Corte di Assise d'Appello di Milano, Sez. 2, 16 febbraio 2013, n. 81 - Manodopera clandestina e omissione di richiesta di aiuto per un lavoratore indiano colto da malore e poi deceduto: dolo eventuale


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
in nome del Popolo Italiano
LA CORTE DI ASSISE D'APPELLO DI MILANO
SEZIONE SECONDA

Composta dai Signori:
l - Dott.ssa Anna CONFORTI Presidente
2- Dott. Fabio TUCCI Consigliere
3 - Sig. Eugenio CARLINI Giudice Pop.
4- Sig. Ennio ROTA Giudice Pop.
5 - Sig. Renza LURAGHI Giudice Pop.
6- Sig. Luca BALLARINI Giudice Pop.
7- Sig. Giuseppe BESTIANI Giudice Pop.
8 - Sig. Roberta Bruna RUSSO Giudice Pop.
ha pronunciato la seguente
sentenza


nella causa penale
contro
l) C.M., nato a Viadana 1'11.2.1962; residente in Viadana fraz. Salina, Via Bordenotte n. 3;
LIBERO-PRESENTE
2) A.C., nata a Viadana ill4.7.1964; res. in Viadana fraz. Salina, Via Bordenotte n. 3;
LIBERA-PRESENTE

APPELLANTI
il Proc. della Repubblica di Mantova, nonché gli imputati a mezzo dei loro difensori avverso la sentenza del GIP del Tribunale di Mantova del 22.12.2008.

Gli imputati erano stati rinviati a giudizio per i seguenti reati:
ENTRAMBI
a) del reato p. e p. dagli artt. 110, 575, 576 comma l n. l in relazione all'art.61 n.2 c.p. perché in concorso tra loro- il C.M. nella propria qualità di datore di lavoro del cittadino indiano V.K., come legale rappresentante della impresa individuale omonima e soggetto preposto per legge alla cura della salute dei lavoratori suoi sottoposti (ai sensi degli artt. 15,18,28,31,36 e 37 45 D. L.vo 81/08 ed in particolare in qualità di soggetto tenuto a prendere i provvedimenti necessari in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza), la A.C. quale partecipe della attività di impresa e concorrente materiale - per sottrarsi alle responsabilità derivanti dall'impiego di manodopera clandestina nella attività di raccolta di ortaggi e frutta nella azienda agricola dagli stessi condotta e così assicurarsi l'impunità del relativo reato (art. 22 co. 12 D. L.vo 286/1998), essendosi verificato- intorno alle ore 17,30' circa - un malore del lavoratore clandestino V.K., sin dalle prime ore dell'alba intento ad effettuare la raccolta di zucche, meloni ed angurie nella azienda agricola sita in Salina via Bordenotte, nel corso di una giornata caratterizzata da "forte disagio" per l 'altissimo tasso di umidità nell'aria e per le temperature particolarmente elevate, abbandonavano il predetto omettendo di richiedere l'immediato intervento di personale sanitario, trasportandolo anzi all'esterno della azienda e lasciandolo sotto la calura estiva in un campo ai margini della pubblica via, e così ne cagionavano il decesso (evento di cui avevano con le condotte descritte e concordate consapevolmente accettato il rischio).
La morte avveniva infatti - poco dopo il sopraggiungere, conseguentemente tardivo, dei primi mezzi di cura e di soccorso - oltre due ore dopo la manifestazione del malore.
Località Salina di Viadana 27.6.2008

IL M.C., INOLTRE,

b) del reato p. e p. dagli artt. 81 e 629 c.p. perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, impiegando all'interno della propria azienda agricola denominata C.M. manodopera irregolare costituita da cittadini extracomunitari alcuni dei quali anche clandestini in t.n. e comunque privi di autorizzazione al lavoro e pagati "in nero", tra i quali V.K., Omissis oltre ad altri non identificati, costringendo i predetti ad orari massacranti e comunque incompatibili con la tutela della salute umana attesa anche la attività prestata e le condizioni di lavoro, costringendoli a rinunziare alla fruizione del riposo settimanale e costringendoli infine a lavorare per lui fino al termine della stagione di raccolta dei meloni con la minaccia di non pagare loro la retribuzione pattuita (peraltro largamente inferiore al costo di mercato) per le giornate di lavoro già prestate, omettendo di corrispondere alcunché agli stessi sino alla fine del periodo di raccolta e comunque sino alla commercializzazione del prodotto prevista per il successivo mese di settembre, si procurava un ingiusto profitto patrimoniale consistito nella fruizione di una attività lavorativa non tempestivamente e nei termini dovuti retribuita, con pari corrispondente danno per i lavoratori sfruttati.
Località Salina di Viadana dal febbraio al luglio 2008

c) del reato p. e p. dall'art.22 co.l2 D.L.vo 286/1998 perché, nella sua qualità di datore di lavoro descritta sub a, impiegava all'interno della omonima azienda agricola lavoratori stranieri privi del prescritto permesso di soggiorno ed in particolare: Omissis.
Località Salina di Viadana fino al luglio 2008.

Il GIP del Tribunale di Mantova con sentenza del 22.12.2008 così decideva:

visti gli artt. 442, 533 e 535 c.p.p.;
dichiara
C.M. colpevole del reato di cui agli artt. 61, n. 2, e 591, comma 3° ultima parte, C.P., così modificato il capo a) della rubrica, del reato di cui all'art. 610 C.P. in danno di Omissis commesso nel luglio 2008, così modificato il capo b) della rubrica, e del reato ascrittogli al capo c) della rubrica e, applicata la diminuente per il rito, lo condanna alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione per il reato di cui al capo a) della rubrica, così come modificato, alla pena di anni due di reclusione per il reato di cui al capo b) della rubrica, così come modificato, e alla pena di anni uno di reclusione e € 13.333,33 di multa per il reato di cui al capo c) della rubrica, e così complessivamente alla pena di anni otto mesi quattro di reclusione e € 13.333,33 di multa.
Condanna
C.M. al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere. Visti gli artt. 29 e 32 C.P.,
dichiara
C.M. interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, durante la pena, in stato di interdizione legale.
Visti gli artt. 538, 539, 540 e 541 c.p.p.,
Condanna
C.M. al risarcimento dei danni verso la parte civile V.K.B., da liquidarsi in separato giudizio, concedendo una provvisionale, immediatamente esecutiva, di € 15.000,00 da imputarsi alla liquidazione definitiva.
Condanna
C.M. a rimborsare le spese di costituzione e rappresentanza della parte civile nel presente giudizio, liquidandole in complessive € 2.200,00, oltre IV A e contributo previdenziale come per legge.
Visto l'art. 530 c.p.p.
assolve
A.C. dal reato ascrittole al capo a) della rubrica, così come modificato, per non aver commesso il fatto e C.M. dal reato ascrittogli al capo b) della rubrica, limitatamente alle posizioni di V.K., Omissis, perché il fatto non sussiste.

