Responsabilità dell'ex sindaco di Sicignano degli Alburni per il suicidio di un dipendente comunale.

Il dirigente scolastico, prossimo alla pensione, dovrà scontare 3 anni e mezzo di reclusione. “E’ il primo caso di mobbing con suicidio in Italia” affermano gli avvocati della parte civile per la famiglia della vittima, morto suicida nel 2002, all’età di 42 anni.

Assolti per insufficienza di prove gli altri due imputati ossia il vicesindaco e l'assessore al personale fino al 2006.

L’accusa per i tre imputati era di abuso dei mezzi di correzione.


 

 

INDICE

 

Svolgimento del processo

Sintesi dei fatti

a) il giorno del suicidio

b) le lettere lasciate dal suicida

c) un primo approccio teorico alla tematica del mobbing

d) gli accadimenti nella vita di S. D. (in sintesi)

Criteri valutativi delle prove

a) i testimoni

b) le dichiarazioni delle persone offese e degli imputati

c) le intercettazioni private

d) i documenti

e) le memorie difensive.

Le investigazioni difensive non depositate

I fatti visti e narrati dai testimoni

a) i primi testi escussi: P., M., N.

b) gli altri testi del PM -anche comuni alla difesa degli imputati- della parte civile

c) i testimoni della difesa degli imputati, ed altri

Le conversazioni registrate su microcassette audiofoniche

Rilevanza giuridica ed analisi critica dei singoli episodi.

Nozione e ricostruzione della fattispecie incriminatrice contestata.

Le consulenze tecniche psicologiche

Le dichiarazioni degli imputati e le tesi difensive alternative

L’aggravante del secondo comma dell’art. 572 cp

Il giudizio di responsabilità  

Trattamento sanzionatorio. Parti civili e responsabile civile  

Dispositivo  

 

 

 

 

 

 

N. 21/2005 Reg. Gen. Corte Assise N. 21027/02 GIP.

N 11/2008 R.G. Sent. Corte Assise N. 5966/02 RNR

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CORTE DI ASSISE DI SALERNO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

§§§§§§§

 

L’anno DUEMILAOTTO il giorno VENTI del mese di GIUGNO

 

 

La Corte di Assise di Salerno,

composta dai giudici:

 

1) Dr. Francesco Giulio FREGA PRESIDENTE

2) Dr. Attilio Franco ORIO Giudice a latere

3) Sig.ra Vincenza DE NIGRIS Giudice Popolare

4) Sig. ra Teresa SAMM. “ “

5) Sig.ra Mariapia C. “ “

6) Sig.ra Antonietta SANTANGELO “ “

7) sig.ra Antonietta SANSEVERINO “ “

8) sig.ra Maria Nobile VITOLO “ “

In esito a pubblico dibattimento tenutosi con l’intervento del Pubblico Ministero, rappresentato dal Dott. Ernesto SASSANO Sost. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S. e con l’assistenza del Cancelliere C1, sig.ra Anna Maria  RONGA ha pronunciato la seguente

 

 

S E N T E N Z A

 

 

 

C O N T R O

 

1) P. DOMENICO, n. a Sicignano degli Alburni il 24/2/1939 – difeso dall’avv. Silverio SICA del Foro di S.

LIBERO PRESENTE

2) C. VITOANTONIO, n. a Sicignano delgi Alburni il 5.8.1954 – difeso dall’avv. Silverio SICA del Foro di S. e dall’avv. Sebastiano TANZOLA del Foro di Sala Consilina

 

LIBERO  PRESENTE

 

3) T. FELICE, n. a Sicignano degli Alburni il 26/9/1954 – difeso dall’avv. Sebastiano  TANZOLA del Foro di Sala Consilina

LIBERO PRESENTE

 

 

 

I M P U T A T I

a)     per il delitto di cui agli artt. 110, 572 co. 1 e 21 C.P. perché, in concorso tra loro il P. in qualità di Sindaco del Comune di Sicignano degli Alburni, e datore di lavoro, il C. in qualità di Vice Sindaco ed il T. in qualità di Assessore del medesimo Comune, entrambi di fatto preposti dal P. al controllo dello S., reiteratamente nel corso degli anni ed in particolare dal maggio-giugno 2001 al 23/3/2002, data della morte per impiccagione di S. D., maltrattavano nel ristretto ambito lavorativo del suddetto Comune lo S..

In particolare il P. in qualità di datore di lavoro dello S. impiegato quale operatore ecologico presso  il Comune di Sicignano degli Alburni e gli altri due in qualità di preposti di fatto da questi all’esercizio della vigilanza sul lavoratore ponevano in essere con abituale frequenza una condotta caratterizzata da continue, sistematiche e  gravissime vessazioni, mortificazioni, umiliazioni pubbliche, minacce di licenziamento assillanti quanto immotivati controlli circa la corretta esecuzione della prestazione lavorativa attraverso continui pedinamenti e addirittura appostamenti notturni. In particolare gli indagati tra gli innumerevoli atti di vessazione, in un’occasione, allorchè lo S. lamentava disturbi di stomaco, costringevano lo stesso a rimanere al loro cospetto fin quando non aveva lo stimolo di andare  in bagno e poi lo facevano seguire in bagno da C. Vitantonio per assistere e verificare.

Ovvero in altra occasione, chiamavano lo S. al telefono in ore serali e precisamente durante la festa del 18° anno del figlio, per ordinargli di andare subito a chiudere la locale rete idrica, nonostante lo stesso non fosse tenuto alla reperibilità. Ancora in altra occasione si appostavano alle cinque di mattina all’interno della locale scuola elementare per verificare se lo S. si presentava al lavoro all’ora prevista. Con l’aggravante di aver  determinato la morte per suicidio dello S..

 

Fatto commesso in Sicignano degli Alburni fino al 23/03/2002.

 

 

 

FattoDiritto 

 

 

In data 27/4/2005 il G.U.P. presso il Tribunale di S. emetteva decreto che dispone il giudizio nei confronti di P. Domenico, C. Vitoantonio e T. Felice perché rispondessero in ordine al delitto loro ascritto in rubrica.

All’udienza dibattimentale del 9/11/2007, celebratasi innanzi alla Prima Sezione di Corte d’Assise nella attuale composizione (autorizzata l’astensione del giudice a latere e designato il giudice supplente secondo le disposizioni tabellari all’epoca vigenti), verificata la regolare costituzione delle parti, presenti gli imputati P. e T. ed assente il C. (per motivi di salute ma rinunciante a far valere l’impedimento), presenti le parti civili S. Vincenzo e S. Fabio (già costituitesi per l’udienza preliminare) ed assente la parte civile M. Luisa (costituitasi in giudizio con atto depositato alla precedente udienza del 19/10/2007), nonché rilevata la rinuncia all’azione civile ad opera di P. Angela (già costituitasi per l’udienza preliminare), e costituitosi il responsabile civile -Sindaco p.t. del Comune di Sicignano degli Alburni, personalmente presente- su citazione richiesta dalle parti civili ed autorizzata dalla Corte alla precedente udienza del 19/10/2007 (differita proprio per il perfezionamento dei termini di rito per la citazione del responsabile civile) giusta decreto del 12/10/07, il Presidente, constatata la carenza di proposizione di questioni preliminari, dichiarava aperto il dibattimento e dava lettura del capo di imputazione; quindi invitava le parti ad illustrare i rispettivi mezzi di prova: il Pubblico Ministero chiedeva di poter provare i fatti illustrati nel capo di imputazione attraverso l’escussione dei testi di lista, gli atti irripetibili già presenti nel fascicolo per il dibattimento (verbale di sopralluogo, rilievi fotografici ed esame esterno cadaverico), la produzione documentale concernente tre manoscritti di S. D. rinvenuti il giorno del suicidio, una nota datata 28/12/2001 degli assessori C. e T. diretta al Sindaco ed una nota del 17/12/2001 a firma del Tenente N., entrambi atti relativi ad una vicenda di timbratura del cartellino marcatempo, un certificato medico del dott. P. del 21/3/2002, tre cassette di registrazione audio con relative consulenze tecniche di trascrizione, il fascicolo personale del dipendente comunale S. D., atti di una contestazione di addebiti del 1996 a carico dello S. e relativi al rapporto con la precedente amministrazione comunale; le parti civili nell’interesse degli S. chiedevano l’ammissione di propri testi di lista e la produzione documentale concernente una scrittura privata relativa alla cessione dell’esercizio commerciale adibito a bar intestato alla vedova dello S., una relazione medico legale sulle condizioni psicologiche del figlio minore, S. Simone, con certificazioni mediche ed attestazioni di spese sanitarie, una prescrizione medica del dott. P. datata 7/1/2002, la copia di una comparsa di risposta redatta nell’interesse di ing. D’A. Ferdinando chiamato in causa in un giudizio civile dal difensore di P. e T., la copia di un fascicolo processuale a carico di T. Gerardo Vincenzo per i fatti di truffa e falso relativi alla timbratura del cartellino marcatempo dello S.; la parte civile nell’interesse di M. Luisa chiedeva la produzione di documentazione concernente una vicenda processuale di maltrattamenti contestati al P. in altro ambito (scolastico); la difesa del responsabile civile chiedeva il controesame dei testi e degli imputati; la difesa degli imputati chiedeva l’ammissione dei propri testi di lista, l’esame degli imputati, e non si opponeva alla produzione di documentazione relativa ad un precedente disciplinare a carico dello S. né alla trascrizione delle conversazioni registrate privatamente sui nastri depositati al fascicolo delle indagini preliminari, né alle altre produzioni della parte civile, ad eccezione della comparsa di costituzione e risposta ed alle investigazioni difensive svolte nel procedimento penale a carico del T. per il reato di truffa.

 

La Corte, valutata la pertinenza delle pur numerose prove testimoniali (molte delle quali in comune fra accusa e difesa) e preso atto dell’accordo delle parti sulla maggior parte delle prove documentali e della loro pertinenza e rilevanza, le ammetteva facultando per le prime al reciproco controesame e per le seconde restituendo i soli atti sui quali vi era stato dissenso della difesa (atti che, peraltro, non sono propriamente e tecnicamente dei “documenti”, come rammentato nell’ordinanza istruttoria dettata a verbale di udienza, stante la ripetibilità delle dichiarazioni rese in sede di investigazione difensiva nel corso di altro procedimento -quello per il reato di falso a carico del T. - e la natura di atto difensivo per la comparsa di costituzione del terzo chiamato in causa -nel giudizio civile risarcitorio- idoneo ad illustrare soltanto l’esistenza di una pendente azione civile promossa da P. Angela, circostanza per altra via già nota al processo stante la rinuncia alla costituzione di parte civile); sul consenso delle parti si acquisivano gli atti delle indagini preliminari del procedimento penale a carico del T. sotto il profilo della mera documentazione relativa alla esistenza di quel procedimento penale, e l’ordinanza di archiviazione con remissione di querela in un procedimento a carico di P. per il delitto di maltrattamenti in ambito scolastico al solo fine di documentare l’esistenza del fatto giudiziario ad esso pertinente.

 

Alla successiva udienza del 12/12/2007, di rinvio dalla precedente del 23/10/2007 differita per adesione dei difensori alla proclamata astensione dalle udienze penali (con conseguente sospensione dei termini di prescrizione), si procedeva alla escussione dei testi P. Angela, M. Luisa e N. Alfonso; quindi l’istruzione dibattimentale proseguiva con l’esame dei testi di lista alle udienze dell’11/1/2008 (N. Francesco Antonio, P. Pietro, C. Francesco, M. Filiberto, S. Raffaele, R. Luigi, R. Angelo Raffaele), del 18/1/08 (M. Antonio, C. Roberto, N. Cosimo Secondo, T. Gerardo ex art. 210 cpp, S. Luigi, R. Filomena), dell’8/2/08 (D’A. Ferdinando, P. Umberto, S. Ciriaco, M. Cosimo, V. Angelo), del 29/2/08 (V. Francesco, D’A. Anna, A. Gennaro, C. Albino, C. Luigi, P. Alessandro), del 12/3/08 (M. Ernesto, R. Domenico classe ’61, R. Domenico classe ’58, R. Filomena, Di I. Pasquale), del 19/3/08 (L. Domenico, il CT medico-legale di parte civile T. Alfonso, C. Erminia, S. Vincenzo, S. Pia), del 28/3/08 (C. Pasquale, T. Pietro, M. Giovanni, L. Francesco), del 7/4/08 (il CT grafologico della parte civile R. Stefania, M. Elena, S. Natalia, L. Maria, O. Giuseppe), dell’11/4/08 (R. Nobile, F. Nicola, O. Donato, M. Maria Gabriella), del 23/4/08 (R. Giacomo, D'A. Mario, V. Elia), del 7/5/08 (C. Antonio, DI F. Giuseppina, G. Fedele), del 12/5/08 (M. Carlo ex art. 195 cpp, L. Pasquale, L. Giacomo), el 16/5/08 (M. Antonello, il CT medico-legale della difesa degli imputati R. Pietrantonio; l’esame dell’imputato P.), del 19/5/08 (l’esame degli imputati T. e C., e dei testimoni ammessi ex art. 507 cpp B. Alessandro, C. Gianfranco, S. Pasquale e di nuovo S. Vincenzo); quindi all’udienza del 13/6/2008, acquisita ulteriore produzione documentale su richiesta delle parti, ad integrazione di quant’altra di volta involta acquisita su accordo delle parti od a seguito di consultazione dei testi nel corso della istruzione dibattimentale, il Presidente dichiarava chiuso il dibattimento ed invitava le parti ad illustrare le rispettive conclusioni, riportate tutte nei verbali di causa; in particolare, il PM, la parte civile M. Luisa ed il responsabile civile discutevano e concludevano all’udienza del 13/6/08; le altre parti civili e la difesa dell’imputato P. concludevano all’udienza del 16/6/08; l’altro difensore degli imputati concludeva all’udienza del 20/6/08; all’esito, la Corte, ritiratasi in camera di consiglio, pronunciava -come da dispositivo- sentenza di condanna per il primo imputato e di assoluzione, con la formula dubitativa, per gli altri due imputati.

 

 

SINTESI DEI FATTI.

 

La presente indagine concerne la verifica della sostenbilità dell’accusa del reato di maltrattamenti sul lavoro compiuti, in vita, ai danni di S. D., dipendente comunale del Comune di Sicignano degli Alburni, sottoposto all’autorità degli amministratori comunali di quell’ente, il Sindaco P. Domenico, il vicesindaco C. Vitantonio, e l’assessore al personale T. Felice, con l’aggravante di averne determinato la morte per suicidio.

 

a)      Il giorno del suicidio.

 

In data 23 marzo del 2002 decedeva in Sicignano degli Alburni il sig. S. D..

Il corpo senza vita del 41enne operatore ecologico dipendente di quel Comune veniva rinvenuto nell’area destinata a garage della propria abitazione situata in frazione Galdo di Sicignano, disteso al suolo in posizione supina, con un cappio alla gola reciso dai primi soccorritori, mentre l’altra metà della corda era ancora legata alla trave di legno della tettoia di copertura del vano; l’uomo era regolarmente vestito (con un maglione, una maglietta bianca intima, un paio di jeans con cintura, un paio di scarpe e calzini) ed al suo fianco v’era una sedia di plastica riversa per terra.

La prima osservazione medica del cadavere, come pure le operazioni di esame esterno e ricognizione compiuti su incarico del PM, conducevano alla causale della morte per impiccagione, stante anche la presenza di un solco con ansa chiusa al collo e l’assenza di altri segni esteriori di lesioni corporee, per cui non si riteneva necessario procedere ad esame autoptico; il consulente medico-legale dott. Z., intervenuto sul posto alle ore 10:15, riferiva altresì che il decesso risaliva a circa 3-4 ore prima dalla sua osservazione, quindi l’evento era collocabile tra le 6:15 e le 7:15 di quella stessa mattina. Questi i dati emergenti dagli atti irripetibili compiuti il 23/3/2002 (verbale di sopralluogo dei CC di Sicignano degli Alburni a cura del M.llo L. e dell’App. M., e la relazione descrittiva dell’esame esterno del cadavere a cura del dott. Z.).

Nel verbale di sopralluogo si annotava, poi, che, ispezionate le stanze dell’adiacente abitazione al fine di ricercare eventuali scritti che potessero motivare l’insano gesto, si rinvenivano all’interno della cucina, al di sopra del caminetto, tre manoscritti di cui tre a penna colore nero ed uno di colore rosso, “riconosciuti quale sua scrittura, con vari messaggi dedicati alla famiglia ed agli amici ed uno diretto ad alcuni componenti l’Amministrazione Comunale circa il loro comportamento nei confronti dei loro dipendenti”.

Il sopralluogo dei CC locali fu richiesto alle ore 7:50 dalla centrale operativa dei CC di Eboli, come risulta dal fonogramma consultato dal teste M.llo L., il quale ha ricordato che il primo intervento fu compiuto da un vicino di casa, N. Francesco Antonio che, allertato dal figlio minore dello S. (Simone, aveva 7 anni), andò di corsa a vedere cosa fosse successo e lo tirò giù allentandone la corda provvedendo poi a chiamare i Carabinieri e ad avvertire i familiari.

Prima dell’intervento del medico legale, ricordava ancora il M.llo L., fu compiuta anche l’ispezione dei luoghi ed in quella occasione, fra tante persone accorse per la notizia appresa di buon mattino nel paese, rinvenne delle lettere aperte, non imbustate, sulla mensola del camino; non ricordava di preciso chi gliele avesse fatte rinvenire, probabilmente erano già trascorsi venti minuti dopo il suo arrivo delle ore 8:00 (analogo ricordo è stato riferito dall’altro Carabinieri intervenuto in loco, l’app. M., il quale ha solo aggiunto che probabilmente fu un parente del defunto, C. Nino ad avvertire il M.llo L. del ritrovamento delle lettere), ma sia i figli che la moglie gli riferirono che erano scritti a grafia del defunto; in quelle circostanze di tempo e di luogo ricordava di aver visto in casa il Sindaco che porgeva le condoglianze alla vedova, P. Angela, e che tuttavia subiva le invettive del figlio. 

 

b)      Le lettere lasciate dal suicida.

 

La mattina del suicidio venivano dunque ritrovate tre lettere, apparentemente redatte dallo S., e venivano acquisite in originale al fascicolo per il dibattimento come produzione documentale del PM. In realtà, processualmente, trattasi di atti di cui per circostanze imprevedibili sia divenuta impossibile la ripetizione, connotato di imprevedibilità riferibile anche in caso di morte dovuta a suicidio, di non è neppure attuabile la ripetizione (arg. ex Cass. Pen., Sez. I, n.2596 del 22/11/02-20/1/03).

Il Contenuto di quei manoscritti, di pronta leggibilità, è chiaro nelle intenzioni suicidiarie, negli affetti ai familiari, nei propositi futuri per i destinatari delle lettere, nelle motivazioni del gesto e nelle attribuzioni di colpe.

Uno scritto rivolto ai propri familiari, così recita: “Angela Vincenzo Fabio Simone Amori miei perdonatemi vi ho voluto sempre un mondo di bene vi lascio perché non ho più la forza di combattere la gente, sono sempre stato un duro ora invece un fragile. Ancora perdonatemi. Vincenzo è un uomo maturo prenderà il mio posto. Fabio crescerà in fretta. Simone sarà il tuo marito. Io veglierò su di voi. Al mio funerale non voglio fiori, un semplice funerale. Tu Angela amore mio sei forte insieme ve la caverete ve lo meritate. Mi scuso se a volte nono stato preso dalla furia nei vostri confronti ma fatto per colpe altrui. Non vendete il bar continuate così, le cose più grandi potrete averle in futuro con il mio sguardo e dopo 7 giorni dalla mia scomparsa dovrete aprirlo perché non è un divertimento ma puro lavoro. A Voi Marito A voi cuccioli miei. Perdono ancora Perdono”; e sul retro “Fallo leggere ai nostri amici. Angela ho ritirato il conto corrente gli assegni sono nel tuo comodino. Lo stipendio se può lo fai prelevare da Alfonso Come così il progetto obiettivo. A papà A Mamma cercate di lasciare loro la casa ne hanno bisogno e lasciate stare soprattutto Angela. Angela vorrei essere tumulato a Sicignano vicino a Voi”.

Un secondo scritto a penna rossa così recita “Il vestito lo voglio normale un pantalone blu con una camicia e maglietta a giro collo. Mi raccomando niente da lutto per voi”.

Un altro scritto a penna nera, così recita: “Dì al Signor Sindaco, C., T. che volevano farmi fuori ci sono riusciti porteranno con loro un grosso rimorso anzi non porteranno proprio niente perché senza cuore. Un saluto di Cuore invece a tutti i miei colleghi di lavoro. Perdonatemi. Al Sindaco dico solo una cosa lasciali lavorare è gente seria, non come te, solo denunce, ricatti, voci alte, cazziate  distrutto una famiglia non farlo ancora. Vergogna”.

La paternità di questi scritti, oltreché essere stata riconosciuta dalla moglie e dal figlio maggiore del deceduto (si vedano, per quel che si dirà in seguito, le loro deposizioni testimoniali) e rammentata dal M.llo L., è stata grafologicamente accertata dal consulente tecnico di parte civile R. Stefania, che ne ha reputato la attribuibilità allo S. D. per la conformità con altri suoi scritti di provenienza certa (le scritture di comparazione utilizzate sono un assegno, un contratto di lavoro del 1999, una richiesta di borsa di studio del 1998, una comunicazione di servizio del 1990, un ordine di servizio del 1997 ed una delega di assicurazione del 1995); il consulente ha anche rilevato da essi un grave stato di turbamento psicologico che non ha inficiato l’idoneità delle scritture alla verifica grafologica; infatti, la dott.ssa R., nell’evidenziare nella sua relazione, “in modo indubitativo un profondo disagio interiore”, ha precisato che “la scrittura di un soggetto affetto da particolari patologie psichiche o fisiche, non subisce variazioni e non sempre visibili ad occhio nudo”, e nel caso di specie la “sofferenza nella conformazione delle lettere non risulterà mai così distante dalla propria scrittura abituale tanto da esserne disconosciuta la paternità”; peraltro, “le deformazioni grafiche non intaccano la struttura intima delle lettere, riguardano, in special modo, l’andatura di insieme del tracciato, mai l’aspetto fisionomico strutturale dei singoli grafemi”.

 

Il consulente rilevava un tratto grafico irregolare, una difformità delle pendenza assiale, un movimento curvilineo incongruo e sproporzionato, l’omissione di accenti e l’assenza quasi totale di punteggiatura, e non da ultimo il “tremore”, consistente in una serie di gesti involontari che, indicanti contrazioni determinate dallo sbilanciamento dei sistemi encefalici relativi all’automatismo grafico, determina una carenza di eumetria nei movimenti. In definitiva gli scritti in verifica denunciano il travaglio fisio-psichico del vergatore che scrive, senza seguire una effettiva logica, ignorando le leggi di successione dei movimenti grafici e conseguendo tracciati abbastanza rigidi, costantemente deformati.

Queste evidenti distonie grafiche non possono essere imputate che al grave stato di turbamento psicologico del vergatore”.

In udienza il consulente ha poi aggiunto che, le firme di comparazione assunte, risalenti a non molto tempo addietro rispetto alle scritture di verificazione, “rivelano uno stato di normalità non presente in maniera completa nelle scritture di verifica”, mentre negli scritti acquisiti si rivelava un “sicuro stato di disagio interiore”; negava, poi, su domande della difesa, che gli accartocciamenti e scosse della scrittura fossero il segno di un limitato controllo degli impulsi, che vi fosse una forte variabilità direzionale nella scrittura, un disordine nella distribuzione degli spazi grafici (rilevato “molto lieve”), che vi fossero degli elementi puntiformi a groviglio; e l’intero tracciato grafico si presentava “abbastanza coerente”, non v’era un ritmo della scrittura a singhiozzo; comunque si trattava di dati non rilevanti; anzi, dalle scritture di comparazione si denotavano segni grafici espressivi di una affrancazione dal modello scolare, indice di una personalità “abbastanza spiccata” che abbia personalizzato la sua scrittura.

Non si rilevavano tratti tipici delle scritture di chi è aduso all’alcool, quali potrebbero essere una scrittura slargata, con delle interruzioni interparola ed interlettera, un disordine generale delle parole e dei singoli grafemi, dati che assolutamente non si riscontravano nel caso di specie; il tremore nello scritto non era di entità tale da denotare una patologia fisica, mentre nel caso di specie si evidenziava uno stato di sofferenza psichica; il consulente, inoltre, escludeva di aver notato in quegli scritti una personalità disturbata, una accentuata emotività, una difficoltà di estroversione, bensì una caratterialità serena e tranquilla, senza disturbi di affettività, anzi, che si trattasse di una persona aperta, socievole, affabile, generosa, lo si desumeva dalla “scrittura destrorsa”, espressione di un patrimonio grafico acquisito e che resta inalterato malgrado una “apparente confusione”; infine, segnalava che nella lettera riferita agli amministratori, probabilmente scritta dopo quella rivolta ai familiari per come in esse si esordisce e per come evincibile psicologicamente, si evidenziava una maggiore tensione nel tratto (“un pochino sì”) rispetto alle altre. Insomma, si trattava di una persona “comunque positiva, la quale però rivela nella estrinsecazione della scrittura sicuramente uno stato di turbamento”, un turbamento compatibile con la condizione di un soggetto “mobbizzato” ma in base allo studio della grafia non si poteva di certo dire che lo S. fosse un soggetto affetto da “mobbing”.

Questo in conclusione, il profilo psicologico risultante all’esito della analisi compiuta dal consulente grafologico.

 

c)      Un primo approccio teorico alla tematica del “mobbing”.

 

Proprio da quest’ultimo aspetto si intende partire. Sin da subito si è parlato di “mobbing”, si è reputato, cioè, di poter incanalare in questo schema letterale neologistico (di origine anglosassone) la vicenda patita dallo S. nei mesi o fors’anche negli anni precedenti al suicidio, atteso il chiaro j’accuse rivolto nella terza lettera destinata al Sindaco (P.) al C. (Vicesindaco) ed al T. (Assessore al personale), coloro cioè che avrebbero portato un “grosso rimorso” per essere riusciti a “far fuori” lo scrivente dipendente comunale, prossimo suicida; d’altronde nel capo di imputazione si fa esplicito riferimento al maltrattamento in ambito lavorativo, per avere gli imputati tenuto, “con abituale frequenza, una condotta caratterizzata da continue, sistematiche e gravissime vessazioni, mortificazioni, umiliazioni pubbliche, minacce di licenziamento, assillanti quantomai immotivati controlli circa la corretta esecuzione della prestazione lavorativa attraverso continui pedinamenti e addirittura appostamenti notturni”. E di recente, la giurisprudenza penale ha anche fornito una significativa definizione del fenomeno, che “presuppone una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”, più prossimo alla fattispecie penale dell’art. 572 cp (maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità), la cui integrazione richiede la ravvisabilità dei parametri di frequenza e durata nel tempo delle azioni ostili al fine di valutarne il complessivo carattere persecutorio e discriminatorio, piuttosto che alla fattispecie dell’art. 582 c.p. come lesioni dovute ad un’alterazione del tono dell’umore (cfr. fattispecie analizzata da Cass. Pen., Sez. 5, Sent. 9/7/07 n.33624).

Un’altra pronuncia della Suprema Corte (Sez. 6, Sent. 10090 del 22/1/2001) ha centrato l’attenzione sulla condotta del datore di lavoro che nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato abbia posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale (come le minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi).

Di certo, non esiste nel nostro ordinamento giuridico la fattispecie tipica del reato di “mobbing” bensì occorrerà inquadrare la condotta dell’agente nell’ambito di altre ipotesi delittuose previste nella disciplina codicistica più tradizionale, come il reato di maltrattamenti (art. 572 cp) o di lesioni personali (art. 582 cp).

Più evoluta è invece la giurisprudenza civilistica sul presupposto che si tratti di una attività causativa di un ingiusto danno per lavoratore dipendente, il cui fondamento si rinviene nella disciplina dell’art. 2043 e ss. cod. civ. ma anche nelle prescrizioni dei contratti di lavoro.

In giurisprudenza civile è stato ritenuto il mobbing come un fatto illecito ravvisato nella “aggressione alla sfera psichica del lavoratore” (Cass. Civ. Sez. lav. 23/3/2005, n.6326), ovvero un fatto riferito “ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, nell’ipotesi in cui la tutela invocata attenga a diritti soggettivi derivanti direttamente dal medesimo rapporto, lesi da comportamenti che rappresentano l’esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità prevista dall’art. 2013 cod.civ.” (Cass. Civ. Sez. Un. 4/5/2004, n.8438).

E trattandosi di lesione alla sfera psicologica, di autostima ed eterostima in ambito lavorativo ed alla immagine professionale del lavoratore, esso è produttivo di un danno esistenziale di natura dinamico-relazionale.

In realtà, nell’accezione enciclopedica più comune (gli argomenti qui sviluppati sono tratti da un facile reperimento nozionistico via internet), il mobbing è un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze) perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psico-fisica dello stesso; può tradursi in espressioni come vessazioni, angherie, persecuzione o anche ostracizzazione, laddove i singoli comportamenti molesti non raggiungono necessariamente la soglia del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell’insieme producono danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza; e più in generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge ad un suo membro, per allontanarlo dal gruppo medesimo.

Dal significato etimologico anglosassone alla pratica emarginante sul lavoro, essa intende riferirsi alla condotta finalizzata ad indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste illegali o immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici o etici).

