Tribunale di Mondovì, Sez. Pen., udienza 24 aprile 2001, n. 257 - Colpa esclusiva del lavoratore


 

 

TRIBUNALE PI MONDOVI’
DISPOSITIVO DI SENTENZA
E CONTESTUALE MOTIVAZIONE
(artt. 544 e segg, 549 c.p.p.)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Giudice di Mondovì Dr. Mauro ANETRINI alla pubblica udienza del 24
aprile 2001 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la
seguente
SENTENZA


nei confronti di:
1. F.P., nato il *** a Livorno, ivi residente Via *** in qualità di direttore dello Stabilimento Gruppo L. s.p.a., dom. Brindisi c/o Gruppo L. spa Zona Punto Franco
LIBERO PRESENTE
2. G.G., nato il *** a Mottola, residente a Mondovì Via ***
LIBERO PRESENTE
3. G.F., nata *** a Torino, residente a PinoTorinese Via ***
LIBERA PRESENTE
4. R.A., nato *** a Bagnasco, residente a Garessio Via ***
LIBERO PRESENTE
5. F.V., nato *** a Tripoli (Libia), residente in Diano d’Alba ***
LIBERO PRESENTE

IMPUTATI
del reato di cui all'art. 110, 590 commi 2 e 3 c.p. per avere, in concorso tra di loro, per colpa, nelle circostanze di seguito descritte, il F. quale direttore dello stabilimento e legale rappresentante, il G. quale capo unità produttive e responsabile di reparto, il F.V. quale dirigente responsabile del servizio prevenzione e protezione, la G.F. quale capo reparto, il R. quale assistente e capo turno, cagionato al lavoratore R.G. lesioni personali dalle quali derivava al medesimo malattia giudicata guaribile in un termine superiore a giorni quaranta (rottura del femore sinistro e del calcagno). Nella specie, il 21. 11.97 alle ore 01.00 il R. dipendente della ditta Gruppo L. spa in qualità di operaio addetto alla produzione, mentre si trovava nel reparto Building 7 dello stabilimento della ditta sito in Garessio, con il compito di ripristinare una tubazione intasata da prodotto cristallizzato fra le centrifughe CF149 e CF150 ed i reattori R254 e R301, posizionata sopra una tettoia di ondulato, operando a circa 3.50 metri di altezza con l'ausilio di una scala castellata posizionata contro la parete, per la parziale fuoriuscita di prodotto dalla tubazione che aveva intriso e reso scivolosa la tettoia nell’indietreggiare di alcuni passi sulla tettoia appoggiava il piede su un tratto scivoloso perdendo l'equilibrio e cadendo dall'altezza di metri 3,5.
Colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e nell’inosservanza dell’art. 2087 c.c. e delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui ai capi successivi segnatamente; per aver consentito e comunque non adottato misure e/o usato attrezzature e/o disposto opere provvisionali tali da consentire l’effettuazione dei lavori di sicurezza; con riferimento al rischio specifico di caduta dall'alto di non aver previsto e disposto l'uso di apposito e idoneo cestello di lavoro autosollevante per lavori saltuari in sopraelevazione, ovvero in carenza di mezzi idonei per l'accesso in sicurezza in zona elevata non aver fornito e comunque preteso l’utilizzo di apposita imbracatura di trattenuta vincolata con fune opportunamente assicurata per l'effettuazione ai riparazioni in sicurezza.

Del reato di cui agli arti. 110 c.p. 4 lett. C), 375 co. 1, 376 e 386 DPR 547/55 e 35 D.Lgs 626/94 per avere nelle circostanze di tempo e di luogo e nelle rispettive qualità indicate al capo che precede, in concorso fra di loro, consentito e comunque non adottato misure e/o usato attrezzature e/o disposto opere provvisionali tali da consentire l'effettuazione dei lavori in sicurezza; con riferimento al rischio specifico di caduta dall'alto di non aver previsto e disposto l'uso di apposito e idoneo cestello di lavoro autosollevante per lavori saltuari in sopraelevazione, ovvero in carenza di mezzi idonei per l'accesso in sicurezza in zona elevata non aver fornito e comunque preteso l’utilizzo di apposita imbracatura di trattenuta vincolata con fune opportunamente assicurata per l’effettuazione di riparazioni in sicurezza.
In Garessio il 21/11/97.