Revoca
l'ordinanza 21.7.2008 del GIP di questo Tribunale con la quale è stata applicata a A.C. la misura cautelare del divieto di dimora nel Comune di Viadana.
Fissa il termine di giorni 35 per il deposito della motivazione.

La Corte di Assise di Appello di Brescia con sentenza emessa in data 13.11.2009 così decideva:

visti gli artt. 599 e 605 c.p.p.
in parziale riforma della sentenza del Giudice per l'udienza preliminare presso il Tribunale di Mantova del 22 dicembre 2008 appellata dal Pubblico Ministero e da C.M.
assolve
il C.M. dalla imputazione di violenza privata perché il fatto non sussiste e dalla imputazione di cui al capo C) anche relativamente alla posizione di Omissis perché il fatto non costituisce reato e, per l'effetto, riduce la pena inflitta per quest'ultimo reato a mesi nove di reclusione ed euro diecimila di multa. Concesse al C.M. le attenuanti generiche che dichiara equivalenti alla contestata aggravante in relazione al reato di abbandono di incapace, riduce la pena per il predetto reato ad anni quattro di reclusione. Sostituisce la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici con la interdizione temporanea per anni cinque. Revoca la pena accessoria della interdizione legale.
Conferma nel resto.

A seguito del ricorso del Proc. G. di Brescia nei confronti di entrambi gli imputati, nonché del ricorso di C.M. a mezzo del suo difensore, la Corte di Cassazione con sentenza del6.10.2010 ha così deciso:

rigetta il ricorso del C.M. che condanna al pagamento delle spese processuali; in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale relativamente ai capi a) e b) annulla la sentenza impugnata relativamente al C.M. e alla A.C., con rinvio alla Corte di Assise di Appello di Milano per nuovo giudizio.

In esito all'odierna Camera di Consiglio tenutasi in presenza degli imputati; sentita la relazione svolta dal Presidente Dott.ssa Anna Conforti, sentiti gli imputati, il Proc. Gen. Dott. Federico Prato e la difesa;

LA CORTE

FattoDiritto




C.M. e A.C. sono stati tratti a giudizio, per rispondere, entrambi:
A) del delitto di omicidio volontario, aggravato ex art. 576 comma ln. lc.p., perché, in concorso fra loro- il C.M. in qualità di datore di lavoro del cittadino indiano V.K. e l'A.C. quale partecipe all'attività di impresa gestita dal marito e concorrente materiale - cagionato la morte del V.K., che, il 27 giugno 2008, colto da malore mentre era dedito alla raccolta di ortaggi fin dall'alba di una giornata caratterizzata da altissimo tasso di umidità nell'aria e da temperature particolarmente elevate, veniva trasportato all'esterno dell'azienda agricola e abbandonato in un campo ai margini di una strada pubblica, senza che fosse richiesto immediatamente l'intervento di personale sanitario, cosicché lo stesso decedeva poco dopo l'arrivo dei soccorsi, sopraggiunti a distanza di oltre due ore dalla manifestazione del malore. Ciò al fine di garantirsi l'impunità rispetto al reato di cui all'art. 22 co. 12 D. Lgs. 286/98, essendo la vittima priva di permesso di soggiorno;

il solo C.M.:
B) del delitto di estorsione continuata, perché, da febbraio a luglio 2008, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, impiegando nella propria azienda cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno e/ o di autorizzazione al lavoro, retribuiti in nero, costringendoli a lavorare con orari massacranti, senza riposo settimanale e sottopagati, fino al termine della stagione di raccolta dei meloni e comunque fino al mese di settembre, con la minaccia di non corrispondere loro la retribuzione per l'attività già svolta, comunque differita, si procurava un ingiusto profitto, con corrispondente danno per i lavoratori sfruttati;

C) del delitto di cui all'art. 22 co. 12 D. Lgs. 286/98, per avere impiegato all'interno della propria azienda, fino al luglio 2008, lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, fra cui Omissis.

Con sentenza emessa il 22 dicembre 2008 a seguito di giudizio abbreviato, il C.I.P. presso il Tribunale di Mantova ha affermato la penale responsabilità del C.M.in relazione ai reati di cui agli artt. 61 n. 2, 591 co. 3 ultima parte c.p.- così qualificato il fatto contestato al capo A)-, 610 c.p. - così qualificato il fatto contestato sub B) in relazione alla sola persona offesa Omissis - e al reato sub C); applicata la diminuente per il rito abbreviato, ha, quindi, condannato il C.M. alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione per il reato sub A), alla pena di anni due di reclusione per quello sub B) e alla pena di anni uno di reclusione ed euro 13.333,33 di multa per quello sub C), oltre alle pene accessorie ed al risarcimento dei danni alla parte civile, cui ha assegnato una provvisionale di euro 15.000; ha, infine, assolto l'A.C. dal reato ascrittole al capo A) per non aver commesso il fatto e C.M. da quello sub B), relativamente alle posizioni di V.K. Omissis, perché il fatto non sussiste.

I fatti sono stati ricostruiti in sentenza nei seguenti termini.
Intorno alle ore 20 del 27 giugno 2008, i CC. di Viadana intervenivano in frazione Salina di quel Comune, ove era stata segnalata la presenza di un extracomunitario privo di vita, rinvenendo, su di un prato, in prossimità della strada detta Bordinotte, il cadavere di un uomo, successivamente identificato per il cittadino indiano V.K..
Dalle dichiarazioni di S.A.N., medico di famiglia dell'A.C., presente sul posto, i militari apprendevano che, intorno alle 18.45, questi aveva ricevuto una telefonata dall'imputata, la quale l'aveva informato di avere notato un uomo dalla pelle scura, a terra, sul ciglio della strada Bordinotte.
Il teste aggiungeva di essersi immediatamente portato sul posto indicatogli e di avere prestato le prime cure all'uomo- che rantolava e aveva la febbre altissima-, attivando, nel contempo, i soccorsi tramite una telefonata al 118.
L'uomo aveva avuto, nel frattempo un arresto cardiaco, dal quale era riuscito a riprendersi. Era, però, sopravvenuto, alla presenza degli operatori del 118, (giunti alle 18.55) un secondo arresto cardiaco, che, nonostante le manovre rianimatorie, era risultato fatale.