Si è anche definito un termine entro il quale l’attività persecutoria possa assumere rilevanza giudiziale per le ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie di disturbo da disadattamento lavorativo o post-traumatico da stress, di durata superiore a sei mesi e comunque funzionale all’espulsione del lavoratore.

Va poi sottolineato che l’attività mobbizzante può anche non essere di per sé illecita o illegittima o immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la sommatoria dei singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre danno nel tempo, cioè l’ingiustizia dell’evento lesivo va ricercata valutando unitariamente i diversi atti che, se pur singolarmente considerati non presentano carattere illecito, unitariamente considerati risultano essere molesti ed attuati con finalità persecutorie, tali da rendere penosa per il lavoratore la prosecuzione del rapporto di lavoro; e trattasi di atti, nel senso di comportamenti o provvedimenti, che manifestino abusi dei superiori, isolamento della vittima, privazione della ordinaria collaborazione, dell’usuale dialogo e del rispetto, quali la sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, la dequalificazione delle mansioni, lo svuotamento delle stesse con assegnazione di compiti banali o insignificanti così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, l’adozione di continui rimproveri o richiami espressi anche in privato od in pubblico, la dotazione di attrezzature di scarsa qualità o comodità, le continue visite fiscali in caso di malattia; quindi, un processo di “cancellazione” del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e di relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa. Insomma, si tratta di una attività ostile posta dal datore di lavoro per isolare il lavoratore, demansionarlo, obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.

Sono questi argomenti affrontati anche nelle relazioni di consulenza tecnica rese a cura del dott. R. Pietrantonio (CT della difesa degli imputati che ha ricordato i “canoni” lavoristici delle “costrittività organizzative” come illustrati in una circolare INAIL del dicembre 2003 che riconosce per la prima volta il mobbing fra le malattie professionali; nell’elenco figurano la marginalizzazione dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi con inattività forzata, la mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto, la prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l’impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, l’inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo) e dal dott. T. Alfonso (CT della difesa delle parti civili, che ha evidenziato la “disconferma” del lavoratore, la sua esclusione da un sistema organizzato, quale evento stressante causativo di una “frattura del sé”, nel senso che non ha rilievo l’aggressione del datore di lavoro bensì un isolamento del tipo “tu non esisti”, ed ha anche rammentato la definizione di mobbing secondo quanto emerso dal Gruppo di Lavoro Mobbing istituito nel 2001 dal Ministero del Lavoro come una forma di aggressione caratterizzata da “una serie di atti o fatti manifestamente indesiderati che assumono le caratteristiche di una intenzionale e sistematica forma di violenza psicologica perpetrata nell’ambiente di lavoro per almeno sei mesi, con l’obiettivo di danneggiare, attraverso atti o comportamenti illegittimi, il dipendente od il collega”). Su altri aspetti di rilievo medico-legale e sulle cause del suicidio ci si soffermerà più oltre, allorquando, analizzate le varie fonti di prova, si ritornerà verso una lettura tecnica e psicologica dell’ultimo gesto dello S., espressivo di un vissuto interiore che si tenterà, al fine, di elaborare.

 

d)     Gli accadimenti nella vita di S. D. (in sintesi).

 

Ma che cosa è accaduto allo S. nei mesi (o negli anni) precedenti al suicidio? quali sono le vicende “costrittive” che egli avrebbe subìto sul posto di lavoro e per le quali, nella sua ultima lettera, additava il Sindaco P., il vicesindaco C., e l’assessore al personale T. (gli odierni tre imputati) quali i responsabili del suo insano gesto, coloro che “volevano farmi fuori ci sono riusciti” e che avrebbero portato “grosso rimorso anzi non porteranno proprio niente perché senza cuore” ?. Quali sarebbero gli atti compiuti da quei tre amministratori “solo denunce, ricatti, voci alte, cazziate” dai quali desiderava venissero preservati i suoi colleghi di lavoro al cospetto di un Sindaco al quale rivolgeva l’esortazione di “ lasciali lavorare è gente seria, non come te” e per le cui condotte doveva provare “vergogna” ?.

È questa l’indagine da cui si è partiti; la traccia è stata disegnata dallo stesso suicida, ma, ovviamente, non sono mancate letture alternative di quei fatti che di qui in seguito si andranno ad esaminare, e non sono mancati neppure ulteriori approfondimenti su eventuali cause alternative, non dichiarate nei manoscritti, che potrebbero aver spinto lo S. a togliersi la vita, scavando nella sua vita privata, nelle sue preoccupazioni e nelle sue abitudini. Di tutto si darà conto.

Questa, invece, la serie cronologica degli episodi sui quali si è centrata l’attenzione dell’esame testimoniale:

- è del maggio 1999 un primo episodio su cui si è intrattenuto l’esame di alcuni testi: S., idraulico comunale, è assente dal lavoro in un giorno di ferie; il Sindaco P. lo cerca e, dopo aver contattato la madre, apprende che si trova in un terreno di sua proprietà intento a lavori agricoli, lo convoca d’urgenza; ma lo S. è stato appena punto da un’ape e la moglie lo accompagna al centro di Sicignano ove, sotto le scale del Municipio, incontrano il Vigile S. Raffaele il quale, constatatone lo stato di evidente gonfiore ed appreso il pericolo di uno shock anafilattico, gli consiglia di non recarsi dal Sindaco ma di andare a farsi medicare al Pronto Soccorso

- altro episodio, la sera del 17/8/99 in una festa patronale nella frazione Zuppino del Comune di Sicignano degli Alburni, gli assessori C. e T. richiamano lo S. mentre sta ballando in piazza con la moglie, perché si recasse a chiudere una condotta d’acqua; un battibecco, una parolaccia e si arriva alle mani. Il giorno seguente il Sindaco P. convoca nel suo ufficio l’operaio S. (all’epoca idraulico comunale) e la moglie, li rimprovera e minaccia lui di licenziamento; durante il dialogo fra i tre, registrato dallo S. su una cassetta che la vedova consegnerà al PM dopo la morte del marito, si richiama anche l’episodio della puntura d’ape (dal che si desume la successione cronologica tra i due episodi).

- la sera del 29/5/2001 mentre lo S. con i suoi familiari ed amici si trovano riuniti in un ristorante a Petina per festeggiare il 18° compleanno del figlio Vincenzo, giunge una telefonata dagli uffici comunali (il Sindaco e poi l’ing. D’A.), in cui gli chiedono di recarsi nel territorio comunale (frazione Zuppino) a chiudere una manichetta d’acqua di una tubatura, ma lui e la moglie si oppongono anche perché ben poteva ivi recasi l’altro idraulico comunale C. Albino, territorialmente più vicino rispetto allo S. a svolgere il richiesto incombente. Poi non si è chiarito se S. ci andò, ma “la festa fu rovinata”. E ciò accadeva pochi giorni dopo la rinnovata elezione di P. Domenico quale Sindaco del Comune di Sicignano degli Alburni, del 16/5/2001.

- a settembre 2001 S. chiede l’assegnazione di nuove mansioni, non come idraulico ma come netturbino, per godere di maggiore visibilità e sottrarsi, quindi, alle continue ricerche degli assessori e del sindaco in orari serali ed in giorni di ferie, e ciò anche in vista del progetto di aprire un bar con i suoi familiari in piazza, ed essere quindi più vicini a loro.

- l’11/12/2001 S. dimentica di timbrare il cartellino marcatempo in uscita, e se ne accorgono C. e T. intorno alle ore 17; lui è al bar della moglie e chiede al Comandante dei Vigili Urbani, N. Alfonso, ed al vigile urbano T. (che lo incontrano dopo aver constatato la mancata completa pulizia della piazza del mercato) di timbrare per conto suo, poi gli assessori si accorgono che il cartellino è stato timbrato dopo, ed allora P. convoca S.. Qui ognuno trova una giustificazione, ma S. ammette l’addebito ed è disponibile a non vedersi accreditate le ore di lavoro in più, e se ne va; resta N. che prende le distanze da quel comportamento sebbene il sindaco lo tacciasse di complicità; ed invece il T., che ammette d’aver timbrato lui per conto del dipendente, si prende rimprovero e successiva denuncia insieme con lo S..

- nei venti giorni successivi circola fra i dipendenti comunali la copia della segnalazione senza che essa fosse stata ancora inoltrata alla Procura della Repubblica per falso e truffa, ed alla fine il 29/12/01 la denuncia parte. Tutti lo sanno e S. si duole non per sé o per la minaccia del proprio licenziamento, quanto per il rischio ed il guaio che può passare T. per causa sua.

-il 7/1/2002 (o altra data di lì a poco) c’è l’episodio del controllo fisiologico in bagno: scoperto lontano dagli attrezzi di lavoro per oltre mezz’ora, lo S. viene rintracciato da N. e portato al cospetto del Sindaco; qui lo S. si giustifica dicendo di essersi dovuto allontanare per aver patìto di un attacco di dissenteria ed essersi recato al bagno; ma il Sindaco, alla presenza di assessori e segretario comunale, non gli crede, anche perchè è passata più di mezz’ora da quando lo aveva convocato e se fosse vero che aveva la diarrea ne avrebbe avuto un nuovo stimolo; quindi, o per iniziativa dello S. o per proposta del Sindaco (lo si chiarirà, nei fatti, in seguito), S. si sottopone alla prova empirica di recarsi in bagno e non tirare lo scarico sì da poter far constatare a chi lo avesse controllato la veridicità delle sue condizioni fisiologiche. È fortissima l’umiliazione perché se ne parla in tono ilare al cospetto di sindaco ed assessori, e lo stesso S. dà a vedere di prendere con superficialità la questione e cerca di sdrammatizzare mentre lo racconterà a caldo ai suoi colleghi; ma intanto il Sindaco faceva sul serio, accettò la sfida di predisporre il controllo in bagno, mentre il N. se ne andò via disgustato, ed il C. non ritenne di fare il controllo; e di tutto si è anche parlato in una conversazione, postuma, registrata tra T. e P..

- dopo venti giorni c’è la riunione con il sindaco e rappresentanze dei lavoratori per segnalare i furti nel garage e S. registra (lo aveva già fatto sin dall’agosto 1999, e viene da chiedersi subito che motivo c’è di registrare una conversazione se non si teme qualcosa, ma lo scopo, è chiaro, è quello di precostituirsi una prova a dimostrazione di ciò che si subisce). Poi il dialogo si concentra direttamente tra sindaco e S., ed è evidente che P. sospetta e minaccia proprio lo S..

- altri episodi sono accaduti medio tempore: il controllo mattutino con un appostamento dietro un muretto della scuola, nel mese di settembre 2001, compiuto dagli assessori T. e V. Elia per accertare l’orario di ingresso dei dipendenti agli uffici comunali (l’episodio è ricordato da P., ed il T. ammetterà d’essersi svegliato presto, ma quel giorno S. era in ferie, quindi non è un controllo mirato su di lui); un’altra volta lo vedono con il carrettino sotto la pioggia in piazza ma S. non va a ripararsi perché, a suo dire, dovevano vederlo; un’altra volta chiede un mezzo di trasporto per caricare dei sacchi di cemento ma gli viene risposto bruscamente che doveva usare la carriola; un’altra volta subisce un rimprovero alla presenza di R. Filomena per essersi fermato con lei a parlare ed in quella occasione esclamò di non farcela più e di farla finita; un’altra volta viene rimproverato in una festa popolare alla frazione di Galdo per non aver pulito bene a terra.

 

Per la difesa, invece, ben altri potrebbero essere stati i motivi che avrebbero indotto lo S. al suicidio, come il tradimento della moglie impegnata in una relazione sentimentale con M. Lucio (che diverrà il suo compagno convivente dopo la morte del marito), oppure i contrasti endofamiliari per questioni patrimoniali e divisioni ereditarie, oppure la paura di un male incurabile come un tumore o la cirrosi epatica, oppure la depressione o dipendenza da alcol, oppure la pendenza di problemi economici per il mutuo contratto per l’acquisto del bar. Anche questa versione alternativa dei fatti, su cui si è tanto discusso in dibattimento, costituirà oggetto di approfondita analisi.

 

 

CRITERI VALUTATIVI DELLE PROVE.

 

A)    I testimoni.

 

Sono sfilati tantissimi testi dinanzi alla Corte, rappresentando uno spaccato sociale vario e multiculturale, di sicuro fortemente scosso dalla tristissima vicenda occorsa allo S. D., loro concittadino di una piccola comunità di provincia; ma proprio la molteplicità delle loro esperienze di vita, dirette o riflesse, nei contatti avuti con lo S., con i suoi familiari e con gli esponenti amministrativi locali, consente di visionare a diverse tinte e con diverse tonalità e chiarezza di immagine ogni episodio sul quale si è intrattenuto il pubblico dibattimento. Ciascuno di essi, in sostanza, è portatore della “propria verità”, ciascuno è stato testimone di fatti visti o sentiti a modo proprio o nel tempo proprio, ciascuno ha prestato maggiore o minore attenzione su aspetti forse irrilevanti per alcuni o decisivi per altri, ciascuno ha reputato di poter fornire un “proprio” contributo alla ricostruzione di una vicenda che purtuttavia, per sua natura, non poteva che essere vissuta e veduta con gli occhi del solo S..

Per questi motivi non ritiene la Corte che possa parlarsi di inattendibilità dei testi che hanno riferito “per sentito dire” o per voci del popolo, non foss’altro perché quel “popolo” di Sicignano degli Alburni è costituito in maggior parte dagli stessi testimoni escussi in dibattimento, ed è quindi in quel nucleo di “voci” che sono veicolate le informazioni poi cristallizzatesi nelle deposizioni testimoniali. Ed è altrettanto significativo che molte di quelle informazioni, esposte agli inquirenti prima ed alla Corte poi, si siano sedimentate nel tempo, risultando esse il frutto di una sommatoria di tante notizie raccolte nel corso dei mesi e degli anni, magari raccordate apparentemente in modo logico od in cronologica coerenza per chi le esponeva ovvero semplicemente confuse od ingigantite per la avvertita importanza del ruolo testimoniale rivestito o per la forte emotività di chi aveva vissuto in prima persona la incomparabile esperienza del lutto; di certo, allora, il “correttivo” di quelle memorie dichiarative va ricercato nei dati obiettivi ed incontrastati che pure sono stati raccolti in questo processo, e soltanto grazie a questi interventi di riconduzione a linearità (soprattutto di carattere spazio-temporale) sarà possibile definire e fondare il giudizio richiesto alla Corte.

Si badi, non che si voglia affidare alla sola prova documentale o tecnica la ricerca della verità processuale, ma non si discosterà da essa allorquando si incontreranno dati storici di intrinseca attendibilità, e quegli stessi dati, per quanto possibile, saranno verificati e “messi alla prova di resistenza” con altri elementi probatori di segno contrario, parimenti raccolti nel corso del giudizio, affinché si estraggano dal loro complesso considerazioni di auspicabile ferma solidità su cui procedere, gradualmente, alla ricostruzione dei fatti.

Ancora un’ultima avvertenza; il terreno su cui muoversi è abbastanza scivoloso, giacché quasi tutti i testimoni escussi hanno rivelato d’esser portatori di interessi particolarmente significativi, attuali o recenti, nella propria vita privata (rapporti di parentela con gli imputati o con le perone offese, rapporti di commilitanza politica o di manifesta avversione, rapporti di frequentazione o colleganza di lavoro).

E si è anche constatato un aspro contrasto fra le deposizioni testimoniali di difesa e quelle di accusa, una vacillante e mai monolitica deposizione di ogni singolo teste, un inquietante dualismo descrittivo di fatti tale da inficiare la credibilità di coloro che hanno riferito l’una o l’opposta circostanza; ed il tutto, vissuto anche con momenti di tensione durante il dibattimento, sì da richiedere di sovente -e perfino volto ai difensori- un intervento regolatore e di richiamo del Presidente, ha prodotto la consegna di un materiale probatorio testimoniale non univoco, spesso incoerente od anacronistico, ma pur sempre centrato sui momenti salienti dell’indagine di responsabilità richiesta. Ma anche su questo punto va stigmatizzato un approccio selettivo di generica (o frettolosa) inattendibilità poiché, con la premessa scrematura degli aspetti più acidi delle loro deposizioni, si è addivenuti, anche dopo la consentita reiterazione di domande ed approfondimenti su temi apparentemente poco pertinenti, ad un nucleo centrale della essenza dei fatti da ciascuno di essi conosciuti, utile materiale probatorio processuale, se non proprio necessario, per la articolata ricostruzione degli accadimenti. E di tutto quanto innanzi si darà conto nell’analisi delle prove testimoniali raccolte.

 

B)    le dichiarazioni delle persone offese e degli imputati.

 

Un aspetto rilevante delle prove dichiarative assunte, al pari di quello della credibilità, è quello dell’oggetto e dei limiti delle testimonianze medesime. I principi generali di cui all’art. 194 cpp e le loro deroghe sono stati tenuti sempre presenti sia in fase di ammissione delle prove che di loro assunzione, non ritenendo sovrabbondante l’una o l’altra lista delle parti in ragione del solo dato numerico; il titolo di reato, infatti, si presta ad approfondimenti sulla personalità degli imputati e delle persone offese, al fine di comprendere quale potesse essere l’humus sociale e caratteriale sul quale hanno trovato terreno fertile le modalità manifestative delle condotte oggetto di contestazione, sia dal punto di vista di chi le poneva in essere sia dal punto di vista di chi le recepiva come diretto destinatario degli effetti che ne derivavano. L’esame di alcuni testi si è esteso poi anche ai rapporti di parentela o di interesse intercorrenti tra il testimone e le parti o altri testimoni, nonché alle circostanze il cui accertamento fosse necessario per valutarne la credibilità; e ciò, consentito ex art. 194 comma II cpp, è stato quantomai utile per comprendere se vi fosse spazio per aspetti di inattendibilità di testimonianze di soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli di altri parti o testimoni, salvo poi a verificare se quelle spinte di interesse li avessero poi portati a reticenze o a falsità; ma l’attento bilanciamento del controesame e la pronta verifica in sede di Contestazione su quanto dichiarato in fase di indagini preliminari hanno favorito, invece, non solo di effettuare quella scrematura di cui si è detto innanzi, ma anche di incrementare le conoscenze di quel peculiare ambiente sociale e lavorativo in cui si sono svolti i fatti, elementi ancora una volta utilissimi per l’accertamento delle cause del tragico epilogo che tutta la vicenda ha avuto. Ed anche l’ammissione di deposizioni e temi di prova sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è stata parimenti utile per conoscere le spinte emozionali di quegli interessi antagonisti nonché gli innesti causali e/o patologici nel contenuto di quelle deposizioni (soprattutto per i tempi di acquisizione di conoscenza di alcune circostanze, per le dinamiche “di gruppo” fra lavoratori e fra parenti, come fra amministratori di maggioranza e di minoranza); ed anche in tal caso proprio il fatto racchiuso nell’imputazione richiedeva che si scendesse in certe valutazioni relative al comportamento delle persone offese. Insomma, anche un apprezzamento personale o una particolare animosità nella rappresentazione del fatto può aver lasciato il segno tangibile non tanto del fatto in sé narrato quanto della abitualità o del pieno convincimento a reputare il fatto narrato in un certo modo, a sua volta portatore di informazioni raccolte dal teste in altri tempi ed in altri contesti.

Non è da tralasciare la problematica relativa alla apparente indeterminatezza dei fatti su cui alcuni testimoni sono stati chiamati a deporre; anche una informazione “generica”, sviluppata poi attraverso l’esame di altri testi, può essere stata utile nell’excursus di una deposizione, come pure i riferimenti a voci correnti nel pubblico quando non fosse possibile scinderli dalla deposizione sui fatti.

Quanto, poi, alle deposizioni delle persone offese, la valutazione della relativa prova testimoniale non si sottrae al principio generale del libero convincimento del giudice: non v’è infatti un pre-giudizio di limitata credibilità delle dichiarazioni delle persone offese come del pari non v’è analogo limite per le dichiarazioni dei testimoni legati da vincoli di parentela con la medesima o con l’imputato. Di certo non ci si trova dinanzi a “testimoni estranei” ma l’attento controllo della loro credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo riscontri esterni, si impone con maggior rigore, non senza raggiungere il medesimo effetto dimostrativo, quando non sussistono situazioni che inducano a dubitare della loro attendibilità.

Non è nuova la tematica della valutazione della deposizione della persona offesa, ma non può obliterarsi che proprio il rigore valutativo richiesto (e più volte segnalato dalla giurisprudenza di legittimità) impone di verificare la rilevanza di alcune imprecisioni o contraddizioni, per apprezzare al fine sia l’ossatura centrale del fatto narrato sia la giustificazione argomentativa di quegli elementi di contrasto.

Il confronto con altri elementi di prova consente, comunque, di poter individuare anche in quelle deposizioni una fonte di convincimento, ancor più qualificata quando la persona offesa sia stata anche testimone oculare di quanto accaduto alla vittima del reato, e non soltanto ricettore di confidenze apprese da questi o di notizie apprese da altri. Non è mancato, e lo si vedrà, anche qualche approfondimento sui testi de relato, raccogliendo utili conferme o profonde smentite al primordiale assunto dichiarativo.

Quanto alle dichiarazioni degli imputati, si è preferito esaminarle al termine dell’analisi degli elementi probatori acquisiti, affinché di essi si potesse verificare non tanto la sincerità o la credibilità quanto la conferma di elementi dimostrativi dell’una o dell’altra tesi ricostruttiva dello stesso fatto; e per il principio di scindibilità delle dichiarazioni, ben può ritenersi veridica una parte della dichiarazione e non un’altra, facendo leva soprattutto sulla coerenza logica del loro narrato e sulla interferenze obiettive e fattuali conciliabili o meno con la loro ricostruzione.

In un solo caso, poi, si è affrontato il tema della deposizione dell’imputato in procedimento connesso (il vigile T.) ed in quella sede si affronterà la tematica in diritto.

 

 

C)    le intercettazioni private.

 

Un punto fermo nella ricostruzione dei fatti e di come essi siano stati vissuti dallo S. nel suo rapporto con gli amministratori comunali è costituito da quattro dialoghi registrati con il Sindaco, ad insaputa di questi. Trattasi della conversazione avuta nel mese di agosto 1999 tra P. ed i coniugi S.-P. -convocati nell’ufficio del Sindaco l’indomani del diverbio avvenuto in piazza durante una festa a Zuppino-, dell’incontro avvenuto nel gennaio 2002 del Sindaco con i dipendenti comunali  per denunciare dei furti avvenuti all’interno del Municipio e segnatamente nei locali garage, e dei dialoghi intercorsi in occasione di due incontri avvenuti dopo la morte dello S. tra P. ed il Vigile Urbano T., nonché tra P. ed il Comandante dei Vigili Urbani N., relativi entrambi a richieste di informazioni del P. su quanto costoro avessero riferito agli inquirenti (operanti di PG e P.M.) in merito ai fatti accaduti in vita allo S.. Il loro contenuto è certo quanto al fatto storico degli avvenuti incontri ed ai soggetti che ad essi abbiano partecipato (nessuno lo ha rinnegato) e del pari è chiaro quanto alle idee espresse dagli interlocutori, potendosi apprezzare in primo luogo la spontaneità degli argomenti introdotti dall’interlocutore inconsapevole della registrazione, ma anche la stretta pertinenza con il thema probandi di questo processo.

Si badi, non si tratta di intercettazioni di dialoghi regolate dall’art. 266 ss. cpp, consistenti nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato, bensì di registrazione fonografica di  colloqui, svoltisi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi; questo tipo di registrazione non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 cpp, salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità della persona che vi partecipa (così, in massima della Sent. Cass. Pen., SS. UU. 28/5/2003, n.36747, Torcasio); la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche clandestinamente, da soggetto partecipe di dette comunicazioni, o comunque autorizzato ad assistervi, costituisce prova documentale secondo la disciplina dell’art. 234 cpp.

Nel caso di specie, ci si trova al di fuori della nozione tipica di intercettazione “rituale”, ossia di apprensione occulta del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio; difettano la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la terzietà del captante.

“La comunicazione, una volta che si è liberamente e legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte dei soggetti ad essa estranei, entra a far parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con l’effetto che ognuno di essi ne può disporre, a meno che, per la particolare qualità rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione, non vi siano specifici divieti alla divulgazione (es.: segreto d’ufficio). Ciascuno di tali soggetti è pienamente libero di adottare cautele ed accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione, per acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi prova di ciò che, nel corso di una conversazione, direttamente pone in essere o che è posto in essere nei suoi confronti; in altre parole, con la registrazione, il soggetto interessato non fa altro che memorizzare fonicamente le notizie lecitamente apprese dall’altro o dagli altri interlocutori”. Il nastro di registrazione ha una intrinseca attitudine a rappresentare fonicamente quanto è accaduto e la dichiarazione registrata è il fatto documentato. Ecco allora la legittima acquisizione al processo della registrazione del colloquio, avvenuta mediante il meccanismo di cui all’art. 234 cpp comma primo, che qualifica documento tutto ciò che rappresenta ‘fatti, persone, o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo’, ed “il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa”.

La giurisprudenza ha poi asserito che l’utilizzazione, nel processo, del contenuto di una conversazione privata registrata su nastro magnetico da parte di uno degli interlocutori sia legittima sul presupposto che l’interesse alla riservatezza è soccombente rispetto all’interesse pubblico all’accertamento della verità (Cass. Pen., Sez. I, 2/3/99 n.7239, Cavinato; e sez. II, 12/3/98 n.1831, Zagaria), e trattasi di registrazioni che non necessitano dell’autorizzazione del g.i.p..ai sensi dell’art. 267 cpp in quanto non rientrano nel concetto di “intercettazioni” telefoniche in senso tecnico, ma si risolvono sostanzialmente in una particolare forma di documentazione che non è sottoposta alle limitazioni e alle formalità proprie delle intercettazioni (cfr. Cass. Pen., Sez.I, 14/4/99 n.6302, Iacovone).

Si vedrà, poi, che quelle dichiarazioni fonoregistrate sono connotate da ampia genuinità di fonte acquisitiva e di stretta pertinenza con i fatti di causa, quasi che le prime due fossero premonitrici di quanto potesse poi accadere allo S. e che le ultime due fossero anche connotate da una componente parzialmente ammissiva dei fatti a cura di colui che sarebbe poi divenuto uno degli odierni imputati. La valenza probatoria di quelle dichiarazioni e di quei dialoghi captati è davvero elevata, non soltanto per il loro intrinseco contenuto, ma anche al fine di illustrare il clima vissuto in ambito lavorativo dallo S. e di comprendere come venissero intesi i rapporti interpersonali nella gestione amministrativa del Sindaco P..

 

 

D)    i documenti.

 

Quanto ai documenti amministrativi acquisiti, si osserva che, apprezzando gli sforzi delle parti nel rendere ufficiale il connotato di autenticità delle copie prodotte, quei documenti non sono stati contestati dalle controparti, e ad ogni modo, laddove essi siano stati offerti in visione ai testimoni od agli imputati, essi sono stati riconosciuti per la loro provenienza o collegati a fatti narrati. Tutti sono comunque pertinenti: il fascicolo personale del dipendente S. D., per comprendere la storia lavorativa ed il suo curriculum professionale, come e se ci siano stati dei momenti destabilizzanti nei suoi rapporti formali con l’amministrazione pubblica, quali siano state le sue fonti reddituali in dipendenza di quel rapporto lavorativo; e del pari sono pertinenti le timbrature del cartellino marcatempo ed il registro delle firme in entrata ed uscita, anche comparate con quelle di altri dipendenti, non foss’altro per la esistenza di un episodio specifico oggetto anche di contestazione; ed ancora gli atti inerenti l’autorizzazione e la retribuzione delle prestazioni lavorative richieste nell’ambito o all’esterno delle ore di lavoro, per comprendere se gli interventi e le urgenze non preavvisate fossero o meno esigibili al lavoratore dipendente al di fuori dell’orario di lavoro.

 

 

E)     le memorie difensive.

Le investigazioni difensive non depositate.

 

Non costituiscono di certo, prova dei fatti da esaminare le memorie difensive prodotte in dibattimento; esse forniscono una guida, una lettura, di quanto raccolto secondo un angolo prospettico e di esclusivo interesse di parte; da esse tuttavia si raccolgono elementi riassuntivi di utile raccordo con i fatti di causa e di sicuro raccordo motivazionale con quanto percepito ed analizzato, una traccia da seguire per confrontarla con i dati storici certi raccolti in dibattimento, per argomentare la fondatezza o meno delle conclusioni cui quella visione prospettica tende.

E si è dovuto anche affrontare il tema di investigazioni difensive raccolte in fase di indagini preliminari e non depositate né formalmente presenti al fascicolo, dichiarazioni raccolte dal difensore dell’imputato P. e sulle quali hanno deposto alcuni testimoni; non vi sono elementi documentali per valutarne l’utilizzabilità sia da un punto di vista formale che sostanziale, ma al tempo stesso si è assistito ad una privazione di un pieno contraddittorio sul loro contenuto e sulla prova contraria che ne sarebbe potuta derivare, non foss’altro perché non essendo state depositate in atti ex at. 391-octies cpp, il PM non ha potuto confrontarne la attendibilità con quanto in quella sede dichiarato con le garanzie di rito. Semplicemente, allo stato, trattasi di attività documentali processualmente non esistenti e non verificabili (“tamquam non essent”), per le quali si raccoglie soltanto il dato processuale della storica verificazione della attività medesima, fermo restando che l’unica fonte probatoria utilizzabile e valutabile di quelle investigazioni è soltanto, ala fine, la deposizione dibattimentale di quei testi.

