18 La responsabilità della persona giuridica THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p.a.
La responsabilità delle persone giuridiche (precisamente degli "enti"), fino ad allora sconosciuta nel nostro sistema giuridico, è stata introdotta con il D.L.gs n. 231/2001, in esecuzione della Convenzione OCSE del 17/12/1997, sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e del secondo protocollo del 19/6/1997, sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee: entrambi atti che prevedono appunto la responsabilità della persona giuridica, in linea con quanto già stabilito in molti Stati e nell'elaborazione di reati in sede internazionale (Unione Europea, Consiglio d'Europa, Nazioni Unite).
Con la legge n. 300/2000, il cui articolo 11 conteneva la delega al Governo in materia, il Parlamento ha indicato i principi fondamentali: per quanto qui rileva, la scelta di gravare gli enti di una responsabilità amministrativa e non penale; i diversi criteri di incolpazione a seconda che autori del reato siano i vertici ovvero semplici dipendenti; l'applicazione delle norme del codice di procedura penale, in quanto compatibili; l'irrogazione delle sanzioni da parte del Giudice che conosce il reato (commesso dalla o dalle persone fisiche).
Il D.Lgs n. 231/2001 ha originariamente previsto una così ristretta categoria di reati (v. articoli 25 e 26), rispetto a quelli indicati alle lettere da a) a d) del citato articolo 11 l. n. 300/2000, da indurre la migliore dottrina a parlare di "montagna che partorisce un topolino"; è opportuno ricordare come il reato per cui qui si procede e cioè l'omicidio colposo (e le lesioni personali colpose) commesso con violazione delle norme in materia di infortuni sul lavoro fosse già ricompreso nel citato articolo 11, insieme ad altri reati logicamente riferibili a carenze organizzative di impresa, come quelli riguardanti l'ambiente e l'inquinamento.
Il legislatore ha successivamente e gradualmente ampliato il numero e la tipologia di reati presupposti rispetto alla responsabilità della persona giuridica, con vari interventi; l'ultimo, per quanto qui interessa, relativo proprio alla introduzione dell'omicidio colposo (e delle lesioni colpose) commesso con violazione della normativa antinfortunistica, di cui all'art. 25 septies; con il che si deve affermare che i principi fondamentali in materia di responsabilità delle persone giuridiche, contenuti nella citata 1. n. 300/2000, sono stati dal legislatore originariamente dettati anche con riguardo ai delitti colposi ed anche con riguardo proprio al delitto per cui qui si procede. In altre parole, la -relativamente - recente introduzione anche di questa tipologia di reati e in particolare di quello di cui all'art. 589 2° comma c.p., è avvenuta come completamento del quadro legislativo originario, che già lo indicava e che anche di esso teneva conto e non, invece, come corpo estraneo successivamente aggiunto.
Nonostante il D.Lgs citato sia stato emanato nel 2001, la sua applicazione concreta è proceduta con lentezza, come testimoniato dalle non numerose sentenze, anche della Corte di Cassazione, in materia.
La prima questione dibattuta sia in dottrina sia in giurisprudenza riguarda la "natura" della responsabilità dell'ente, definita testualmente dal legislatore come amministrativa; ritenuta invece da parte della dottrina e da alcune pronunce come, nella sostanza, penale: secondo quest'ultima prospettazione, con potenziali questioni di illegittimità costituzionale.
Contiene l'affermazione della natura penale della responsabilità dell'ente, anche se "temperata" dalla successiva affermazione di un "tertium genus", la sentenza della Corte di Cassazione n. 3615/06: " ... ad onta del nomen juris, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale; forse sottaciuta per non aprire delicati conflitti con i dogmi personalistici dell'imputazione criminale, di rango costituzionale (art. 27 Cost.) ... "; salvo poi affermare: " ... seppure si debba considerare la responsabilità creata dalla norma come un tertium genus nascente dall'ibridazione della responsabilità amministrativa con principi e concetti propri della sfera penale ... ".
Sembra invece decisamente optare per un innovativo "tertium genus" la successiva sentenza della Suprema Corte, n. 26654/08 (e, come vedremo infra, la n. 36083/09) che, dopo avere esposto le ragioni internazionali che hanno indotto il nostro Paese ad introdurre la responsabilità in capo agli enti (v.), afferma: " ... l'art. 11 della legge delega, pur nel recepimento delle indicazioni degli strumenti internazionali, ha dotato il nuovo illecito di un volto dai contorni ancora più precisi, contemperando i profili di generalprevenzione, primario obiettivo della responsabilità degli enti, con 'le garanzie che ne devono rappresentare il contraltare'. Sulla stessa linea d'ispirazione si è mantenuto il legislatore delegato del decreto n. 231/2001.