Le indagini - orientate da "voci insistenti e confidenziali" - portavano gli inquirenti all'azienda agricola del C.M., ove si accertava che prestavano attività cinque lavoratori privi di permesso di soggiorno, fra cui la vittima.
Dalle dichiarazioni degli stessi emergevano le condizioni di lavoro cui erano soggetti, comportanti orari (dalle 6 alle 19 con due ore di pausa sette giorni su sette) e retribuzioni (6 euro ad ora) fuori limite, la cui corresponsione era, peraltro, differita al termine della stagione di raccolta dei meloni.
Uno dei dipendenti, Omissis, aggiungeva che, dopo la morte di V.K., egli aveva manifestato a C.M. la decisione di interrompere il rapporto di lavoro, chiedendogli di essere retribuito per l'attività già svolta. Questi, però, non solo si era rifiutato di corrispondergli alcunché, ma l'aveva costretto a continuare il lavoro fino alla conclusione della stagione, prevista per il mese di settembre, minacciandolo che, in caso contrario, non avrebbe ricevuto neppure la remunerazione per l'attività già svolta.
Dalle medesime fonti si apprendeva che V.K., mentre stava lavorando, si era sentito male, accasciandosi a terra, privo di sensi. In quella circostanza erano presenti l'A.C. e suo figlio M., che aveva immediatamente informato il padre, al momento presso la sua abitazione, cercando nel contempo, inutilmente, di rianimare l'operaio con getti d'acqua.

C.M., sopraggiunto dopo dieci-quindici minuti, si era rifiutato di chiedere l'invio di un'ambulanza finché l'operaio fosse rimasto in loco, dando disposizione a due connazionali dello stesso di trasportarlo fuori della propria azienda e facendo allontanare tutti i lavoratori presenti.
Dopo circa mezz'ora, due amici della vittima, Omissis, fatti intervenire appositamente, a bordo dell'auto di G. avevano trasportato V.K. nel luogo loro indicato dal C.M.- che li aveva seguiti con la propria auto-, ove l'avevano abbandonato, su indicazione dell'imputato, in prossimità del ciglio della strada, in un punto privo di ombra.

Sulla base delle dichiarazioni testimoniali e dei dati registrati dagli operatori del 118, la scansione temporale degli accadimenti è stata ricostruita in sentenza nei seguenti termini:
- alle ore 17,30 V.K. accusa il malore;
- alle ore 17,40 circa C.M. arriva sul posto;
- alle ore 18,00 circa V.K. viene trasportato fuori dell'azienda e abbandonato nei pressi della strada Bordenotte;
- alle ore 18,23 l'A.C., dalla propria abitazione, contatta il 118 e, quindi, il medico;
- alle ore 18,27 il 118 è allertato anche da tale B.M., il quale segnala di avere notato, ai bordi della strada che stava percorrendo in bici, un uomo che "faceva fatica a respirare, aveva la saliva che colava ai lati della bocca e gli occhi rivolti verso l'alto".
- alle 18,41 segue la chiamata al 118 del dott. S.A.N.;
- alle 19,16 giunge in loco l'automedica del 118; la morte del V.K. interviene subito dopo ed è certificata alle ore 20,00.

I consulenti medico-legali del P.M., pur evidenziando la difficoltà di individuare la causa precisa della morte per l'avanzato stato di decomposizione del cadavere (l'accertamento è stato effettuato a distanza di diversi giorni, quando ormai la salma stava per essere rimpatriata), hanno concluso nel senso che, "con notevole verosimiglianza" la morte era da ascrivere ad un grave collasso cardiocircolatorio, al cui verificarsi avevano concorso, in misura notevole, la prolungata esposizione alla calura estiva e la contemporanea disidratazione indotta dalla fatica, alle quali si era aggiunta un'infezione da broncopolmonite, a sua volta, responsabile dell'innalzamento della temperatura corporea con disidratazione e sovraccarico cardiaco.
Gli stessi consulenti hanno, altresì, precisato che "i ritardi nell'intenvento terapeutico ed il sostanziale abbandono del paziente nell'immediatezza del malore" avevano "sostanzialmente peggiorato la prognosi, riducendo drammaticamente la possibilità di sopravvivenza dello stesso o quanto meno anticipando in modo significativo il decesso" .

Il G.I.P. ha individuato nel C.M. - quale datore di lavoro del V.K. - il titolare dell'obbligo di prestare assistenza allo stesso a norma dell'art. 45 del D.Lgs. n. 81/1981; ha per contro escluso che tale obbligo gravasse anche sull'A.C., in quanto mera partecipe all'attività d'impresa del marito.
La ritenuta mancanza di prove di un apporto della stessa alla condotta del coimputato ha portato il giudicante ad assolvere l'A.C. per non aver commesso il fatto.

Quanto al C.M., il G.I.P. - sulla base delle risultanze della consulenza medica del P.M. - ha ravvisato nesso causale tra la condotta (omissiva e commissiva) dallo stesso tenuta e la morte del V.K.; ha, tuttavia, escluso che l'imputato abbia agito con dolo omicida, ritenendo che la reiterata esternazione dell'intenzione di richiedere i soccorsi una volta allontanato il V.K. dalla sua proprietà e la chiamata realmente effettuata al 118 all'avverarsi di tale condizione - chiamata che, seppure proveniente dall'A.C., è da attribuirsi a decisione del C.M.- rendano incerta la prova che questi abbia agito nonostante la prospettazione dell'evento morte, che, anzi, pensava di evitare attivando i soccorsi.
Il fatto sub A) è stato, conseguentemente, ricondotto all'ipotesi delittuosa prevista dal III comma dell'art. 591 c.p., ulteriormente aggravata dal nesso teleologico con il reato di cui al capo C).

Quanto al capo B), il G.I.P. ha ritenuto che solo nei confronti di Omissis emerga la prova dell'effettività della minaccia rivoltagli dal C.M., che, invece manca nei confronti degli altri operai, non risultando che questi siano stati costretti ad accettare le condizioni di lavoro loro proposte.
Il fatto è stato, tuttavia, riqualificato in termini di violenza privata.

Con riguardo al capo C), il primo giudice ha ritenuto provata la responsabilità del C.M., essendo pacifica l'irregolare posizione degli operai, il cui accertamento era onere dell'imputato.

Il G.I.P. ha negato al C.M. le attenuanti generiche, in ragione della gravità dei fatti, dello scorretto comportamento processuale tenuto nel tentare di far ricadere su altri la responsabilità della morte di V.K., e della personalità dello stesso, denotante disprezzo per la vita altrui ed esclusivo interesse per l'ottimizzazione dei propri profitti.