 

 

I FATTI VISTI E NARRATI DAI TESTIMONI.

 

Per la descrizione degli accadimenti rilevanti della vita di S. D., si analizzeranno innanzitutto alcune deposizioni testimoniali “complete”, ossia quelle che hanno fornito un maggior numero di dettagli nelle plurime vicende vissute, anche per confidenza diretta, da coloro che erano più vicini allo S., quali la moglie, i suoi stretti congiunti, i suoi colleghi di lavoro. Seguiranno poi gli altri testi, nell’ordine cronologico in cui sono sfilati innanzi alla Corte, ed alla fine se ne raccorderanno gli elementi descrittivi comuni, senza tralasciare, di volta in volta, l’esame critico delle divergenze prontamente evincibili. Non mancheranno, comunque, alcune osservazioni valutative sulla attendibilità (anche parziale) delle loro deposizioni, specie ove essa sia stata messa palesemente in dubbio dall’una o dall’altra parte processuale. Laddove saranno stati richiamati i documenti utilizzati per focalizzare la memoria dei testimoni, essi verranno subito analizzati, per non tralasciare da subito la loro rilevanza e per approfondire nell’immediato la coerenza con quanto dichiarato o rammentato.

 

 

a)      I primi tre testi escussi: P. Angela, M. Luisa, N. Alfonso.

 

La prima testimonianza assunta in dibattimento è quella della vedova di S. D., sig.a P. Angela, non più parte civile nel procedimento. La donna ha riferito che il proprio coniuge aveva svolto una continua attività lavorativa per 18 anni quale dipendente del Comune di Sicignano degli Alburni, svolgendo dapprima mansioni di muratore, poi di idraulico, ed infine di spazzino; il marito, a suo dire, non aveva mai avuto problemi finché poi sorsero nel maggio 2001 allorché, controllato a vista dal Sindaco, dal Vice Sindaco e dall’Assessore, veniva da questi tacciato di non averli votati in occasione delle ultime consultazioni elettorali amministrative, “e lui si era accanito su questa cosa”, perché in precedenza aveva votato per loro, e, per contro, nelle precedenti amministrazioni non s’erano creati problemi ed avevano anche apprezzato il suo lavoro. La P. ha quindi raccontato alcuni episodi particolarmente significativi di quel pressante “controllo” cui era sottoposto suo marito; ad esempio, un giorno, nel gennaio 2002, dovette allontanarsi dal posto di servizio per recarsi con urgenza nel bagno del Comune, ed il tenente N. Alfonso, comandante dei Vigili Urbani, si recò da lei, presso il suo bar, per avvisarla che cercavano il marito in quanto aveva lasciato incustodito il carrettino delle pulizie; fu lei stessa ad indicare i luoghi ove probabilmente era presente il marito, o nel bagno del Comune o nel garage ove si recava a preparare le scope per il lavoro del giorno seguente, e difatti il N. lo trovò che usciva dai bagni e gli riferì che lo cercavano perché avevano visto il carrettino incustodito lungo la strada; orbene, il sindaco P., il C. ed il T. dinanzi alle sue giustificazioni gli dissero che non se ne sarebbe andato via finché non avessero accertato la sua esigenza di andare in bagno, tant’è che gli dissero pure di non tirare lo scarico del wc per verificare se era vero o meno (“vai e non tirare la catenella”); non lo fecero accompagnare nel bagno ma poi “andarono a vedere”; ed il tutto le fu raccontato proprio dal marito il quale quella sera stessa le confidò quanto accaduto la mattina, rammaricandosi di non essere creduto “nemmeno quando uno ha dei problemi, esigenza di andare al bagno”, “e si mortificò molto, piangendo come un bambino”, e diceva che “nemmeno un bambino si tratta così, cioè se un bambino ti dice che ha mal di pancia si crede”.

E questo fatto, alla fine, divenne di dominio pubblico.

Altro episodio rammentato dalla P. è quello relativo alla inaspettata telefonata del Sindaco giunta la sera del festeggiamento del 18° compleanno del figlio Vincenzo (era il 29/5/2001) presso un ristorante a Petina, concernente la richiesta di andare a chiudere ed aprire l’acqua al rubinetto pubblico, ma il marito non andò vuoi perché era distante vuoi perché c’erano altri in paese che potevano occuparsene, e comunque “si guastò la festa”; la telefonata arrivò verso le 7-7,30 di sera, quando già c’erano molti invitati alla festa, e fu proprio lei a ricevere la telefonata del Sindaco al ristorante; ed il marito rifiutò di andare a Sicignano a compiere quella manovra, anche perché era distante da Petina e c’erano altri dipendenti che avrebbero potuto farla, e comunque non voleva abbandonare il ricevimento per il figlio, festeggiamento che era noto in paese anche per il gran numero di invitati.

Nel corso, poi, di una festa in piazza nella frazione Zuppino (nel periodo estivo), non appena arrivati gli si avvicinarono il Sindaco e T. dicendo di andare a chiudere l’acqua, glielo “esigevano” perché in quella circostanza c’era lui presente, “devi andare tu, lo puoi fare tu e basta”, ma lo S. si rifiutò giacché non era in servizio né era in turno di reperibilità; ebbene, quegli amministratori non volevano sentir ragioni, intervenne anche l’assessore C. il quale lo insultò davanti ad altre persone dicendogli “D. sei uno stronzo” e dovette pure intervenire qualcuno del pubblico per trattenere il C.; e lei stessa, la P., fu spinta a terra; ma l’indomani, entrambi i coniugi, previa una telefonata ricevuta a casa dal figlio, furono convocati dal Sindaco (il quale durante la lite in piazza era rimasto distante ad assistere), e questi minacciò il marito di volerlo licenziare anche perché c’erano a suo carico delle lamentele della gente, sicché ironicamente le disse che lei era “stanca di avere un marito dipendente”, avvertendola che il C. voleva denunciarla nonostante fosse stato lui a buttarla per terra mentre lui veniva trattenuto dalla gente, ed aggiungendo che il figlio aveva risposto al telefono con tono alterato e che era un grandissimo scostumato.

Ricordava anche che al marito fu assegnato un appellativo di “uomo invisibile” e di “sorvegliato speciale”, nel senso che non si faceva trovare sul posto di lavoro e che doveva per ciò essere sottoposto a stretta sorveglianza; ed anche i figli erano stanchi di vedere il padre “sempre mortificato”, che “tornava a casa sempre distrutto perché dice: mi maltrattano, mi trattano male, mi perseguitano”.

Altro episodio narrato dalla P. è quello della telefonata pervenuta dal Sindaco durante un periodo di ferie dello S. (collocato erroneamente, come si vedrà, nell’estate 2001, bensì risalente all’estate 1999), e dinanzi alla richiesta di dover tornare urgentemente la donna rappresentava le difficoltà logistiche giacché il marito stava zappando la vigna in una terra di loro proprietà distante dalla loro casa, ed avrebbe impiegato del tempo per tornare in quanto stava sul posto con un trattore, ma una volta giunta sul posto, la donna poté constatare che il marito era stato punto da un’ape ed aveva il viso gonfio e per impedire un’allergia dovette fare una iniezione di Bentelan; il marito le chiese di chiamare al Sindaco e spiegargli la situazione ma ciononostante, quegli “non volle sentire ragioni”, disse ‘deve venire e basta’, al ché fu lei stessa ad accompagnarlo al Comune temendo che il marito potesse perdere conoscenza ma, incontrato il vigile urbano S. Raffaele, fu da questi invitato ad andar via (viste le evidenti precarie condizioni di salute) benché avesse dimostrato disponibilità ad aderire agli “ordini”; quindi, incontrò pure il cognato Carabiniere, il quale lo invogliò a sporgere denuncia, ma “sempre per la paura dei maltrattamenti che già aveva, in Caserma non ci è voluto andare”; di poi, ritornato a casa, la situazione peggiorava e dovette chiamare il suo medico curante, dott. P., che ne dispose la visita al suo ambulatorio a Postiglione e dopo ancora, all’Ospedale di Eboli, “ove lo hanno tenuto per tre-quattro ore con le flebo”; concludendo la vedova considerava “vi dico in che condizioni l’ho portato a Sicignano al Comune che mi poteva venire … mi poteva morire nella macchina, sempre per stare a dire: sì va bene, vengo”.

La P. riferiva poi che il marito, prima di quel periodo, era elogiato e gli piaceva stare in compagnia, era un persona scherzosa e tranquilla, ma dal maggio 2001 v’era stato un cambiamento, “da quel momento non era stato più lo stesso”.

Dopo poco tempo, poi, accadde un altro episodio: un giorno, di martedì, quando c’era il mercato in paese, finito il servizio aveva dimenticato di timbrare il cartellino, e chiese al vigile urbano T. Francesco di farlo per lui: “dietro questa cosa è successo il finimondo e hanno denunciato sia a mio marito e sia a T.”; ma lui aveva anche chiesto di togliergli le ore che risultavano eccedenti, “fate a me e non fate a T. Francesco perché ha una famiglia, per colpa mia deve subire pure lui. Non ci sono state ragioni, hanno denunciato il fatto e basta”.

In realtà, quindi, già prima di questi episodi “non si dava una ragione”, “per lui erano delle umiliazioni, erano cazziate davanti a chi era era”, nel senso che davanti alle persone subiva rimproveri e ingiurie, “non è che lo chiamavano in disparte”; ed era anche sottoposto a controlli continui, dinanzi al bar che avevano acquistato l’8/12/2001, perciò la gente rideva anche del nomignolo “sorvegliato speciale” che i tre amministratori gli avevano affibbiato, “era sorvegliato a vista ogni passo che lui faceva”. Sul solco di questi controlli si inseriva anche un episodio di un appostamento dei tre prevenuti dinanzi all’ingresso del Comune dietro la Scuola Elementare di Sicignano, per vedere se andasse a timbrare in entrata alle 5:30-6:00 del mattino, e di tanto le aveva riferito Elia V. il quale pure ne aveva fatto confidenza alla suocera M. Luisa ed al figlio Vincenzo.

Su domande specifiche, la P. rispondeva che non c’erano stati problemi affettivi tra loro due coniugi, né problemi economici, perché con lo stipendio del marito riuscivano a pagare l’affitto, anzi i problemi sorsero dopo la morte quando, venuta meno quella fonte di reddito e dovendo badare ai figli (tra cui il minore, Simone, che era rimasto traumatizzato per aver scoperto il padre impiccato), dovette vendere l’esercizio pubblico. La famiglia si riuniva lì, al bar, dopo le sei ore di lavoro del marito, e spesso si appartavano dietro una piccola stanzetta e lui le raccontava tutto quello che era successo durante la giornata; qui lo vedeva mortificato, e si preoccupava che “prima o poi mi vogliono fare fuori, mi licenziano, mi buttano fuori, e allora la faccio finita io” ma lei non aveva capito che in mente sua voleva togliersi la vita altrimenti l’avrebbe aiutato. Ricordava che negli scritti, rinvenuti dal cognato C. Nino, chiedeva perdono se qualche volta si era comportato in modo sgarbato, ma era questo il modo in cui sfogava per essere stato trattato male. In realtà lei non aveva pensato di consultare uno psicologo perché non era “un uomo malato di depressione” ma era “solo un uomo sofferente”.

 

Su domande della parte civile, la vedova dello S. ricordava di aver consegnato due cassette di registrazione, di cui una relativa al dialogo a tre avvenuto su convocazione del Sindaco in cui si discuteva dell’episodio della festa di Zuppino e della puntura d’ape; e rammentava che in quel dialogo il Sindaco diceva che doveva venire prima il lavoro e poi la famiglia, che finita la giornata di lavoro al Comune il marito sarebbe dovuto rientrare a casa e non doveva fare nient’altro, al massimo una partita a carte davanti al bar o una passeggiata e non doveva fare altri lavoro altrimenti sarebbe giunto stanco l’indomani sul proprio posto di lavoro, e se lo avesse visto nella vigna a zappare lo avrebbe licenziato.

Se poi non poteva eseguire delle prestazioni richieste fuori dell’orario di lavoro, doveva “ubbidire e basta” pur non essendo egli reperibile o pur essendo altri che avrebbero potuto sostituirlo. E le minacce di licenziamento erano palesi, “glielo dicevano in faccia”; riguardo alla timbratura del cartellino, era a sua conoscenza che altri episodi analoghi di altri operai comunali non furono tuttavia denunciati, anzi sapeva addirittura che era una “prassi”, che “la mattina così facevano, chi andava per primo timbrava”, “ e poi l’accanimento è stato solo per mio marito”. Ancora un altro episodio di rimprovero plateale subì il marito allorquando passando con il carrettino davanti ad una banca chiese ad un impiegato, su indicazione della moglie, di poter cambiare delle monete (era il periodo del passaggio dalla lira all’euro), ma si trattò di uno-due minuti, ed il Sindaco lo “aggredì” e c’erano pure altre persone, lui cambiò completamente umore, e ne fu testimone anche R. Filomena, alla quale, di ritorno dal Sindaco, disse: “mi vogliono fare fuori, ma prima o poi un giorno di questi faccio la pazzia”. In un’altra occasione, durante un incontro con i dipendenti (anch’esso oggetto di audioregistrazione), sul Comune, il Sindaco disse apertamente che poteva licenziarlo. Insomma, gli imputati esercitavano le loro funzioni in modo “autoritario” non “autorevole”, mentre con le precedenti amministrazioni non aveva mai avuto questo tipo di problemi.

Su domande della difesa degli imputati, la P. ha replicato che lo “stato mentale” che lo ha portato al suicidio non deve intendersi nel senso che suo marito sarebbe “uscito pazzo”, e che l’episodio della festa di Zuppino, collocato al mese di agosto 1999 stante la relazione di servizio degli assessori T. e C., non era dubitabile che non fosse successo.

Quanto all’orario di apertura del bar, precisava che apriva alle 5.15 e chiudeva a mezzanotte, che se lo desiderava il marito giungeva a darle una mano dopo essersi riposato dal lavoro, che le mansioni di idraulico le svolgeva sull’intero territorio del Comune, mentre quelle di netturbino le svolgeva per le strade del centro, che aveva accettato la richiesta dell’Amministrazione di cambiare qualifica (da idraulico a netturbino) perché in tal modo, come lui diceva, “sono più a vista e mi possono controllare meglio”, non già perché potesse stare vicino alla moglie al bar poiché l’acquisto del bar avvenne dopo; riferiva la donna che il marito stava bene in salute, che era stato ricoverato in precedenza ad Eboli ed operato di colecisti, che non aveva problemi al fegato; nei giorni antecedenti al suicidio aveva sofferto di mal di pancia e per tre giorni era stato a riposo su consiglio del medico dott. P., poi l’ultima notte il marito aveva fatto un sogno e glielo aveva raccontato; aveva sognato che in una fiera loro due lungo la strada avevano raccolto molti soldi e che avevano incontrato il dott. M. il quale, appreso dei suoi dolori allo stomaco, gli aveva detto che quella era la cirrosi epatica “che prima o poi ti toglie le forze e non hai più la forza di camminare e di fare niente”, ma in realtà il marito non soffriva di cirrosi; tuttavia il marito quella notte le diceva che se gli fosse accaduto qualcosa doveva stare attenta ai bambini e poi, alzatosi dal letto per andare in bagno, cadeva per terra, dopo di chè, le diceva che se gli fosse successo qualcosa non doveva togliere il bar e durante la notte era agitato; ovviamente la donna non presagiva cosa sarebbe accaduto l’indomani mattina, e riconduceva il tutto all’indebolimento per quel virus alla pancia da cui era affetto.

Negava, su domanda della difesa, che quattro giorni prima, alla festa di San Giuseppe a Zuppino, avesse rimproverato il marito per aver bevuto, né questi la aveva insultata, insomma non c’era stata alcuna scenata lungo la strada (come qualcun altro dei testi di difesa ha invece asserito) e comunque il marito non beveva alcolici né aveva motivo di controllarlo al bar, sebbene fumasse nonostante il divieto impostogli dopo l’operazione di colecisti; non aveva mai chiamato il marito “fallito”, né lui aveva timore degli accertamenti medici; non ricordava, su contestazione della difesa, che effettivamente il marito nel 1987 e nel 1996 aveva ricevuto una nota di richiamo parte dell’ex sindaco (le due note sono state acquisite come documenti in dibattimento), la prima per le lamentele dei cittadini sullo scarso attaccamento al lavoro, e la seconda su un comportamento irriguardevole tenuto laddove si era rifiutato di eseguire delle prestazioni lavorative in assenza di un ordine di servizio.

Riferiva che aveva appreso dal marito che fu subito denunciato per l’episodio della timbratura del cartellino nel senso che gli avevano detto che l’avrebbero denunciato anche se non sapeva precisare dopo quanto tempo dal fatto fu inoltrata la denuncia; ed ancora che nel giorno della puntura d’ape il marito era in ferie sicché il Sindaco non poteva adottare alcun provvedimento nei suoi riguardi, e fu proprio lei ad aver chiamato il Sindaco per dirgli che il marito, nonostante la sua dimostrata disponibilità, non poteva recarsi da lui. Indicava poi altre persone che furono testimoni diretti di alcuni episodi specifici occorsi al marito, come R. Filomena (sua cognata) e C. Pasquale, ed altri dipendenti comunali che, come il marito, si erano schierati contro il Sindaco nelle elezioni del 2001, come P., T.; ammetteva il contenuto e la paternità di una memoria redatta pochi giorni dopo il suicidio e consegnata ai Carabinieri, in particolare, ivi collocava al 7/1/2002 l’episodio del bagno, e riferiva che fu accompagnata in casa dal tenente N., cugino di suo marito.

Ancora, su domande della difesa, negava di aver mai ricevuto denaro in prestito da tale C., di essere mai stata accusata di infedeltà coniugale dal marito, di avere cattivi rapporti con la suocera e con il figlio Vincenzo, di essere mai stata rimproverata dal figlio all’interno del bar per essere stata scoperta, qualche giorno dopo il suicidio, in compagnia di M. Lucio, suo attuale compagno (con il quale è sorta una relazione un anno dopo la morte del marito), e di aver mai graffiato o aggredito il marito nell’estate 2001.

Infine, precisava che la festa di Zuppino si celebra il 15 agosto di ogni anno, che la convocazione dal Sindaco ove poi registrò l’incontro a tre avvenne il giorno seguente della lite in piazza con T. e C., che i tre odierni imputati facevano parte della compagine amministrativa anche prima delle elezioni del 2001, che all’epoca (maggio 2001) il marito svolgeva le mansioni di idraulico insieme con C. Albino, che si era ben adattato al cambiamento di mansioni, che quando faceva l’idraulico il marito si recava nelle varie frazioni del paese di Sicignano mentre quando faceva il netturbino lavorava solo al centro del paese, che non vi era stata riduzione di stipendio dopo il mutamento di mansioni, che quando gli fu chiesto di fare degli interventi urgenti la sera del compleanno del figlio o la sera della festa a Zuppino non gli furono rappresentate motivazioni di impedimenti di altri dipendenti che avrebbero potuto occuparsene (“no, non hanno detto nessuna motivazione. C’è questo problema, devi andare a chiudere l’acqua e basta”).

Precisava infine che non vi erano cattivi rapporti con il figlio, al cui matrimonio non partecipò per motivi legati alla scelta di non dargli la gestione del bar preferendo, alla fine, cederlo, ma poi i rapporti ripresero con incontri anche con i nipoti.

 

Anche la madre dello S., M. Luisa, confermava tutti gli episodi narrati dalla nuora.

È singolare, va subito detto, che nonostante sia emerso dalla testimonianza della P. che fra le due donne non corressero buoni rapporti e che ci si limitasse al solo saluto formale, entrambe abbiano riferito le medesime circostanze; nessuna precostituzione di dichiarazioni può adombrare, quindi, la loro deposizione, e la causa di quella inclinazione di rapporti non intacca la loro attendibilità anzi ne rafforza, nel confronto, la veridicità.

La donna ha riferito che il figlio spesso si rivolgeva a lei per confidarle che le cose non andavano bene, e ricordava dell’episodio del bagno, della festa del 18° compleanno del nipote allorquando il Sindaco lo chiamò al telefono per tre volte (poi in sede di controesame la teste ha precisato che una telefonata la fece il Sindaco, un’altra l’assessore V. ed un’altra l’ing. Ferdinando D’A., tutti con la richiesta di andare a chiudere l’acqua), della telefonata ricevuta in casa sua dal Sindaco per cercare il figlio con la minaccia di licenziamento sì che lei stessa si mise in macchina per andarlo a cercare nell’appezzamento di terreno a loro disposizione (l’episodio è collocato nel giugno 2001, durante il tempo della raccolta delle fragole), e poi una volta trovatolo, apprese da D. che egli era in ferie e non comprendeva cosa volesse il Sindaco da lui; non era la prima volta che il Sindaco lo minacciava di licenziamento, anzi ricordava che il figlio le aveva anche confidato che quegli gli diceva pure “che mi deve schiacciare come un verme” e che doveva schiacciare tutti coloro che non lo avevano votato; ed erano frasi che il Sindaco aveva pronunciato anche davanti a lei, tanto che la donna lo aveva ripreso dicendogli che in tal modo “ti stai facendo nemici parecchie persone a Sicignano”, ma a lui non interessava, e si fece anche una risata quando lei replicò dicendo “allora a me non mi schiacci perché io ti ho votato”.

Inoltre, riferiva dell’appostamento dietro la scuola confidatole da un assessore comunale, per vedere a che ora si recavano a timbrare il cartellino i dipendenti comunali; spesso quando lo vedeva lungo la strada a recasi a lavoro lo invitava a salire a casa, ma lui rifiutava perché “pedinato”, diceva “sono guardato dove vado … non mi posso fermare”, lo chiamavano “l’uomo invisibile”, sicché per farsi vedere dove andava scelse di lavorare come spazzino.

La signora M. ricordava anche che un giorno l’assessore T. lo chiamò in disparte e gli fece un “cazziatone” e lui ne uscì mortificato ed in lacrime; un altro giorno, poi, fermò il figlio che camminava senza guardare, e gli chiese cosa avesse, pregandolo di non stare così, e D. rispose “Mamma non ce la faccio più”, poi in quel momento passò un assessore, Elia V., e lei gli chiese se anche quello lo maltrattasse, e suo figlio rispose di no, “questo no, questo deve dire sì e no”.

I maltrattamenti erano sorti dopo le elezioni comunali, quelle del 2001 nelle quali il figlio non appoggiò più il Sindaco.

Ricordava poi un altro episodio, in occasione della sagra delle castagne il Sindaco affidò al figlio D. l’incarico di stare di guardia al suo ufficio della scuola comunale (il Sindaco era direttore didattico presso quell’istituto) con l’incarico di non farvi entrare nessuno, ma poco dopo arrivarono le figlie che volevano accedervi e lui replicò che aveva ricevuto degli “ordini severi” e non le fece entrare; di ritorno a casa il figlio, piangendo, le raccontò che poi il Sindaco lo aveva mortificato ed umiliato in tutti i sensi; la donna quindi aggiungeva che il figlio tante volte, per non farla soffrire non le diceva niente, “ma lui lo vedevo che soffriva dentro, me n’ero accorta che mio figlio soffriva troppo”.

Ne ricordava i tratti caratteriali, era scherzoso, felice, allegro, non aveva problemi di salute (era stato operato di colecisti un anno prima e non v’erano altri problemi come apprese poi dal medico di famiglia dott. P.), non aveva problemi con la moglie e non aveva problemi economici; decise di cambiare mansioni, da idraulico a spazzino, in modo da non potersi sentir dire “uomo invisibile, perché mi vedono dove vado a lavorare”, fu costretto a cambiare lavoro per farsi vedere.

Quanto all’episodio del bagno, anche quello si risolse in un controllo sul lavoro mentre lui era andato al bagno sottostante il Comune, per esigenze fisiologiche, e chiamato al cospetto del Sindaco questi gli disse “siediti e vi al bagno, voglio vedere se vai al bagno” e lo tenne sotto controllo per due ore circa, poi il N. Alfonso se ne andò dicendo “adesso state un po’ esagerando”, alla fine, uscito dal bagno disse “signor Sindaco, se vuol controllare può andare a controllare”.

La M. aggiungeva che “l’hanno maltrattato, l’hanno massacrato”, “non si tratta così un impiegato comunale”; con le precedenti amministrazioni, con i precedenti Sindaci Iuzzolino e Di Palma, non vi erano mai stati problemi,  se ce n’era stato qualcuno lo avevano risolto in aula, dentro al Comune, dicendo “D. hai sbagliato questo”, e lui “scusate, non lo faccio più”; ma poi dopo la seconda elezione a sindaco, lo massacrarono; addirittura il Sindaco a lei diceva cosa faceva D., lamentandosi di qualche suo comportamento, e poi con D. diceva che la madre gli aveva parlato male di lui!. Insomma, lo maltrattavano, e D. si lamentava di non doversi meritare d’essere maltrattato in quel modo; poi, il giorno del decesso, lei si recò in casa e vide tutta la giunta comunale ed al Sindaco che la abbracciò lo guardò in faccia e gli disse “tu sei la colpa di mio figlio”, ciò ancor prima di apprendere il contenuto degli scritti lasciati sul caminetto, e non si avvicinarono a lei il C. ed il T., ma ricordava che il Sindaco in seguito mandò una guardia comunale a casa sua per sapere se potevano partecipare ai funerali.

In sede di controesame della parte civile rammentava di un episodio (senza riferirne, con imbarazzante rifiuto, la fonte cognitiva) di un signore che lo incontrò sotto la pioggia e gli disse “D., ma riparati” cui fece seguito il suo sfogo “ma questi vogliono vedermi morto”, e di un altro episodio in cui mentre parlava con un signore gli fu imposto di prendere un qualcosa caricandolo sulle spalle senza far uso della carriola; ricordava anche dell’episodio del cartellino marcatempo, che D. fece timbrare ad un’altra persona, e per il quale, come riferitole da V. Elia, il C. aveva sbattuto i pugni sul tavolo reclamando che dovesse essere punito, ed anche dell’episodio della festa a popolare a Zuppino quando si arrivò a lite con un assessore comunale che richiedeva il suo intervento idraulico alle undici di sera, ed il figlio che rifiutò di andarvi perché c’erano altre persone che potevano assolvere a quell’incombente.

Aggiungeva, ancora, che il figlio non aveva mezzi per svolgere il lavoro di netturbino, e ricordava che il veicolo a tre ruote lo utilizzava come idraulico mentre per spazzare usava i mezzi propri, “i rifiuti doveva metterli sulle spalle e li doveva portare”.

Non vi erano contrasti con la nuora né con i figli per divisioni ereditarie, e comunque interpretava come un “pensiero suo”, ossia di D., la raccomandazione lasciata negli scritti di “lasciar stare Angela” e di “cercate di lasciar loro la casa”, anzi tra i fratelli si volevano bene, e lei stessa aveva lasciato i beni di famiglia ai figli.

Nonostante siano emerse alcune contestazioni rispetto a quanto la M. aveva dichiarato in fase di indagini preliminari alla PG ed al PM, resta di fondo confermata la sua deposizione, con le precisazioni e le integrazioni riportate in esame dibattimentale circa la presenza anche del T. nell’appostamento dietro la scuola insieme con Elia V., e circa il luogo dove ricevette la telefonata in occasione della festa di compleanno del nipote; concludeva ricordando, poi, che negli ultimi tempi aveva notato un certo dimagrimento del figlio, che la quota spettante al terzo figlio Pasquale non fu, su rimprovero del padre, pretesa al D. ma, dopo la sua morte, fu rinunciata dallo stesso Pasquale (il figlio carabiniere che sarà poi escusso ex art. 507 cpp).

 

Altro testimone dei fatti, da quanto accaduto in occasione della timbratura del cartellino all’episodio del bagno, dalle confidenze dello S. e fino alla mattina del suicidio, è N. Alfonso, Comandante dei Vigili Urbani di Sicignano degli Alburni fin dal 1977, nonché cugino del defunto.

Anche in tal caso va fatta una beve premessa: nel corso del suo esame sono emerse palesi ed inquietanti reticenze, ma anche contraddizioni e vaghe questioni personali nelle quali sarebbe stato direttamente coinvolto nel suo rapporto con l’imputato P. all’epoca del suo mandato sindacale; ma quelle reticenze e contraddizioni sono ampiamente emerse in dibattimento nel corso della cross-examination, e le perplessità sulla sua credibilità sono superate e risolte in ragione della riscontrata certezza di alcuni punti centrali delle vicende sulle quali ha testimoniato. E si comprenderanno agevolmente anche le imbarazzanti risposte fornite alla Corte, le incertezze risolte con i silenzi, le non limpide implicazioni su alcuni episodi che lo hanno visto partecipe antagonista nel suo lungo rapporto lavorativo con il Sindaco P.. E valga quanto segue.