Ne è risultata un'architettura normativa complessa che, per quanto farraginosa e - sotto alcuni aspetti - problematica, evidenzia una fisionomia ben definita, con l'introduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di apposite regole quanto alla struttura dell'illecito, all'apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell'ente, al procedimento di cognizione ed a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale".
Questa Corte ritiene che, nell'interpretazione delle norme, il superamento del dato testuale si possa effettuare solo a fronte di elementi importanti ed univoci, che nel caso del citato D.Lgs., non si ravvisano; la stessa dottrina citata dai difensori della persona giuridica, che ricordano la locuzione - posta dall'autore in forma interrogativa
- "truffa delle etichette", argomenta ritenendo non solo che è vero che "la disciplina realizzata ha replicato in gran parte quella penale, ma è anche vero che per alcuni aspetti, non secondari, se ne è differenziata; ed è vero inoltre che il diritto penale è naturalmente strutturato in funzione della persona fisica e dell'applicazione della pena detentiva e che un sistema di responsabilità degli enti, anche se relativo a reati, deve naturalmente essere qualcosa di diverso". La stessa dottrina, dopo avere ricordato un'importante differenza costituita dal decreto di archiviazione emesso direttamente dal Pubblico Ministero (v. art. 58 D.Lgs. 231/2001), conclude: "si può ragionevolmente ritenere che quella degli enti non sia una responsabilità penale ma si inserisca in modo originale in un articolato sistema punitivo, di cui quello penale è solo una parte".
Questa Corte ritiene quindi che la volontà del legislatore, come traspare sia dalla legge delega sia dal decreto delegato, fosse quella di introdurre una nuova forma di responsabilità, tipica degli enti: di natura amministrativa, con garanzie procedurali che richiamano quelle processualpenalistiche, con sanzioni innovative in quanto non assimilabili né alle pene né alle misure di sicurezza.
Con la conseguenza che, così definita la natura della responsabilità, non possono porsi questioni di legittimità costituzionale, in particolare l'affermato conflitto con l'art. 27 della Costituzione (e v. anche infra).

La responsabilità dell'ente è modellata con precisione dall'art. 5 citato D.Lgs: "L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse ed a suo vantaggio:
a)da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi."

Nel nostro caso il reato è quello di cui all'art. 25 septies (introdotto dall'art. 9, comma 1, legge 3/8/2007 n. 123, poi riformulato dall'art. 300 del D.Lgs. 81 del 9/4/2008 (modifica relativa alle sanzioni, più favorevole alla persona giuridica, così da applicare al nostro caso): "In relazione al delitto di cui all'art. 589 del codice penale, commesso con violazione dell'art. 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno".
Considerato che la Corte ha ritenuto la responsabilità penale, per il reato di cui all'art. 589 2° comma c.p., anche degli imputati PR. e PU. (oltre che di MO., SA. e CAF.) nel loro ruolo di datori di lavoro (v. capitolo 14) si devono qui applicare la lettera a) del primo comma dell'art. 5 ed il primo comma dell'art. 25 septies (sul documento di valutazione del rischio richiamando il capitolo 9 e ricordando che si tratta di obbligo del datore di lavoro non delegabile).
Per l'accertamento della responsabilità dell'ente il primo presupposto, conseguente alla ritenuta responsabilità penale della persona fisica, per uno dei reati elencati nella parte III del citato D.Lgs., consiste nell'accertamento dell'interesse o vantaggio che ha spinto la stessa persona fisica ad agire (o, come nel nostro caso, ad omettere colpevolmente di agire, secondo il disposto del 2° comma dell'art. 40 c.p.). La legge prevede, in negativo, che la persona fisica non debba avere perseguito un "interesse esclusivo proprio o di terzi"; in positivo, che i reati siano stati commessi nell'interesse ovvero nel vantaggio dell'ente; si potrebbe aggiungere "anche" dell'ente, considerato che ad escludere - in prima battuta, v. infra - la responsabilità di quest'ultimo è l'interesse "esclusivo" proprio della persona fisica o di terzi.
