Cassazione Penale, Sez. 4, 30 giugno 2015, n. 27159 - Caduta attraverso l'apertura del lucernario non protetto. Responsabilità in caso di appalto


 

 

Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE Relatore: IANNELLO EMILIO Data Udienza: 16/04/2015



Fatto


1. Con sentenza del 25/10/2007 il G.u.p. presso il Tribunale di Pinerolo assolveva, per non aver commesso il fatto, C. e B. G., G.G. e G.F.G. dal reato p. e p. dagli artt. 113 e 589, commi primo e secondo, cod. pen. ad essi contestato per avere, nelle qualità appresso descritte, cagionato in cooperazione colposa tra di essi e con F.F., la morte di A.F., avvenuta per traumatismo da precipitazione il 14/6/2004 a seguito di infortunio sul lavoro.
Il sinistro era avvenuto presso il cantiere edile sito in Bricherasio ove era in corso la realizzazione di un capannone ad uso industriale destinato all'ampliamento della segheria della G. C. & C. s.n.c. A tal fine quest'ultima aveva commesso in appalto alla E. S.r.l. la fornitura del capannone, completo di copertura e infissi. La E. S.r.l., a sua volta, aveva affidato in subappalto alla Te. s.n.c. di A. e F.F. la posa in opera della copertura del capannone.


La responsabilità dell'accaduto era, nel capo di imputazione, ascritta ai predetti, per la posizione e i profili di colpa qui di seguito indicati:
- a G.G., quale coordinatore per la sicurezza nella fase di esecuzione dei lavori, per la violazione dell'art. 5, comma 1, lettere a), b), e) ed f) d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, per avere omesso di verificare, con opportuna azione di controllo e coordinamento, l'applicazione concreta durante i lavori di posa indicati, da parte della Te. s.n.c. delle disposizioni del piano di sicurezza e coordinamento e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
- a G. C. e G. B., quali soci amministratori della G. C. & C. s.n.c, committenti dei lavori indicati, e a G.G.F., quale presidente del consiglio di amministrazione della E. S.r.l., società appaltatrice e sub-committente dei lavori di posa in opera della copertura del capannone, per la violazione dell'art. 6, comma 2, d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, con riferimento all'art. 5, comma 1, lettera a) del medesimo testo normativo e, per G.G.F., anche con riferimento agli artt. 21 e 22 della circolare n. 13/1982 del Ministero del lavoro, per avere omesso di verificare l'adempimento degli obblighi previsti dall'art. 5, comma 1, lett. a) d.lgs. cit. e l'applicazione da parte della Te. s.n.c. del paragrafo 5 del piano di sicurezza e coordinamento, avendo il G.G.F. omesso di consegnare alla Te. s.n.c il piano di montaggio e allestimento degli elementi in cemento armato della copertura sopra indicata.
Il G.u.p. dava atto in sentenza che:
- la costruzione del capannone era proceduta a rilento, con lunghe pause tra una fase e l'altra, anche a causa delle condizioni meteorologiche avverse, e ciò aveva provocato un certo nervosismo nei committenti, i quali si erano più volte lamentati sia con la E., sia con le altre ditte operanti in cantiere;
- nei giorni precedenti al sinistro gli operai della Te. avevano posato in opera una parte dei listelli e i committenti avevano chiesto numerose modifiche al metodo di fissaggio degli stessi;
- anche il giorno dell'infortunio C. e B. G. avevano esplicitato le proprie lamentele ad A.F., direttamente impegnato in cantiere insieme con alcuni dipendenti; uno dei committenti era anche salito sul tetto per dargli indicazioni;
- quella mattina i fratelli A.e F.F. e due dipendenti della Te. avevano proceduto alla posa di alcune lastre in lamiera, interrompendo più volte il lavoro a causa della pioggia; tornati in cantiere dopo pranzo i quattro erano risaliti sul tetto per fissare le lastre già posate; mentre F.F. e i due dipendenti stavano avvitando le lastre in lamiera già posate, A.F. si avviava verso un'altra parte del tetto per prendere una lastra in policarbonato; nel far ciò, attraversando uno dei lucernari non protetti, perdeva l'equilibrio e cadeva attraverso l'apertura del lucernario medesimo da un'altezza di circa 9 m dal suolo;
- il cantiere era privo di qualsiasi misura di protezione contro le cadute: non vi erano parapetti in corrispondenza dei lucernari, né reti anticaduta, né funi di trattenuta adeguatamente vincolate, né imbracature o altri sistemi di protezione, sebbene gli stessi fossero previsti nel piano di sicurezza e coordinamento e nel piano operativo di sicurezza predisposto dalla Te.;
- indicazioni specifiche relative ai sistemi di sicurezza da impiegarsi durante la posa della copertura erano anche contenute nel piano di montaggio del prefabbricato; nel contratto di subappalto stipulato tra la E. S.r.l. e la Te. s.n.c. quest'ultima aveva assunto l'obbligo di assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza.