Il primo episodio che ha ricordato il N. circa i rapporti dello S. D. con l’Amministrazione Comunale, è quello del bagno; una mattina, nei primi giorni del gennaio 2002, fu convocato dal Sindaco affinché rintracciasse lo S. per parlargli, e si prestò ad andarlo a chiamare giacché lo aveva visto poco prima lungo la via Mario Pagano; scese e trovò il carrettino e gli attrezzi incustoditi, e, dopo aver atteso circa dieci minuti ed aver chiesto un po’ in giro se qualcuno lo avesse visto, ritornò in ufficio a riferire al Sindaco, il quale però gli disse di attendere di nuovo vicino al carrettino finché lo S. non si fosse presentato; arrivarono anche gli assessori T. e C. -“forse volevano verificare pure loro la mancata presenza”-, ed attese un’altra mezz’oretta, poi lo notò in lontananza e lo chiamò, e lo S. alla domanda su dove fosse stato, gli rispondeva che non si era sentito bene e si era portato nei bagni sottostanti la sede comunale; il N. gli disse, allora, che il Sindaco lo cercava, e qui, nell’ufficio del Sindaco, il dipendente riferì di essersi assentato perché aveva sofferto di dissenteria; a questo punto il sindaco disse “tu mi vuoi far credere di non stare bene, se così è, allora aspetta, avresti dovuto avere già lo stimolo, cosa che non è capitata, comunque se è così aspetta qua, quando ti viene lo stimolo vai in bagno e non tirare lo sciacquone”, a tanto, egli, il N., si ribellò un po’ dicendo che la situazione stava degenerando e che non erano quelli i modi, per cui si allontanò (nel verbale di s.i.t. del 3/4/2002 acquisito, come si vedrà, su accordo delle parti, il N., più precisamente, aveva dichiarato di aver sentito la seguente frase del Sindaco “sono passati 15 minuti da quando sei entrato qua dentro, se fosse vero quello che tu dici avresti avuto nuovamente lo stimolo per liberarti fisiologicamente! Ora vai in bagno e non tirare la catena perché dobbiamo verificare se è vero che hai la dissenteria”, ed a tanto il N. rimase “decisamente disgustato” e lo fece notare ai presenti); lo S. era rimasto nell’ufficio del Sindaco una decina di minuti, la porta di ingresso era aperta e c’erano amministratori e dipendenti che entravano ed uscivano, non sapeva dire di preciso se ed in quale momento fossero stati presenti anche C. e T..

Poi, dopo essersi allontanato, non sapeva cosa fosse successo ma gli fu riferito “che hanno accertato effettivamente che avesse questa dissenteria”, e di tanto gliene dette notizia innanzitutto lo stesso S., ossia che era andato in bagno e che qualcuno era andato a verificare.

Un altro episodio era quello della festa di compleanno del figlio Vincenzo, nel maggio 2001, pochi giorni dopo le elezioni amministrative: anche lui, il N., era tra gli invitati della festa, e notò che verso le dieci, dieci e mezza di sera giunse la telefonata del Sindaco che lo invitava a portarsi in paese per una riparazione alla tubatura, v’era un problema idrico, e lo S. “stava un po’ incavolato perché dice: questo mò mi viene a chiamare giusto in questo momento che sa che io sto festeggiando, quindi può pure chiamare un altro dipendente addetto al servizio”, e lui “la pigliava come una persecuzione”; si lamentava del fatto che il Sindaco sapeva che stava impegnato in una festa di famiglia e che con le stesse mansioni c’era anche l’altro dipendente C. Albino, che abitava un po’ distante da Sicignano, verso Palomonte ad una quindicina di chilometri, ma anche lo S. non si trovava in paese (il ristorante era a Petina) e non poteva lasciare gli invitati al locale (su domande finali della difesa in controesame il teste non ricordava se fossero state più di una telefonata e se una provenisse dal D’A., ma di certo ne discuteva con la moglie rappresentando una situazione di disagio).

L’uno e l’altro episodio furono oggetto di commenti con lo S., il quale si sentiva  un po’ tartassato dalla amministrazione (su contestazione emerge che invece si sentiva “molto” tartassato), e si doleva anche del soprannome “l’uomo invisibile” affidatogli dal T. (su contestazione emerge che anche il sindaco e gli assessori lo chiamavano così, e lo accusavano immotivatamente d’essere uno “scansafatiche” laddove lo S. svolgeva puntualmente la sua prestazione); quegli aveva svolto le mansioni di idraulico e di muratore fino al settembre 2001, quando poi preferì cambiare mansioni come operatore ecologico, e ciò fece per sottrarsi al controllo degli amministratori e non essere chiamato in continuazione anche fuori orario senza prendere alcuna retribuzione, ed in tal modo, finito il suo orario di lavoro non avevano più nulla da pretendere (poi, su domande della parte civile, è emerso che lo S. accettò le diverse mansioni “così mi vedono praticamente e la smettono”, “era più in vista”, “era visibile a tutti l’operato suo”).

Soltanto successivamente (nel dicembre 2001) acquistarono il bar e così, dopo l’orario di lavoro (che era dalle 7:00 alle 13:00 in estate e dalle 6:00 alle 12:00 nel periodo invernale) poteva andare ad aiutare la moglie al bar.

Aggiungeva il teste che il Sindaco gli aveva dato l’incarico di riferire dell’operato dello S., non era solo un controllo di routine se le strade erano pulite (ciò rientrava nelle sue funzioni di comandante dei vigili urbani e di responsabile del settore Ecologia), ma era un controllo anche per vedere se effettivamente quegli era sul posto di lavoro; dopo un’ennesima contestazione (e doglianza del Pubblico Ministero del comportamento assunto in udienza quasi a voler smentire o stemperare quanto più decisamente aveva riferito nel corso delle indagini preliminari) è emerso in udienza che le ragioni di quella vessazione risiedevano nel fatto che lo S. non aveva dato il suo appoggio elettorale alle ultime elezioni alla lista del sindaco P., posizione palesemente assunta già qualche mese prima delle consultazioni elettorali.

Tra gli episodi di assiduo controllo, ricordava quello dell’appostamento nella scuola, adiacente la sede municipale, che, come riferitogli dal dipendente P., vide protagonisti alle 5 del mattino il T. e l’assessore V. Elia, e di ciò si avvide per aver notato un bagliore sospetto proveniente dai vetri della scuola; ed era un controllo non mirato sullo S. ma “per verificare se entrava solo uno e timbrava per gli altri oppure entravano tutti quanti” (su domande finali della difesa si è appreso che poi quel controllo non ha sortito alcun effetto o conseguenze di denuncia).

A memoria del N. anche altri dipendenti avevano subito quel tipo di vessazioni, come il custode del cimitero C. Francesco (sebbene ciò sia accaduto in epoca successiva a suicidio dello S., e si riferisce alla frase pronunciata dal Sindaco del tenore che se parlava con lui avrebbe “perso di prestigio”, è emerso alla fine del suo controesame), e pure lui stesso veniva tartassato con note di addebito per iscritto, per futili motivi, in un periodo in un cui era sovraccarico di lavoro (subisce, in questa parte della deposizione, un aspro richiamo dal P.M. per il chiaro intento di ridimensionare la vicenda avendo egli invece riferito in sede di indagini che invece il Sindaco lo rimproverava duramente anche davanti agli assessori, dicendo “tu se non vieni proprio a lavorare, è meglio”, ovvero rimproverandolo in mezzo alla strada per “banali problemi di organizzazione del lavoro” dicendogli che non aveva fatto una cosa per bene, e quel comportamento era tenuto nei confronti di tutti i dipendenti comunali che, “non avendolo appoggiato alle ultime elezioni amministrative, doveva tra virgolette pagare”).

L’impasse dibattimentale dovuto a motivi di stanchezza o a problemi mnemonici (ma il teste ha escluso d’esser stato minacciato) è stato superato con la disponibilità manifestata dalla difesa di far acquisire al fascicolo le dichiarazioni rese dal N. in fase di indagini inclusa la denuncia sporta contro il Sindaco per le frasi ingiuriose ed offensive pronunciate al suo cospetto alla presenza di altre persone (trattasi dei verbali del 3/4/02 ai CC di Sicignano, del 18/12/02 al P.M., di spontanee dichiarazioni del 29/5/03 al P.M., e di querela del 15/12/04, acquisiti su accordo delle parti, con completamento dell’esame dibattimentale solo con domande di approfondimento.

Va in questa sede segnalato che nel primo verbale del 3/4/02 il N. ricordava che lo S., con il quale aveva un “buon rapporto confidenziale”, negli ultimi tempi gli aveva riferito di “sentirsi molto controllato dal Sindaco P. e dagli Assessori T. e C.” e la “cagione di ciò” risiedeva nel fatto che alle ultime elezioni amministrative non aveva votato la lista civica capeggiata dal P., ed infatti da allora lo S. si “sentiva perseguitato”; quanto all’episodio del cartellino, il C., scoperta la timbratura nonostante appena cinque minuti prima non fosse stata apposta sul cartellino, in modo perentorio disse al Sindaco di prendere provvedimenti, altrimenti lui stesso si sarebbe dimesso, quindi convocato lo S. rintracciato tramite l’assessore O., ed appreso dal dipendente che aveva chiesto al N. ed al T. di timbrare al posto suo, il Sindaco si rivolse al suo indirizzo dicendo “quindi tu eri a conoscenza di questa situazione! La tua è disonestà e sei pure suo complice!” ma a tanto il N. gli obiettò che non poteva permettersi di usare quei termini molto offensivi; e prima di avviare la denuncia, il Sindaco gli chiese pure di stilare una relazione chiedendogli di essere un po’ “indulgente” nella spiegazione dei fatti.

Poi, dopo aver narrato dell’episodio del bagno, ricordava il N. che in un’altra occasione, il 7/3/2002, il T. fece una fotocopia del registro in cui non risultava annotata la firma in uscita dello S. a fronte della timbratura del cartellino, e la mostrò a sindaco, per come riferitogli dal dipendente C. Luigi, e qui commentava che “voglio precisare che nessun altro dipendente comunale ha patito un atteggiamento deciso di controllo come quello che ha subito S. D.”.

In un’altra occasione D. fu ripreso pubblicamente dal Sindaco alla presenza della gente per non aver completamente effettuato le pulizie stradali, e sbottò dinanzi al N. dicendo “questo mi sta rompendo il cazzo!”. Per quegli episodi negativi non dava segni di insofferenza, per il suo carattere gioviale e sensibile, però gli sembrava che fosse “alquanto mortificato”, ed a conferma di ciò poteva affermare che lo S., a differenza di altri dipendenti comunali, al termine del suo servizio quotidiano non si intratteneva negli uffici, “ a suo dire per disagio personale”, “bensì rimaneva in disparte nel garage sottostante la sede comunale ove attendeva l’orario di uscita”. 

Nel verbale s.i.t. del 18/12/2002 aggiungeva che lo S. gli confidò di tenere quest’ultimo comportamento per evitare di incontrare P., C. e T. e evitare così di essere “ulteriormente maltrattato e vessato alla presenza pure dei colleghi”; e subiva sistematici e immotivati rimproveri sulla qualità del servizio prestato, “anche con parole dure ed offensive in presenza di altre persone”; quanto ala pretesa di recarsi immediatamente al lavoro in ore serali o quando era in ferie, ricordava dell’episodio della festa di compleanno e di come rispose lo S., ossia che potevano chiamare l’altro dipendente C. Albino avente le medesime sue mansioni, e la sua impossibilità a muoversi poiché impegnato in quel festeggiamento che era noto anche al Sindaco. Quanto al comportamento “immotivatamente vessatorio e particolarmente duro” tenuto dal Sindaco nei confronti anche suoi e di altri dipendenti comunali, ciò era dovuto al fatto che “non avendolo appoggiato alle ultime elezioni amministrative, dovevano pagare”; e ricordava del rimprovero a C. Francesco cui disse “il parlare con te mi fa perdere prestigio”, e delle parole ingiuriose rivoltegli quando una volta gli disse “tu se non vieni proprio a lavorare è meglio”, oppure “dimmene una sola delle 99 cose che fai bene”, insomma ogni cosa che faceva non gli andava bene e trovava sempre il modo di rimproverarlo; quanto alla situazione di S., conoscendolo molto bene nelle sue condizioni familiari e patrimoniali, poteva affermare che non aveva alcun motivo di frustrazione o alcun problema tale da indurlo al suicidio, e “l’unico elemento di grave frustrazione e malessere che ho avuto modo di appurare personalmente e che mi è stato direttamente confidato dallo S. era costituito dai continui maltrattamenti e vessazioni di cui era fatto oggetto a opera del P., del T. e del C.”, e continuò a patirli nonostante avesse cambiato mansioni rinunciando a quelle di idraulico nel settembre 2001 ed assumendo le funzioni di livello inferiore di operatore ecologico, “scelta che fu dettata soprattutto dalla sua esigenza d sottrarsi in qualche modo alle vessazioni ed anche alle continue e spesso immotivate richieste di intervento poste in essere nei suoi confronti da tutti e tre i soggetti di cui innanzi”, e fu questa la motivazione principale del suo cambio di mansioni mentre soltanto “ulteriore e successiva” fu la motivazione di cambiare mansioni per poter dare una mano alla propria moglie nella gestione del bar, così precisando quanto dichiarato nel primo verbale del 3/4/02.

Nel terzo verbale del 29/5/2003 il N. si presentava spontaneamente alla Procura della Repubblica innanzi al PM per riferire che tre giorni addietro era stato avvicinato dall’assessore D'A. Tullio che, invitatolo a salire a bordo dell’auto di servizio, gli riferiva di stare attento a ciò che faceva perché nell’amministrazione stavano cercando di sostituirlo nel ruolo di comandante dei vigili urbani poiché “io avrei parlato contro di loro in relazione al decesso di S. D. allorché fui ascoltato dalla S.V.”, cioè “volevano farmela pagare” per il fatto che aveva parlato sui rapporti di S. e gli attuali indagati, ed il tutto fu anche confermato in un dialogo avvenuto sempre con il D'A. il successivo 27/5/03, registrato su microcassetta -il nastro risulta consegnato al PM dal N. ed affidato per l’incarico di trascrizione in data 29/5/2003, come da verbale di conferimento di CTU, acquisito in produzione documentale del PM-. Nella denuncia del 15/12/2004, anch’essa acquisita con allegato verbale di riunione dei dipendenti comunali, il N. esponeva che, a seguito della chiusura delle indagini sulla morte del dipendente comunale S. D., era stato “preso di mira” dal Sindaco indagato, che gli aveva tolto il saluto e tentava in ogni modo di provocarlo e diffamarlo; quegli, “comportandosi come al solito da despota” convocava quotidianamente tutti i suoi dipendenti che erano stati sentiti dalla Procura della Repubblica sul caso S., “al fine di appurare le dichiarazioni già rese e tentare contemporaneamente di insinuare fatti nuovi, sconvolgendo al verità processuale e mettendo me in difficoltà”, e così aveva convocato C. Franco, M. Cosimo, T. Armando Raffaele, C. Luigi -ex assessore ed imputato di 46 reati di falso per aver timbrato il cartellino all’inizio dell’attività lavorativa negli stessi orari in cui invece partecipava alle riunioni di Giunta, ed ora assunto a posto fisso presso il Comune-, sicché chiedeva l’intervento immediato della Procura della Repubblica affinché venissero “sventati i tentativi di subornazione e di coartazione dei testi che hanno deposto” e sporgeva querela per diffamazione contro coloro che avevano deposto mettendolo in cattiva luce, allegando un verbale di assemblea generale dei lavoratori del comune di Sicignano degli Alburni datato 8/9/2001, nel quale si stigmatizzava l’atteggiamento dell’Amministrazione Comunale e del Sindaco “diretto a penalizzare i lavoratori”, nel senso che i dipendenti, fra le altre cose, non accettavano le disposizioni sulla flessibilità del lavoro ridotta di 15 minuti laddove si pretendeva una giustifica del ritardo, e si denunciavano le “continue incursioni di Assessori in compiti demandati dalla normativa vigente ai responsabili delle posizioni organizzative. In particolare anche riguardo al controllo del personale”).

Insomma, le dichiarazioni rese più volte dal N. alla PG ed al PM nel corso delle indagini preliminari erano sì più incisive e puntuali, ma cionondimeno di esse è conservata la valenza probatoria stante l’accordo delle parti alla loro acquisizione, sicché si comprende, proprio con riguardo a quanto capitato direttamente e personalmente anche a lui stesso, il significato di alcune espressioni riduttive o più morbide espresse in dibattimento, laddove l’ossatura e la sostanza delle stesse non cambia, anzi viene accentuata proprio attraverso le contestazioni (se ne segnaleranno altre di qui a breve) formulate nel corso della sua audizione dibattimentale. E molte circostanze non chiare o incomplete espresse dianzi alla Corte sono state dipanate proprio attraverso la lettura di quei verbali, sì che, alla fine, tutto è sembrato più nitido e incontrastato.

E proseguendo nel suo esame, su domande della parte civile, il N. ha escluso che fosse invalsa una prassi fra i dipendenti di far timbrare a cura di altri il cartellino di ingresso o di uscita, ed ha precisato che invece se qualcuno non fosse riuscito a timbrare era il responsabile del servizio che andava a vistare; né furono mai presi provvedimenti contro coloro che non timbravano. Un’altra persona “tartassata del Comune” è stato il vigile T. Francesco; sul punto, il N. ricordava che una sera di martedì, giorno di mercato, c’era una seduta di giunta comunale ed egli salendo sul Municipio, incontrò il T. al quale chiese di andare a controllare se era stata pulita l’area mercatale, e notarono che vicino al posto di un operatore commerciale di nome L., c’erano degli scatoli per terra; di ritorno incontrarono S. al quale chiesero spiegazioni e questi rispose dicendo che il L. gli aveva chiesto di potersi trattenere più dell’orario stabilito, ma che avrebbe provveduto poi lui a ripulire l’area; inoltre chiese loro la cortesia se avessero potuto timbrargli il cartellino che aveva dimenticato di timbrare, così evitandogli di rientrare in sede visto che i due andavano al Municipio, e nel frattempo egli si sarebbe recato in piazza a pulire lo spazio che non era stato più pulito da quell’operatore commerciale. E così i due -N. e T.- accettarono di timbrare il cartellino di S..

Nel frattempo, giunse sopra il vicesindaco C. il quale mostrando il cartellino al sindaco ed ai presenti, disse che quel cartellino appena cinque minuti addietro non era timbrato ed ora sì. Fu a quel punto che il Sindaco chiese delle spiegazioni ed il N. rispose, mentendo, di non saperne niente; in udienza ha precisato che in realtà insieme con T. erano rientrati e saliti su, ma poi T. se ne scese perché doveva andare a fare un servizio nella frazione Scorza, per cui non poteva asserire su chi materialmente avesse timbrato; quando poi giunse lo S., convocato d’urgenza e rintracciato tramite l’incaricato, assessore O., quegli confessò di essersene dimenticato e di aver chiesto al N. ed al T. la cortesia di timbrare al posto suo; fu a quel punto che il Sindaco, senza attendersi spiegazioni in merito, aggredì il N. dicendo che egli era stato “complice” e che aveva “nascosto questa situazione”.

A suo dire, però, egli non aveva avuto il tempo di parlare e spiegare la situazione che solo in seguito il T. chiarì ammettendo d’essere stato lui a timbrare.

Furono pertanto denunciati sia S. che T., ed anche quest’ultimo cadde in depressione per quel fatto, come pure lo S. che si sentiva responsabile di quanto accaduto, facendosene un senso di colpa.

Sull’episodio v’è anche una relazione del Comandante N. al Sindaco datata 17/12/2001. (E’ nella produzione documentale del P.M.; vi si legge che il N., prima di entrare nella sede municipale per presenziare alla seduta di Giunta dell’11/12/2001, verso le ore 17:00, si era portato presso la Piazza Umberto I° dove si era tenuto il mercato settimanale e constatava la presenza di numerosi cartoni lasciati per terra in prossimità della fontana pubblica; successivamente, accompagnato dal vigile T. Vincenzo Gerardo Francesco, rintracciava in Piazza Plebiscito l’operaio S. D. addetto alla pulizia del mercato al quale chiedeva spiegazioni in merito alla mancata pulizia e quegli prontamente riferiva di aver provveduto alla pulizia del mercato e dei servizi igienici e che l’operatore commerciale L. Luigi si era trattenuto fino a tarda ora non consentendo la pulizia di quel posteggio assicurando, anzi, di provvedervi personalmente; aggiungeva poi lo S. di aver dimenticato di timbrare il cartellino in uscita.

Quindi, “lo scrivente, invitato l’operaio a provvedere alla rimozione degli scatoli di cartone, si recava presso la sala della G.M. dove poco dopo entravano gli Assessori C. e T. i quali mostrando il cartellino dello S. riferivano che sicuramente qualcuno aveva provveduto a timbrare lo stesso, in quanto avevano controllato che qualche minuto prima non risultava timbrata l’uscita. Il sottoscritto al momento non fu un grado di stabilire chi e quando abbia provveduto a timbrare il cartellino dello S.”. -Chiaramente la relazione tace su due passaggi centrali, ossia sulla richiesta dello S., volta ai due vigili, di timbrare per conto suo, come ammetterà il T. e ribadirà in udienza, e sulla reazione del Sindaco dinanzi alle giustificazioni dello S. immediatamente convocato al suo cospetto ed alla presenza degli assessori, di cui pure ha parlato il N. sia in indagini che in dibattimento; probabilmente è questo l’effetto dell’ “ammorbidimento” richiesto dal Sindaco nel chiedergli una relazione su quanto accaduto-.

Per contro, nella relazione di C. e T. acquisita a protocollo del Comune in data 28/12/2001, si segnalava che, premesso l’invito al Sindaco di adottare i provvedimenti di competenza, in data 11/12/01 alle ore 17:25 mentre essi si trovavano in sala giunta, pervenne una telefonata anonima con la quale si informava che la piazza del mercato non era stata adeguatamente spazzata e che l’operatore ecologico S. addetto alle pulizie si trovava in quel momento all’interno del bar gestito dai suoi familiari, intento a servire la clientela; a seguito di ciò i due assessori verificavano innanzitutto il cartellino marcatempo che risultava timbrato in entrata alle ore 13:22 ma non anche in uscita, quindi si recavano in piazza del mercato dove risultava che effettivamente vi erano ancora dei rifiuti, ed al fine transitavano dinanzi al bar degli S. dove verificavano la presenza del dipendente intento a servire la clientela; rientrati in municipio i due assessori “con enorme sorpresa” constatavano che il cartellino era stato timbrato appena 3-4 minuti prima del loro arrivo, ossia alle ore 17:43, e di tanto veniva informato il sindaco, alla presenza del segretario comunale, degli assessori O., V. e D'A., e del comandante N., il quale ultimo recriminava il comportamento dello S. aggiungendo che “non era il solo a comportarsi in questo deplorevole modo” e dichiarava di non sapere chi potesse essersi sostituito al dipendente per timbrargli il cartellino, aggiungendo di essersi recato insieme al vigile T. pochi minuti prima nel bar dello S. al quale aveva contestato la scarsa diligenza con cui aveva provveduto alla pulizia della piazza del mercato; il dipendente veniva allora convocato d’urgenza tramite l’assessore O. a recarsi in Sala Giunta, e qui, alla presenza del Sindaco e degli assessori si giustificava dichiarando di aver terminato il servizio alle ore 15:30, di non aver pulito tutta la piazza perché l’ambulante L. non aveva ancora tolto tutta la sua mercanzia impegnandosi a provvedere lui stesso a raccogliere i cartoni abbandonati intorno al proprio camion, e di essersi dimenticato di timbrare il cartellino nell’ora di uscita dal servizio; concludeva quindi ammettendo di aver chiesto, all’interno del suo bar, pochi minuti prima, la cortesia al comandante N. ed al vigile T. di timbrargli il cartellino, e di non sapere chi dei due l’avesse poi fatto, quindi si scusava ed andava via; “successivamente veniva convocato il vigile T. che ammetteva, senza riserve, di avere lui materialmente provveduto a timbrare il cartellino di cui innanzi, in perfetta buona fede e senza rendersi conto della gravità del fatto”. Questa, secondo le acquisizioni testimoniali e documentali raccolte, è stata dunque la seriazione cronologica degli eventi da cui è partita la denuncia alla Procura della Repubblica.

Il N. ha poi confermato che, dopo il suicidio e durante le indagini, dopo la sua deposizione innanzi al P.M., fu convocato dal Sindaco per sapere come era andato l’interrogatorio, e quell’incontro fu da lui stesso registrato (è una delle cassette acquisite, con relativa trascrizione del dialogo fra i due, in cui la voce 4 è del Sindaco e la voce 3 è di N.), ed in quella occasione si parlò di molte cose, fra cui anche quanto fu detto dal C. al Sindaco allorquando minacciò di dimettersi se il Sindaco non avesse denunciato quanto accaduto in relazione alla timbratura del cartellino dello S.; poi il N. ha anche ammesso d’essersi trovato in difficoltà perché, come a lui era capitato, anche altri dipendenti ascoltati dalla Procura sul caso S. furono convocati dal Sindaco “al fine di appurare le dichiarazioni già rese e tentare di insinuare fatti nuovi, sconvolgendo la verità processuale”; tra i “fatti nuovi” che il Sindaco voleva introdurre c’era l’episodio di una cagnetta che il N. aveva mandato a casa del Sindaco, e questi aveva perciò cercato delle persone perché rendessero testimonianza su quella vicenda.

Riguardo al contenuto degli scritti rinvenuti la mattina del suicidio, il N. ricordava di aver commentato con il Sindaco che era chiaro che anche la famiglia dello S. fosse ostile con lui, ed il P. replicò esclamando che se S. si era comportato in quel modo, cosa mai avrebbe dovuto fare lui (il N.) per quanto subìto, ritenendo in tal modo di averlo tartassato più del primo.

E dopo il suicidio di S., fu avvicinato dall’assessore D'A. il quale gli disse che l’amministrazione comunale ce l’aveva con lui (non era ben disposta nei suoi confronti) ed aveva l’intenzione di sostituirlo, e che l’assessore T. aveva anche portato su al Comune un maresciallo dei Carabinieri in pensione quale candidato sostituto, ma non piacque al Sindaco e non se ne fece più nulla. Su domande di altra parte civile, il teste ha anche riferito che vi furono delle riunioni sindacali con i dipendenti ed in quelle dal 2001 in poi i dipendenti lamentavano l’ingerenza dell’amministrazione sull’operato dei dipendenti, e c’era anche un verbale in cui si chiedeva perché mai gli amministratori non si rivolgessero ai responsabili dei servizi.

Su domande della difesa dell’imputato P. è emerso che la relazione del 17/12/2001 gli fu chiesta dal Sindaco, come “relazione accomodante perché non voleva esporre denuncia di quella situazione”, e purtuttavia non era corretta la situazione che lo S. chiedeva di documentare attraverso una timbratura successiva alla chiusura del servizio, anche perché al momento in cui lo richiese ai due vigili urbani non aveva ancora spazzato la parte relativa all’operatore commerciale L.; di contro, ha replicato il teste, la timbratura anche di un’ora più avanti non avrebbe comportato un onere in più perché non era previsto lo straordinario, e comunque era capitato altre volte e ad altri che l’uscita dal servizio fosse stata vistata e non timbrata; non ricordava di aver pronunciato alcuna parola a fronte dell’accusa dello S., rivolta al cospetto del Sindaco e di più assessori di giunta, di aver incaricato lui e T. di timbrare il cartellino al posto suo, e precisamente non ricordava di aver ributtato “ma non state a sentire questo ubriacone, non lo vedete che è ubriaco ?”, né spiegava come mai il Sindaco, che pure nutriva dell’astio nei suoi confronti, non gli avesse fatto una nota per l’omissione di denuncia dopo aver scoperto le illecite intenzioni dello S., e come mai avesse richiesto per S. e T. una “relazione soft” ossia accomodante per cercare di aiutarli, come poi egli fece, e non sapeva per quale ragione il sindaco attese poi 22 giorni per fare la denuncia.

Il teste rispondeva, infine, negativamente ad una serie di circostanze che la difesa chiedeva, ossia se in occasione dell’episodio del disturbo di pancia avesse segnalato lui al Sindaco di aver visto il carrettino abbandonato in strada da più di due ore, di aver visto lo S. uscire dal garage, di aver parlato con il Sindaco in strada, di sapere che i bagni del comune erano rotti (laddove invece ogni anno a fine ottobre, in occasione di una sagra stagionale, vengono rimessi a nuovo); riferiva poi che l’altro idraulico abitava in località Serralonga ad una quindicina di chilometri dal Comune capoluogo ed era un LSU, mentre Petina dista 10-12 km. da Sicignano, e che i rapporti intrafamiliari dello S. erano buoni, salvo qualche screzio, che gli era stato imposto di non bere e non fumare a seguito di un intervento chirurgico di colecisti epperò nelle occasioni conviviali qualche bicchiere in più lo beveva, sebbene non potesse sapere se bevesse di nascosto. Quanto alla sua propria posizione, su domande della difesa emergeva che il N. era stato assunto e nominato sottotenente e Comandante dei Vigili Urbani sotto l’egida della precedente amministrazione comunale (di Iuzzolino, non di P.), vincendo un concorso cui partecipò un solo altro concorrente; inoltre, negava di aver utilizzato strumenti dei servizi segreti (presso cui aveva lavorato un proprio fratello) per registrare una conversazione telefonica privata tra il P. ed una donna sulla linea telefonica del Comune, avendo invece egli ricevuto in busta chiusa ed anonima e via posta una cassetta contenente quella registrazione che poi, “per dimostrare al sindaco la mia collaborazione, gliel’ho consegnata” e questi gli chiese come avesse fatto; in realtà anche lui reputava che si trattasse di una “vigliaccata, è una vergogna” (queste sono le espressioni usate dal N. nel corso del dialogo registrato con il Sindaco allorquando lo convocò per avere notizie dell’interrogatorio reso al PM), e tuttavia non mancava di rispondere “però giustamente uno si deve guardare, si deve parare”, nel senso di doversi guardare le spalle (con ovvie implicazioni sulla attendibilità della prima parte della sua deposizione esposta ad imbarazzanti critiche di reticenza e sulla reciprocità di posizioni non lineari o vacillanti dell’uno e dell’altro interlocutore, laddove il N. temeva della sua rimozione dall’incarico ed il Sindaco della divulgazione di quel dialogo privato oltrechè delle sorti del processo).