Con l'intervento del P.M. M.llo Cappellino Carlo Sez. P.G. CC sede con delega n. 45 del 29 marzo 2001
e del difensore di fiducia Avv. F. D. del Foro di Cuneo
* **
Le parti hanno concluso quanto segue:
Il P.M. chiede l’assoluzione di tutti gli imputati.
La difesa chiede l’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto non sussiste.

Diritto


Quello che il capo di imputazione descrive come un - ordinario - caso di lesioni colpose per violazione delle norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, si è tradotto, nella vicenda processuale che ne è scaturita, in un dibattimento in cui i profili di maggiore rilievo sono diventati aspetti apparentemente avulsi dall’ambito di applicazione delle norme penali di cui si assumeva, in ipotesi, la violazione.
Il fatto, nella sua struttura, è semplice: il 21 novembre 1997, G.R., dipendente del Gruppo L., interveniva per ripristinare una tubazione intasata da prodotto cristallizzato – sono parole del decreto di citazione - tra le centrifughe CF 149 e CF 150 ed i reattori R 254 e R301, operando ad un’altezza di circa 3,50 metri dal suolo. Nell’occasione, a causa della scivolosità della tettoia, appoggiava il piede su un tratto scivoloso, perdeva l’equilibrio e precipitava a terra, riportando fratture al femore sinistro ed al calcagno.
L'addebito agli odierni imputati, formulato a titolo di colpa, consisteva nella violazione di alcune norme del D.P.R. 547/55: in particolare, per avere consentito l’effettuazione di quella operazione e, comunque, per non avere predisposto adeguate misure tali da scongiurare il verificarsi dell’incidente occorso al lavoratore.
Questo, dunque, il tema del processo.
Alla prima udienza, in sede di richiesta delle prove, gli imputati - tutti, a vario titolo, investiti di ruolo dirigenziale all’interno dello stabilimento della L. - opponevano alla tesi dell'accusa una circostanza di fatto destinata a condizionare - oggi possiamo dire: a risolvere - l’intero procedimento: la società aveva ottenuto la certificazione UNI EN ISO 14001, a comprova della correttezza delle procedure produttive e dell’alto livello di sicurezza raggiunto nei processi lavorativi.
Ovvia conseguenza di questa contestazione dell’addebito era il conferimento di un incarico peritale volto alla verifica della esistenza non soltanto del rispetto della legge, ma anche della compatibilità tra i precetti normativi, penalmente sanzionati, ed i presupposti per la concessione della certificazione di qualità.
A margine di questo, naturalmente, proseguiva l’indagine dibattimentale - fondata sugli usuali criteri di acquisizione e controllo della prova - finalizzata alla corretta ricostruzione del fatto, attraverso l'escussione della persona offesa e degli altri testi ammessi in lista.
All’esito, acquisita la perizia e valutate le altre prove, possono svolgersi alcune considerazioni. Certamente il fatto di cui si discute è stato, nel vero senso della parola, una tragica fatalità scaturita da una iniziativa improvvida del lavoratore, il quale, contravvenendo - per sua stessa ammissione, alle prescrizioni impartitegli e trascurando gli insegnamenti ricevuti in occasione dei vari briefings di sicurezza di cui è prova in atti, ha fatto affidamento sui propri trascorsi di manutentore e ritenuto di non seguire - questo è il punto - le procedure previste dall’azienda.
Ma quelle procedure - si noti - sono proprio le procedure in base alle quali la impresa aveva ottenuto la certificazione, cioè a dire rappresentano la descrizione delle operazioni che devono essere compiute per ottenere un ciclo produttivo adeguato e soddisfacente.
Il vero quesito - stabilito che l’azienda ebbe ad informare i dipendenti dei rischi connessi all’attività e predispose adeguate misure di riduzione (parlare di completa eliminazione è pura fantasia) il cui rispetto, nel caso in esame, avrebbe sicuramente evitato il verificarsi del sinistro - è, dunque, un altro: e, cioè, se il rispetto delle procedure di certificazione, nel caso di specie, garantiva il rispetto delle norme penalmente sanzionate. Va, comunque, tenuto conto del fatto che il lavoratore, riscontrata la avaria dei sistemi di produzione, avrebbe dovuto innescare una serie di operazioni che lo avrebbero del tutto estromesso dal pericolo di infortunio: il lavoratore sapeva quali erano le sue mansioni e quali, invece, quelle del manutentore; il lavoratore sapeva che non doveva assumere iniziative non previste.