Nel caso di specie, la Corte può con certezza escludere che le condotte colpose mantenute dagli imputati fossero caratterizzate da un interesse "proprio o di terzi"; si può ravvisare un "interesse" o "vantaggio" dell'ente? La Corte ritiene che la risposta debba essere positiva: le gravissime violazioni della normativa antinfortunistica ed antincendio (v. i vari capitoli precedenti), le colpevoli omissioni, sono caratterizzate da un contenuto economico rispetto al quale l'azienda non solo aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il profilo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi intervento nello stabilimento di Torino; oltre che dell'utile contemporaneamente ritratto dalla continuità della produzione.
La Corte ritiene che quanto appena esposto, consistente nel collegare il requisito dell'interesse della persona fisica, dell'interesse o del vantaggio dell'ente non all'evento bensì alla condotta penalmente rilevante della persona fisica corrisponda ad una corretta applicazione della norma ai reati colposi, in particolare a quello di cui all'art. 589 2° comma c.p.; ricordando qui come la responsabilità dell'ente anche per questo reato - logicamente collegato proprio all'organizzazione aziendale - fosse stata, sin dall'origine (v. sopra) considerata dalla legge delega.

Il secondo motivo di esclusione della responsabilità dell'ente (nel caso, come quello di specie, in cui la o le persone fisiche penalmente responsabili siano anche quelle di cui alla lettera a dell'art. 5) si trova all'art. 6: "Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che:
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi".

L'obiezione difensiva sulla "automaticità" della sussistenza della responsabilità dell'ente in caso di omessa adozione del sopra indicato modello, mentre l'elemento soggettivo - dell'ente - dovrebbe consistere nella colpa, ha già trovato convincente e condivisibile risposta nella sentenza della Suprema Corte n. 36083/09: "La tesi della ricorrente si muove all'interno delle categorie tradizionali di responsabilità, mentre il decreto legislativo n. 231/2001, che ha attuato parzialmente la delega prevista dalla legge 29 settembre 2000, n. 300, ha introdotto un nuovo sistema di responsabilità sanzionatorìa, un tertium genus rispetto ai noti e tradizionali sistemi di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo un'autonoma responsabilità amministrativa propria dell'ente, allorquando è stato commesso un reato (tra quelli espressamente elencati nella sezione III del D.Lgs) da un soggetto che riveste una posizione apicale nell'interesse o vantaggio della società (all'art. 5.1 lett. a), sul presupposto che - come efficacemente è stato rilevato in dottrina - il fatto-reato commesso da un soggetto che agisca per la società è fatto della società, di cui essa deve rispondere.
In forza del rapporto d'immedesimazione organica con il suo dirigente apicale, l'ente risponde per fatto proprio, senza involgere minimamente il divieto di responsabilità penale per fatto altrui posto dall'art. 27 Costituzione.
La sussistenza dell'interesse (considerato dal punto di vista soggettivo) o del vantaggio (considerato dal punto di vista oggettivo) è sufficiente all'integrazione della responsabilità fino a quando sussiste l'immedesimazione organica tra dirigente apicale ed ente. Quest'ultimo non risponde allorquando il fatto è commesso dal singolo 'nell'interesse esclusivo proprio o di terzi' (art. 5.2), non riconducibile neppure parzialmente all'interesse dell'ente, ossia nel caso in cui non sia più possibile configurare la suddetta immedesimazione ...
... Originano da questi assunti le inversioni dell'onere della prova e le previsioni probatorie di cui all'art. 6 del D.Lgs. e, specificamente, la necessità che l'ente fornisca innanzi tutto 'la prova che l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a tal fine" (art. 6 lett. a D.Lgs. cit.) ...
... La mancata adozione di tali modelli, in presenza dei presupposti oggettivi e soggettivi sopra indicati (reato commesso nell'interesse o vantaggio della società e posizione apicale dell'autore del reato) è sufficiente a costituire quella 'rimproverabilità' di cui alla relazione ministeriale al decreto legislativo e ad integrare la fattispecie sanzionatoria, costituita dall'omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose.
In tale concetto di 'rimproverabilità' è implicata una forma nuova, normativa, di colpevolezza per omissione organizzativa e gestionale, avendo il legislatore ragionevolmente tratto dalle concrete vicende occorse in questi decenni, in ambito economico e imprenditoriale, la legittima e fondata convinzione della necessità che qualsiasi complesso organizzativo costituente un ente ai sensi dell'art. 1.2 D.Lgs. cit., adotti modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire la commissione di determinati reati ...
In conclusione, dall'esame del D.Lgs n. 231/01 e particolarmente dagli artt. 5 e 6, scaturisce il principio di diritto secondo cui l'ente che abbia omesso di adottare e attuare il modello organizzativo e gestionale non risponde per il reato ... commesso dal suo esponente in posizione apicale soltanto nell'ipotesi di cui all'art. 5.2 D.Lgs. cit."