Quanto poi all’episodio della cagna, il N. ha ricordato di aver consigliato a dei ragazzini che avevano adottato una cagnetta da strada, e della quale non sapevano che fare, di andare dal Sindaco e vedere come fare per sistemarla, non già di aver detto loro “portatela alla moglie del Sindaco”, quasi in tono dispregiativo e, quindi, diffamante.

Non gli risultava, poi che pochi giorni prima del suicidio lo S. fosse stato ritrovato nella parte sottostante del Comune “in pessime condizioni fisiche” e che di tanto abbia fatto menzione al T. affinché attivasse i suoi familiari per curarlo; non ricordava, poi, di un rapporto nei confronti dello S. datato 1987, a sua firma, relativo a lamentele di cittadini verso lo S. (per il suo “poco attaccamento al lavoro”, tanto si legge nella comunicazione del Ten. N. al Sindaco datata 12/9/87, acquisita agli atti del dibattimento l’11/1/2008, contenente una pedissequa nota di richiamo del Sindaco dell’epoca formulata per iscritto in data 15/9/87 allo S. D., ricevendone l’assicurazione d’essere “più attento e diligente nel servizio per il futuro”).

Quanto agli attrezzi usati per spazzare, il N. ricordava che lo S. aveva a sua disposizione un carrettino portabidoni, a due ruote, mentre il motocarro Ape era a disposizione del netturbino che si spostava nelle frazioni lontane dal centro del Comune; e si trattava di mezzi dell’amministrazione comunale non suoi propri; quanto all’intervento richiesto la sera del 18° compleanno del figlio, non sapeva di che tipo di intervento si trattasse ma sapeva che poi ci fu la riparazione della condotta idrica percolante; quanto al controllo degli assessori sulla presenza dei dipendenti, il N. non spiegava come mai quel tipo di controllo fosse stato compiuto da due assessori e non da altri addetti preposti alla vigilanza; inoltre egli, come Comandante dei Vigili Urbani, dipendeva direttamente dal Sindaco; ed ancora, è emerso che a tutt’oggi i tre imputati sono consiglieri di minoranza del Comune di Sicignano, rieletti nel 2006.

 

 

b) Gli altri testi del P.M.  -anche comuni alla difesa degli imputati- e della parte civile.

 

Quanto sin qui raccolto (e si badi, i testi P., M. e N. sono stati escussi nella prima udienza di istruzione dibattimentale) costituisce la base fondamentale e centrale degli accadimenti oggetto di analisi valutativa nella presente fase giudiziale; tutte le vicende occorse allo S., a suoi rapporti con l’Amministrazione Comunale e con i suoi familiari sono state sviscerate in queste prime battute iniziali del processo. I testi che seguiranno non sono altro che conferme o approfondimenti o, per altra via, contrasto, a quanto dai primi narrato.

Il vicino di casa N. Francesco Antonio (di cui si è già rammentato il triste ruolo di primo recettore della notizia del decesso di D. S. da parte del figlio minore Simone, nonché il pietoso incombente del rinvenimento del cadavere e del taglio della corda che lo legava alla trave della tettoia nel garage di casa), ha riferito di sapere che al predetto non era “simpatica” l’amministrazione comunale cui non aveva dato il proprio voto, ma non ne sapeva il motivo né aveva mai ricevuto confidenze dallo S., e negava recisamente, su domanda della difesa, che lo avesse ricevuto in casa propria mostrando i segni di una aggressione fisica che quegli avrebbe subìto dalla moglie e dal figlio, né ricordava di eventuali lamentele che lo S. avesse fatto con il proprio coniuge circa i propri rapporti coniugali; anzi lo descriveva come una persona dal carattere “solare”, sebbene negli ultimi tempi lo avesse visto affaticato, probabilmente a causa del lavoro al bar, e dimagrito. Il medico di famiglia, P. Pietro, ha riferito che lo S. D. era affetto da epatopatia di grado medio-grave, ma dalle analisi non risultava che fosse un alcolizzato, né aveva le prove che fosse affetto da una patologia grave che lo avrebbe portato a morte; ricordava, invece, di avergli prescritto della enterogermina per diarrea in data 7/1/2002 (anche la diarrea come la gastrite può essere legata ad un fatto di stress, o virale o ad un abuso alimentare), e di avergli dato consigli “generici” di non bere e non mangiare molto. Soffriva anche di colite/gastrite le cui cause possono essere molteplici, anche una somatizzazione dovuta a condizioni di stress.

Infine, rammentava che pochi giorni prima di morire, il 21/3/2002, gli aveva prescritto tre giorni di riposo per “epigastralgia” con pirosi e vomito (cfr. certificato acquisito in produzione documentale del PM), e trattasi di sintomi, come affermato in udienza, non esclusivamente indicativi della cirrosi epatica, di cui, nel caso di specie, non v’era alcuna documentazione diagnostica attestante quella affezione patologica.  Anche in altre occasioni aveva lamentato quel tipo di dolori, ma di sicuro doveva correggere l’alimentazione.

Ricordava che non sempre lo S. obbediva alle prescrizioni mediche che disponeva di fare, ma non ricordava se gli avesse mai chiesto quali fossero i sintomi della cirrosi e comunque avrebbe notato un colorito giallastro se fosse comparso sul suo volto. Non ricordava che lo S. gli avesse mai raccontato di episodi di insonnia o di depressione né aveva elementi per dire che fosse affetto da una patologia grave, o comunque per definire il livello al quale era giunta l’epatopatia (già diagnosticatagli qualche anno prima), né aveva elementi per diagnosticare una depressione.

C. Francesco, dipendente comunale con mansioni di custode cimiteriale, ha riferito di aver fatto da ultimo un piano di lavoro insieme con lo S. nel settembre 2001, e di lui ricordava un carattere allegro e scherzoso, un po’ meno dopo quel periodo trascorso insieme a lavorare. All’incirca nel periodo natalizio o poco dopo, agli inizi del 2002, il Sindaco convocò una riunione con i dipendenti per ragguagliarli sulla scomparsa di una batteria, soldi e rotoli di carta dalla sede del Comune, ipotizzando che fra di essi potesse esservi il responsabile degli indebiti asporti, e fu al termine di quella riunione che lo S. esternò la sua intenzione di voler cambiare lavoro, tornando a fare il muratore. Sapeva poi dell’episodio del bagno, e del fatto che, dopo le elezioni amministrative (nelle quali aveva votato contro), lo S. si sentiva “perseguitato” nel senso che chiedevano dove andasse e dove fosse stato, e questo era un fatto noto a tutto il paese, se ne parlava tra i dipendenti; ciononostante, ricordava che una volta, durante il periodo in cui avevano lavorato insieme, lo S. si era pure fermato davanti all’abitazione del sindaco per un cordiale saluto. Ricordava il C. che anche a lui era capitato di dover subire, in un incontro con il Sindaco, delle parole forti rivolte al suo indirizzo: aveva appreso infatti che quegli aveva richiamato l’ing. D’A. (responsabile di servizio) sul fatto che egli non fosse adempiente alle prestazioni richiestegli, ma in realtà aveva da curare ben tre cimiteri e non c’erano ferie o giorni di malattia perché comunque doveva rientrare in servizio nel caso in cui dovesse accogliere una salma al cimitero; sicché si decise di andare dal Sindaco a parlare con lui e qui ci fu un vero litigio alla presenza del figlio del sindaco e dell’arch. Mosca: egli si giustificava del fatto che facesse anche più dei suoi compiti in quanto gli si chiedeva di pulire il muro di cinta o di innaffiare le piante anche in altre zone non cimiteriali, e non gradiva che il Sindaco lo rimproverasse in pubblico, ma a tanto il P. gli rispose “sai, io perdo di prestigio a parlare con te” e lo forzò di accomodarsi fuori. Aggiungeva il teste che nel periodo in cui lavorò insieme con lo S., andavano a fare le pulizie al Comune negli orari di lavoro, e lo S. aveva le chiavi di accesso del locale garage dove erano situati gli oggetti di cui il Sindaco denunciò la scomparsa, chiavi che erano a disposizione, comunque, di almeno altre 5 o 6 persone fra dipendenti e vigili urbani. Su domanda del responsabile civile il C. ha affermato che nella amministrazione P. c’era più rigore nel richiedere l’osservanza dei doveri da parte dei dipendenti comunali, ed ha rimarcato che, ad esempio, non si poteva prendere il caffè perché erano pagati per sei ore di lavoro, e tuttavia non risultavano esser stati presi dei provvedimenti formali salvo l’unico caso, quello della timbratura del cartellino marcatempo dello S.. Su domanda della difesa è emerso che il Sindaco nella riunione oggetto di registrazione non vietò di bere il caffè bensì disse che “noi non saremo così tanto sciocchi da non capire che forse ad un certo momento una tazza di caffè potrebbe anche servire a far lavorare, a farvi lavorare meglio”, e che la richiesta di S. di cambiare lavoro subentrò non appena il Sindaco terminò di parlare. Della persecuzione di S. ne parlò, anche prima del suicidio, con alcuni dipendenti esterni, ossia P. Alessandro e M. Antonio; ed anche altre volte lo aveva rimproverato in pubblico, probabilmente sempre per il motivo del mancato appoggio elettorale di cui il Sindaco era a conoscenza essendo il C. parente di un candidato della lista avversaria. Ricordava infine di un altro incontro cordiale del Sindaco con lo S. ed il figlio piccolo, nel 2001; quanto ai lavori “extra” che il Sindaco chiedeva di fare, essi non rientravano nel tipo di lavori di cui ai progetti approvati nella contrattazione decentrata (dovevano spazzare nelle frazioni e nella casa comunale) né per essi aveva un incentivo economico, e comunque non rientravano nelle sue mansioni, anzi si richiedeva che venissero svolti nell’ambito dell’orario stesso; non ricordava di essere stato controllato dal T..

Sulla stessa linea d’onda si collocano le dichiarazioni di M. Filiberto, singolare personaggio conoscitore di fatti e persone del paese per esserne un osservatore “di piazza” (nel senso proprio, cioè che essendo non occupato al lavoro in quanto cassaintegrato, stazionava sulla panchina della piazza del paese per osservare le persone ed il Comune, come egli stesso ha riferito in udienza, e come ha ribadito anche il teste P.), e deponente in udienza su circostanze molto più approfondite rispetto a quanto dichiarato in fase di indagini preliminari (il che non è stato sottratto ad informali contestazioni sulla veridicità di quanto all’epoca e nell’immediatezza dei fatti, fu dichiarato); e così “scambiando qualche chiacchiera” con D. S., ne raccoglieva racconti e confidenze, quale il fatto che il Sindaco “lo assillava”, o, più in dettaglio, l’esigenza rappresentatagli per caso una mattina di dover recarsi al bagno, rifiutando il suggerimento di andare al gabinetto del bar della moglie (distante 200-250 mt. dalla sede del Municipio), preferendo invece i locali del Comune perché altrimenti non lo avrebbero creduto; gli confidò in seguito che andarono anche a controllarlo in bagno per vedere se avesse fatto raccomandandogli di non tirare la catena. Riferiva in udienza che un loro compaesano, P. Alessandro, gli ripeteva sempre “stai attento che ti riprendono con le telecamere”, e che negli ultimi giorni “era pauroso” dell’amministrazione comunale ed in particolare del Sindaco sig.P. Domenico, il quale lo assillava, lo perseguitava; ritenevano gli amministratori, infatti, che lui non lavorava, non faceva niente, andava bevendo (sebbene di fatto bevesse un po’ ma non era certo alcolizzato), ed è per questo motivo che gli affibbiarono il nomignolo “l’uomo invisibile”. Dello S. ricordava il carattere scherzoso, tranne che negli ultimi giorni in cui era giù di morale, ma non parlava di malattie (su contestazione della difesa è emerso che alla PG aveva invece riferito che non l’aveva mai visto giù moralmente anche quando gli riferiva dei suoi problemi con l’Amministrazione; ma il contrasto non è insuperabile ove si intenda che l’abbassamento del tono dell’umore si sia manifestato soltanto in prossimità dell’evento drammatico suicidiario e non anche quando confidava al M. le sue disavventure. La paura dello S. era quella d’esser licenziato, e gli confidò pure che il Sindaco lo perseguitava perchè non lo aveva votato. Il M. metteva poi in guardia la Corte, nel senso che “a Sicignano c’è l’omertà, non parla nessuno”, e negava d’esser stato “preparato” nella sua deposizione testimoniale, d’essere mai stato diffidato dai carabinieri per degli insulti contro il Sindaco rivolti in sede di consiglio comunale, alle cui sedute il prevenuto spesso partecipava come pubblico; parimenti, egli ogni mattina, per tre mesi aveva stazionato sulla panchina in piazza al Comune ma non aveva mai fatto richiami a qualcuno né alcun ricorso né aveva ma fatto controlli ai dipendenti dal suo punto di osservazione.

Altri testi hanno confermato quanto fin qui raccolto: S. Raffaele, attuale Sovrintendente del Corpo di Polizia Municipale di Sicignano degli Alburni, ed amico dello S. D. con il quale aveva anche rapporti di lavoro essendo egli incaricato di organizzare la rete idrica del territorio comunale, ne ricordava il carattere allegro e spensierato, e gli incontri anche conviviali fra compagni. Riferiva, in particolare, di una sua convocazione al Comune nonostante non fosse in servizio e della sua presentazione, su richiesta del Sindaco ed in compagnia della moglie Angela, con la faccia gonfia a causa di una puntura di un’ape, dinanzi al quale egli si prese la responsabilità di inibirgli di andare al lavoro e di invitarlo a tornare a casa; altre volte, il Sindaco o gli amministratori o gli assessori lo mandavano a chiamare quando svolgeva le mansioni di fontaniere, e ciò accadeva pure al di fuori degli orari di servizio, e chiamavano lo S. perché era più C., più esperto, ed anche più giovane, dell’altro idraulico comunale, Polito, in seguito deceduto; se lo chiamavano di sera per quel tipo di emergenze bisognava andare, anche se non c’era un compenso per quel tipo di “reperibilità” giacché il lavoro di sistemazione della rete idrica era previsto nell’ambito di una collaborazione inclusa in un progetto per il quale, come da concertazione decentrata, era stabilito un compenso globale; ma comunque, “da quando è stato fontaniere, veniva chiamato sempre”; sicché, proprio per avere un orario di lavoro certo, ed essere libero da impegni negli orari successivi, ma anche per l’intenzione di aprire un bar che fu affidato in gestione alla moglie, preferì cambiare mansioni, da idraulico a netturbino. Negli ultimi tempi, poi, aveva notato un certo dimagrimento dello S., ed un comportamento più chiuso, non si fermava da loro all’uscita dal lavoro, e domandatogli cosa stesse accadendo quegli rispose “mi sento controllato troppo dall’amministrazione, mi sento il fiato addosso, … mi sento perseguitato dal Sindaco e dall’assessore T. … mi sento controllato, non riesco a muovermi”. Una volta l’assessore D'A. gli chiese di andare a cercare lo S., era un giorno di mercato e come sempre, in quei giorni, gli operatori ecologici spezzavano l’orario di lavoro proseguendo per tre ore nel pomeriggio, ma se c’era da pulire si rattenevano anche di più senza una retribuzione da lavoro straordinario, perché il tutto rientrava nei lavori a “progetto”, nel senso che “alla fine, un’ora, dieci ore o cinque ore o quattro ore, lui praticamente se lo puliva con calma”. Ricordava il teste che lo S. si lamentava dei rimproveri in pubblico, nonostante svolgesse con diligenza il suo lavoro,  sicché egli stesso ne parlò con il Sindaco affinché evitasse di fare quei richiami e ne parlasse, invece, direttamente con il responsabile di servizio, poi, su domanda della parte civile, ha asserito che in seguito a quel dialogo il Sindaco non gli dette ascolto. Anche C. Franco si lamentava del comportamento del Sindaco che lo aveva richiamato in pubblico, ed un giorno lo incontrò scendendo le scale del Municipio “arrabbiatissimo” ed in uno stato di “profonda mortificazione” per la frase che pronunciò il Sindaco circa la “perdita di prestigio” nel parlare con lui, e ciò accadde nel mese di dicembre 2002 (come è emerso a seguito di contestazione del PM), quindi dopo il suicidio. Il S. non ricordava del soprannome dato allo S. d’essere “l’uomo invisibile”, inoltre sapeva di un controllo mattutino compiuto dall’assessore T. o da chi altri dinanzi alla scuola per vedere a che ora D. arrivava al lavoro, ma non poteva indicare chi glielo avesse riferito; ed ancora, sapeva del controllo al bagno, “volevano guardare nel vaso se lui andava al bagno”, e di tanto se ne parlava in piazza, “ne parlano tutti”; sapeva dell’episodio della timbratura del cartellino, che D. chiese la cortesia al vigile T. di timbrarglielo, e sapeva che poi C. andò a verificare e trovò il cartellino timbrato mentre lo S. era al bar, come gli fu poi raccontato dal suo collega, ma “ritornando al discorso di prima, non è che D. voleva rubare o voleva fare perché non aveva nessun motivo, perchè là lui poteva stare tre ore, quattro ore, cinque ore al mercato era un problema suo, doveva pulire il mercato … non è che ha percepito un’ora di straordinario”, e non ricordava altri casi in cui l’amministrazione comunale denunciò fatti analoghi, sebbene (come poi ha riferito il teste in sede di riesame della parte civile) fosse capitato altre volte che qualche dipendente si fosse prestato a timbrare i cartellini d’altri a causa delle distanze tra le frazioni del territorio comunale. Il S. riferiva infine che nell’ultimo periodo aveva notato lo S. dimagrito e sfuggente, ed aveva creato qualche problema in occasione di un’ultima visita per la sicurezza, sebbene poi giunse a fare le analisi e non risultò nulla sotto il profilo sanitario, eppure fino a poco tempo prima era molto C.nto dell’acquisto del bar per il quale era riuscito, grazie anche alla sua intercessione presso una finanziaria, ad accendere un mutuo e si sentiva tranquillo, così gli era parso nel corso di colloqui da amico con lo S.. 

Su domande della difesa è emerso che lo S. facilmente si litigava anche per futili motivi e poi dopo riprendeva l’amicizia, che conosceva i propri diritti e doveri sul posto di lavoro, che egli non si era mai trovato personalmente dinanzi a dei rimproveri pubblici fatti al Sindaco, che lo S. non aveva ancora iniziato a pagare il mutuo contratto per l’acquisto del bar e finanziato dal procacciatore tale Coniglio Giuseppe, che la moglie dello S. non era stata presente al matrimonio del figlio, che i lavoratori socialmente utili erano stati assunti come dipendenti dal Comune durante l’amministrazione P., che egli apertamente si era schierato contro il Sindaco  in occasione delle sue tre candidature, che circa il 90% dei dipendenti comunali non lo aveva votato nelle ultime elezioni, che lo S. negli ultimi tempi era dimagrito ed era anche cambiato di umore (e su contestazione emerge invece che in fase di indagini aveva dichiarato che era solo dimagrito ma non era mutato il suo umore), che i rapporti tra il Sindaco ed il Comandante N. non erano amichevoli, che si diceva in giro al Comune ed al Comando dei Vigili Urbani che c’era una registrazione di una conversazione privata tra il Sindaco ed una donna e che il N. diceva che si doveva “parare” dal Sindaco intendendo forse che doveva guardarsi, difendersi da lui; e ricordava, infine, che un giorno venne rimproverato dal Sindaco perché stava parlando al telefono, ma egli, poiché la conversazione riguardava un intervento dei pompieri ed anche il Sindaco in quella circostanza stava parlando al telefono, gli rispose con una parolaccia, episodio al quale comunque non fece seguito alcuna conseguenza di tipo disciplinare. Sapeva inoltre che aveva accettato le diverse mansioni di netturbino anche per essere di aiuto alla moglie, che per divisioni patrimoniali familiari lo S. doveva dare una quota al fratello, e negava di aver riferito al T. che D. fosse stato affetto di cirrosi epatica o che temesse di avere un tumore, circostanze a lui non note.

Ancora sull’episodio del bagno riferiva in udienza il teste R. Luigi, già responsabile dei servizi demografici del Comune di Sicignano ora in pensione, il quale ricordava di incontrarsi spesso con lo S. in quanto la macchinetta della timbratura del cartellino marcatempo era posizionata proprio vicino al suo ufficio per cui aveva modo di incontrarlo negli orari di uscita; e ricordava che una mattina lo S. giunse nel suo ufficio e raccontò loro che il Sindaco lo aveva trattenuto per verificare se avesse avuto bisogno effettivamente di recarsi al bagno per soddisfare proprie esigenze fisiologiche, motivo per il quale si era giustificato del suo temporaneo allontanamento dal carrettino della spazzatura, ed il tutto avvenne nell’ufficio del Sindaco alla presenza di alcuni testimoni, come l’ass.C., il Com.N.; e dopo quell’episodio “era molto timoroso” perché temeva il licenziamento; aggiungeva che “a quel livello era controllato solo lui”. Sapeva del soprannome affibbiatogli de “l’uomo invisibile”, del richiamo in piazza a Zuppino a cura dell’ass. T. (in servizio prima del 2001, ossia nella prima amministrazione sindacale di Pizziacara), del controllo presso la scuola ad opera degli assessori V. e T. per verificare se lo S. iniziasse il suo lavoro al mattino proprio all’ora prevista come gli confidò il dipendente P., e della lamentela che egli stesso fece al T. su quel comportamento “non proprio ortodosso” senza però ricevere risposta. In sede di controesame emergeva che il Sindaco aveva tolto al R. la posizione funzionale di responsabile dei servizi demografici, privandolo anche dei corrispondenti emolumenti, aggregando quella posizione all’ufficio di segreteria comunale, mutamento per il quale aveva pendente una vertenza giudiziaria amministrativa; e su domande della difesa emergeva che il R. aveva raggiunto con la precedente amministrazione il settimo livello retribuivo nonostante fosse stato assunto con il titolo di studio di terza media; ed emergeva pure che durante l’amministrazione del sindaco P. fu disposta la demolizione di un muro del suo ufficio, a metà, “per consentire una trasparenza generale” un visibilità da parte del cittadino, anche se ciò accadde solo per il suo ufficio, e che la riduzione della sua posizione funzionale fu dovuta dal fatto che nel tempo il R. aveva fatto soltanto venti determine amministrative; ma non ci fu un risparmio di spese perché poi quella indennità di funzione è passata al segretario comunale (su produzione documentale della difesa si evidenziava che in realtà a seguito di riorganizzazione quelle funzioni vennero assunte dal segretario comunale a titolo gratuito). Precisava infine che egli non si sentiva essere stato una “vittima” del sindaco (per incidens, ha detto che “vittima ce n’è uno solo”) ma dopo le elezioni era stato “preso di mira dall’amministrazione”. Il suo atteggiamento in udienza è parso abbastanza sereno e limpido, scevro da intenti vendicativi verso chi aveva ridotto la sua posizione funzionale (con riduzione della relativa indennità), circostanza quest’ultima che non sembra idonea ad inficiarne l’attendibilità non foss’altro per la dichiarata tutela in altra sede giudiziaria dei propri diritti con strumenti, quindi, che il R. ha dimostrato di ben conoscere e di saper far valere, e del cui esito ha tenuto distante e distaccato lo svolgimento del proprio esame testimoniale.

Anche l’impiegato comunale R. Angelo Raffaele ricordava l’episodio del cartellino marcatempo che “per lui è stato una situazione un poco spiacevole”, e l’episodio del bagno (di cui venne a conoscenza dopo il suicidio); ed ammetteva, dopo varie risposte elusive, che c’erano state delle lamentele fra i dipendenti comunali circa un eccessivo fiscalismo di controlli, come evitare la pausa caffè, il rispetto dell’orario di lavoro, ed aveva notato, rispetto alle precedenti amministrazioni, che si era “rotta quell’armonia, quel feeling tra gli amministratori ed il personale dipendente”, nel senso che si cercava di ottenere maggiore ordine e disciplina, e sapeva che c’erano state delle discussioni tra sindaco e comandante dei vigili urbani, pur non avendovi presenziato.

 

Un teste molto vicino allo S., per esserne stato collega di lavoro negli ultimi 7-8 mesi di vita, quando entrambi erano addetti allo spezzamento del paese, M. Antonio, ha riferito tre  circostanze particolari, contrastanti con quanto fino a quel momento acquisito in altri atti e testimonianze del dibattimento: S. D., puntuale e diligente sul lavoro e disposto al mutamento di mansioni per maggiore comodità e stare più vicino al bar (sebbene quest’ultimo riferimento appaia anacronistico in quanto la gestione del bar iniziò nel dicembre 2001 a fronte di un cambio di mansioni avvenuto già tre mesi addietro), sarebbe stato aduso al bere (“avveniva spesso”, beveva “parecchio”, “tutti i giorni”) durante l’orario di lavoro (ciononostante non era in grado di menzionare alcuna persona che avesse assistito a quelle libagioni quotidiane, limitandosi a dire che i bar erano frequentati da “vecchietti”); il M. ha ricordato, infatti, che il suo collega di lavoro si recava al bar della moglie insieme con lui per prendere qualcosa da bere (la moglie era presente nel bar ed a volte lui restava fuori per guadare il carrettino), come un Nano -delle piccole bottiglie di vino prosecco- o delle “mezze birrette”, e ciò accadeva dopo una pausa per la colazione delle ore 8:30/9:00 del mattino; di poi, insieme, si recavano da soli nel garage del Comune, dove c’era pure un’auto in disuso al cui interno lo S. andava a riposare se non stava bene, condizione di salute di cui si lamentava con lui; peraltro bevevano insieme e “c’erano volte che se non smettevo di bere, mi ubriacavo pure io”). Inoltre, ha anche riferito che i controlli sulla loro prestazione non erano pressanti, nel senso che se qualche amministratore (l’assessore o il sindaco) constatava che non si era ben pulito per le strade, gli diceva “per piacere Antonio, mica puoi pulire quel vicolo ?” (mentre su contestazione della parte civile emergeva che aveva riferito nelle indagini che tutti venivano richiamati da assessori e sindaco, i quali li rimproveravano per non aver pulito alcune zone); né aveva mai sentito che altri dipendenti si fossero lamentati per essere stati trattati con durezza o con mancanza di rispetto.

E si ricordava pure che in una riunione con il Sindaco ed i dipendenti comunali lo S. si sarebbe alzato a dire “si pensava che veniva P. e drizzava i dipendenti, e non facciamo sempre quello che vogliamo”, sì che addirittura altri dipendenti ci rimasero un po’ male nel senso che ribatterono che loro facevano il proprio dovere “mica facciamo quello che vogliamo”; e non si sarebbe trattata della riunione audioregistrata del 22/1/02 perché il M. non ricordava i contenuti ivi trascritti e perché all’esordio di quella cassetta di registrazione si sentiva la voce di una persona che domandava se fosse stato avviato “Cumpà Antonio”, riferendosi al M., e ricevendone una risposta negativa.

Aggiungeva, poi, che come altri dipendenti LSU, egli fu poi stabilizzato al lavoro nel Comune (alla fine del 2001); non ricordava del soprannome dato allo S., di problemi familiari o liti con la moglie, e di essere mai stati sorpresi dagli assessori comunali a fare quel tipo di colazione od in condizioni di manifesta ubriachezza, né che lo S. fosse stato avversario politico del Sindaco P..

La deposizione testimoniale del M. ha subìto un percorso accidentato, in quanto a queste risposte la difesa evidenziava che non erano in linea con la posizione dell’accusa, né sapeva fornire indicazioni su colui che gli avrebbe narrato dell’episodio del bagno (su quando aveva appreso del trattenimento presso la stanza del sindaco), dell’appostamento a scuola (su chi spiava se i dipendenti andavano a lavorare), della denuncia per la timbratura del cartellino, ed il suo verbale di sommarie informazioni reso ai CC di Sicignano degli Alburni il 26/3/2002 è stato al fine acquisito al fascicolo per accordo delle parti (stupisce il fatto che il verbale di s.i.t. alla P.G. il M. si fosse limitato a dichiarare che sul lavoro lo S. si dimostrava una persona allegra e scherzosa, e che aveva tenuto sempre lo stesso comportamento anche dopo aver ricevuto la denuncia quattro mesi prima, nonché che solo in qualche occasione si sentiva stanco del lavoro e che fino all’ultimo giorno aveva tenuto un comportamento “normale non evidenziando alcun problema, di contro a quanto riferito in udienza circa l’abitudine al bere appena due ore dopo l’inizio del lavoro mattutino -che, di certo, non è un “comportamento normale” secondo l’ordinario svolgimento diligente delle prestazioni lavorative-, circostanza che ha impegnato, invece, parecchio la testimonianza resa in dibattimento, quasi come se fosse l’aspetto comportamentale più eclatante del compagno di lavoro; insomma, è apparso davvero singolare che soltanto in dibattimento il teste abbia riferito circostanze apparentemente puntuali e pertinenti con i fatti di causa laddove nell’immediatezza del fatto non avesse altro da aggiungere oltre alle brevi e neutre circostanze poc’anzi accennate; e questo costituisce senz’altro un limite alla completa attendibilità del testimone.