Tutto ciò premesso reputava il primo giudice, anche sulla scorta delle conclusioni dell'inchiesta svolta dall'Asl, che la causa del sinistro mortale andasse individuata esclusivamente nella condotta gravemente negligente dell'infortunato stesso oltre che in quella omissiva del socio F.F.: nella condotta del primo in quanto, operando egli in qualità di contitolare della ditta, con ampia autonomia all'interno del cantiere, avrebbe avuto la possibilità di provvedere alla messa in opera delle necessarie precauzioni contro i rischi di caduta; nella condotta omissiva del secondo perché, quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione della Te., avrebbe dovuto adottare le necessarie cautele contro i rischi medesimi e impedire al socio di lavorare nelle descritte condizioni. L'imprudenza dell'infortunato e le omissioni di F.F. avevano pertanto, secondo il G.u.p., l'effetto di interrompere «l'eventuale nesso causale con le condotte omissive» ascritte agli altri imputati.
Osservava in particolare che, incombendo su F.F. obblighi di messa in sicurezza del cantiere e di sorveglianza sul medesimo, non residuavano profili di altrui responsabilità cui non si sarebbe potuto rimediare se il predetto avesse adempiuto ai propri obblighi.
2. In accoglimento del gravame proposto dalle parti civili la Corte d'appello di Torino, con sentenza del 23/1/2014, in parziale riforma della appellata sentenza dichiarava la responsabilità civile di C. e B. G., G.G. e G.F.G., conseguentemente condannandoli al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separato giudizio.
Rilevava in sintesi, per quel che in questa sede interessa, che i ruoli e gli incarichi ricoperti da tutti gli imputati in relazione ai lavori edili in corso di esecuzione li investivano a vario titolo di obblighi e poteri che, se concretamente assolti, avrebbero potuto impedire l'evento; che non rilevava l'esistenza di altri soggetti parimenti obbligati, per la loro diversa posizione, all'adozione di misure di prevenzione, posto che ciascuno dei titolari di posizioni di garanzia potenzialmente rilevanti è per intero destinatario dell'obbligo di impedire l'evento; che, infine, la condotta della vittima, ancorché imprudente e negligente, non poteva essere ritenuta esorbitante tanto da essere valutata, come erroneamente ritenuto dal primo giudice, interruttiva del nesso causale tra l'evento e le condotte omissive indicate in rubrica.
3. Avverso tale sentenza propongono ricorso tutti i predetti imputati, il G.G. personalmente, gli altri per mezzo dei rispettivi difensori.
3.1. C. e B. G. deducono a fondamento del proprio ricorso violazione di legge e carenza di motivazione, anche in relazione al combinato disposto degli art. 533, comma 1, e 605 cod. proc. pen..
Lamentano l'inosservanza dei più rigorosi oneri motivazionali gravanti sul giudice d'appello in caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, rilevando che il giudizio di condanna risulta formulato sulla base di mere e sommarie valutazioni alternative di elementi in realtà già considerati dal giudice di primo grado insufficienti a pervenire all'affermazione di responsabilità.