Nel caso di specie il richiesto "modello di organizzazione e di gestione" idoneo a "prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi", cioè il reato di cui all'art. 589 2° comma c.p., non era stato da THYSSEN KRUPP AST s.p.a. neppure adottato al 6/12/2007.
Il dato è incontestabile in quanto emerge documentalmente: solo durante il Consiglio di Amministrazione del 21/12/2007 (v.) erano state approvate le modifiche del preesistente "modello organizzativo" aggiungendovi le parti relative proprio all'omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche.
La difesa sostiene che il "modello organizzativo" esisteva di fatto perché la sua elaborazione, iniziatasi già nel mese di agosto 2007, era terminata alla riunione del 30/10/2007, durante la quale il "modello" aveva assunto gli stessi contenuto e forma poi approvati dal C.d.A. il successivo 21/12/2007; inoltre, sempre secondo la difesa, tale "modello" era già stato divulgato all'interno dell'azienda ed era già stato attuato, considerato che alla riunione del 30/10/2007 aveva partecipato anche l'avv. DE.VO., membro dell'organismo di vigilanza (v. lettera b, 1° comma citato art. 6). Anche seguendo sull'argomento il c.d. "principio di effettività" e, quindi, superando in tale prospettiva il dato formale della non avvenuta adozione del "modello" da parte dell'organo competente, in epoca precedente rispetto al verificarsi del reato, la Corte deve osservare che gli elementi emersi in dibattimento escludono che tale "modello" sia stato divulgato ed, ancor meno, sia stato attuato prima del 6/12/2007. Infatti, come apprendiamo dal teste AD. P. (dalla fine del 2006 ed in allora segretario del Consiglio di Amministrazione di TK AST, v. udienza 26/3/2010), se è vero che il testo approvato il 21/12/2007 corrispondeva a quello redatto nella riunione del 30/10/2007, solo con la delibera del C.d.A. del 21/12/2007 ai due precedenti membri dell'organismo di vigilanza (DE.VO. e RAD.) era stato affiancato - proprio per la competenza in materia antinfortunistica - l'ing. CAM. (v. infra); tanto che lo stesso teste AD., alla precisa domanda della difesa, onestamente risponde: "non so se il modello organizzativo per l'omicidio colposo fosse già stato efficacemente attuato". E che, prima del 21/12/2007, non vi fosse ancora stata alcuna "attuazione" del "modello" lo conferma proprio il teste CAM. F. (responsabile ecologia, ambiente, sicurezza dal 2003, a Terni; v. udienza 26/3/2010) che riferisce: " ... sono entrato a far parte dell'organismo di vigilanza nel dicembre 2007 o gennaio 2008 ... dal punto di vista OPERATIVO, abbiamo cominciato a fare audizioni, ispezione ... nei PRIMI MESI DEL 2008, in materia di sicurezza sul lavoro".
Sul punto, non appare necessario aggiungere altro; la Corte ritiene inoltre che, in questa parte, non rilevi procedere ad esaminare nel merito il "modello organizzativo" la cui adozione formale e la cui attuazione è certamente successiva al verificarsi del reato per cui si procede.

Si deve ancora dichiarare la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai difensori con riguardo alla "presunzione di colpevolezza", emergente dagli articoli 5, 6 e 7 del citato D.Lgs.; con riguardo alla "indeterminatezza" dei "modelli" prescritti, emergente dagli articoli 6 e 7.
Entrambe le questioni presuppongono la natura sostanzialmente "penale" della responsabilità dell'ente, che la Corte ha già avuto modo di escludere.

La Pubblica Accusa contesta alla persona giuridica THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p.a., in persona del Presidente pro-tempore del Consiglio di Amministrazione (J. FE.): "l'illecito amministrativo di cui all'art. 25 septies del D.Lgs. 8/6/2001 n. 231 dipendente dal reato di omicidio colposo aggravato di cui al capo D commesso in Torino il 6, il 7, il 16, il 19 ed il 30 dicembre 2007 da PU. M., PR. G., MO. D., SA. R., CAF. C., nelle rispettive qualità ivi indicate, nell'interesse e a vantaggio della THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p. a. ".