A ciò s aggiunga anche la circostanza non verosimile dell’allontanamento dal posto di lavoro per recarsi al bar della moglie a bere, vuoi perché da altre parti del testimoniale in atti si è appreso che lo S. lavorasse da solo nella pulizia delle vie del centro di Sicignano, vuoi perché cronologicamente questa opportunità di recarsi la bar della moglie non poteva che verificarsi dopo la prima decade di dicembre 2001, quando aprì il bar, mentre il M. Antonio, stabilizzato come dipendente comunale soltanto a fine dicembre 2001, si trovò già nel mese di gennaio a dover sostituire -come si vedrà- il dipendente P. Umberto, operatore ecologico nelle frazioni del territorio comunale, assente per un intervento chirurgico; quindi viene meno la asserita quotidianità di frequentazione sul lavoro e, di conseguenza, la asserita constatazione di una abitudine a bere durante le “non” comuni ore di lavoro).

Un altro impiegato della segreteria comunale, C. Roberto, ha aggiunto un altro tassello alla ricostruzione dell’episodio del controllo al bagno: una mattina mentre si recava all’ufficio tecnico, sentì dal corridoio che lo S. diceva di aver lasciato un attimo il posto di lavoro perché doveva andare al bagno, e che il Sindaco rispondeva dicendo “hai il coraggio di dire che sei andato al bagno”.

Negli ultimi giorni, verso la metà di marzo, lo aveva notato silenzioso, “molto giù”, che lo salutava a malapena, e dopo l’episodio del bagno era diventato “cupo” laddove in precedenza era sempre abbastanza estroso. Era venuto a conoscenza, poi, anche dell’episodio del cartellino marcatempo.

Quanto alla disponibilità a bere, negava di averlo ma visto in quelle condizioni, mai incontrato ubriaco o brillo, mai sentito alito vinoso; non sapeva di quale orientamento politico fosse, nè di altri rimproveri (un dì il Sindaco lo rimproverò perchè era attivato tardi all’ufficio).

Anche l’altro impiegato dell’ufficio Anagrafe e Stato Civile, N. Cosimo Secondo, nonché amico dello S., aveva assistito allo sfogo dello S. sul controllo al bagno che aveva subìto ed era un po’ “abbacchiato” ed umiliato, poiché mortificato del fatto che il Sindaco, davanti a C. e T., gli aveva detto di non tirare lo scarico per poi vedere (e l’incarico fu affidato al C.) se era vero o meno che aveva avuto bisogno dei servizi igienici; erano le undici-mezzogiorno, di una mattina vicina alle festività natalizie (diversamente sarà ricordato l’episodio dal teste P., e si rinvia in seguito per l’analisi ed il confronto di credibilità delle due versioni del fatto).

Il collega si sentiva perseguitato, lo chiamavano “l’uomo invisibile”; non sapeva dell’episodio del controllo mattutino, mentre sapeva della vicenda della timbratura del cartellino per la quale il vigile incaricato di fare la timbratura fu denunziato.

Negava di aver visto mai lo S. bere od essere ubriaco né barcollante; non conosceva le ragioni del cambio di mansioni né di una riunione esplorativa del Sindaco per sapere chi avesse rubato dei soldi in cassa al Comune. E poco prima di suicidarsi gli aveva confidato che si sentiva perseguitato ed aveva paura del licenziamento; aveva inoltre partecipato alla festa di 18 anni del figlio, e lo richiamarono in servizio. Ricordava infine che il Sindaco lo aveva rimproverato perchè fumava, e che lo S. non era preoccupato per la sua salute.

L’addetto all’ufficio protocollo, S. Luigi, sapeva che S. aveva ricevuto dal Sindaco una denuncia firmata da C. e T. sulla mancata timbratura del cartellino marcatempo, ed era fine dicembre 20001, quando nel suo ufficio stavano protocollando le domande per le assunzioni degli LSU. Era al corrente dell’episodio del controllo al bagno notizia nota a tutto il paese, e che il Sindaco non ha però mai smentito. Gli ultimi giorni in vita dello S., si presentava con il volto scuro, “molto nero”, molto annerito sulla pelle, “molto lento nel suo fare ed abbastanza abbacchiato”; beveva ma non era ubriaco. Ricordava infine che il P. non aveva buoni rapporti con il tenente N.. E R. Filomena, moglie dell’ex sindaco Di Palma, nonché dipendente comunale con le mansioni di esecutore, ricordava il carattere di S., sensibile e scherzoso, dall’animo buono, e lo vedeva quasi tutti i giorni poiché il suo ufficio era proprio di fronte alla macchinetta del cartellino marcatempo; in occasione dell’uscita dei dipendenti, vedeva sempre lo S. che, negli ultimi tempi, si era chiuso e non salutava più, taciturno e turbato. La teste non sapeva perché mai lo S. avesse preferito fare lo spazzino piuttosto che l’idraulico; non sapeva del soprannome “uomo invisibile” e dell’episodio del bagno.

 

È stato escusso con le garanzie difensive l’indagato di procedimento connesso T. Gerardo Vincenzo, imputato -con dibattimento penale in corso- del reato di truffa e falso per l’episodio della timbratura del cartellino, ma per i temi di prova diversi ha prestato formula di giuramento ed è proprio da questi ultimi che si intende partire. Sovrintendente della Polizia Municipale di Sicignano degli Alburni, assunto nel maggio 1992 con l’amministrazione dell’ex sindaco Iuzzolino, aveva un buon rapporto di lavoro e di amicizia, anche al di fuori dell’orario di servizio, con D. S., con il quale si incontrava spesso per le strade mentre svolgeva il suo lavoro di netturbino, e non lo aveva mai visto bere, o entrare nel bar della moglie, o barcollare, o sentito odore di alcol, durante o dopo l’orario di lavoro; lo aveva incontrato pochi giorni prima del suicidio allorché gli richiese la liquidazione di un piano di lavoro svolto nel trimestre luglio-agosto-settembre per la pulizia delle frazioni svolto insieme con l’altro operatore C. Francesco, e non lo ricordava pallido o sofferente.

Tuttavia, dopo l’episodio del cartellino gli confidò di temere il licenziamento e gli raccontò anche l’episodio del controllo in bagno nel senso che fu “piantonato fin quando non avesse espletato i suoi bisogni”, “si sentiva più controllato di altri”, tant’è che aggiungeva “vedi quelli ce l’hanno con me, tu ci sei capitato per caso in mezzo per il fatto del cartellino, perché principalmente ce l’hanno con me, non ce l’hanno con te”; incontrò lo S., mortificato, nel primo pomeriggio dello stesso giorno in cui era stato richiamato per aver lasciato il posto di lavoro perché colto dalla diarrea (a sua memoria era un sabato), era stato cercato dagli amministratori che non lo trovarono vicino al carrettino ed il sindaco gli disse “allora adesso vai al bagno e voglio vedere se fai quello che dici in effetti” e lo tennero lì, nella sala giunta, presenti gli assessori, finché non ebbe lo stimolo di andare al bagno e perfino lo seguirono per verificare se fosse vero.

Il T. riferiva in udienza di altri episodi, dell’appostamento fatto nella scuola elementare da due assessori per verificare se c’era un dipendente che entrava e timbrava per tutti, accertamento raccontatogli da P. Alessandro, S. Ciriaco e C. Luigi e che era rivolto a tutti i dipendenti e non già mirato verso qualcuno in particolare (a seguito di contestazione emergeva che aveva dichiarato al PM che l’appostamento fu fatto alle cinque del mattino dall’assessore T. appena una ventina di giorni prima dell’episodio del cartellino marcatempo di S., e furono colti alcuni dipendenti nell’atto di timbrare il cartellino di altri loro colleghi); ricordava pure che gli amministratori, in particolare il sindaco e gli assessori C. e T., gli attribuirono il soprannome de “l’uomo invisibile”; che aveva cambiato le mansioni, da idraulico a spazzino, per dimostrare il quantitativo di lavoro che espletava, “per rendere più visibile il suo operato”; non era a conoscenza dell’ammanco di oggetti e denaro dal Comune, sapeva che i bagni del Comune erano funzionanti e che lo S. preferiva andare lì piuttosto che servirsi del bagno del bar gestito dalla moglie, “così non possono dire che io vado nel bar per altri motivi”, sapeva che contrattualmente non era prevista una pausa di lavoro per fare la colazione, che era vietato fumare e parlare durante la prestazione lavorativa (circostanza quest’ultima che il T. rimarcava essendo invece, quella dei vigili urbani, un’attività che si svolge per la strada e quindi erano inevitabili le risposte agli utenti che chiedevano qualcosa, eppure venivano accusati “di fare salotto con i cittadini”).

Confermava che S. era l’unico netturbino della zona centrale di Sicignano e che M. Antonio era stato un lavoratore socialmente utile fino alla fine del 2001 e che si alternava a fare vari lavori, a rotazione, non avendo una funzione specifica (il che sembrerebbe contrastare con quanto riferito dal M. circa la frequentazione sul lavoro e la conoscenza di abitudini quotidiane dello S. per 6-7 mesi, laddove i due avrebbero svolto un piano di lavoro insieme nei mesi estivi del 2001 ed il M. fosse stato assunto come dipendente comunale -fisso e non come LSU- soltanto a fine dicembre 2001).

Non poteva riferire in ordine alle richieste di intervento di S. oltre l’orario di lavoro trattandosi di richieste fatte quando svolgeva le mansioni di idraulico, e quindi sotto la cura del collega S. Raffaele; sapeva però dell’episodio della festa di 18° compleanno del figlio, per quanto riferitogli dal suo comandante (N. Alfonso) e precisava che non sapeva se fosse in ferie o in servizio, ma di certo non si poteva parlare di “reperibilità” in quanto “la reperibilità non la prende nessuno”.

Sapeva di uno striscione manifestante contro la lista del Sindaco esposto dallo S., durante la campagna elettorale, nella frazione di Galdo, ove quegli abitava, ed i rapporti tra S. e P. peggiorarono dopo la seconda elezione amministrativa vinta dal Sindaco.

I rimproveri del Sindaco e degli assessori C. e T. verso i dipendenti erano “molto diretti” nel senso che venivano esternati anche davanti alle persone.

Dopo l’episodio del cartellino marcatempo lo S. aveva paura di perdere il posto di lavoro, e lui, T., cercava di rassicurarlo, ma la paura era anche per la propria famiglia, per i figli piccoli che ancora andavano a scuola, per l’investimento fatto nel bar, e quindi per l’eventualità di non poter far fronte agli impegni presi in caso di perdita del posto di lavoro, ed all’inizio il Sindaco non era propenso ad andare avanti con la denuncia. Ricordava inoltre di aver registrato un colloquio avuto con il Sindaco durante la fase delle indagini preliminari (cassetta e trascrizione acquisiti in atti) nel quale si affrontò il tema dell’episodio del bagno, e di essere stato ivi convocato subito dopo che fu ascoltato dal PM per sapere “più o meno come era andato l’incontro” (nel controesame della parte civile ne confermava il contenuto oltrechè la partecipazione a quel dialogo a due); e ricordava pure di un episodio avvenuto a Zuppino secondo quanto annotato in una relazione di servizio.

Altro episodio, il Sindaco si lamentò con lui ed altri dipendenti per aver partecipato ad un convivio con un capolista (ing.M.) della fazione opposta alla sua, sebbene ciò non fosse vero in quanto stavano seduti a tavoli diversi.

Quanto alla vicenda che lo aveva visto direttamente coinvolto, ricordava che lo S., alla fine del suo turno di lavoro, gli chiese la cortesia di timbrargli il cartellino essendosene dimenticato, e lo aveva incontrato dinanzi al bar della moglie dopo che lui ed il Comandante N. avevano constatato che il mercato non era stato spazzato bene; per la precisione, tornando dalla frazione Scorzo, incontrato il N., i due passarono per la piazza del mercato e qui si accorsero che un posteggio di stazionamento di un commerciante non era stato pulito, al che, incontrato lo S. dinanzi al bar, gli chiesero come mai non fosse stato spazzato per l’intera area, e lo S. rispose dicendo che un operatore si era intrattenuto più a lungo e lo aveva rassicurato che avrebbe tolto lui i cartoni, sì che quelli poterono andar via, ma nel raccontare quella vicenda, lo S. si ricordò di non aver timbrato l’uscita e chiese loro se potevano fargli una cortesia di timbrare al posto suo; “era una prassi, perché succedeva spesso che qualcuno potesse dimenticare di timbrare il cartellino, ed andai lì in assoluta buona fede, senza pensare di commettere alcun reato a timbrare il cartellino in uscita al collega” (anche nel verbale di s.i.t. al PM dichiarava che quel tipo di cortesia era una cosa che “avveniva abbastanza spesso tra noi dipendenti all’epoca”), di poi scese di nuovo con un’altra macchina del Comune verso la frazione Scorzo e quando salì fu invitato nella sala della giunta e gli fu chiesto se sapesse chi aveva timbrato il cartellino a D., “ed io ammisi immediatamente che ero stato io ad aver timbrato questo cartellino, e praticamente ci fu quasi un processo con relativa condanna immediata. Io mi sentii molto umiliato perché a mio parere non avevo commesso alcun reato, e salutai e me ne andai”; c’erano il Sindaco e gli assessori C., T., O., D'A., dopo di chè andò via, ed il giorno seguente incontrò lo S. che si scusò con lui per averlo coinvolto per una sua dimenticanza in quello “spregevole episodio” ed aggiunse “vedi, ancora una volta ce l’hanno con me e quindi mi sento molto mortificato”. Il teste confermava quanto riferito al PM in indagini circa il fatto che “il Sindaco assume nei confronti di tutti i dipendenti un controllo quasi da Gestapo”, che il Sindaco e l’assessore delegato ad un servizio entrassero nell’organizzazione del servizio scavalcando i vari responsabili di settore, e che “la sua abitudine è quella di riprendere in maniera mortificante i dipendenti comunali umiliandoli alla presenza anche di persone estranee all’amministrazione, con comportamenti che una persona sensibile quale io mi ritengo essere, fanno soffrire e gettano in uno stato di frustrazione”.

Ancora, riferiva il teste che quella denuncia era stata tenuta in sospeso da parte dell’amministrazione per una ventina di giorni dall’11 dicembre 2001, ma non era giustificata perché c’era una disposizione del contratto collettivo nazionale secondo la quale nel primo caso della timbratura del cartellino era previsto solo un richiamo verbale di natura disciplinare, proprio per evitare la denuncia penale.

A seguito di quei fatti, nel tentativo di evitare la denuncia, egli trascorse “il Natale più brutto della mia vita” e lo S. era molto preoccupato, turbato, non solo per la paura del licenziamento ma anche per il dispiacere di aver coinvolto lui nella vicenda e si sentiva in colpa per ciò. Per quella timbratura di cartellino attestante la presenza in servizio per un’ora in più non v’era tuttavia alcun ritorno economico in quanto non erano pagate ore di lavoro in eccedenza, bensì solo per i piani di lavoro che potevano essere espletati entro un monte ore non predeterminato (“quindi tanto possiamo fare 300 ore di straordinario tanto ne possiamo fare 60, sempre quello ci viene corrisposto”).

Nel verbale di s.i.t. rese innanzi al PM aggiungeva che di certo quello era stato “l’unico caso di denuncia da parte dell’amministrazione per una vicenda connessa alla timbratura dei cartellini”, e che il turbamento dello S. era dovuto al fatto di sentirsi in colpa per aver coinvolto il T. ritenendo che quell’atto di denuncia “fosse l’ennesimo esempio dell’atteggiamento vessatorio che lo S. mi confidava di subire ad opera dei due assessori e del sindaco”; peraltro, aggiungeva che il “rapporto conflittuale” del sindaco con quasi tutti i dipendenti comunali derivava soprattutto dal fatto che “il sindaco per un verso, non rispetta i diversi ruoli nell’ambito dell’organizzazione comunale arrogandosi il compito di entrare nell’organizzazione di servizio e nella diretta gestione del personale scavalcando i vari responsabili di settore, e dall’altro, la sua abitudine di riprendere in maniera mortificante i dipendenti comunali umiliandoli alla presenza anche di persone estranee all’amministrazione”

In sede di controesame della difesa emergevano alcune divergenze rispetto a quanto dichiarato ai CC in data 3/4/2002: una prima, relativa alle confidenze ricevute dallo S. (in udienza ha detto che c’era un buon rapporto di confidenza, “mi confidava alcune cose che lui riteneva opportuno confidarmi”, mentre alla PG aveva detto che lo S. “non mi ha mai rivolto confidenze di alcun tipo, se non il fatto che a suo dire si sentiva particolarmente gli occhi addosso da parte di chi è preposto al controllo del personale della locale PA”; ma è chiaro che non c’è contrasto perché proprio la premessa riferita in udienza limita le confidenze agli argomenti che il collega intendeva introdurre e commentare, e quello dei controlli della P.A., è un tema ampio, visti gli episodi narrati, e pregnante per le mortificazioni vissute); una seconda, relativa ai tempi e modi di convocazione dal PM rispetto alla cena avuta con altri colleghi e con il consigliere di minoranza M. (che sarebbe avvenuta sei giorni prima dell’audizione dinanzi al PM ed alla quale avrebbero partecipato anche il Com. N. ed il vigile S., gli stessi con i quali affrontò il viaggio per giungere a S. a deporre innanzi al PM il 18/12/2002, ma ciò non illustra assolutamente un intento vendicativo o una pre-concordanza di dichiarazioni, se non una contiguità di rapporti risalente, come è evidente operando tutti nello stesso Corpo di Polizia Municipale, anche prima dell’epoca in cui sono occorsi i fatti di causa); una terza, relativa alla registrazione del colloquio con P. che sarebbe riversato su un lato della stessa audiocassetta dove era stato registrato anche il dialogo di N. con il P. (genuini ne sono, però, i dialoghi, riconosciuti entrambi dai rispettivi interlocutori; peraltro il T. ha asserito innanzi alla Corte che la cassetta di registrazione era nuova, ed era la sua, e che di quelle registrazioni non aveva mai parlato con il N., e comunque la sua conversazione registrata era avvenuta dopo l’audizione innanzi al PM); una quarta, relativa all’umore dello S. dopo l’episodio del cartellino marcatempo (nel senso che il T. ha riferito in udienza che era molto preoccupato per il posto di lavoro, eppure ai CC aveva riferito che si era rasserenato, ed il teste ha precisato che probabilmente, e forse era stata una sua impressione, dopo avergli parlato sulle conseguenze di quella denuncia, lo aveva tranquillizzato o così gli era sembrato, però poi nel volgere di poche settimane ci fu anche l’episodio del bagno ed allora lo S. gli disse “vedi, ce l’hanno con me non ce l’hanno con te” e quindi si sentiva “perseguitato in modo particolare”); una quinta, relativa a tutto il verbale di dichiarazioni reso innanzi alla PG, dal tenore molto più morbido rispetto a quanto sia poi risultato otto mesi più tardi nel verbale di s.i.t. innanzi al P.M. (ma anche in tal caso il T. ha replicato dicendo che “probabilmente pure perché il primo interrogatorio che abbiamo avuto dai Carabinieri è stato quasi immediatamente dopo l’episodio del suicidio dello S., e io per un periodo sono rimasto molto sconvolto dall’episodio accaduto, e quindi forse questo motivo qua”, “forse è riferito al fatto che ero emotivamente provato successivamente al suicidio”, e comunque si riferiva, rivedendo il verbale di cui il difensore ha dato integrale lettura, a episodi di pesante rimprovero, oltre a quello del cartellino marcatempo, cui egli stesso avesse personalmente assistito).

Ad ogni modo, non è certo da ciò che non fu detto o riprodotto nel verbale di sommarie informazioni innanzi alla PG che possa dedursi una contestazione nel senso di “contrasto” di dichiarazioni, non foss’altro perché non c’è una dichiarazione di contenuto contrario o non plausibilmente spiegata dal teste; e ad ogni buon conto, le successive dichiarazioni rese al PM, senza dubbio più ampie e significative sul contenuto degli altri episodi narrati ed emersi pure in dibattimento, esordivano con un preliminare “confermo le dichiarazioni da me rese ai CC di Sicignano in data 3/4/2002” e proseguivano con un “voglio precisare che …”, sicché le seconde non sono giammai contrastanti con le prime bensì le integrano e completano.

In definitiva, non vi sono contrasti fra quanto dichiarato dal T. in sede di indagini preliminari e quanto riferito in udienza, laddove le ultime sue dichiarazioni innanzi alla Corte sono apparse senza dubbio più lineari, più dettagliate e complete, e lontane dalle iniziali preoccupazioni, remore od emozioni; entro questi limiti valutativi sono state contemplate le dichiarazioni raccolte in S.I.T. ed acquisiti, solo per questi fini, al dibattimento, ma resta principe la prova dichiarativa orale resa in dibattimento, lontana da considerazioni critiche negative sulla credibilità del deponente ex art. 210 cpp.

Concludeva il T. il suo esame dibattimentale rammentando anche un ulteriore episodio di rimprovero di cui si era reso autore il Sindaco, quando, in seguito ad una nevicata, gli operatori mercatali si appoggiarono nella vecchia piazza, di fronte al Comune, ed il Sindaco riprese sia lui che il collega di servizio “in modo alquanto irruento”, dicendo “voi che fate non li dovevate fare montare”, e non lo reputava legittimo in quanto il richiamo avrebbe dovuto farlo verso il responsabile di servizio, il loro Comandante, e non ai singoli vigili urbani. Infine, affermava che il Sindaco era “propenso” a non mandare avanti la denuncia, che egli non aveva mai avuto discussioni con T., che aveva avuto ottimi rapporti con C., e che egli era stato avversario politico del P. ma, al di fuori dell’episodio del cartellino, non aveva mai avuto censure o rimproveri dal Sindaco.

 

Altro testimoniale esaminato in dibattimento concerneva i rapporti interpersonali dello S. con i suoi colleghi di lavoro, le confidenze loro espresse e le vicende cui avevano assistito durante il servizio.

L’ingegnere D’A. Ferdinando, responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Sicignano dal quale dipendeva lo S. sia come fontaniere che come murature e responsabile del servizio Lavori Pubblici, Urbanistica, Manutenzione, Terremoto, Patrimonio, e Servizi Cimiteriali (tale era il suo incarico come da delibera di Giunta Comunale del 26/5/1998, documento acquisito all’udienza del 28/3/2008 durante l’esame del teste T.), ha riferito che all’epoca v’era un altro idraulico che lavorava insieme con D., il sig. P. Francesco, poi deceduto, ed in seguito lo affiancarono due lavoratori socialmente utili (M. Cosimo e C. Albino); fu poi a fine luglio del 2001 che il comandante dei vigili urbani richiese un aiuto per il servizio di nettezza urbana nelle strade comunali del capoluogo, ed egli, chiesta la disponibilità ai suoi dipendenti, la ottenne proprio dallo S. che con insistenza volle essere prescelto rispetto agli altri, con la seguente motivazione “sto alla faccia di tutto il pubblico, mi vedono che lavoro tutti quanti e io sto più sereno”, ma anche perché in tal modo il pomeriggio non sarebbe stato impegnato in lavori di ufficio ed avrebbe potuto dare una mano alla famiglia essendo la moglie impegnata nella gestione di un bar di imminente apertura; infatti spesso veniva chiamato da lui e dagli amministratori e ciò comportava dei problemi, tant’è che lo S. si sentiva “osservato”, si doleva che “pensano che io non lavoro mai”, “pensano che i sono uno sfaticato”, e si lamentava che qualunque cosa facesse gli amministratori ce l’avessero sempre con lui; e ricordava che una volta rifiutò di partecipare ad un pranzo con dei colleghi in quanto si vergognava (cioè avvertiva un senso di colpa) nei confronti del vigile T. al quale aveva arrecato un danno per la questione della timbratura del cartellino marcatempo (il riferimento è all’episodio più volte narrato dagli altri testi e dal quale scaturì la denuncia penale a carico di S. e T.).

Ricordava il teste anche di una volta in cui il Sindaco chiamò al telefono la madre del D. pronunciando parole di rimprovero verso il figlio, ma non ne conosceva le motivazioni; un’altra volta egli fu chiamato dal sindaco perché si doveva chiudere una rete idrica a Zuppino e bisognava cercare lo S., ma D’A. non lo trovò in casa e, non avendo il telefonino e non potendo entrare nella sua vita privata nelle ore pomeridiane, non sapeva come poter fare, visto che il dipendente non era obbligato alla reperibilità ma alla disponibilità; in quel mentre si ricordò che il proprio figlio era stato invitato a Petina alla festa di 18° compleanno del figlio di S., sicché lo riferì al Sindaco e, quando poi telefonò al ristorante per parlare con D., apprese da questi che il Sindaco lo aveva già cercato e che aveva parlato con la moglie la quale “si è rivolta anche un poco male”, al ché egli lo invitò ad andare, se poteva, richiedendogli la disponibilità di sempre (“D., allora se puoi, cerca di andare come hai fatto sempre d’altronde”, e più oltre “dico, va bene, vediamo se lo trovo, perché comunque lui non si era mai rifiutato di andare, ecco questo è il senso”).

Si trattava di un intervento di chiusura di una manichetta d’acqua per consentire il riempimento dei serbatoi da utilizzare l’indomani mattina avendo avuto comunicazione dal consorzio idrico della interruzione della erogazione dell’acqua, ed era una situazione di emergenza, che però non doveva soddisfare necessariamente lo S., vuoi perché c’erano anche altri lavoratori del settore più vicini rispetto al luogo di intervento (lo S. era a Petina mentre C. Albino -LSU che poi prese il suo posto stabilmente come idraulico- abitava in una frazione del Comune di Sicignano, a Piano San Vito, di minore distanza come poi si è appreso sentendo il teste N. ed il teste seguente, V.), vuoi perché anche altre volte a quel tipo di intervento “collaboravano molto gli amministratori” (“lo facevano per il passato e lo hanno fatto anche dopo, per la verità, anche personalmente gli amministratori”,… “è andato spesso il vigile S., non è che era solo … si cercava di collaborare”); in quella circostanza, però, lo S. era il dipendente che ne aveva la competenza, però non essendo in servizio, non avendo l’obbligo di reperibilità, trovandosi peraltro distante dal luogo di intervento ed impegnato per motivi familiari, si poteva chiedere a qualcun altro, ma il tentativo di rintracciare ed avvisare altri non fu fatto. In sede di controesame della parte civile aggiungeva il teste che “il primo che veniva trovato penso che veniva chiamato” e ciò per alleviare il disagio dei cittadini e per collaborare nella risoluzione dei problemi, e, per esempio, se l’intervento era più dalla parte del fiume si chiedeva l’intervento di C. Albino che abitava più vicino, e ciò anche per contenere le spese in quanto gli spostamenti avvenivano con le macchine private e non era previsto il pagamento di carburante o di lavoro straordinario.

Precisava in sede di controesame della difesa che quando il Sindaco gli disse di cercare S., egli provò prima a casa sua e non trovò nessuno, quindi lo riferì al Sindaco aggiungendo “scusate, io non posso trovare un dipendente e lo vado a cercare, non sono un poliziotto, non sono niente, se lo riesco a trovare bene, se non come faccio io a trovarlo, mica mi hai dato la reperibilità dove sta, mica lo vado a cercare”.

Tra lui e lo S. c’era stato un buon rapporto, anche di affetto e di rispetto, e quando a fine gennaio del 2002 S. gli chiese di ritornare a lavorare con lui il D’A. non pose obiezioni, non c’erano problemi, ma due o tre giorni dopo ritornò sui suoi passi. Il teste ha ricordato anche di un altro episodio, quando D. gli confidò del controllo al bagno e raccontandogli dell’episodio disse “Ingegnere -anche sorridendo- non mi credono, io una volta che dovevo andare al bagno ho lasciato il carrettino, non mi hanno creduto che dovevo andare”; su domande della difesa si è chiarito che lo S. sorrideva nel raccontare il fatto perché sbalordito per non essere creduto neppure a quella esigenza fisiologica (“però me lo ha riferito in un tono per dire, guarda un poco questo che mi …”,  e più oltre “guarda un poco non mi credono, con quel mezzo sorrisetto e poi se ne è andato”); e va subito precisato che l’utilizzo del termine “scherzando” è stato riferito non già all’oggettività dell’episodio in sé, come se si fosse trattato di uno scherzo subìto dal sindaco e dagli assessori, bensì riferito al modo in cui lo S. raccontava l’episodio al D’A., quindi rappresentando con espressione ilare ed incredula quanto gli fosse accaduto.

Aggiungeva il teste che prima del suicidio aveva notato un cambiamento di umore, ed un giorno addirittura non rispose al suo saluto, cosa che invece faceva sempre sorridendo, e lo richiamò, ma lo S. rispose “no, no, io ti ho sentito, faccio una parte, però tu mi devi sempre salutare perché se non mi saluti io mi sento male insomma”, aggiungendo che aveva fatto un servizio che l’ingegnere gli aveva chiesto di fare (sistemare una griglia sconnessa lungo una strada); sul punto si è cercato di chiarire il significato di quella risposta “frettolosa”, il D’A. non riusciva a spiegarsela, se si intendesse “faccio finta di non sentire”; ma comunque, visto il seguito della frase, si deve intendere che lo S. intendesse dire che fingeva di non sentire e tuttavia si attendeva il saluto per poter stare bene.