Ciò anzitutto in relazione alla configurazione di una posizione di garanzia gravante su di essi ricorrenti in quanto committenti, non essendosi tenuto al riguardo conto che il contratto d'appalto è intercorso tra la società di cui essi sono soci e la E. S.r.l. e non invece direttamente nei confronti della Te. s.n.c, alla quale i lavori di posa in opera delle copertura del capannone erano stati commessi in subappalto dalla E.. Contestano inoltre, al riguardo, il riferimento contenuto nel capo d'imputazione a una asserita ingerenza nell'esecuzione dei lavori in questione tale da comportare l'assunzione, indipendentemente dall'assenza di un legame contrattuale diretto nei confronti della ditta subappaltatrice, di un obbligo di garanzia, rilevando che sul punto non è rinvenibile nella sentenza di condanna una motivazione che dia conto di un'adeguata disamina della questione (peraltro specificamente posta con memoria depositata nel corso del giudizio di appello e allegata in copia al ricorso) e dei motivi che dovrebbero indurre a risolverla in senso sfavorevole ad essi ricorrenti: disamina tanto più necessaria - soggiungono - in considerazione anche della specifica posizione di ciascuno di essi ricorrenti e in particolare delle loro rispettive età, ipotizzandosi al riguardo condotte di ascensione sul tetto del capannone richiedenti non comuni abilità fisiche.
Lamentano che, altresì, sostanzialmente apodittica e comunque inidonea a infirmare la validità dell'opposta valutazione espressa nella sentenza di primo grado, è la negazione da parte della Corte d'appello dell'esclusiva rilevanza causale della condotta imprudente e negligente della stessa vittima, affermata invece dal giudice di primo grado.
3.2. G.G.F. pone a fondamento del proprio ricorso due motivi.
Con il primo deduce inosservanza e/o erronea applicazione dell'art. 576 cod. proc. pen., per avere la Corte d'appello ritenuto ammissibile l'impugnazione proposta dalle parti civili che, anziché investire i capi della sentenza che riguardavano l'azione civile, si concludeva con la irrituale richiesta di riconoscimento della penale responsabilità degli imputati.
Con il secondo deduce vizio di motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità, sia pure agli effetti civili.
Rileva che la Corte d'appello ha completamente omesso di specificare e graduare le singole responsabilità ed i singoli obblighi imputabili a ciascuna delle parti coinvolte nella vicenda regola limitandosi a una valutazione, peraltro essa stessa scarna, della posizione del G.G. e delle omissioni ad esso imputabili, senza invece alcun riferimento specifico agli altri imputati.
Lamenta, inoltre, che immotivatamente la Corte ha ribaltato la valutazione espressa dal primo giudice circa il carattere abnorme della condotta della vittima, considerata dal G.u.p. tale, unitamente alle omissioni ascrivibili al coimputato F.F., da interrompere il nesso causale fra le condotte omissive attribuite agli altri imputati e l'evento.
3.3. Censure in parte sovrapponibili sono poste a fondamento del ricorso proposto da G.G..
In data 14/4/2015 è però pervenuta via fax, nella cancelleria di questa Corte, dichiarazione di rinuncia al ricorso sottoscritta dal predetto personalmente, con firma autenticata, datata 13/4/2015 e depositata in data 14/4/2015 nella cancelleria della terza sezione penale della Corte d'appello di Torino.
4. All'udienza del 16/4/2015 il difensore di C. G. ha depositato certificato di morte del proprio assistito.

Diritto


5. Il ricorso proposto da G.G. va dichiarato inammissibile, per intervenuta rinuncia, ai sensi dell'art. 591 comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in relazione all'art. 589 cod. proc. pen..
Alla declaratoria d'inammissibilità consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in € 300,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità. Lo stesso va altresì condannato, come da dispositivo, alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili per il presente giudizio di cassazione.
6. Dalla certificazione acquista agli atti risulta inoltre che, nelle more del presente giudizio di cassazione, C.G. è deceduto a Pinerolo (TO) il 22/5/2014.
Si impone pertanto la declaratoria di estinzione del reato allo stesso ascritto per morte dell'imputato.