La sentenza è stata appellata dal P.M. e dai difensori dell'imputato.

La Corte di Assise d'Appello di Brescia, con sentenza del 13 novembre 2009, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha assolto C.M. dall'imputazione di violenza privata per insussistenza del fatto ed altresì dal reato sub C) - in relazione alla posizione di Omissis - per difetto di dolo, riducendo la pena inflitta per tale ultimo reato a mesi nove di reclusione ed euro diecimila di multa; ha concesso al C.M. le attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza rispetto all'aggravante del nesso teleologico, in relazione al delitto sub A), riducendo la pena principale ad anni quattro di reclusione e, modificando, conseguentemente, la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici da perpetua in temporanea, con revoca dell'interdizione legale. Ha confermato, infine, le altre statuizioni.

La Corte ha disatteso le doglianze difensive in ordine all'utilizzazione delle dichiarazioni di soggetti che, come Omissis avrebbero dovuto essere imputati dell'abbandono del V.K., o che, comunque, erano inattendibili, anche perchè condizionati dal concittadino Omissis, amico della vittima, che aveva svolto il ruolo di interprete, dopo avere orientato le indagini degli inquirenti verso il C.M.. Così come ha disatteso la prospettazione difensiva circa la mancanza di nesso causale fra la condotta del C.M.e la morte del V.K., circa l'insussistenza del dolo del delitto ex art. 591 c.p. in concreto ravvisato, circa l'inconsapevolezza dello stato di clandestinità dei dipendenti diversi da Omissis e circa la sussistenza della continuazione fra tutti i reati.
Con specifico riguardo al profilo causale, ha ritenuto che una tempestiva richiesta dei soccorsi avrebbe potuto salvare V.K. - come peraltro affermato dai consulenti medici del P.M., i quali hanno, altresì escluso la sussistenza di patologie endogene preesistenti - in quanto le odierne tecniche rianimatorie, in uno con la refrigerazione del corpo, avrebbero consentito di ripristinare il meccanismo di omeostasi cardiovascolare e di fronteggiare la situazione di collasso cardiocircolatorio.

La Corte bresciana ha, parimenti, ritenuto infondate le censure del P.M., che lamentava la contraddittorietà delle argomentazioni del C.I.P. e l'erroneità delle conclusioni cui avevano dato luogo in ordine alla qualificazione giuridica del fatto sub A), alla responsabilità dell'A.C. ed alla qualificazione del delitto di estorsione in termini di violenza privata.
Quanto al dolo omicidiario, ha ritenuto che, seppure il quadro obiettivo presentatosi al C.M. fosse grave, questi, per il suo modesto livello culturale e perché ignorava le pregresse condizioni di salute del V.K., non era in grado di rappresentarsi il rischio della morte del proprio dipendente in conseguenza del ritardo nella richiesta dei soccorsi. L'essersi precipitato in azienda appena avvertito dal figlio e l'avere richiesto, tramite la moglie, l'intervento del 118 - si è osservato - sono cirC.M.nze che collidono con la tesi dell'Accusa. E' stata, pertanto, ritenuta corretta la qualificazione giuridica del fatto sub A) operata dal G.I.P.

La Corte ha ritenuto, in tal modo, superato l'appello del P.M. avverso l'assoluzione dell'A.C., in quanto strettamente connesso alla richiesta di condanna del C.M. per il delitto di omicidio e non avendo l'appellante chiesto l'affermazione di responsabilità dell'imputata a titolo di concorso nel delitto ex art. 591c.p..

Quanto al reato di estorsione contestato al capo B), la Corte di Brescia ha ribadito l'infondatezza della tesi accusatoria sulla base delle dichiarazioni delle stesse persone offese e del comportamento tenuto dal C.M. nei confronti di Omissis,  cui aveva corrisposto un anticipo sulla paga, incompatibile con la volontà ricattatoria attribuitagli.
Tale ultima circostanza, anzi, contraddice - prosegue la Corte - le dichiarazioni accusatorie di Omissis. Questi, peraltro, non conoscendo adeguatamente la lingua italiana, ben potrebbe avere frainteso i discorsi del C.M., che va, pertanto, assolto anche dall'unica imputazione di violenza privata per la quale aveva riportato condanna.

La Corte bresciana ha, infine, ritenuto meritevoli di accoglimento le censure della difesa in ordine alla condanna del C.M. per il reato sub c) relativamente alla posizione di Omissis, osservando che questi aveva fornito un permesso di soggiorno, rivelatosi poi falso.
Ha, infine, accolto l'appello della difesa in ordine al diniego delle attenuanti generiche ed alla misura della pena inflitta per il capo A), osservando che il risarcimento corrisposto al fratello della vittima è segno di resipiscenza e che l'atteggiamento complessivo dell'imputato e il suo attivarsi, seppure tramite la moglie, perché la vittima fosse soccorsa impongono una pena più contenuta di quella inflitta in primo grado.

Avverso la sentenza di secondo grado hanno interposto ricorso per cassazione il P.G. ed i difensori del C.M..

La Corte di Cassazione, con sentenza del 6 ottobre 2010, ha rigettato il ricorso della difesa e, in accoglimento del gravame del P.G. relativamente ai capi A) e B), ha annullato la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Brescia nei confronti di entrambi gli imputati, rinviando a questa Corte per un nuovo giudizio.

Alla stregua della decisione della Suprema Corte e delle motivazioni datene, restano definitivamente superate le questioni sollevate dalla difesa e relative all'utilizzabilità delle dichiarazioni di Omissis, all'obbligo gravante sul C.M. ex art. 45 D. Lgs. 81/2008, alla ricostruzione della condotta del C.M.- quale operata in primo e secondo grado -, al nesso causale fra questa e la morte del V.K., alla finalizzazione di essa a precludere il suo coinvolgimento nel fatto occorso alla vittima e nell'assunzione illegale della stessa, al diniego delle attenuanti generiche in relazione al capo C) di imputazione. La Corte di Cassazione ha, infatti, ritenuto logiche ed esaustive le motivazioni date dai giudici di merito su tali punti.