La Corte deve osservare la forma estremamente succinta del riportato capo di incolpazione; nondimeno, non ravvisa alcun profilo di nullità, cui hanno accennato i difensori della persona giuridica peraltro solo nel corso della loro discussione finale, osservando l'indubbia comprensibilità ed effettiva comprensione della contestazione, tanto che gli stessi difensori hanno svolto una interessante ed approfondita discussione anche nel merito, confutando il rimprovero rivolto dalla Procura della Repubblica nei confronti della THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p.a. (v., in particolare udienza del 25/1/2011).
Come si è già sopra indicato, è applicabile al caso di specie il 1° comma del citato articolo 25 septies; perché, come abbiamo diffusamente esposto, il reato di cui all'art. 589 c.p. è stato qui commesso anche dai datori di lavoro PR. e PU. (v. capitolo 13) e non solo, in generale, con violazione delle norme antinfortunistiche, ma specificamente con violazione anche dell'art. 4 D.Lgs n. 626/94, quindi dell'obbligo inerente la valutazione del rischio ed il relativo documento (v. capitolo 9).
È interessante qui ricordare l'insegnamento della Suprema Corte anche in materia di sanzioni (v. sentenza, citata, n. 26654/08): "Il sistema sanzionatone-proposto dal D.Lgs n. 231 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto penale -per così dire - 'nucleare', incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie, ed è rapportato alle nuove costanti criminologiche delineate nel citato decreto. E sistema è 'sfaccettato', legittima distinzioni soltanto sul piano contenutistico, nel senso che rivela uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare, opera certamente sul piano della deterrenza e persegue una massiccia finalità specialpreventiva.
La tipologia delle sanzioni, come si chiarisce nella relazione al decreto, si presta ad una distinzione binaria tra sanzione pecuniaria e sanzioni interdittive; al di fuori di tale perimetro, si collocano inoltre la confisca e la pubblicazione della sentenza.

... L'art. 9/1° lett. c) prevede la confisca come sanzione, il cui contenuto ed i cui presupposti applicativi sono precisati nell'art. 19/1°, che testualmente recita: 'Nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato ... '. Il secondo comma di quest'ultima disposizione autorizza la confisca anche nella forma per equivalente, replicando lo schema normativo di disposizioni già presenti nel codice penale o in leggi penali speciali.
Chiara, quindi, la configurazione della confisca come sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre pure previste nel decreto in esame.
... Quanto al profitto, oggetto della misura ablativa, osserva la Corte che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del tipo di 'profitto lordo' o 'profitto netto' ... il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo quindi un'ampia 'latitudine semantica' da colmare in via interpretativa.
... La vigente normativa italiana ... utilizzando un lessico che sotto il profilo semantico lascia ampi spazi, affida all'interprete il compito d'individuare, nell'ambito del complessivo sistema, il contenuto e la portata dell'oggetto della confisca.

Il profitto del reato, in definitiva, va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l'utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico.
La confisca del profitto di cui all'art. 19 D.Lgs n. 231/01, concepita come misura afflittiva che assolve anche una funzione di deterrenza, risponde sicuramente ad esigenze di giustizia e, al contempo, di prevenzione generale e speciale, generalmente condivise. Il crimine non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del 'profitto netto' finirebbe per riversare sullo Stato, come incisivamente è stato osservato, il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l'ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica.".


La difesa ha sollevato anche sulle sanzioni una questione di illegittimità costituzionale: affermando l'irragionevolezza complessiva del sistema sanzionatorio previsto dal D.Lgs 231/2001, che emergerebbe in particolare confrontando le sanzioni più contenute nei confronti dell'ente quando il reato commesso dalla persona fisica sia un grave delitto doloso - come, per esempio, la previsione dell'art. 25, per le ipotesi di concussione e di corruzione - a fronte di sanzioni più gravi per l'ente quando il reato commesso dalla persona fisica sia invece di natura (solo) colposa, come nel caso di specie secondo la previsione dell'art. 25 septies. La Corte deve qui ribadire, come già esposto, che le sanzioni non sono di natura penale; aggiungendo che proprio il criterio seguito dal legislatore nel determinare le sanzioni a carico dell'ente ne disvelano la diversa natura e, in forza di questa, l'intrinseca "ragionevolezza" nel parametrarle diversamente rispetto alle pene previste per la persona fisica. Se infatti per quest'ultima l'elemento soggettivo doloso è intrinsecamente più grave e quindi prevede pene più severe, la diversità della responsabilità dell'ente rimane indifferente all'elemento soggettivo della persona fisica e si accentra invece sulla maggiore gravità della responsabilità dell'ente quando, pur trattandosi di reato colposo, esso - come nel caso dell'art. 25 septies -riguardi la normale, quotidiana attività dello stesso ente, sia quindi - come si è già sopra accennato - "logicamente" collegato alla sua organizzazione e gestione, come senz'altro è il rispetto della normativa antinfortunistica, con la conseguente tutela dell'incolumità delle persone che in quell'ente prestano la loro attività lavorativa.