Invero, la morte dell'imputato, intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione, impone l'annullamento senza rinvio della sentenza, per estinzione del reato, con l'enunciazione della relativa causale nel dispositivo, risultando esaurito il rapporto processuale ed essendo preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., tanto più quando non risulti, dal testo del provvedimento impugnato, l'evidenza di alcuna delle situazioni previste da tale ultima disposizione e non emergano elementi che rendano palese l'incapacità di intendere e di volere dell'imputato al momento dei fatti (v. e pluribus Sez. 1, n. 24507 del 09/06/2010, Lombardo, Rv. 247790; Sez. 1, n. 11856 del 06/10/1995, Torri, Rv. 203241).

7. Il ricorso di G.F.G. è infondato.
7.1. L'avere la parte civile appellante chiesto nelle conclusioni, in riforma della sentenza gravata, l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato (e non invece della sola responsabilità civile) non può considerarsi causa di inammissibilità dell'appello.
Ed invero, da un lato, la limitazione dell'impugnazione proposta dalla parte civile contro la sentenza di assoluzione pronunciata nel giudizio «ai soli effetti della responsabilità civile» costituisce effetto direttamente derivante dalla legge (art. 576 cod. proc. pen.), non disponibile da alcuna delle parti; come tale essa non richiede per il suo prodursi l'osservanza di formule sacramentali da parte dell'impugnante e rende irrilevante l'eventuale erronea indicazione, tra le finalità dell'atto dì gravame e nel relativo petitum, anche della emissione di una pronuncia in punto di penale responsabilità, non consentita alla Corte d'appello in mancanza di impugnazione da parte della pubblica accusa.
Dall'altro, in mancanza di diversa univoca indicazione desumibile dall'atto di gravame, non può nemmeno considerarsi quella erronea indicazione quale implicita rinuncia a ottenere una riforma della sentenza assolutoria ai soli effetti civili che interessano la parte, essendo evidente che le contestazioni mosse circa l'astratta configurabilità di una fattispecie di reato restano comunque funzionali anche all'affermazione della responsabilità civile dell'imputato e costituiscono pertanto passaggio logico coerente agli interessi della parte civile, ancorché ovviamente non possano di per sé condurre, ove ritenute fondate, anche a una affermazione di penale responsabilità.
In tal senso - giova rammentare - si sono espresse, risolvendo precedente contrasto sull'argomento, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 6509 del 20/12/2012, dep. 2013, P.C. in proc. Colucci e altri, Rv. 254130, affermando il principio secondo cui l'impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni, è ammissibile anche quando non contenga l'espressa indicazione che l'atto è proposto ai soli effetti civili.
7.2. Nemmeno è ravvisabile il dedotto vizio di motivazione a fondamento dell'affermazione di responsabilità del predetto, agli effetti civili.
La sentenza d'appello, pur nella sua sinteticità, consente di comprendere appieno le circostanze di fatto, pacificamente acquisite al processo, e gli argomenti logico giuridici utilizzati a tal fine.
In particolare dal collegamento tra l'esposizione dei fatti di causa e dei motivi d'appello - dalla quale emergono il ruolo di appaltatore e subcommittente del predetto (nella qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione della E. S.r.l.), oltre che indicazioni rilevanti circa le caratteristiche del subappalto, da eseguire sul cantiere e su elementi strutturali e componenti forniti dallo stesso appaltatore/subcomiittente - e l'affermazione contenuta nella parte motiva circa la fondatezza dell'appello, si desume chiaramente che la responsabilità dell'imputato è affermata proprio in ragione di tale ruolo e delle particolari caratteristiche del subappalto.
Giustificazione in sé pienamente valida e sufficiente, non richiedendo il caso esaminato, né le tematiche dibattute in giudizio, altri specifici oneri motivazionali né sul piano della riconduzione alla fattispecie astratta di reato, né in rapporto alla sentenza assolutoria di primo grado.
7.2.1. Sotto il primo profilo, occorre invero rilevare che, nel descritto contesto, indipendentemente da alcun'altra indagine sulle modalità di esecuzione del subappalto e dall'accertamento di una eventuale ingerenza del subcommittente, è comunque sufficiente a radicare la responsabilità in capo a quest'ultimo il principio, costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, quando il subappalto si realizzi nel cantiere predisposto dall'appaltante e a lui facente capo, tale affidamento parziale dei lavori ad un appaltatore, che si avvale dell'organizzazione già esistente, determina la comune responsabilità di entrambi i soggetti appaltante e appaltatore (v. Sez. 4, n. 32943 del 27/05/2004, Maffia, Rv. 229084; Sez. 4, n. 5977 del 15/12/2005, dep. 2006, Chimenti, Rv. 233245; Sez. 4, n. 27965 del 05/06/2008, Riva, Rv. 240314).