I giudici di legittimità hanno, invece, accolto il ricorso della Procura Generale in ordine al capo A), ritenendo "oltremodo contraddittoria" l'argomentazione della Corte bresciana.
Questa - si osserva - è partita dalla premessa che il quadro obiettivo del V.K. si presentasse fin dall'inizio assai grave, sì da indurre a ritenere che C.M. avesse consapevolezza del pericolo di morte, tanto più che aveva giustificato l'omesso trasporto dell'operaio in ospedale proprio col timore di essere incolpato in caso fosse morto. Ciò nondimeno, la Corte territoriale non ha tratto da tali premesse le dovute conclusioni, escludendo, che C.M. avesse la capacità previsionale delle conseguenze del ritardo nell'attivazione dei soccorsi.
Afferma testualmente la Corte di Cassazione: "La contraddizione è evidente, tenuto conto che la capacità previsionale era necessitata dalle condizioni in cui la vittima si era immediatamente trovata ed era stata ammessa dallo stesso imputato, che si era astenuto dall'accompagnare in ospedale con il proprio mezzo per non essere accusato nel caso in cui fosse sopraggiunta la morte".
Aggiunge la Corte che l'imputato non solo non accompagnò la vittima in ospedale, ma, nonostante le sue gravi, evidenti e perduranti condizioni, non chiese soccorsi ed anzi la fece trasportare fuori dell'azienda e l'abbandonò al sole, in stato di incoscienza, fino alla tardiva chiamata del medico da parte della moglie.

I giudici di legittimità rilevano, altresì, l'omessa valutazione del comportamento dell'A.C. da parte della Corte bresciana, sottolineando che l'imputata era stata presente fin dall'inizio sul luogo dei fatti, tant'è che effettuò la chiamata al 118, tardivamente e simulando di essere un'ignara passante.
D'altra parte, l'annullamento della decisione di secondo grado nei confronti del C.M. in punto dolo, travolge, alla stregua delle argomentazioni della stessa Corte di merito, anche la decisone riguardo alla posizione dell'A.C., che dovrà essere necessariamente rivalutata.

La Cassazione ha ritenuto assorbita nell'annullamento disposto in ordine alla qualificazione giuridica del fatto sub A) la censura mossa dal Procuratore Generale con riguardo alla concessione delle attenuanti generiche al C.M. in relazione a tale capo.

L'annullamento ha coinvolto anche la pronuncia assolutoria della Corte bresciana in ordine al reato sub b), come riqualificato dal primo giudice.
Osserva la Suprema Corte che"tale statuizione è frutto di una immotivata svalutazione delle dichiarazioni (del) teste parte offesa Omissis (....) ed in contraddizione con quanto rilevato dalla stessa Corte, secondo cui gli accordi presi con i lavoratori erano nel senso del pagamento delle retribuzioni alla fine della campagna di raccolta, in quanto la cooperativa corrispondeva ai soci le somme alla conclusione. Per cui appare credibile che alla richiesta del lavoratore di essere pagato immediatamente per il lavoro svolto, in conseguenza del fatto successo, il C.M. avesse risposto con la minaccia indicata".

Ritiene questa Corte, quanto al tema centrale del devoluto, che la rivalutazione del compendio probatorio secondo lo schema motivazionale esplicitamente enunciato nella sentenza d'annullamento non può che portare alla qualificazione giuridica del fatto sub A) in termini di omicidio volontario, come originariamente ipotizzato dal P.M. e ribadito dal Procuratore Generale di Brescia nell'atto d'impugnazione.
Invero, le argomentazioni sulle quali è stata fondata la diversa e meno grave qualificazione giuridica attengono ad aspetti che valgono ad escludere il dolo diretto dell'omicidio, la cui sussistenza non è stata mai sostenuta dall'Accusa. Risulta, invece, del tutto incongruente rispetto ai dati processuali acquisiti l'esclusione della capacità previsionale dell'evento in capo al C.M. e, come si dirà in seguito, anche all'A.C..

Giova ricordare che, per giurisprudenza consolidata, il dolo eventuale è configurabile nel caso in cui l'agente si sia rappresentata la possibilità concreta del verificarsi dell'evento non direttamente voluto in conseguenza della propria condotta e, ciò nonostante, si sia determinato ad agire ugualmente, accettando il rischio di cagionarlo.
Parimenti consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che, proprio in tema di omicidio volontario, valorizza il ragionamento induttivo ai fini della individuazione e connotazione dell'elemento psicologico del reato, che, in quanto interno al soggetto, non è suscettibile - in assenza di esplicitazioni affidabili dello stesso - di accesso e verifica diretti.
In base a tale orientamento, pienamente condiviso da questa Corte, "la prova del dolo omicidiario è prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell'azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, nonché tutti quegli elementi che, secondo l'"id quod plerumque accidit", abbiano un valore sintomatico" (Cass., Sez. I, 14/02/2006, n. 15023; conf., ex plurimis: Sez. I, 08/06/2007, n. 28175; Sez. I, 16/12/2008 n. 5029; Sez. I, 07/07/2011, n. 30466).

Si è già detto che non sono più revocabili in dubbio, a seguito del formarsi del giudicato interno sui relativi punti, l'ascrivibilità al C.M. del ritardo nel richiedere i soccorsi e dell'abbandono del V.K. nel luogo in cui è stato ritrovato moribondo, nonché la sussistenza del nesso causale fra tali condotte e la morte. Del pari, è dato processuale definitivamente acquisito - in difetto di censure, da parte della Corte di Cassazione, in ordine alla motivazione dei giudici bresciani su tale specifico punto- che la gravità delle condizioni dell'operaio si era palesata fin dal momento in cui aveva accusato il malore. Ed invero, i testi Omissis, compagni di lavoro della vittima, hanno concordemente riferito che lo stesso, all'improvviso, era svenuto, cadendo a terra e restando inerte, nonostante i tentativi di rianimarlo, posti in essere anche dal figlio del C.M..
Le dichiarazioni di Omissis - la cui utilizzabilità e piena credibilità sono ormai indiscutibili - hanno, poi, fornito la prova che quell'iniziale situazione non si era affatto modificata a distanza di circa mezz'ora. Alloro arrivo nel fondo, infatti, V.K. era ancora a terra, non parlava, era inerte e, come precisato da Omissis "aveva occhi con le pupille all'insù".
In tale stato la vittima è stata "scaricata" nel luogo indicato dal C.M., assolato e poco frequentato, tant'è che l'unica persona avvedutasi della sua presenza e delle sue condizioni risulta essere stata il B..
Questi, pur non risultando munito di specifiche competenze, ha, con evidenza, colto la necessità e l'urgenza di soccorrere la persona stesa a terra, nella quale si era casualmente imbattuto mentre percorreva quella strada in bicicletta: infatti, si è fermato, ha chiamato il 118, segnalando che quella persona stava male, che faceva fatica a respirare e che non era in grado di prestarle aiuto perché in bicicletta, perfino ponendosi il problema di lasciarla da sola in attesa dei soccorsi.
Ed in effetti, il dott. S.A.N., sopraggiunto a pochi minuti di distanza, ha descritto V.K. come visibilmente agonizzante, rantolante, accaldatissimo.