Negava poi di averlo mai visto ubriaco o che eccedesse nel bere o che avesse preoccupazioni per il suo stato di salute o che fosse fisicamente debilitato; confermava che era un buon lavoratore, che faceva bene il suo mestiere, e che si era lamentato per il fatto che il sindaco e gli assessori ce l’avessero con lui. Gli confidò anche dell’episodio del cartellino marcatempo “mi pare me lo disse più in tono … diciamo scherzoso di solito”; e sapeva del “nomignolo” con cui era appellato, lo sentì dire dopo. Affermava che da parte del Sindaco e degli Assessori c’erano delle interferenze, delle “incursioni” nei servizi di competenza dei responsabili amministrativi, e di tanto si dolsero i dipendenti in una riunione di cui fu stilato un verbale del settembre 2001 -8/9/2001- (del cui contenuto già si è parlato nell’ambito dell’esame della deposizione del teste N., in allegato ad uno dei quattro verbali di informazioni rese alla PG ed al PM acquisiti su accordo delle parti). Manifestava mutamenti di umore, ora allegro ora nervoso, e dava sempre la sua massima disponibilità, poi rammentava che un giorno egli D’A. all’interno della sede municipale gli chiese di fare un servizio e S. si rivolse male, dicendo “chiami sempre me” e gli dette una spinta, ma poi, ritornato in ufficio, giunse da lui e si scusò piangendo, e tutto finì lì perché D’A., vedendolo “abbastanza mortificato” lo rassicurò che per lui era come se non fosse successo niente; l’episodio era databile in epoca antecedente rispetto all’episodio della festa di compleanno del figlio, e prima delle confidenze sulle doglianze d’essere controllato. Su domande della difesa negava di conoscere tale DI F. Giuseppina e di conoscere le proteste che esternò al Comune, negava di aver mai suggerito al Sindaco di utilizzare uno stratagemma per non far comparire il numero telefonico degli uffici comunali allorquando si trattava di rintracciare lo S., di aver mai subìto dei maltrattamenti dal Sindaco e di aver mai fatto propaganda politica per il Sindaco. Riferiva d’essere stato assunto sotto l’amministrazione del sindaco Iuzzolino, di essere stato consigliere comunale negli anni ’70, di avere avuto un cognato candidato nella lista del P.; precisava, infine, che il comune metteva a disposizione dei fondi per i piani di lavoro ma anche per lo straordinario, e si trattava di un budget che non poteva essere superato.

Il geometra dell’ufficio tecnico, V. Angelo, confermava che al settore idraulico lo S., persona gentile e disponibile ed instancabile nell’effettuare le riparazioni e nel risolvere i problemi alla rete idrica, lavorava dapprima con Polito Francesco poi con C. Albino; da quegli ricevette la confidenza di sentirsi “un poco perseguitato” come ad esempio accadde allorquando fu chiamato per chiudere l’acqua a Zuppino mentre stava festeggiando il 18° compleanno del figlio a Petina, distante da Sicignano una ventina d chilometri, mentre l’altro lavoratore C. Albino, da Serralonga, distava circa 11 chilometri dal luogo del richiesto intervento; e lo S. gli aveva raccontato che in quel frangente il sindaco lo chiamò al telefono formulando in modo tassativo la richiesta, nel senso che “lui doveva lasciare la festa e doveva andare a chiudere l’acqua per l’apertura …”, e lo avevano chiamato due o tre volte durante il festeggiamento.

Dopo la denuncia per il fatto del cartellino marcatempo “si sentiva un poco mortificato” anche nei confronti del collega T., ed anche per questo motivo non voleva fare la richiesta di liquidazione di straordinario nel gennaio 2002 relativa all’anno precedente, perché disse “se io faccio questa richiesta, l’amministrazione cosa dirà in seguito  quello che è successo del cartellino ?” e fu in quella occasione che notò quello stato d’animo diverso dal solito, come se fosse “cambiato”, “era un poco spento”.

Confermava che nel capoluogo comunale lo S. spazzava da solo, non sapeva le motivazioni del cambi di mansioni, non lo aveva mai visto ubriaco e malfermo, o traballante o con alito vinoso, né entrare nei bar durante l’orario di lavoro; non sapeva come si era schierato politicamente e che fosse chiamato uomo invisibile o scansafatiche (poi in controesame ammette di averlo sentito prima del suicidio), non sapeva dell’appostamento per la verifica della timbratura dei cartellini, né che fosse una prassi farsi timbrare per conto d’altri.

Sapeva che M. Antonio, il netturbino, qualche volta andava sul camion altre volte spazzava pure nel capoluogo, mentre M. Cosimo, l’idraulico, faceva da autista di una macchina polivalente (la “terna”) ed usciva insieme con lo S. per i controlli sulla rete idrica. Infine, aggiungeva che il lavoro straordinario veniva sì liquidato ma su richiesta, non d’ufficio, con domande da protocollare al Comune.

L’altro operatore ecologico che prestava servizio presso le frazioni del Comune di Sicignano, P. Umberto, esordiva dicendo che non sapeva niente dei problemi che il suo collega S. aveva con l’Amministrazione comunale, ma subito asseriva che nelle occasioni in cui avevano lavorato insieme, a pulire per le fiere, era capitato che in una pausa quegli si prendeva un “bicchierino” (di liquore) mentre lui prendeva un caffè; sapeva che era stato denunciato dal sindaco e da alcuni assessori per abbandono del posto di lavoro, e ricordava di aver visto, una volta, lo S. nel garage, tre o quattro giorni prima del suicidio, disteso sui cartoni con la pancia in giù “a terra”, lamentandosi che gli faceva male alla “bocca dello stomaco”, e ponendo la mano sul petto si lamentava di non poter respirare, tant’è che egli, ed era presente anche il collega P., si offrì per chiamare un medico: l’episodio è stato sottoposto a plurime contestazioni, giacché nel verbale di sommarie informazioni rese alla PG del 3/4/2002 aveva invece dichiarato che lo aveva trovato seduto e non sdraiato, con la mano sulla pancia e non al petto, poggiava con la schiena a terra e non a pancia in giù, che era presente S. Ciriaco e non P. Alessandro, e che il tutto lo constatò alle dodici meno dieci (prima della chiusura dell’orario di lavoro) e non già alle dodici e trenta (dopo la chiusura dell’orario di lavoro), ed in dibattimento insisteva nel ribadire quanto riferito in udienza non riuscendo a spiegarsi come mai i Carabinieri avessero verbalizzato cose diverse.

Su domanda della difesa aggiungeva inoltre che in quella circostanza lo S. “era abbattuto pesante”, non sapeva se versasse in stato di ubriachezza, e faceva questa ipotesi perché “ultimamente beveva molto”, e comunque “quel poco che lavoravamo insieme lui beveva, non è che non beveva”; anche questa esternazione non è scevra da critiche di credibilità, come le altre narrate sulle modalità di rinvenimento dello S. nel garage, giacché, come si è invece acquisito in atti, lo S. negli ultimi mesi non lavorava insieme con il P., bensì era addetto alle pulizie della zona centrale del Comune di Sicignano, distante territorialmente dalle aree -le frazioni comunali- affidate alla pulizia del P., e non facilmente raggiungibili negli orari di servizio essendo lo S. munito soltanto del carrettino e non già del camioncino della nettezza urbana con il quale, invece, eseguivano trasporto e lavoro gli altri operatori ecologici comunali; se poi la circostanza dell’abitudine al bere fosse riferita al periodo in cui avevano lavorato insieme (nei piani di lavoro estivi o in occasione delle fiere), occasioni anch’esse non riferibili agli ultimi tempi per essere stato il P., come ha riferito, operato al piede già all’epoca in cui fu convocata la riunione con  dipendenti -quella del 22/1/2002- (ed in quel periodo, come risponderà alla domanda finale del controesame, era stato sostituito dal M. Antonio -che, quindi, non lavorava negli ultimi tempi con S., elemento di cui deve tenersi conto anche per l’ulteriore valutazione sulla non piena attendibilità del teste M., già esposta per altro verso a considerazioni critiche come innanzi visto-), allora non può addursi a sistematica abitudine la bevuta di un bicchierino constatata durante le pause in quelle non recenti comuni ore di lavoro; la deduzione, poi, che fosse proprio lui a bere sol perché nel garage c’erano in deposito alcune bottiglie di vino vuote e solo due dipendenti si recavano nel garage quando andavano a lavorare nel Comune, S. e M., sembra essere, in verità, una mera supposizione. Infine, va subito chiarito, la circostanza che lo S. in quel giorno soffrisse di mal di pancia è documentata da un certificato medico del 21/3/2001 attestante epigastralgia con pirosi e vomito, per la quale il dott. P., come si è innanzi visto, prescrisse tre giorni di riposo.

Riferiva poi che il S. Ciriaco lavorava come autista sul camion della spazzatura che faceva il giro delle frazioni, di essere zio della moglie dell’imputato T., di non aver presenziato alla riunione con i dipendenti comunali perché impedito per un intervento al piede, di aver appreso che in quella riunione fra i colleghi si era parlato anche del fatto che S. era stato seguito in bagno da qualche amministratore per vedere se fosse vera la sua necessità fisiologica oppure se era stato solo un pretesto per sottrarsi al lavoro, ma non sapeva chi avesse poi compiuto quel controllo.

Quando poi su domanda del responsabile civile è stato introdotto il tema della provenienza degli ordini impartiti non dal Comando dei Vigili Urbani ma dagli amministratori locali, il teste si è subito trincerato dietro alla considerazione secondo la quale “per me quando uno fa il suo, più del suo dovere è tranquillo”, e premettendo comunque che “io sto lavorando al Comune e me ne devo andare in pensione”, risposta data anche quando è stato introdotto il tema della esistenza di una abitudine o prassi dei dipendenti di farsi timbrare il cartellino da qualcun altro, rispondendo “io personalmente no, comunque ho fatto ventitré anni di servizio, me ne devo andare in pensione, non ho avuto mai una cosa malamente dagli amministratori, posso giurare e lo giuro l’amministrazione P. diciamo io l’ho trova migliore delle altre amministrazioni”.

È evidente la remora del P. nel fornire notizie più dettagliate su quanto egli avrebbe potuto sapere nel corso della sua ultraventennale esperienza lavorativa in seno all’amministrazione comunale di Sicignano degli Alburni, e, per quanto sopra detto, la complessiva inattendibilità delle sue dichiarazioni per le contraddizioni rispetto a quanto dichiarato in sede di indagini e per i contrasti anacronistici e logici con quanto emerso aliunde nel processo.

L’altro operatore ecologico del Comune, addetto anch’egli alle frazioni come autista del camion della nettezza urbana, S. Ciriaco, negava di aver mai visto S. ubriaco durante o fuori dell’orario di lavoro, né di averlo mai visto steso per terra nel garage a lamentarsi di mal di stomaco (su domande della difesa negava espressamente e recisamente di averlo mai visto bere, a meno che non fosse “talmente abile nel bere a non farsi accorgere”, precisando che in più circostanze avevano mangiato e bevuto insieme in compagnia, “ma da qui a dire che D. la mattina si girava tutti i bar ...”); ultimamente lo vedeva “più smagrito” ma non sapeva dire se ciò fosse dipeso da un problema di salute.

Riferiva il teste che lo S. gli raccontò di un episodio nel quale il Sindaco lo aveva ripreso per averlo visto parlare per la strada durante l’orario di lavoro, ed era “un po’ amareggiato di questa cosa” per essere stato rimproverato in pubblico; inoltre si sentiva responsabile della situazione in cui aveva calato il vigile T. per la vicenda del cartellino; sapeva dell’episodio del bagno e del sopranome affibbiato a S., negava che vi fosse una prassi fra dipendenti di timbrare per conto d’altri e che i gabinetti del Comune -quelli adiacenti al garage- fossero praticabili (erano “indecenti”) salvo che venissero saltuariamente ripuliti (secondo il teste V. Francesco i bagni erano quasi sempre chiusi tranne che in occasione del mercato, ma erano funzionanti); ricordava di una riunione con i dipendenti nella quale si parlò di furti ed ammanchi nelle casse del Comune, e di come replicò bruscamente al Sindaco allorché richiese il pagamento di un martellone da parte dei dipendenti esterni, adducendo di non capire perché mai doveva essere ritenuto coinvolto in quel fatto visto che nell’edificio comunale vi accedevano anche gli amministratori, e ricordava pure che in quella riunione il Sindaco contestò allo S. di non dover andare a lavorare nella sua propria terra dopo l’orario di lavoro per non affaticare il fisico, e ciò era dovuto al fatto che “il sindaco era un perfezionista, voleva sempre, cioè che comunque dovevano essere disponibili”, “cercava sempre il massimo dai dipendenti nel senso che c teneva insomma che i dipendenti facessero il loro dovere in modo sempre brillante”.

Quindi, su domande della parte civile è stato introdotto (con maggior successo rispetto a quanto accaduto con il precedente teste) il tema di una riunione tra dipendenti presso un agriturismo dopo la loro deposizione alla Polizia Giudiziaria: trattasi di un incontro con convocazione da parte del difensore degli imputati, senza la presenza di questi, durante la quale si discuteva della vita di S. e di quanto fosse a loro conoscenza, se c’erano episodi relativi al suo stato di salute e quali fossero i loro rapporti con l’amministrazione, il tutto trasfuso in indagini difensive che, tuttavia, non risultano depositate nel fascicolo delle indagini preliminari, e di cui pure -senza tuttavia che di quelle audizioni fosse stata prodotta la relativa documentazione e, quindi, reso noto il loro contenuto- si è parlato in occasione di deposizione testimoniale di altri testi in dibattimento (rammentava quell’incontro anche V. Francesco, dipendente addetto alla raccolta differenziata, il quale precisava che erano stati sentiti separatamente l’uno dall’altro, e ricordava anche della riuninone con i dipendenti durante la quale il sindaco disse che in mezzo a loro c’era un ladro).

Aggiungeva il teste S. Ciriaco che dalle confidenze di D. non aveva percepito che in quel momento stava attraversando un periodo in cui si sentiva perseguitato o vessato dalla Pubblica Amministrazione, sebbene lo avesse sentito dire di sentirsi in colpa per la vicenda del cartellino, e poi manifestò disappunto quando fu rimproverato di non potersi fermare a parlare per strada con qualcuno.

 

È stato ascoltato in udienza anche un altro dipendente addetto alla rete idrica, M. Cosimo, già LSU per quattro anni con P. ed un anno con il precedente sindaco Di Palma, e fratello del M. Antonio, anch’egli ex LSU e divenuto poi dipendente stabile nel servizio ecologico. Dello S. ha esordito dicendo che “era un bravo ragazzo, un lavoratore, però era certe volte un poco estroverso, era un poco difficile da capirlo … delle volte piglia, magari ti passava davanti non ti chiamava nemmeno per qualche giorno, poi ti chiamava”; tanto lo poteva dire perché aveva lavorato insieme con lui nella rete idrica, per quattro anni.

Non sapeva dell’episodio del 18° compleanno del figlio di S., non sapeva se aveva delle malattie, non lo aveva mai visto ubriaco, eppure “qualche volta beveva sì, però non è che l’ho visto ubriaco, … magari quando si andava al bar insieme, si beveva qualcosa, … anche nell’orario di lavoro” e beveva una birra, o un bicchierino, dove capitava nei bar delle frazioni dove si recavano a lavorare. Anche il fratello M. Antonio aveva lavorato con S. negli ultimi 5-6 mesi.

Una prima contestazione del PM sul verbale di s.i.t. del 3/4/2002 si fondava sulla circostanza all’epoca riferita alla P.G. circa il fatto che lo S., allorché lavoravano allo stesso settore e quindi prima che si separassero (si ricorda che lo S. accettò le mansioni di netturbino nel settembre 2001) “durante i periodi in cui ci incontravamo, e in quei pochi momenti sul lavoro, aveva un comportamento normalissimo”, il che -in una accezione coerentemente logica delle “normali” prestazioni lavorative- non si concilia con la circostanza di recarsi nei bar per bere dei “bicchierini” (analogo argomento, sorprendentemente sulla medesima circostanza, è stato trattato anche nel corpo dell’analisi di attendibilità del teste M. Antonio, cui si rimanda).

Ricordava poi della proposta del Tenente N., comunicata loro dall’ing. D’A., di far passare un operatore idrico al settore ecologia (erano in tre, lui, D. e C. Albino, ed a quella proposta aderì lo S. motivato dal fatto di poter stare vicino ai familiari nella gestione del bar, e fu prescelto rispetto a lui che pure voleva andare al servizio ecologia), della competenza del Vigile S. sui problemi della rete idrica e sua disponibilità a recarsi sul posto insieme con loro, delle comunicazioni del consorzio di chiudere i serbatoi per problemi sulla rete, degli interventi compiuti direttamente anche dal vigile S. Raffaele e qualche volta anche degli assessori; non ricordava, però, del problema sorto il giorno della festa di 18° compleanno del figlio di S. (addirittura era presente al festeggiamento ma non si avvide delle chiamate al telefono né di una discussone animata della moglie, né aveva sentito dire che occorreva fare un intervento alla rete idrica in paese), né della riunione convocata dal Sindaco per parlare dei furti al Comune (alla quale egli non partecipò).

Ricordava invece di aver visto lo S. piangere a seguito di un litigio con l’ing.D’A. ed alla fine intervene il Sindaco che si prese S. sotto braccio e se lo portò nella sua stanza: ciò accadde due o tre mesi prima del suicidio. Negava ancora, di aver mai avuto controlli a sorpresa, di essere mai stato rimproverato o minacciato dagli assessori o dal sindaco, di aver avuto discussioni. Riconosceva, infine di aver imparato tutto il mestiere ed il lavoro alla rete idrica proprio stando vicino allo S..

Ed il C. Albino, lavoratore insieme allo S. come idraulico dal 1999 all’ottobre 2001, ha riferito che lo S. gli confidò che nonostante le lamentele di quella amministrazione, non aveva tuttavia avuto dei richiami scritti come invece gli era capitato con la precedente amministrazione, e che in una riunione con i dipendenti, di cui non ricordava gli argomenti di discussione ad eccezione del problema dei furti avvenuti presso la sede comunale, lo S. chiese la parola e disse “si diceva che veniva P. che ci metteva in linea tutti quanti ed invece continuavamo a fare i comodi nostri” (è la stessa frase che ha ricordato anche M. Antonio), con ciò riferendosi anche alla possibilità di fermarsi al bar e prendere un caffè od un bicchierino; ed aggiungeva che quando andavano insieme al bar, lo S. si prendeva una birretta, un liquore, ma non lo aveva mai visto in condizioni di ubriachezza (circostanze queste ultime che, come ha evidenziato il P.M. in sede di contestazioni, non erano state narrate in sede di s.i.t. innanzi ai CC in data 4/4/2002, laddove invece aveva affermato che il collega era un “uomo instancabile nell’ambito lavorativo”, rendendosi disponibile a fornirgli chiarimenti anche quando non svolgeva più le mansioni di idraulico; ma va anche preannunciato che, come si vedrà in seguito quando si analizzerà il contenuto della riunione in cui si parlò dei furti al Comune, non risulta registrato e trascritto il passo di quell’intervento addebitato allo S. circa la critica al Sindaco di voler vanamente mettere in riga i dipendenti).

Quanto alla scelta di cambiare mansioni, da idraulico a netturbino, lo S. la motivava per esigenze di comodità per essere più libero nel pomeriggio e stare più vicino al bar. Ricordava inoltre di un episodio, era una sera di marzo, in cui l’assessore C. lo chiamò per un problema idrico, bisognava andare a chiudere l’acqua di un serbatoio, richiesta che proveniva anche dall’assessore T., e lui disse dove e come si doveva fare ma non si recò sul posto, e neppure andò lo S., poi seppe che l’intervento fu compiuto dai due assessori.

C. Luigi, già assessore e poi LSU con varie mansioni (idrauliche, per la spazzatura, sul camion a prendere pezzi anche fuori sede, come autista dello scuolabus), ed assunto stabilmente nel dicembre 2001 presso il Comune di Sicignano degli Alburni, ha ricordato di aver lavorato insieme con lo S. pochi giorni prima del suicidio per la sistemazione di alcune piante di fronte al Comune ed in quella occasione lo aveva notato dimagrito, ma dall’umore normale, non sembrava ammalato né manifestava di avere problemi, ed in quella circostanza gli chiese cosa fare se qualcuno si dimenticasse di timbrare il cartellino, e lui gli rispose di rivolgersi al responsabile del servizio (è chiara la preoccupazione, ancora a fine marzo 2002, di quanto accaduto nel dicembre del 2001); poi, sempre in quella mattina, si avvicinò un uomo che lo S. presentò al C. dicendogli che si interessava delle polizze assicurative sulla vita per i lavoratori comunali e gli chiese se ne aveva interesse, ricevendo però una risposta negativa per motivi economici.

Talvolta, quando si incontravano davanti al bar della moglie anche durante l’orario di lavoro, lo invitava a prendere una consumazione (anche qui, va soffermata l’attenzione sul fatto che l’occasione degli incontri fra i due non poteva essere stata quotidiana e neppure recente, vuoi perché il C. aveva lavorato part-time ed era impegnato in varie mansioni, vuoi perché spesso si recava al lavoro fuori sede o in orario pomeridiano, come dallo stesso riferito -a tratti- nel corso del suo esame: “facevo 60 ore mensili”, “gli ultimi periodi che l’ho visto, perché io ero impegnato pure con lo scuolabus, degli orari diversi”, “non stavo tutti i giorni con lui, negli ultimi periodi da quando fui assunto la maggior parte mi mandavano sempre quasi con il camion a scaricare i rifiuti, perché si andava pure fuori orario, magari di pomeriggio”, “io non ero sempre con loro, a me mi utilizzavano anche di pomeriggio a fare lavori”, “parecchie volte mi mandavano a S. a prendere i pezzi per l’acquedotto”, ed addirittura il giorno in cui fecero quel lavoro insieme a piantumare di fronte al Comune, gli chiese come mai lo aiutasse a mettere le piante “quando tu stavi all’idraulica” ricevendo come risposta “io sono 4-5 mesi, non mi ricordo proprio la parola che mi ha detto, ho ritenuto opportuno stare un poco a Sicignano, perché sto in mezzo Sicignano.

Probabilmente forse pure perché aveva comprato il bar … pensavo io”, dal che, e soprattutto da quest’ultimo dialogo, si desume che i due non si vedessero almeno dai tempi in cui lo S. decise di cambiare mansioni ossia dal settembre-ottobre 2001 eppertanto è abbastanza poco credibile, perché intimamente contraddittorio con quanto altrove narrato dal teste, il riferimento dato all’inizio della sua deposizione circa gli incontri occasionali, anche in orari di lavoro, davanti al bar della moglie -aperto la prima decade di dicembre- con l’offerta di consumare qualcosa).

Non sapeva del soprannome “uomo invisibile”, non v’era reperibilità del dipendente, non v’era rapporto di dipendenza con gli assessori o poteri di direttiva che invece instavano sulla persona del responsabile di servizio ing. D’A..

Il C. ricordava poi, in dettaglio, l’episodio dell’incontro alla festa popolare a Zuppino, avvenuto una sera del mese di agosto del 1999, quando lui era ancora assessore: giunse in piazza, durante la festa, l’assessore ai lavori pubblici T. il quale richiese un intervento per un tubo rotto dell’impianto idrico in località Tempe di Zuppino, e si rivolse allo S. mentre questi ballava con la moglie; lo S. non gradì la richiesta e si rivolse con voce alterata, probabilmente perché aveva bevuto, dicendo che se volevano il suo intervento fuori dell’orario di servizio avrebbero dovuto riconoscergli la reperibilità (“mi dovete dare la reperibilità”) e per quella sera di festa dovevano lasciarlo stare; al chè, poiché al servizio manutenzione idraulica lavorava anche C. Albino, chiamò quest’ultimo al telefono passando la linea al T.; i due parlarono, il C. gli disse dove si doveva andare a chiudere l’acqua ed il T. vi si recò; nel frattempo, dopo un’ora circa, giunse il sindaco P. al quale il T. riferì l’accaduto, ed il Sindaco andò dallo S. per richiamarlo (“ma l’assessore ti ha chiesto una domanda, potevi …”), e tuttavia, poiché lo S. aveva quel tono di voce e temeva che potesse commettere qualcosa di sbagliato, fu egli stesso (il C.) ad intervenire invitando a lasciar perdere la cosa, rinviando la discussione, se volevano, all’indomani mattina; dopo che andò via il Sindaco, non passarono neppure dieci minuti che il C. si sentì spingere ed aggredire, e voltatosi vide lo S. e la moglie; dopo due ore, poiché gli faceva ancora male la mano, andò alla guardia medica per farsi medicare un graffio, e lì dal dottore apprese che poco prima erano giunte due persone, una coppia di coniugi, che lamentavano d’essere stati malmenati in una rissa durante una festa ma non avevano niente salvo che l’uomo era un po’ ubriaco.

Era intenzionato ad andare avanti ma il giorno seguente incontrò il Sindaco che gli disse che aveva avuto un incontro con S. e la moglie e che sarebbe stato meglio farla finita, nell’auspicio che cose del genere non accadessero più. Il giorno dopo, lo S. lo incontrò e chiamatolo per nome gli chiese scusa per quanto successo.

Sulla vicenda v’è anche una relazione di servizio dell’assessore Pietro T. comunicata al Sindaco in data 25/8/1999 su quanto accaduto la sera del 17 agosto (produzione documentale della difesa all’udienza del 29/2/2008); ivi si legge che in quel giorno, dopo aver effettuato una riparazione della rete idrica in località Tempe di Zuppino, incontrò, la sera, in occasione della Festa dell’Amicizia organizzata in quella frazione, tale B. Vito che gli comunicava la fuoriuscita di acqua proprio lì dove era stata effettuata la riparazione, al che il T. si prodigava a rintracciare personale addetto al servizio acquedotto per far sospendere l’erogazione dell’acqua, e facendo un giro in piazza incontrò l’assessore C. il quale gli disse che era presente il fontaniere comunale S. D. in compagnia della moglie. Entrambi gli amministratori gli di avvicinarono “con modi garbati” chiedendogli di collaborare per interrompere l’erogazione dell’acqua, ma lo S. dapprima disse al T. di non sapere nulla di dove fossero le chiavi,  aggiungendo con disprezzo di lasciarlo in pace e di fargli godere la festa perché quello era un compito degli assessori; si intromise, poi, la moglie che ad alta voce disse “D. non ti meravigliare tanto siamo abituati con questa amministrazione, ti ricordi che ti chiamarono anche la mattina delle Palme”.

A tanto, l’ass. C. disse al collega di lasciar stare, proponendosi di chiamare C. Albino, lavoratore socialmente utile “ben più preparato e disponibile nel lavoro”, e questi, telefonicamente, suggerì di chiudere una chiave di arresto sulla rete situata lungo la strada provinciale adiacente alla contrada Tempe, aggiungendo che se ci fossero stati dei problemi lui era pronto e disponibile ad intervenire di persona. Successivamente, il T. si recò in compagnia di R. Domenico presso la sua abitazione a prendere una torcia, una tuta e delle chiavi, intervenendo nel pozzetto “con difficoltà ma con alto senso di responsabilità”. Dopo due ore, gli si avvicinò C. il quale gli disse che poco prima lo S. e la moglie lo avevano aggredito in mezzo alla gente con calci e graffi, provocandogli delle ferite sul braccio e sul corpo; al che, stupiti di quanto accaduto, fecero pochi passi ed incontrarono quei due coniugi, i quali con voce alta e con tono altezzoso dicevano “dici la verità, noi cosa abbiamo detto” e la moglie, indietreggiando e facendo un gesto con le mani aperte a forma circolare e con voce alta, profferiva le seguenti parole: “vi dobbiamo fare il culo tanto”. La relazione del T. concludeva con la richiesta al Sindaco di valutare l’accaduto e discutere in Consiglio Comunale del comportamento del dipendente e del suo rifiuto in una situazione di emergenza e pericolo, applicando anche sanzioni o provvedimenti disciplinari.

 

Altri particolari emergevano nel prosieguo degli esami testimoniali: D’A. Annamaria Carmela, istruttore contabile, aveva notato pochi giorni prima del suicidio che lo S. avesse un volto triste, ed aveva appreso dai suoi colleghi che lo stesso veniva controllato dagli amministratori (lo apprese dopo il suicidio), i quali “si arrogavano poteri” di controllo che invece spettavano per competenza ai responsabili di servizio e potevano cercare di risolvere diversamente i problemi con il dialogo (su contestazione del PM risultava invece che la donna aveva riferito ai CC di Sicignano degli Alburni che “l’arroganza di alcuni amministratori, relativamente al controllo del personale, i quali potrebbero agire diversamente avendo un dialogo con noi ed i responsabili degli uffici”); e riferiva pure che lo S. aveva ottenuto il consenso per un prestito pari alla cessione del quinto dello stipendio, con trattenute alla fonte già operate. Il responsabile finanziario del Comune, A. Gennaro (responsabile del servizio Finanziario, Economato e Tributi, come da delibera di Giunta del 26/5/1998), ricordava l’ottimo rapporto che aveva con D. S., il quale “amava la vita” e non aveva problemi di salute od in famiglia; soltanto dopo la morte aveva appreso dell’episodio della diarrea e del soprannome datogli; sul piano finanziario sapeva che gli venne operata una trattenuta per una polizza assicurativa contro gli infortuni (il che confermerebbe quanto narrato dal C. circa la presentazione di un assicuratore durante una prestazione di lavoro che pochi giorni prima del suicidio stava facendo insieme con lo S.).