La giurisprudenza di legittimità - che qui si condivide, ma che non potrà non tenere conto della nuove realtà all’interno delle aziende -, ha più volte ribadito che la misura di sicurezza deve essere come si dice con locuzione icastica, ma emblematica - “a prova di cretino”: anche uno sprovveduto, in sostanza, deve essere protetto.
Questo è, senza dubbio, vero. Nondimeno, non si può dimenticare che il fondamento della colpa sta nella esigibilità della condotta e nella prevenibilità dell'evento: il responsabile della sicurezza deve cioè fare tutto quanto è possibile per attuare misure di sicurezza adeguate in vista della prevenzione degli incidenti, con copertura anche delle evenienze impreviste. Certo, non si può pretendere (né la legge impone) che l'adozione delle misure preventive abbracci anche l’imprevedibile, per il solo fatto che ciò che non è prevedibile non è prevenibile.
Naturalmente, anche questo va detto, nessuno può rifugiarsi in un concetto di prevedibilità o prevenibilità adattato ad usum delphini, dilatato a dismisura e a discapito del lavoratore. Il limite giuridico, che poi è quello che qui rileva, sta in una valutazione concreta del rischio in relazione alla concreta attività svolta. D’altra parte, nessuno esige che un archivista indossi lo stesso casco protettivo che, invece, è indispensabile a chi operi in un cantiere edile.
Ma, se cosi stanno le cose, non si può non riconoscere che la previsione di procedure produttive in occasione della richiesta di certificazione è un primo significativo passo verso il conseguimento di una quota di sicurezza adeguata. E’, in altri termini, condizione necessaria, anche se non sufficiente, a dimostrare che qualche cosa si è fatto e che il corretto procedimento produttivo non può non passare attraverso adeguate misure di sicurezza che ne garantiscano un efficace e proficuo svolgimento.
La certificazione ottenuta dalla L. aveva e ha risvolti di contenuto essenzialmente economico: essa tuttavia, è stata la base per la verifica dell’imputazione nel processo.
Si è detto, poco sopra, che la certificazione è una condizione necessaria ma che potrebbe rivelarsi non sufficiente: non si può, in altri termini escludere che un'impresa certificata non sia in regola con le norme in materia di sicurezza. Ma, a ben vedere, se cosi fosse, la certificazione sarebbe stata concessa sulla scorta di valutazioni errate, perché avrebbe avallato un processo produttivo rischioso per gli addetti e, dunque, contrario ai precetti di legge.
Ne scaturisce una seconda, significativa, conclusione, concretatasi in questo processo nel conferimento di incarico peritale in ordine alla correttezza della certificazione accordata: le norme debbono essere lette in modo sistematico e non come se rappresentassero tante isole divise dal mare della indifferenza. Non è ammissibile, in sostanza, che l’interprete non tenga conto di tutto l’impianto normativo che l’imprenditore deve rispettare nello svolgimento dell’attività. E’ vero che, ad oggi, la certificazione di qualità persegue scopi che non intersecano la strada della sicurezza; altrettanto vero, però, è che non c’è qualità vera in assenza di sicurezza.
Se, dunque, la domanda posta dal capo di imputazione verteva sul rispetto delle norme in tema di sicurezza sul lavoro, la risposta è stata fornita dalla perizia in atti: gli imputati, tutti e ciascuno nel suo ruolo hanno fatto ciò che la legge imponeva loro di fare e forse più ancora: hanno predisposto misure adeguate; hanno tenuto corsi informativi; hanno redatto voluminose schede che descrivono i cicli di produzione e le mansioni dei dipendenti; hanno previsto che cosa deve essere fatto e da chi in caso di avaria; hanno ripartito i ruoli. La certificazione ottenuta ed i documenti prodotti e/o acquisiti dal perito hanno dimostrato una sola cosa: di più non si poteva fare.
Di più, dunque, non era corretto esigere.
Gli imputati, dunque, debbono essere assolti, quanto al capo A, per non avere commesso il fatto e, quanto al resto, perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.


Visto l’art. 530 c.p.p.

ASSOLVE
tutti gli imputati dai reati loro ascritti per non aver commesso il fatto quanto al capo A) e perché il fatto non sussiste quanto agli altri addebiti
Sentenza entro 90 giorni.