Orbene, la gravità dello stato di salute del V.K., unanimemente rappresentata dai testi escussi, era tale da poter essere colta, indipendentemente da una diagnosi precisa, da qualunque soggetto dotato di minima accortezza e di un patrimonio cognitivo elementare. Non a caso, i compagni di lavoro della vittima ed i connazionali sopraggiunti in macchina - che pure non risulta avessero competenze mediche o comunque un livello culturale superiore a quello del loro datore di lavoro - hanno avuto immediata consapevolezza della necessità e dell'urgenza di soccorrerla, sollecitando ripetutamente il C.M. a chiamare un'ambulanza.
Particolarmente significative in tal senso le dichiarazioni rese, davanti il P.M., da Omissis ("Appena arrivati abbiamo chiesto al titolare di chiamare l'ambulanza atteso che era evidente che il V.K. stesse davvero male") e da Omissis ("Visto il V.K. disteso a terra, chiedevo come mai non fosse stata ancora chiamata l'ambulanza visto che era evidente che V.K. stava molto male").
D'altra parte, lo stesso imputato non ha negato di essersi reso conto della gravità delle condizioni di salute del V.K., limitandosi a sostenere - contro l'evidenza delle risultanze processuali- che erano stati gli altri connazionali ad opporsi al suo trasporto in ospedale.
Stride, poi, con la logica e con le dichiarazioni di tutti i dipendenti sentiti in fase di indagini, mentre risulta perfettamente coerente con l'intento del C.M.- manifestato in presenza degli stessi e puntualmente riferito nelle sommarie informazioni rese - di evitare, in modo assoluto, un qualsiasi suo collegamento con la vittima.
Destituita ormai di fondamento la tesi dell'ascrivibilità dell'abbandono a Omissis, sono proprio le dichiarazioni di questi ultimi a dare conferma che la presa di distanza - anche materiale - dall'ingombrante presenza di un lavoratore straniero ed irregolare, colto da malore nel suo campo, era la preoccupazione dominante dell'imputato e la conditio sine qua non per l'attivazione dei soccorsi. Non, dunque, un'errata valutazione della gravità del caso, ma il deliberato proposito di sottrarsi ad ogni responsabilità ha indotto C.M. ad attendere che si creassero le condizioni a lui favorevoli prima di chiamare il 118.

Non va, poi, trascurato che alla condotta omissiva l'imputato ha fatto seguire una condotta commissiva, pretendendo che il V.K. venisse trasportato fuori della sua proprietà con un'autovettura a lui non riconducibile, condotta da Omissis e con a bordo Omissis e un terzo connazionale, sulla quale aveva egli stesso contribuito a caricarlo, provvedendo, quindi, a scortarla fino al luogo - ritenuto sufficientemente distante - ove aveva dato disposizione ai predetti di lasciarlo.
Tale condotta rende ancora più evidente come la salute del V.K. fosse l'ultimo dei pensieri del C.M., ove solo si consideri che la vittima - ancorchè in stato di incoscienza da almeno quaranta minuti ed accaldatissima (circostanza facilmente apprezzabile dall'imputato, che, per caricarlo in auto, aveva dovuto necessariamente venire a contatto col suo corpo) - è stata abbandonata al bordo della strada, in un punto assolato, senza alcun riparo dall'opprimente calura che continuava a gravare sulla zona in quell'afoso pomeriggio estivo (temperatura fra 34°.2 e 31.6° C., accertata tra le ore 14 e le ore 17, con un tasso di umidità di oltre 80%).
In un simile contesto risulta davvero inverosimile che C.M. - persona di circa cinquant'anni, immune da vizi mentali ed anzi dotato delle capacità necessarie per gestire un'azienda agricola di consistenti dimensioni - ancorché ignaro della preesistente affezione broncopolmonare della vittima, possa non essersi rappresentato il rischio di conseguenze irreversibili, cui l'inutile trascorrere del tempo e l'assenza dei più elementari accorgimenti per abbassare la temperatura corporea la stavano esponendo.
Ogni dubbio in tal senso è, del resto, fugato dalle dichiarazioni dello stesso imputato, che- come già sottolineato dalla Corte di Cassazione- ha ammesso, in sede di interrogatorio, di non avere trasportato personalmente V.K. in ospedale "per non avere dei concorsi di colpa in quanto avrebbe potuto morire sul suo furgone". Egli, dunque, era ben consapevole della possibilità concreta che le condizioni dell'operaio erano talmente gravi, da poterlo condurre a morte e, ciò nonostante­ sostanzialmente indifferente alla prospettiva del fatale epilogo della situazione - ha continuato, imperterrito, a privilegiare il proprio egoistico interesse a che non emergessero le sue responsabilità per l'impiego illegale di manodopera straniera. Un siffatto atteggiamento psicologico deve essere qualificato come dolo omicidiario di natura eventuale, non legittimando le risultanze processuali alcuna ipotesi alternativa.

Conclusioni analoghe si impongono anche per l'A.C..

E' incontroverso che l'imputata era presente nel campo quando V.K. è stato colto da malore e che ha assistito a tutte le fasi successive, dai primi, inutili, tentativi di soccorso da parte del figlio e degli altri operai, all'arrivo del C.M., al trasporto del V.K. fuori dalla loro proprietà.
Era, dunque, in condizione di cogliere, al pari del C.M. e degli altri soggetti presenti, da un lato, la gravità dello stato del lavoratore e la conseguente urgenza di trasportarlo in ospedale, dall'altro, l'atteggiamento dilatorio del marito e le motivazioni che ne aveva pubblicamente dato. Il silenzio e l'inerzia serbati, nonostante la concreta possibilità di relazionarsi alla pari col C.M., denunciano la piena condivisione delle scelte di quest'ultimo e, nel contempo, proprio per lo stretto legame con lo stesso e per la cointeressenza nella conduzione dell'azienda di famiglia, assumono la valenza di un supporto morale dato al marito nel mantenere ferma la decisione di chiamare i soccorsi solo dopo che l'operaio fosse stato trasportato fuori dell'azienda.
Ma vi è di più.
L'A.C. ha materialmente contribuito all'attuazione della condotta commissiva del C.M..

