Categoria: Giurisprudenza sul d.lgs.n. 231/2001
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Cassazione Penale, Sez. 7, 10 luglio 2015, n. 29333 -  Omicidio colposo commesso con violazione di norme antinfortunistiche e responsabilità della società ex d.lgs. n. 231/01


 

Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: DELL'UTRI MARCO Data Udienza: 29/04/2015

 

Fatto


1. La società I.costruzioni s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Brescia in data 27/3/2014 con la quale, in applicazione della congiunta richiesta del pubblico ministero e della società ricorrente, è stata applicata a quest'ultima la sanzione di giustizia (ex artt. 10-12 d.lgs. n. 231/01) in relazione al reato di omicidio colposo commesso, in violazione delle norme sulla tutela della sicurezza sul lavoro, da P.G. (amministratore unico e legale rappresentante della I.costruzioni s.r.l.) in B., in data anteriore e prossima al 18/4/2011.
Con l'impugnazione proposta, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, avendo il tribunale di Brescia confermato la responsabilità della stessa in assenza dei necessari presupposti di legge.

Diritto


2. Il ricorso è inammissibile.
Osserva il collegio come, in conformità al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa corte formatosi in relazione all'applicazione di sanzioni penali ex art. 444 c.p.p., anche con riguardo all'applicazione di sanzioni su richiesta a carico degli enti (ai sensi del d.lgs. n. 231/2001), nella motivazione della sentenza, ai fini dell'attestazione della responsabilità dell'ente per il reato allo stesso contestato, il richiamo all'art. 129 c.p.p. è sufficiente a far ritenere che il giudice, a fronte della congiunta richiesta avanzata dalle parti in ordine l'applicazione della sanzione concordata, abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al riguardo (cfr., al riguardo, Cass., n. 6455/2011, Rv 252085).
Infatti, l'obbligo della motivazione, imposto al giudice dall'art. 111 Cost. e dall'art. 125, comma terzo, c.p.p. per tutte le sentenze (operante anche rispetto a quelle di applicazione della sanzione su richiesta delle parti), non può non essere conformato alla particolare natura giuridica della sentenza di patteggiamento, rispetto alla quale, pur non potendo ridursi il compito del giudice a una funzione di semplice presa d'atto del patto concluso tra le parti, lo sviluppo delle linee argomentative della decisione è necessariamente correlato all'esistenza dell'atto negoziale con cui l'ente imputato dispensa l'accusa dall'onere di provare i fatti dedotti nell'imputazione.
Ne consegue che il giudizio negativo circa la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all'art. 129 c.p.p. dev'essere accompagnato da una specifica motivazione soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non punibilità, dovendo, invece, ritenersi sufficiente, in caso contrario, una motivazione consistente nell'enunciazione - anche implicita - che è stata compiuta la verifica richiesta dalle leggi e che non ricorrono le condizioni per la pronuncia di proscioglimento a norma del citato art. 129 c.p.p. (cfr. Cass., Sez. 1, n. 752/1999, Rv. 212742; Cass. Sez. 1, n. 4721/2000, Rv. 216789; Cass., Sez. 1, n. 6711/2000, Rv. 218050).
Tali argomentazioni consentono di ritenere manifestamente infondate l'odierna impugnazione della società ricorrente, avendo il giudice del merito espressamente attestato la non ricorrenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., emergendo, dall'esame degli atti del procedimento, il ricorso di gravi elementi di responsabilità della società ricorrente ai fini dell'applicazione della sanzione concordata dalle parti.
3. Alla dichiarazione d'inammissibilità del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.


la Corte Suprema di Cassazione, dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29/4/2015.