In caso di subappalto di lavori, infatti, ove questi si svolgano nello stesso cantiere predisposto dall'appaltatore (nella specie, come detto si trattava della struttura prefabbricata in cemento armato precompresso del capannone realizzata dalla E. S.r.l. e già posta in opera da altra ditta, la cui copertura era stata affidata in subappalto alla Te. s.n.c.) in esso inserendosi anche l'attività del subappaltatore per l'esecuzione di un'opera parziale e specialistica, e non venendo meno l'ingerenza dell'appaltatore e la diretta riconducibilità (quanto meno) anche a lui dell'organizzazione del comune cantiere, in quanto investito dei poteri direttivi generali inerenti alla propria qualità, sussiste la responsabilità di entrambi tali soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla loro osservanza ed alla dovuta sorveglianza al riguardo. Un'esclusione della responsabilità dell'appaltatore è configurabile solo qualora al subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all'appaltatore, e non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell'appaltatore dall'organizzazione del cantiere.
Nella ricorrenza delle anzidette condizioni - della quale, per le ragioni dette, non è dato dubitare nel caso di specie - trattandosi di norme di diritto pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell'appaltatore, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi ed il subappaltatore.
7.2.2. Sotto il secondo profilo, è sufficiente rilevare che neppure la sentenza assolutoria di primo grado aveva in realtà affrontato l'argomento, avendo questa escluso la responsabilità del G.G.F. non perché avesse ritenuto che la posizione di subcommittente non lo esponesse a responsabilità per gli infortuni subiti dal subappaltatore, ma per il ben diverso motivo della ritenuta efficacia causale esclusiva della condotta negligente del lavoratore.
Su quest'ultimo punto il problema che sul piano della motivazione pone il ribaltamento della decisione di primo grado potrebbe apparire più rilevante.
In effetti anche su tale tema la sentenza d'appello non si diffonde in spiegazioni, limitandosi alla affermazione secondo cui «in detto contesto, la vittima ... ha tenuto una condotta, a sua volta imprudente e negligente, ma che non poteva e non può essere ritenuta esorbitante, tanto da essere valutata ... di per sé interruttiva del nesso causale».
Ma altrettanto, se non più, scarsamente motivata e sostanzialmente apodittica si rivela, a ben vedere, anche l'opposta valutazione del giudice di primo grado.
Non si pone, pertanto, in siffatta ipotesi, un problema di difetto di motivazione, neppure in relazione al criterio di giudizio di cui all'art. 533 comma 1 cod. proc. pen..
È ben vero, infatti, che, secondo costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il giudice di secondo grado che, in difetto di elementi probatori sopravvenuti ovvero non vagliati dal giudice di primo grado, intenda riformarne la sentenza assolutoria pervenendo a una pronuncia di condanna, sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito nel precedente giudizio e in quella sede ritenuto non idoneo per giustificare una pronuncia di colpevolezza, ha l'onere, anche in ossequio alla regola di giudizio dettata dall'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., che consente una valutazione di colpevolezza solo «al di là di ogni ragionevole dubbio», di indicare elementi e argomenti tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze valutative della decisione liberatoria e da rendere quest'ultima non più sostenibile neppure nel senso della persistenza di ragionevoli dubbi sulla colpevolezza. Tale onere però deve ovviamente essere rapportato al contenuto ed allo spessore delle motivazioni della sentenza assolutoria, derivandone che tanto meno esso potrà considerarsi pregnante e per converso tanto più agevole potrà considerarsi agevole il suo assolvimento, quanto più quelle motivazioni si rivelino inconsistenti o palesemente erronee.
In tal senso, dunque, tra le due valutazioni in contrasto merita qui di essere confermata quella che si appalesa più conforme all'indirizzo standard che limita a casi limite (condotta abnorme e imprevedibile del lavoratore) l'efficacia interruttiva del nesso causale.