La Corte ritiene quindi manifestamente infondata anche questa proposta eccezione di illegittimità costituzionale.
Venendo all'applicazione delle sanzioni, si deve ricordare che l'indicazione di "1.000 quote" di cui all'art. 25 septies consente al Giudice di comminare una sanzione pecuniaria variabile in un ampio spettro che parte da un minimo di € 258.000,00 ad un massimo di € 1.549.000,00 (v., secondo l'art. 10 l'importo di una quota va da un minimo di € 248,00 ad un massimo di € 1.549,00).
I parametri in base ai quali la sanzione pecuniaria deve essere commisurata si trovano all'art. 11; il legislatore ha già determinato, come si è indicato, la sanzione pecuniaria nel caso di cui all'art. 589 2° comma c.p. nel massimo di mille quote; si deve osservare che, anche senza tale previsione legislativa, la gravità del caso di specie, in cui hanno trovato la morte sette lavoratori, avrebbe comportato univocamente la stessa commisurazione; al secondo comma del citato articolo 11, per la determinazione dell'importo della quota, si prescrive che sia fissato "sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente allo scopo di assicurare l'efficacia della sanzione"; come più volte ricordato, nel caso di specie l'ente THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p.a. è parte di una multinazionale tra le principali del mondo; la Corte ritiene quindi congruo, allo scopo indicato dal legislatore, determinare la sanzione pecuniaria in € 1.500.000,00 (un milione cinquecentomila euro).
La difesa chiede l'applicazione delle riduzioni di tale sanzione secondo il disposto del secondo e terzo comma dell'art. 12 D.Lgs citato.
Certamente spetta all'ente la riduzione secondo la lettera a) del 2° comma dell'art. 12: "l'ente ha risarcito integralmente il danno"; si tratta - come appare evidente e come ritenuto anche dalla Corte di Cassazione nella citata sentenza n. 36083/09 - di un'attenuante del tutto analoga a quella di cui all'art. 62 n. 6 c.p. Abbiamo già ricordato come risulti documentalmente avvenuto, prima dell'apertura del presente dibattimento, il risarcimento agli stretti familiari delle vittime.
Questo secondo comma prevede una riduzione da un terzo alla metà; la Corte ritiene congruo operare la riduzione di un terzo: se è vero infatti che il risarcimento è stato ingente - non si intende complessivamente, bensì con riguardo a ciascuna famiglia dei sette lavoratori - nondimeno la gravità complessiva, anche sotto il profilo della responsabilità organizzativa e gestionale dell'ente, è tale da non permettere una più ampia riduzione.
Così la sanzione pecuniaria deve essere definitivamente determinata in € 1.000.000,00 (un milione di euro).
Infatti la Corte ritiene che non si possa applicare il terzo comma dell'art. 12, che prevede la riduzione della sanzione pecuniaria nel caso concorra, oltre al sopra ritenuto risarcimento del danno, anche la circostanza che, prima dell'apertura del dibattimento, sia stato adottato e reso operativo "un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi". Sotto questo profilo - sanzionatorio - la Corte deve quindi accertare, in questo caso temporalmente sino all'apertura del presente dibattimento (febbraio 2009), se il "modello organizzativo" fosse stato adottato, fosse stato reso operativo e fosse idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi.
Ebbene, anche sotto questo profilo non appare necessario che la Corte esamini ex professo il modello organizzativo adottato con la citata delibera del Consiglio di Amministrazione del 21/12/2007, verificandone l'idoneità a prevenire reati di cui all'art. 589 2° comma c.p.; perché la Corte ritiene che, in ogni caso, tale "modello" non fosse stato, nell'arco temporale dall'evento all'apertura del presente dibattimento, efficacemente attuato. Il motivo emerge dalle dichiarazioni del già citato ing. CAM. e testimonia come, purtroppo, nonostante la tragedia avvenuta il 6 dicembre 2007, i vertici di THYSSEN KRUPP AST s.p.a. continuassero ad occuparsi con superficialità e scarsa attenzione della sicurezza sul lavoro. Quanto affermato emerge proprio dalla nomina, quale membro dell'organismo di vigilanza di cui all'art. 6 lettera b), organismo di vigilanza che, secondo la legge, deve essere "dotato di autonomi poteri di vigilanza e di controllo", allo scopo di implementare tale organismo con un membro "competente" in materia antinfortunistica, dello stesso ing. CAM.: senza neppure preoccuparsi - per questo la Corte si permette di indicare tale scelta come "superficiale e poco attenta" - del fatto, evidente, che il membro deputato ad efficacemente vigilare sull'adozione del "modello" in materia antinfortunistica era lo stesso dirigente del settore ecologia, ambiente e sicurezza; in sostanza, l'ing. CAM., come membro dell'organo di vigilanza, doveva controllare il suo stesso operato.