Risulta, infatti, dalle dichiarazioni rese al P.M. da Omissis che ella ha aiutato a caricare V.K. sull'autovettura con la quale era chiaro a tutti i presenti dovesse essere allontanato dalla sua proprietà prima dell'attivazione dei soccorsi.
Al pari di Omissis, che ha riferito la circostanza, l'imputata era stata, quindi, in grado di avvertire, attraverso il contatto fisico col V.K., l'elevatissima temperatura corporea dello stesso. Anche solo l'esperienza di madre, oltre al più elementare buonsenso, la ponevano in condizione di comprendere la necessità e l'urgenza di interventi idonei ad una rapida refrigerazione del corpo.
La tempistica della chiamata telefonica dalla stessa effettuata al 118 conferma, poi, come l'A.C. avesse concordato col marito il da farsi, prestandosi a richiedere i soccorsi solo dopo il completamento dell'operazione di "scarico" della vittima lontano dal perimetro aziendale ed assumendo la veste di ignara passante, casualmente avvedutasi del corpo. La telefonata, in effetti, è stata registrata alle ore 18.23, pressocchè in concomitanza con l'abbandono del V.K. sul ciglio della strada, evento collocato da Omissis, approssimativamente, attorno alle ore 18.30.
La significatività della sincronia è stata colta, del resto, dallo stesso C.I.P., che ha ricondotto al C.M. la decisione delle telefonate effettuate materialmente dall'A.C., senza, tuttavia, trarne le logiche conseguenze m tema di accordo criminoso fra i due.
Peraltro, la discrasia emersa nelle dichiarazioni rese da entrambi gli imputati circa il momento in cui avrebbero comunicato fra loro dopo il trasferimento del V.K. fuori dell'azienda ed il tenore della conversazione avuta dall'A.C. con l'operatrice del 118 concorrono a rafforzare il convincimento che la stessa abbia agito in consonanza col marito, condividendone la scelta di privilegiare gli interessi personali e dell'azienda di famiglia rispetto alla salvaguardia della vita del dipendente.
Si osserva, in merito che C.M., nell'interrogatorio reso al P.M. il16 luglio 2008, ha asserito di essere rientrato a casa alle 18 e di avere parlato con la moglie dell'abbandono del V.K. ai bordi della strada, apprendendo dalla stessa che aveva provveduto a chiamare il 118 ed il medico di famiglia, ma che aveva taciuto che l'indiano lavorava alle loro dipendenze. A.C., per contro, ha negato di avere rivisto il marito prima dell'arrivo dei soccorsi, finendo col dichiarare, a fronte delle contestazioni mossele, di non ricordare quando si fossero incontrati.
Né va sottovalutato, sotto il profilo causale, l'ulteriore ritardo nei soccorsi imputabile al ridimensionamento delle reali condizioni in cui versava il V.K., posto in essere dall'A.C. - e dalla stessa sostanzialmente ammesso nell'interrogatorio davanti il P.M. - nell'informarne l'operatrice del 118, addirittura lasciata nel dubbio che potesse trattarsi di un soggetto ubriaco e, non a caso, attivatasi con maggiore premura -come si desume dalle registrazioni delle chiamate al 112 ed all'ambulanza 233- solo dopo la telefonata, ben più precisa ed allarmante, del B.. Non meno rilevante ai fini di una pronta ed efficace attivazione dei soccorsi è l'avere taciuto che lo stato di incoscienza della vittima si protraeva da quasi un'ora e che inutili erano stati i tentativi di rianimarla.

Quanto alla capacità previsionale dell'evento morte valgono le identiche considerazioni svolte riguardo al C.M..
La consapevolezza dell'elevato rischio cui V.K. era esposto e dell' incidenza che il fattore tempo aveva sull'evolvere delle sue condizioni trova, d'altra parte, conferma nella frenetica ricerca di soccorsi, una volta portata a termine l'opera di autotutela. Si evidenziano, in tal senso, la richiesta di intervento rivolta dall'A.C. al proprio medico di base, dopo avere appreso dell'indisponibilità immediata di un'ambulanza dall'operatrice del 118, e l'estrema rapidità con la quale il dott. S.A.N. ha lasciato l'ambulatorio ove stava prestando la sua attività professionale, per recarsi a soccorrere la vittima.

Nell'assolvere l'A.C., il C.I.P. ha pretermesso la disciplina del concorso di persone nel reato, trascurando che l'imputata non si è limitata ad un atteggiamento passivo, al più tradottosi in una mera connivenza non punibile, ma ha mostrato di condividere la scelta del C.M. di non richiedere i soccorsi prima di avere "scaricato" altrove il V.K., contribuendo a rafforzare il proposito criminoso dello stesso, ed ha altresì dato un apporto fattivo, con le condotte già descritte, alla sua concreta esecuzione.
La stessa va, conseguentemente, ritenuta corresponsabile dell'omicidio.

Fondate sono, ad avviso della Corte, anche le censure relative all'assoluzione del C.M. dall'imputazione sub B) - relativamente alla posizione di Omissis - ed alla qualificazione giuridica del fatto contestato in termini di violenza privata.
La versione della persona offesa, invero, supera il vaglio - pur rigoroso per la peculiare posizione processuale della stessa- della credibilità intrinseca, in quanto precisa, circostanziata e logicamente coerente.
Per di più essa trova un riscontro esterno nella circostanza che il Omissis, all'atto dell'intervento dei Carabinieri, stesse ancora effettivamente lavorando nel campo del C.M..
L'assunto di un fraintendimento delle parole del C.M., dovuto ad una scarsa conoscenza della lingua è nient'altro che una mera ipotesi, sprovvista di supporti oggettivi.
Né la corresponsione di un acconto di 300 euro ad altro dipendente (Omissis) è circostanza idonea a privare di credibilità le dichiarazioni accusatorie di Omissis. Trattasi, innanzi tutto, di situazioni non omologabili, in quanto verificatesi in tempi diversi ed in relazione a richieste completamente differenti, avendo ad oggetto, la prima, il versamento di un acconto sull'ammontare complessivo del salario pattuito e, la seconda, il versamento della retribuzione dovuta per l'attività lavorativa già prestata, a fronte del legittimo rifiuto di Omissis di proseguire il rapporto di lavoro in mancanza di minime condizioni di sicurezza. Nell' ultimo caso, al contrario del primo, l'atteggiamento minaccioso del C.M., riferito dalla persona offesa, risulta del tutto coerente con la logica cui lo stesso improntava i rapporti di lavoro con i dipendenti. Questi, in massima parte extracomunitari e privi di permesso di soggiorno, erano costretti ad accettare condizioni lavorative di autentico sfruttamento, con orari disumani e con una retribuzione oraria inferiore ai minimi salariali, per giunta percepibile solo al termine della stagione.
Tale ultima clausola - di chiara natura vessatoria, per lo sbilanciato rapporto di forza fra le parti contrattuali - era lo strumento di pressione più efficace per evitare improvvise defezioni, che avrebbero compromesso le esigenze dell'azienda in tempo di raccolto.
E' appena il caso di rilevare che - quali che fossero gli accordi cui C.M. e i suoi dipendenti erano addivenuti - la retribuzione per il lavoro già prestato era un diritto acquisito della persona offesa, con correlato obbligo del datore di lavoro di corrisponderla.
La prospettazione dell'incameramento delle somme dovute si traduce, conseguentemente, nella minaccia di un male ingiusto, volta a coartare la libertà di autodeterminazione della vittima, costringendola ad un facere.