È noto al riguardo che, secondo costante insegnamento di questa Corte, poiché le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, il comportamento anomalo del lavoratore può acquisire valore di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento, tanto da escludere la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, solo quando esso sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante e imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore. Tale risultato, invece, non è collegabile al comportamento, ancorché avventato, disattento, imprudente, negligente del lavoratore, posto in essere nel contesto dell'attività lavorativa svolta, non essendo esso, in tal caso, eccezionale ed imprevedibile (v. ex multis Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, Millo, Rv. 250710; Sez. 4, n. 15009 del 17/02/2009, Liberali, Rv. 243208; Sez. 4, n. 25532 del 23/05/2007, Montanino, Rv. 236991; Sez. 4, n. 25502 del 19/04/2007, Scanu, Rv. 237007; Sez. 4, n. 47146 del 29/09/2005, Riccio, Rv. 233186).
Tanto premesso, del tutto plausibile è l'accertamento che hanno compiuto i giudici di secondo grado circa la non abnormità del comportamento del F.F., in quanto le modalità esecutive del lavoro adottate nel tragico occorso, seppure imprudenti e pericolose, rientrano nel novero delle violazioni comportamentali che i lavoratori perpetrano quando ritengono di aver acquisito piena competenza e abilità nelle mansioni da svolgere, tanto da consentire, a loro giudizio, l'adozione di tecniche e procedure operative inosservanti delle misure di sicurezza. In quanto tali sono ben prevedibili e devono essere neutralizzate attraverso gli opportuni accorgimenti.


8. Merita invece accoglimento il ricorso proposto da B. G., nei sensi e per le ragioni di seguito esposte.
L'omissione causalmente efficiente ascritta al predetto viene, come detto, in sentenza ricondotta alla sua qualità di committente dell'opera e agli obblighi che a tale posizione vengono correlati dalla normativa antinfortunistica.
Al riguardo, giova brevemente rammentare che con il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494, di attuazione della direttiva 92/57/CEE concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili la figura del committente trova esplicito riconoscimento e definizione («il soggetto per conto del quale l'intera opera viene realizzata»: art. 2, comma 1, lett. b) e ne vengono esplicitati gli obblighi (art. 3).
L'individuazione di tale peculiare figura di garante nasce dall'esigenza, sottesa alla complessiva configurazione del sistema di protezione in materia di sicurezza sul lavoro, di dar rilievo nel particolare contesto dell'attività cantieristica di cui qui si tratta, oltre che alla figura del datore di lavoro, anche a quella del committente, che è il soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta, finanzia l'opera.
Proprio per tal motivo la legge gli attribuisce alcuni obblighi sia nella fase progettuale che in quella esecutiva, destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli di altre figure di garanti legali.
In particolare, l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 494 del 1996 - norma di chiusura la cui violazione è in particolare nella specie contestata all'imputato - costituisce chiaramente il committente quale garante dell'effettività dell'opera di coordinamento posta in capo ai coordinatori per la progettazione e per la esecuzione.
In forza di tale norma, la nomina di un coordinatore per l'esecuzione dei lavori non può esonerare da responsabilità il committente (o il responsabile dei lavori), né per ciò che riguarda la redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi cui si è già fatto cenno, né - quel che maggiormente qui interessa - per ciò che attiene alla vigilanza sul coordinatore in ordine allo svolgimento dell'attività di coordinamento e controllo circa l'osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento.
È pertanto indubbio che il dovere di sicurezza è riferibile, oltre che al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche), anche al committente, con conseguente possibilità, in caso di infortunio, di intrecci di responsabilità, coinvolgenti anche il committente medesimo.