La circostanza emerge senza possibilità di equivoco dalla testimonianza dell'ing. F. CAM. (v. udienza 26/3/2010): "Io sono attualmente (e dal 2003, n.d.e.) responsabile dell'ente denominato Ecologia, Ambiente e Sicurezza ... il mio ufficio ha due settori. Una parte si occupa di ambiente e una parte di sicurezza ... per quanto riguarda la parte sicurezza, c'è la RSTP alle mie dipendenze con i tecnici ASTP che si occupano di sicurezza ... "; a precisa domanda del Pubblico Ministero, sul fatto che egli dovesse "vigilare anche su se stesso" l'ing. CAM. risponde: " ... io ... le confesso ... che ho avuto qualche dubbio su questo ... visto che siamo in Italia. Conflitto di interessi è una locuzione che va di moda. Però ecco ne ho parlato con il nostro legale ... ne parlai con l'avv. DE.VO. ... Lui mi ha detto che la mia presenza all'interno dell'organismo di vigilanza aveva un po' il compito di fluidificare, di fare un po' diciamo da tramite ... io faccio ancora parte, sì (dell'organismo di vigilanza, n.d.e.)".
Quindi l'ing. CAM., dirigente responsabile del settore sicurezza sul lavoro, entra a far parte dell'organismo di vigilanza di cui all'art. 6 lettera b) nel dicembre 2007, proprio per la sua competenza in materia di sicurezza e, nonostante i fondati dubbi, da lui stesso sollevati, sulla sua contraddittoria funzione di controllore e di controllato, vi permane certamente oltre la dichiarazione di apertura del presente dibattimento (febbraio 2009), quantomeno sino alla data in cui ha reso la sua testimonianza (26/3/2010).
La Corte ritiene che questa circostanza, di per sé sola, induca a ritenere che il modello adottato, nel periodo preso in considerazione, non poteva essere stato reso operativo, tanto meno in modo efficace, sottolineando che tale organismo deve essere dotato, secondo il citato art. 6, di "autonomi poteri di iniziativa e di controllo": non è necessario spendere ulteriori parole sulla "autonomia" del controllore quando è la stessa persona fisica del controllato.

L'art. 25 septies, come si è sopra indicato, prevede nell'ipotesi del primo comma, corrispondente al caso di specie, anche l'applicazione delle sanzioni interdittive "di cui all'art. 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno"; l'art. 9 comma 2 elenca le seguenti sanzioni interdittive: "a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi".
Secondo il successivo articolo 13 le sanzioni interdittive "si applicano in relazione ai reati per i quali sono espressamente previste": e l'art. 25 septies lo prevede; ma purché ricorra - anche - almeno una delle condizioni indicate nello stesso articolo 13. Nel caso di specie, non ricorre la lettera b); ricorre invece, ad avviso della Corte, la lettera a) che recita: "l'ente ha tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale ovvero da soggetti sottoposti all'altrui direzione quando, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative". Allora, il fatto che a commettere il reato siano stati soggetti in posizione apicale - PR. e PU. - oltre che sottoposti agevolati da gravi carenze organizzative - MO., SA. e CAF. - è già stato affermato e non necessita di ulteriori precisazioni; il fatto che l'ente abbia tratto da tale reato - come si è sopra indicato, dalla condotta omissiva che ha causato tale reato - un profitto di rilevante entità è stato già sopra accennato, riferendosi all'indubbio "vantaggio" - corrispondente ad un "rilevante profitto" che THYSSEN KRUPP AST s.p.a. ha tratto dall'avere risparmiato le somme necessarie per effettuare, nello stabilimento di Torino, gli indispensabili ed obbligatori interventi di "fire prevention", oltre che dall'avere continuato la produzione nello stesso stabilimento, con l'utile che ne è conseguito. Si deve qui richiamare l'analisi sulla natura di tale "profitto" emergente dalla sopra citata sentenza della Corte di Cassazione, in particolare laddove afferma che: "Il profitto del reato, in definitiva, va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l'utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico".