Tali elementi, integrativi della fattispecie della violenza privata, sono comuni anche alla fattispecie dell'estorsione, che della prima costituisce una specificazione.
A distinguere le due ipotesi delittuose è, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale - cui questa Corte ritiene di aderire - non solo e non tanto la finalizzazione della condotta minacciosa e/ o violenta al conseguimento di un ingiusto profitto (che ben potrebbe ricorrere anche in caso di violenza privata), quanto il fatto che la pretesa ingiusta - necessariamente a carattere patrimoniale, essendo l'estorsione reato contro il patrimonio -, si traduca in un danno per la persona offesa (in tal senso: Cass. VI, 28.9.2011, n. 38661; Cass., II, 7.4.2011, n. 15716).
Nel caso concreto, la ricaduta economica del mancato pagamento del corrispettivo del lavoro già prestato sulla persona offesa è di palmare evidenza. In accoglimento del gravame del P.M., deve, pertanto, ritenersi corretta l'originaria qualificazione del residuo episodio delittuoso contestato al C.M. al capo B) in termini di estorsione.

Quanto al trattamento sanzionatorio, ritiene la Corte che sussistano i presupposti per il riconoscimento delle attenuanti generiche ad entrambi gli imputati.
Ad orientare il giudizio in tal senso non concorrono certo una positiva valutazione della personalità dei coniugi C.M. - la cui condotta si presenta come un monumento al cinismo ed alla mancanza di ogni principio di umana solidarietà - o della condotta post delictum - anch'essa improntata alla logica della massima riduzione del "proprio" danno, come dimostra l'irrisorietà della somma versata alla parte civile a titolo di risarcimento - ovvero del comportamento processuale tenuto, non solo negatorio, ma spintosi fino a riversare la responsabilità dell'accaduto sugli amici e compagni di lavoro della vittima, quanto, piuttosto, le condizioni personali degli imputati e la conseguente necessità di adeguare la risposta punitiva al quantum di responsabilità loro effettivamente ascrivibile. Allo stato di totale incensuratezza di entrambi - tanto più significativo in ragione dell'età non più giovane - si aggiunge, in effetti, la pochezza delle risorse culturali, che ha inciso sulla percezione dei valori in gioco.
Il giudizio di comparazione deve, comunque, tenere conto del differente ruolo avuto da ciascuno nella vicenda, con la conseguenza che, nei confronti del C.M.­ ideatore e principale esecutore del progetto criminoso - non può superare, diversamente dall'A.C., la soglia della mera equivalenza, tanto più che lo stesso era il soggetto direttamente interessato a "coprire" l'illiceità dei rapporti di lavoro in essere presso l'azienda di cui era titolare.
Avuto riguardo alla ridotta intensità del dolo omicida, presente- come si è detto­ nella forma eventuale, ritiene la Corte di contenere la pena, per il più grave delitto sub A), nel minimo edittale per l'A.C. e in misura prossima ad esso in relazione ad entrambe le imputazioni ascrittegli, per C.M., in considerazione, oltre che del ruolo preminente svolto, della maggiore capacità a delinquere che emerge dalla pluralità di comportamenti antigiuridici posti in essere.
Pena equa si stima, conseguentemente, per l'A.C., quella di anni nove e mesi otto di reclusione (pena base: anni ventuno di reclusione, ridotta di un terzo per le attenuanti generiche e di un ulteriore terzo per la scelta del rito); per il C.M., in relazione al capo A), quella di anni quattordici e mesi otto di reclusione (pena base: anni ventidue di reclusione, ridotta di un terzo per il rito) ed, in relazione al capo B), quella di anni due, mesi quattro di reclusione ed euro 400 di multa (pena base: anni cinque, mesi tre di reclusione ed euro 900 di multa, ridotta ad anni tre, mesi sei ed euro 600 per le attenuanti generiche, ulteriormente ridotta di un terzo per il rito).
Conseguono, ex lege, l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici nei confronti di entrambi gli imputati e la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio, nonchè della sola A.C. al pagamento delle spese processuali dei precedenti gradi di giudizio di merito.

Vanno confermate le statuizioni della sentenza di primo grado, che non hanno costituito oggetto di riforma.

P.Q.M.


Letti gli artt. 627, 624 c.p.p.
Decidendo a seguito di rinvio dalla Corte di Cassazione, disposto con sentenza in data 6.10.2010 di annullamento della sentenza della Corte di Assise d'Appello di Brescia del13.11.2009,
in parziale riforma
della sentenza del G.I.P. presso il Tribunale di Mantova in data 22.11.2008,
dichiara
C.M. C.M. e A.C. colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti ai capi A) e B) dell'originaria imputazione, limitatamente - quanto al capo B) - alla posizione di Omissis, e, riconosciute ad entrambi gli imputati le attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza per C.M. e di prevalenza per A.C., rispetto all'aggravante contestata al capo A), nonché la diminuente ex art. 442 c.p.p.,

ridetermina
la pena inflitta a C.M., per il capo A), in anni quattordici e mesi otto di reclusione e, per il capo B), in anni due, mesi quattro di reclusione ed euro 400 di multa, restando, la pena complessivamente inflitta - inclusa quella irrogata dalla Corte d'Assise di Brescia per il capo C) - determinata in anni diciassette di reclusione ed euro 10.400 di multa;

condanna

A.C. alla pena di anni nove e mesi quattro di reclusione.
Letti gli artt. 29 e 32 c.p.,
dichiara

entrambi gli imputati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante l'esecuzione della pena.

Condanna

Entrambi gli imputati al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio ed altresì l'A.C. al pagamento delle spese processuali relative al giudizio di primo e secondo grado davanti l'A.G. di Brescia.

Conferma

Nel resto.
Indica in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione.
Milano, 18 dicembre 2012