E, pero, altrettanto certo che tale principio non può essere applicato automaticamente, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori alla stessa stregua di quello richiesto al datore di lavoro. In questa prospettiva, per fondare la responsabilità del committente, non si può prescindere da un attento esame della situazione fattuale, al fine di verificare quale sia stata, in concreto, l'effettiva incidenza della condotta del committente nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori. A tal fine, vanno considerati: la specificità dei lavori da eseguire (diverso, in particolare, è il caso in cui il committente dia in appalto lavori relativi ad un complesso aziendale di cui sia titolare, da quello dei lavori di ristrutturazione edilizia di un proprio immobile o da quello ancora di realizzazione di un capannone industriale, come nel caso in esame); i criteri seguiti dal committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera (quale soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa); l'ingerenza del committente stesso nell'esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto o del contratto di prestazione d'opera; l'eventuale percepibilità, infine, agevole ed immediata da parte del committente, di eventuali situazioni di pericolo (v. in tal senso, Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Marangio, Rv. 252672; Sez. 4, n. 15081 del 08/04/2010, Cusmano, non mass, sul punto).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata rivela gravi carenze su circostanze fattuali rilevanti ai fini della individuazione di profili di colpa nella condotta dei committenti, in relazione ai principi di diritto appena ricordati.
Ed invero, nulla anzitutto è stato detto in ordine all'ingerenza dei committenti nell'esecuzione dei lavori da parte della impresa subappaltatrice, ingerenza bensì affermata nella sentenza di primo grado (che aveva poi assolto i predetti per altro motivo, di cui sopra s'è detto) ma specificamente contestata in grado d'appello dagli imputati con memoria difensiva che la Corte territoriale ha omesso di prendere in considerazione e che invece aveva l'obbligo di esaminare.
È noto infatti che, tra le implicazioni dell'effetto pienamente devolutivo dell'appello del Pubblico Ministero contro la sentenza assolutoria emessa dal giudice del dibattimento, vi è anche quello per cui l'imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze difensive che concernono la ricostruzione probatoria del fatto e la sussistenza delle condizioni che configurano gli estremi del reato, in riferimento alle quali il giudice dell'appello non può sottrarsi all'onere di esprimere le sue determinazioni (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231675).
Rimane altresì in ombra, nella motivazione della sentenza impugnata, l'altro profilo potenzialmente idoneo a radicare, anche da solo, in capo all'imputato, la responsabilità per il tragico evento nei sensi e per le ragioni predette, vale a dire quello della immediata e agevole percepibilità da parte del committente della situazione di pericolo.
La sussistenza di tale presupposto è espressamente contestata dal ricorrente, in ragione del rilievo della particolare collocazione della situazione di rischio rivelatasi fatale in un punto del fabbricato (il tetto del costruendo capannone) di non agevole accesso.
Sul punto nella sentenza di primo grado è per vero leggibile l'affermazione testuale: «il G. è anche salito sul tetto per dare indicazioni all'infortunato».
Tale rilievo (che peraltro non specifica di quale dei due G. si trattasse) non viene però ripreso dal giudice d'appello a giustificazione dell'affermazione di responsabilità, né tanto meno viene sviluppato, come sarebbe stato necessario, nel senso di argomentarne l'eventuale convincimento (invero non espresso in sentenza) di una piena consapevolezza o, comunque, della agevole percepibilità da parte dell'odierno imputato della situazione di pericolo.
9. Per le considerazioni che precedono deve pertanto pronunciarsi il rigetto del ricorso proposto da G.G.F., con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali, e l'annullamento della sentenza, nei confronti di G. B., con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello, al quale va rimesso anche il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.
G.G.F. va altresì condannato, in solido con G.G., alla rifusione in favore della parte civile B.M., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà sui figli minori F.M. e F.Ma., delle spese sostenute per il presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata nei confronti di G. B. con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello, cui rimette anche il regolamento delle spese.
Annulla senza rinvio la sentenza medesima nei confronti di G. C. per essere il reato estinto per morte del reo.
Dichiara inammissibile il ricorso di G.G. e rigetta il ricorso proposto da G.G.F.; condanna entrambi al pagamento delle spese processuali ed il G.G. al pagamento della somma di € 300,00 in favore della Cassa delle ammende.
Condanna inoltre G.G. e G.G.F. , in solido, alla rifusione in favore della parte civile B.M., in proprio e nella qualità di genitore esercente la potestà sui figli minori F.M. e F.Ma., delle spese sostenute per il presente giudizio, liquidate in complessivi € 2.500,00 oltre accessori come per legge.
Così deciso il 16/4/2015