Aggiungendo alcune considerazioni tanto ovvie quanto, forse, necessarie: che tale profitto, nel caso di specie, del reato colposo di cui all'art. 589 2° comma c.p., non deve certo essere collegato all'evento bensì alla condotta che lo ha causato (e v. anche sopra); che la determinazione, in concreto, di tale profitto, poteva essere agevolmente indicata dalla THYSSEN KRUPP AST s.p.a., mettendo a disposizione pari somma come previsto dalla lettera c) dell'art. 17 (v. infra); che, in mancanza di tale determinazione, di nessun rilievo appare una consulenza tecnica affidata ad un prestigioso professionista esterno; che, in mancanza di tale determinazione, la Corte non può che attestarsi sul profitto "minimo", corrispondente alla somma indicata per la - prima e non definitiva - messa in sicurezza della linea 5 dello stabilimento di Torino, pari ad € 800.000,00 (v. sopra, vari capitoli), non disponendo di sufficienti dati per indicare anche quanto THYSSEN KRUPP AST s.p.a. abbia guadagnato continuando la produzione nello stabilimento di Torino.
La somma così determinata di ottocentomila euro può ritenersi di "rilevante entità"? Se fosse valutata in relazione alla grandezza economica di THYSSEN KRUPP AST s.p.a. si potrebbe anche rispondere di no; ma la Corte ritiene che tale valutazione debba essere riferita a criteri oggettivi generali, così da non privilegiare l'ente che abbia maggiori disponibilità economiche, rispetto all'ente dotato di minori risorse. La risposta deve pertanto essere positiva.
I difensori chiedono che non sia applicata a THYSSEN KRUPP AST alcuna sanzione interdittiva in forza dell'appena citato articolo 17; la Corte osserva che tale articolo esclude appunto l'applicazione delle sanzioni interdittive nel caso che, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (nel nostro caso, come si è indicato, febbraio 2009), concorrano tutte e tre le condizioni indicate nello stesso articolo; nel caso di specie, ricorre solo la prima condizione, di cui alla lettera a) che riguarda l'integrale risarcimento del danno (v.); non ricorre né la condizione di cui alla lettera b) che riguarda di nuovo l'adozione e l'attuazione del "modello" organizzativo idoneo (v. subito sopra), né la condizione di cui alla lettera c), che riguarda la messa a disposizione, da parte dell'ente, del "profitto conseguito ai fini della confisca".
Ricorrono pertanto tutte le condizioni previste dalla legge per l'applicazione, nel caso di specie, alla THYSSEN KRUPP AST s.p.a., anche delle sanzioni interdittive.
La Corte è ben consapevole della importanza e della delicatezza di tali sanzioni, che possono pesantemente incidere su di una realtà produttiva di grandi dimensioni e nella quale lavorano migliaia di persone; d'altro canto, oltre ad essere l'applicazione anche di tali sanzioni imposta dalla legge, come appena esposto, non vi è dubbio che proprio all'ente e proprio nel caso di specie si debbano fondatamente rimproverare gravi carenze organizzative e gestionali in materia di sicurezza sul lavoro, causalmente collegate all'evento; oltre, come si è subito sopra esposto, ad una mancanza di attenzione a tale materia che è perdurata anche dopo il tragico evento.
Appare congruo quindi applicare a THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p.a., esaminato l'art. 14 citato D.Lgs., la sanzione interdittiva di cui alla lettera d) (nel dispositivo è erroneamente indicata la lettera a) dell'art. 9, consistente nella sua esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi pubblici per la durata di mesi sei; oltre alla sanzione interdittiva di cui alla lettera e) stesso articolo, del divieto di pubblicizzare beni o servizi sempre per la durata di mesi sei.
Ai sensi dell'art. 19, richiamando quanto già sopra esposto, si deve confiscare la somma di € 800.000,00 (ottocentomila euro).
Ai sensi dell'art. 18 D.Lgs. 213/2001 appare altresì congruo disporre, ricorrendone il presupposto, la pubblicazione della presente sentenza, per estratto e per una volta, sui principali quotidiani a diffusione nazionale: "LA STAMPA", "IL CORRIERE DELLA SERA", "LA REPUBBLICA", oltre a disporre l'affissione, sempre per estratto, nel comune di Terni, in cui THYSSEN KRUPP ACCIAI SPECIALI TERNI s.p.a. ha la principale sede italiana.