che ad esso si ricollegano ma, genericamente, al danno che può derivare (indipendentemente dall'offesa al bene giuridico protetto) da qualsiasi reato, sicché questa circostanza è del tutto svincolata dall'oggettività giuridica del reato rispetto al quale se ne prospetta l'applicazione e non implica, perciò, la necessità di alcuna indagine in proposito (cfr., in tal senso, anche Sez. U, n. 46982 del 25/10/2007, Pasquini, Rv.237855 e Sez. 4 n. 291 del 4/2/1981).
4.3. Nel solco di tale indirizzo va collocata la pronuncia delle Sezioni Unite del 1991 (Sez. U, n. 1048 del 6/12/1991, dep. 1992, Scala, Rv.189183) che, ponendo in diretta correlazione l'attenuante in esame con le obbligazioni civili restitutorie e risarcitorie previste dall'art. 185 cod.pen., aveva richiamato la distinzione tra evento del reato e danno, chiarendo che ciò che effettivamente rileva ai fini dell'applicazione dell'attenuante è il danno cagionato dal reato, che nel suo significato più proprio è quello giuridicamente considerabile, cioè quello per cui è data l'azione di risarcimento, e non piuttosto l'evento costitutivo del reato, consistente nella lesione o messa in pericolo di interessi non valutabile economicamente: così escludendo, conseguentemente, l'incompatibilità dell'attenuante in oggetto con i reati cosiddetti piurioffensivi, in ragione del fatto che il requisito dell'integralità non può concernere valori disomogenei ma esclusivamente il danno che, ai sensi dell'art. 185 cod. pen., è suscettibile di essere eliminato nelle forme e con i mezzi previsti dalle leggi civili mediante le restituzioni ed il risarcimento.
4.4. Tale interpretazione risultava, peraltro, coerente con gli stessi Lavori preparatori al codice penale, in cui il legislatore aveva manifestato l'intento di specificare gli elementi delle circostanze comuni per la necessità di non concedere al giudice un potere così ampio da sconfinare nell'arbitrio, da ciò potendosi desumere che l'espressa indicazione di limiti, correlati all'oggettività giuridica del reato, presente nella circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4 cod. pen. dovesse avere per l'interprete significato tanto pregnante quanto l'omessa indicazione di analoghi limiti ai fini dell'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62 n.6 cod. pen.
4.5. Né si poneva in contrasto con la questione, a lungo dibattuta, circa il fondamento normativo dell'attenuante in esame, essendo comunque coerente, il requisito dell'integralità della riparazione del danno, con l'interpretazione giurisprudenziale secondo la quale - nell'ottica del favor reparandi - la scelta del legislatore di attenuare la pena in concreto applicabile sarebbe stata legata all'accertamento di una condotta sintomatica del ravvedimento del reo (Sez. 1, n. 3340 del 13/01/1995, Menolascima, Rv.200578).
4.6. Il percorso giurisprudenziale indicato dalle Sezioni Unite con le decisioni sopra ricordate, confermato da plurime pronunce (Sez. 6, n. 596 del 8/10/1993, dep. 1994, Prini, Rv. 196123; Sez. 4, n. 4872 del 04/02/1991, Perilli, Rv. 187066), ha trovato un importante sviluppo nella pronuncia con cui la Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 138 del 20/04/1998) ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell'art. 62 n.6 cod. pen., prima parte, sollecitando un'interpretazione adeguatrice della norma nel senso che l'attenuante in parola fosse operante anche quando l'intervento risarcitorio, comunque riferibile all'imputato, fosse compiuto prima del giudizio dall'ente assicuratore e ritenendo, in altre parole, possibile una lettura alternativa a quella secondo la quale l'attenuante di cui trattasi avesse natura soggettiva e si dovesse, perciò, risolvere in un comportamento idoneo a denotare la volontà dell'imputato di riparare il danno prodotto con la sua condotta criminosa.
4.7. Conseguentemente, la più recente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 5941 del 22/01/2009, Pagani, Rv.242215), giudicando in merito alla possibilità di comunicare detta circostanza ai concorrenti nel reato, ha avuto modo di specificare - così valorizzando ancora una volta il favor reparandi cui si è innanzi fatto cenno - che, nei reati colposi, il criterio di ragionevolezza impone di rilevare la condotta riparatoria, per una visione socialmente adeguata del fenomeno, anche nell'aver stipulato un'assicurazione o nell'aver rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall'attività pericolosa.
4.8. Sulla base di tali premesse non è, però, consentito che l'imputato si avvalga dell'attenuante in parola qualora non abbia, quanto meno, provveduto in prima persona ed a proprie spese a stipulare il contratto di assicurazione in base al quale il danno sia stato risarcito. La pacifica circostanza per cui il risarcimento del danno è stato effettuato, nel caso in esame, dalla compagnia assicuratrice del datore di lavoro ha, quindi, logicamente condotto il giudice di merito ad escludere che l'assicurazione del relativo rischio fosse correlata ad un esborso riferibile direttamente all'imputato.
5. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; segue, a norma dell'art.616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese  processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 9/06/2015