P. Alessandro, già bidello scolastico e poi dipendente comunale per lavori esterni e sindacalista, ricordava lo S. come un bravo ragazzo, che aveva “degli alti e bassi”, era un po’ “estroverso” (stesso aggettivo impropriamente usato anche da M. Cosimo) nel senso che era amico per la pelle ma se qualcosa gli andava storto non ti salutava più per 15 giorni o un mese, ed era felicissimo di aver acquistato il bar insieme con la moglie. Le sue preoccupazioni cominciarono a seguito della denuncia ricevuta dall’amministrazione comunale per non aver timbrato il cartellino, ed era un fatto noto a tutti al Comune; per quella vicenda si interessò anche lui come sindacalista, e chiese al Sindaco di lasciar perdere, essendo una cosa che può capitare, come era capitato anche a lui, specie in un comune dal territorio vasto come Sicignano, ed il Sindaco si rese “molto disponibile a far sì che questa cosa finisse sul nascere” tant’è che chiese al Comandante dei Vigili una relazione “abbastanza morbida” su quanto accaduto, chi spingeva di più erano invece gli assessori C. e T., ma poi apprese che non si poteva fare più niente “perché ci sono delle fotocopie della denuncia fuori”. Inoltre, riferiva che una mattina del mese di settembre 2001, verso le sei, nel recarsi al lavoro, vide nel cortile della vicina scuola, dietro un muro protetto da alberi, gli assessori T. e V., ma nel tornare, dopo aver timbrato il cartellino, non c’erano più; poi, alla chiusura della propria giornata lavorativa, nella quale aveva sostituito lo S. assente dal servizio per la pulizia delle strade comunali (il che vuol dire che già nel mese di settembre 2001 lo S. aveva intrapreso le nuove mansioni, di ciò era certo il P. perché c’era un accordo con il responsabile di servizio secondo cui in caso di mancanza di qualcuno per la pulizia del paese doveva andarci lui  e “siccome quel periodo D. faceva quel servizio, sicuramente non c’era”), incontrò il T. dicendogli in tono scherzoso “ma che, ti sei svegliato presto stamattina ?” e quegli, ridendo, rispose affermativamente (è chiaro che se di controllo si sia trattato, questo non abbia riguardato lo S.). Ancora, un altro giorno, rientrando dal servizio verso mezzogiorno, giunse lo S. nell’ufficio elettorale, dove stava lui e N. Cosimo Secondo, e raccontava dell’episodio occorsogli quella mattina, quando il vigile S. ed il Comandante N. lo avevano cercato e poi, una volta trovato, giustificò la sua assenza dal lavoro per aver patìto un attacco diarroico; alla sua domanda se fosse vero, lo S. rispose negativamente, “mi ha detto nel modo più assoluto che se l’era inventata questa cosa” e ridendoci sopra raccontava anche che con lo spazzolino del WC cercò di sporcarlo “per far vedere che era andato al bagno”; parimenti, “la sera nel bar, sempre scherzando tra di noi, lui mi raccontava la stessa cosa”. La vicenda, così come narrata, è stata sottoposta a contestazione da parte del P.M. laddove ai CC di Sicignano il 4/4/2002 il teste aveva dichiarato che lo S. aveva raccontato ai suoi colleghi che, giustificatosi della assenza dal lavoro per essere stato sorpreso da una forte diarrea, “il sindaco, alla presenza di alcuni assessori, lo aveva tenuto con sé nel proprio ufficio fino a quando avesse avuto nuovi problemi intestinali e aveva incaricato il vice sindaco C. di verificare se lo S. effettivamente avesse defecato” ed “il C. si rifiutò di adempiere a tale compito, cioè di andare a vedere”, circostanze non riferite in udienza, concludendo poi con l’altra circostanza (amplificata in dibattimento), ossia che “a dire la verità la cosa che mi colpì fu quella che lui ci rideva sopra a questi avvenimenti, cioè era in grado di sdrammatizzare la situazione creatasi”. Ma il testimone, dinanzi al contrasto di impostazione del narrato, ha ritenuto che non vi fossero contraddizioni perché comunque ribadiva anche quanto detto in udienza, ossia che lo aveva sentito prendere in giro gli amministratori facendo loro credere di avere avuto dei problemi fisiologici. Va però subito stigmatizzato che l’altro dipendente, N. Cosimo Secondo, pure presente nella imminenza del fatto, alle confidenze di S., ha invece raccontato (come si è innanzi visto) l’episodio avvenuto nel suo ufficio in un tono non certo scherzoso, e comunque sia, è molto rilevante che, nella seconda parte del racconto del P. si introduca la circostanza che lo S. avrebbe dovuto artificiosamente sporcare il WC on lo scopino per offrire una dimostrazione visiva dell’avvenuta “liberazione” fisiologica, il che è del tutto in linea con quanto appreso da altre fonti, ossia che dopo il richiamo al dipendente assentatosi dal servizio ci fu la richiesta del Sindaco di andare a verificare e di non tirare lo sciacquone, proprio come aveva dettagliatamente ricordato N. Alfonso.

Il P. aggiungeva, inoltre, che aveva visto preoccupato lo S. dopo la vicenda del cartellino marcatempo, che non sapeva darsi una spiegazione del gesto suicidiario, che la mattina del decesso (era il Sabato delle Palme) fu tra i primi ad incontrare la moglie ed a giungere a Galdo ove vide anche il Sindaco che cercava di consolare i figli ma non ne fu apprezzato il gesto, e che egli personalmente non aveva mai fato propaganda elettorale; ha ricordato dell’episodio del ritrovamento di S. nel garage in cattive condizioni fisiche era “accasciato”, “sui cartoni”, ed era presente pure il P., e di come gli consigliò di tornare a casa anche timbrando qualche minuto prima, apprendendo poi la sera, dalla moglie, che aveva la febbre, e ciò accadde pochi giorni prima del suicidio, il mercoledì, ed ha anche ricordato che i bagni del comune non erano funzionanti, le chiavi di accesso erano in possesso de vigili, e che in occasione di un omaggio natalizio ricevuto dal sindaco lo S. commentò che quella amministrazione contrariamente a quanto si era detto dall’esterno, consentiva comunque a ciascuno di loro di “farsi i fatti propri”.

 

Che lo S. si sentisse perseguitato da parte dell’amministrazione è circostanza nota anche ad un consigliere di minoranza M. Ernesto, medico (non di famiglia) in un paese viciniore ed amico del compianto D.; gli confidava che “si sentiva vittima della situazione”, “mi vogliono male”, “mi controllano”, e si lamentava di essere stato denunciato ingiustamente; ricordava che la moglie, P. Angela, gli aveva raccontato che la notte prima del suicidio il marito lo aveva sognato e nel sogno gli aveva detto che era malato ed aveva la cirrosi; ma con lui non aveva mai parlato delle sue condizioni di salute, sebbene sapesse che era “un poco avvezzo a bere” nel senso che quando si sono trovati insieme a consumare qualcosa al bar il M. prendeva un caffè e lo S. un bicchierino di liquore, e solo come raccomandazione gli aveva detto “D., fa male, non abusare”. Buoni giudizi sulla persona dello S., come uomo tranquillo, allegro, bravo lavoratore, provenivano anche dal Sovrintendente di Polizia Municipale R. Domenico (cl.’61), il quale riferiva di non sapere di rapporti tesi tra il sindaco ed il comandante dei vigili urbani anzi negli ultimi mesi si era visto pure aumentare l’indennità di posizione. Parimenti l’omonimo agente di polizia municipale, ora geometra comunale, R. Domenico (cl.’58), reputava lo S. come una persona tranquilla, gioiosa e “grosso lavoratore”, ed egli rimase “sconcertato” quando apprese del cambio di mansioni, da fontaniere operaio specializzato a netturbino, ma quegli era C.nto perché “si sentiva secondo lui un po’ più tranquillo col modo di lavorare”, nel senso che “mi vedono e nessuno terrà da ridire che io non sono sul posto di lavoro per questo”; ed infatti, spiegava, i dipendenti esterni “non sempre venivano curati” nel senso che a volte si dovevano prendere delle “iniziative private per svolgere determinati lavori, oppure dovevano essere comandati e quindi a volte potevano sfuggire a chiedere la domanda”. Ricordava un episodio specifico, allorché una mattina il Sindaco gli chiese di controllare dove fosse lo S. perché erano giunte delle telefonate che segnalavano la sua assenza dal posto di lavoro, a Zuppino, e lui vi si recò ma non lo trovò, poi andò a casa a Galdo e non c’era, e di ritorno a Zuppino lo trovò nella piazza a spazzare giustificandosi che poco prima si trovava in un vicoletto adiacente ad una fontana. Ultimamente lo vedeva “molto triste” e scuro in volto, e qualche mese prima del suicidio gli disse una frase che lo lasciò sconcertato: “Guarda Mimmo, gentilmente, se dovesse succedere qualcosa, dai sempre un’occhiata a mio figlio”; ricordava che effettivamente si lamentava d’essere la “persona più mirata … perché ogni volta che succedeva qualcosa se la prendevano sempre con lui”. Era a sua conoscenza, poi, per averglielo riferito altri colleghi, l’appostamento delle cinque di mattino in un istituto scolastico per vedere se andavano al lavoro, l’episodio del controllo in bagno ed il tono scherzoso con cui lo raccontava ai suoi colleghi dicendo “sono stato sopra e ho detto che dovevo andare al bagno, e ho detto: se mi volete venire a controllare, venitemi a controllare”. Ha narrato, poi, di come lo S. si mostrò impaurito per aver assistito al decesso di un paziente in degenza vicino al suo letto in corsia all’ospedale di Eboli allorquando fu ricoverato un paio d anni addietro; non era un alcolizzato sebbene negli ultimi tempi “beveva un poco di più”, anche per averlo sentito con alito vinoso di mattina. Aggiungeva che spesso capitava che i dipendenti venissero chiamati in qualsiasi momento pur non avendo la reperibilità, come pure capitò allo S. durante una festa di famiglia a Petina e del pari durante una festa popolare a Zuppino, inoltre, quanto all’episodio della timbratura del cartellino marcatempo, riferiva quanto aveva appreso da altri circa la dimenticanza della timbratura e l’intervento del T., ma non reputava che quella vicenda potesse aver influito sul cambiamento di umore; lo S. non era comunque il tipo che si faceva “mettere sotto i piedi”, visto il suo carattere forte e gioviale. Aggiungeva anche un altro episodio al quale aveva assistito, durante l’estate del 1998 o del 1999 in una festa popolare di San Rocco alla frazione Galdo egli ed il comandante N. dovettero intervenire e fermare un orchestra perché due coppie di ballerini si erano “pestati i piedi” ed era iniziata una baruffa, e fra questi c’erano i coniugi S.-P.. Quanto ai rimproveri pubblici, un po’ tutti li avevano ricevuti con l’amministrazione P.; c’erano poi delle lamentele contro il Comandante N. e c’erano tensioni fra questi ed il Sindaco, fors’anche per il tono di voce di quest’ultimo che “faceva sì che la cosa si animasse un pò”; ricordava infine che il N. aveva fatto ascoltare, una volta nell’ufficio del Comando, un’altra volta in una riunione conviviale fra colleghi, un nastro di registrazione inerente ad una conversazione privata di natura sentimentale tra il Sindaco ed una donna, ottenuta utilizzando un microchip avuto dal fratello, come disse il N., che lavorava nell’Arma dei Carabinieri (su questo punto ampio è il contrasto con quanto riferito dal N. Alfonso). Aggiungeva, infine, precisando che se è vero che i lavoratori prendevano ordini di servizio rispettivamente dai loro responsabili di settore, è pur vero che però gli amministratori disponevano degli operai anche “scavalcando i responsabili di servizio” e tanto era capitato, ad esempio, con l’assessore T., come nel caso di urgenze serali senza che fosse prevista la reperibilità; ed in questa linea si inserì anche l’incarico verbale che egli stesso ricevette dall’assessore T. e dal Sindaco per controllare gli ammanchi nella sede comunale previo inventario dei beni; c’era comunque una carenza di attività di coordinamento, direzione e controllo da parte del responsabile di servizio. 

Un altro episodio singolare nella vita lavorativa dello S. è stato rammentato dalla teste R. Filomena, cognata del defunto D.: un giorno, transitando davanti ad una banca, lo incontrò mentre spazzava e con lui scambiò quattro chiacchiere, quando ad un certo punto fu chiamato dall’assessore T. e dal Sindaco che si trovavano in mezzo alla piazza; di ritorno, lo S. le disse che lui era “torturato e non ce la faceva più ad andare avanti, ed aggiunse “un giorno di questi io faccio qualche cosa di brutto”, e ciò accadde una ventina di giorni prima del suicidio; ricordava che D. si lamentava che erano tre giorni che lo mandavano in giro a piantare le piante e non faceva il suo lavoro, poi a chiarimento, confermava di aver sentito pronunciare la seguente frase “non ce la faccio più, un giorno di questi mi vado ad impiccare”; negava infine di averlo mai visto bere, ed aggiungeva che se prima era allegro da ultimo lo vedeva “molto assente”.

 

Sicuramente portatrice di interessi antagonisti nei confronti del Sindaco P., ma non per questo meno pregnante per la rilevanza ed il significato di alcuni episodi narrati  che oggettivamente hanno trovato riscontro nella vita lavorativa dello S., è la deposizione del dipendente comunale Di I. Pasquale, il quale, premesse le qualità personali e professionali del defunto collega, nonché le ingerenze degli amministratori nel dare disposizioni ai dipendenti specialmente negli orari antecedenti all’orario di lavoro dei responsabili di servizio, ricordava anche lui dell’episodio della chiamata urgente la sera della festa di compleanno nel ristorante a Petina dove anche lui, il Di I., era presente occasionalmente per una pizza, e fu lui stesso a dare indicazioni al gestore del ristorante su chi fosse la persona con la quale l’interlocutore telefonico richiedeva di parlare, e sentì lo S. dire “ma è mai possibile neppure oggi posso stare in Grazia di Dio”. Un’altra volta, di sera, alla festa di San Pasquale a Galdo, si avvicinò il sindaco allo S., con il quale stava parlando, e gli disse “Senti, ma oggi hai fatto festa ?”, e quegli rispose “no, guardi, io stamattina ho pulito”, al chè il Sindaco replicò “no, e che fanno stè cose ?”, ma D. concluse “sindaco, qua non siamo all’hotel Ariston di Paestum, che come butti una cicca te la vengono a prendere”. Ed un’altra volta ancora, verso la fine di agosto 2001, mentre stava mangiando un panino in una pausa di lavoro come fontaniere per riparare un pozzetto di una fognatura in paese, passò un amministratore e gli disse “ma ti sembra l’ora di mangiare ?”. Anche a lui erano capitate alcune vicende spiacevoli, come quando fu “sfrattato” dal suo ufficio il 14 o 15 dicembre 2001 un assessore (T.) disse “ancora loco stai ? pigliate, buttatelo in mezzo alla via, metteteci una mazza di scopa in mano e iess’ a scupà miezz’a via”, senza avere risposta alcuna alle sue rimostranze, per essere poi allocato in una piccola stanza non sufficientemente capiente a contenere le cartelle in archivio, né a consentirgli di stendere le gambe sotto la scrivania. Quanto all’episodio del bagno, avvenuto dopo l’Epifania del 2002, ne venne a conoscenza da un collega poiché in quel periodo egli non era in servizio, e versava in convalescenza, ed apprese che l’assessore T. gli disse “tu prima di tirare lo scarico mi devi chiamare a me perché mi debbo accertare se tu effettivamente vai al bagno oppure mi pigli per fesso”, e lo scortò nel bagno. Ne parlò con S. e questi gli disse “guarda, io non ce la faccio più” anzi era propenso a ritornare all’ufficio acquedotto, laddove aveva prescelto di lavorare al settore ecologiaper farsi vedere dalla gente, perlomeno quelli mi vedono e non possono dire che io non vado a lavorare”. Sapeva anche dell’appostamento dentro la scuola, compiuto dagli assessori T. e V., di cui venne a conoscenza in una riunione dell’8/9/2001 (quindi, il controllo all’alba fu compiuto in epoca antecedente, e ciò trova conferma anche nella deposizione di P. sull’epoca del fatto). Narrava il Di I., poi, di un episodio inquietante, quando in una riunione sindacale l’assessore M. disse “uno l’abbiamo già fatto fuori, mò ne dobbiamo fare fuori un altro”, frase che egli collegava alla problematica insorta tra il Sindaco e sua moglie C. Erminia, già impiegata dattilografa del Comune che, per aver osato di opporsi ad un ordine di servizio che la vedeva impegnata contemporaneamente in quattro uffici comunali, subì delle invettive violente del Sindaco le cui urla, nella sua stanza, le provocarono un esaurimento nervoso con assenza prolungata dall’ufficio per diagnosticata neurosi, vicenda che ebbe anche un altro seguito allorché non risultò vincitrice di un concorso, con declassamento, e fu anche oggetto di molestie dal Sindaco, vicende tutte denunciate alla Procura della Repubblica, per poi ammalarsi di un male gravissimo ed alla fine esser licenziata; anche lo S. ebbe a commentargli “ho capito perché tua moglie è uscita pazza” (è probabilmente questo il sostrato di un interesse forte e personalissimo che lo spingeva a formulare, comprensibilmente, sebbene in maniera stizzosa e scomposta, le proprie vibranti dichiarazioni accusatorie, ma ciò non elide l’aggancio veridico alle tante vicende narrate e, come innanzi visto, confermate anche da altri testi; in questa ottica vanno pertanto smussati alcuni accenti polemici emersi nel contraddittorio delle parti, durante il suo esame). Lo S. non viveva bene quella situazione, temeva il licenziamento e di come far fronte alla mancanza di reddito alla famiglia (“se mi licenziano, la mia famiglia come mangia?”). Sull’episodio della festa a Zuppino, sapeva che la mattina seguente l’assessore T. aveva fato un rapporto nel quale si lamentava che lo S. si era rifiutato di andare a riparare un guasto alle nove e mezza, dieci di sera. Aggiungeva che di solito il Sindaco convocava le persone dopo che era stata commessa un’infrazione e le rimproverava spesso davanti ad altre persone, senza appartarsi, “erano urla”, e fra i tre addetti all’ecologia chiamavano sempre a lui perché P. era lo zio di T. e M. era un lavoratore socialmente utile. Quanto alla vicenda della timbratura del cartellino, precisava che non c’era diritto allo straordinario e che anche il T. si era stupito di quanto accaduto, laddove c’era chi, assessore presente in giunta, risultava invece aver timbrato contemporaneamente le sue ore di lavoro, e comunque era invalsa la prassi di timbrare per conto d’altri, specie fra dipendenti coniugi. Anche il Di I. era a conoscenza della riunione tenutasi nell’agriturismo di M. nell’anno 2005 e riferiva tutti i nomi dei partecipanti; riferiva poi che lo S. si recava nei locali garage oppure nel bagno per riparare le scope. Aggiungeva poi, nel corso del controesame, che “gli ordini del sindaco non erano ordini ma richiami”, che anche quando era fontaniere lo S. andava a pulire le strade delle frazioni di Castelluccio e di Galdo, tant’è che nell’estate 2001 S. e C. avevano partecipato ad un progetto obiettivo. Indicava infine, anche i nominativi di coloro che fungevano da “informatori” del Sindaco sugli spostamenti di S. nelle varie frazioni.

La vicenda appena narrata, quella della moglie del Di I., è stata confermata dalla viva voce della C. Erminia, la quale offriva in comparazione la propria esperienza con quella vissuta dallo S., allorquando verso la fine dell’estate 2000 incontrò il collega ed amico D. che salutandola le disse “Erminia, sto passando dei guai con l’amministrazione, io non ce la faccio proprio più”, le raccontava d’essere stato preso di mira, e comprendeva ciò che aveva passato, “avevi ragione come ti sei sentita, adesso ci credo, che tu ha passato le stesse cose mie”; in realtà, nell’amministrazione P. “siamo stati figli e figliastri”, e lo S. le raccontava di essere stato richiamato davanti ad alte persone, di essere stato sgridato perché non lavorava, non faceva niente ed era uno scansafatiche, e di temere per il licenziamento, che si sentiva perseguitato dall’amministrazione, “proprio tartassato”, che veniva chiamato in continuazione, di notte e di giorno; apprese dal marito dell’episodio del bagno, della denuncia per la timbratura del cartellino da parte del T., e della frase pronunciata dall’assessore M. durante una riunione con i dipendenti, del tipo “uno lo abbiamo fatto fuori, adesso tocca all’altro”; non lo aveva mai visto ubriaco, sapeva che c’erano degli informatori che riferivano “ogni nostro movimento, pure il respiro”, e sapeva -almeno finché lei aveva prestato servizio al Comune (1999)- che i bagni sottostanti la sede comunale erano funzionanti. La sua esperienza era stata incredibile, il sindaco, pure in presenza di altre persone, le diceva che l’avrebbe licenziata, che era una analfabeta, una incompetente; concludeva asserendo che “a Sicignano c’è l’omertà, tutti hanno visto, hanno sentito, e nessuno parla”.

 

Ancora, altri due stretti congiunti del defunto hanno deposto, come testi di parte civile, su tutti i temi di prova, confermando l’oggetto, le modalità, i tempi ed i soggetti delle vicende fin qui emerse. Il figlio primogenito, S. Vincenzo, ha riferito degli ottimi rapporti familiari fino a prima della morte del padre (rammentava di un regalo di un collier d’oro che il padre fece alla madre in occasione del suo compleanno nel mese di febbraio 2002), ed anche dopo, salvo la divergenza che aveva avuto con la madre circa la prosecuzione nella gestione del bar che lui aveva intenzione di ricevere non riuscendo a sostenersi economicamente con gli studi universitari e che la madre, invece, non voleva affidargli, divergenza manifestatasi nella mancata partecipazione della donna alla cerimonia ecclesiastica del suo matrimonio e che si era poi ricomposta con la nascita della nipote nel gennaio 2007. Il giovane che ricordato che dopo la morte del padre fece una richiesta di assunzione al Comune, ma invano, sebbene altri (come C., M. Antonio e M. Cosimo) furono poi assunti (più oltre, in controesame, precisava i nomi dei seguaci di quella amministrazione che, prima o dopo la morte del padre, furono assunti), sicché esternava che “invece di aiutarmi loro diciamo che mi hanno finito di uccidere praticamente”; la sua domanda di assunzione è stata acquisita in copia agli atti del dibattimento all’udienza del 23/4/08 con provvedimento di formale rigetto del Sindaco datato 12/5/03. Elencava quindi, una serie di episodi a lui noti fonte di mortificazione ed umiliazione per il defunto padre: sapeva del soprannome “uomo invisibile”, dell’appostamento davanti alla scuola, di una permanenza del padre sotto la pioggia (a questo aveva personalmente assistito) con rifiuto al suo invito di ripararsi sotto il porticato motivato dal fatto che lo “dovevano vedere”, della paura d’esser licenziato, di come lo vedesse triste, umiliato ed “assillato”, e di come “loro lo stavano portando all’esasperazione”, di come lo trattavano male il sindaco P., il vicesindaco C. e l’assessore T., che gli davano ordini tassativi e lo umiliavano davanti alle persone, delle telefonate che il Sindaco faceva personalmente a casa loro ricercando il padre e di come “erano molto scoccianti” perché pervenivano dopo le ore di lavoro e, se il padre non c’era perché impegnato in lavori di agricoltura in un terreno di loro proprietà, provenivano anche due o tre volte interrompendo il suo studio, fino a giungere ad un rimprovero del Sindaco rivolto proprio nei suoi confronti giudicandolo un grandissimo scostumato perché non voleva passargli il padre al telefono laddove, invece, questi non era in casa; e ciò accadde anche quando il sindaco chiamò a casa loro e della nonna dicendo che se D. non fosse andato subito sul comune lo avrebbe licenziato in tronco, e fu quello il giorno in cui il padre, nonostante fosse stato fu punto da un’ape e versasse in una seria cR. allergica (tanto da dovere alla fine ricorrere in ospedale), fu comunque accompagnato dalla madre alla sede comunale; e non si spiegava il motivo per cui anche la madre veniva convocata dal Sindaco a ricevere i rimproveri. Non poteva mancare la descrizione dell’episodio delle tre telefonate al ristorante la sera della festa per il suo 18° compleanno, mentre poteva andare C. Albino nei cui confronti, invece, non veniva fatta alcuna vessazione. Il teste ha anche riferito che il padre era incaricato di fare le segnalazioni su anomalie ed irregolarità nell’uso delle fontane pubbliche, e ciò accadde con segnalazioni nei riguardi di Visconti Giovanni e G. Felice, il primo perché innaffiava con l’acqua comunale piuttosto che con l’acqua del fiume ricevendo come risposta che aveva già parlato con il C. e che se l’acqua fosse finita sarebbe dovuto andare lui ad orinare nei serbatoi per fargli completare l’innaffio, ed il secondo perché con l’acqua comunale piuttosto che lavare i macchinari dell’oleificio stava innaffiando i fiori e faceva le pulizie davanti casa, ricevendo come risposta che erano problemi suoi e che l’amministrazione comunale non gli avrebbe fatto niente. Quanto all’episodio della festa in piazza a Zuppino, anche lui era sul posto e vide l’assessore T. avvicinarsi al padre chiedendogli di dover andare a chiudere l’acqua con urgenza, ma alla risposta di poter mandare C. Albino, l’assessore replicò “no, la devi chiudere tu, ho chiamato il sindaco, ti fanno questo, ti fanno qua”, ed allora il padre si arrabbiò e disse “io mi sto divertendo, non è possibile che ogni volta devo andare io, non c’è nessun ordine di servizio”, e così cominciarono a discutere e si avvicinò anche Luigi C. che prese a mortificarlo ed umiliarlo finché si bisticciarono e la madre fu spinta a terra e cadde, al ché egli voleva intervenire ma poi il C. se ne scappò. Quanto all’episodio della diarrea, il giovane ha premesso che il padre non aveva la colecisti per cui doveva ricorrere al bagno se mangiava qualcosa di più pesante, e quella mattina, come raccontò loro il padre con comprensibile mortificazione, ebbe l’emergenza di andare al bagno durante il lavoro ma gli assessori C. e Trosi ed il Sindaco non gli credettero tant’è che il C. andò a vedere se il padre aveva veramente avuto quell’urgenza; fu un fato umiliante anche perché la notizia si diffuse fra i dipendenti ed anche ad altre persone fuori dalla Casa Comunale. Un altro episodio a sua memoria, il padre cercava un mezzo per portare dei sacchi di cemento molto pesanti ed il Sindaco “lo aggredì e lo disse in modo molto autorevole davanti a molte persone” che l’unico mezzo a sua disposizione era la carriola. Egli stesso, poi, in occasione delle consultazioni elettorali del maggio 2001, aveva messo uno striscione all’inizio della frazione di Galdo, contrario alla lista del Sindaco uscente (anzi il padre non voleva che lo mettesse perché “già mi trattano male, poi con questo striscione sicuramente …”, e poiché lo vide il D'A. Tullio aggiunse “sicuramente mò glielo dice a P.. Già mi trattano male, dopo se vincono è peggio”), e fu dal secondo mandato elettorale amministrativo che iniziarono tutti i problemi, nel senso che suo padre non stava più bene, non stava più tranquillo, nel senso che ci fu un evidente comportamento ostile, cosa che si manifestò anche dopo la morte del padre, quando egli ripose temporaneamente dei mobili sul fianco di una strada comunale e fu multato pur essendo nota la sua situazione; anzi egli stesso chiese spiegazioni al Comandante N. e questi gli disse che il Sindaco gli aveva detto di dover fare quella multa (“questa multa la devi fare e basta”); va osservato che sul verbale di accertata violazione emesso il 12/4/2003 a firma del Ten. N. (acquisito in produzione documentale all’udienza dibattimentale del 23/4/2008) effettivamente risulta contestata la violazione dell’art. 14 e 50 D.L.vo 22/97 per l’abbandono di rifiuti domestici in area pubblica, ma in esso viene anche riportato che “non è stata emessa ordinanza in quanto il trasgressore ha provveduto spontaneamente alla rimozione ed al ripristino dello stato dei luoghi”, a dimostrazione dell’intento resipiscente e prontamente ammissivo del trasgressore S. Vincenzo. Quanto all’episodio del cartellino marcatempo, il teste ha riferito che per quel fatto ci fu una grande storia, quando poi proprio suo padre in altre occasioni aveva timbrato il cartelino d’altri e non è stata mai intrapresa alcuna azione contro gli altri dipendenti. Sapeva, poi, che il padre si recava nel locale garage del Comune per pulire e fare le scope e che i bagni del piano terra erano pubblici ed usufruibili dai cittadini. Della mattina del suicidio, poi, ricordava che al suo risveglio aveva notato che i suoi quaderni ed una penna stavano sul tavolo, fuori dalla sua borsa, ed il padre aveva insistito a mandarlo a scuola insieme con il fratello, ma soltanto dopo una settimana si era accorto che mancavano dei fogli, ed erano quelli sui quali il padre aveva lasciato i messaggi ai congiunti, manoscritti e grafia che riconosceva in udienza; poi, quando venne il Comandante N. a prenderlo apprese la notizia e recatosi a casa, trovò, tra le varie persone già accorse sul posto, anche il sindaco che lo abbracciò per confortarlo, ma egli prontamente, e prima ancora di leggere il contenuto di quei manoscritti, gli disse “tu volevi vedere mio padre morto e mio padre è morto!”, tant’è che dovette intervenire il parroco per separarlo dal P.. Il fratello più piccolo, Simone, ne rimase molto scosso, aveva trovato il padre impiccato quando aveva appena otto anni, era dovuto ricorrere a lunghe e costose cure mediche e psicologiche e tuttora, se vedeva il sindaco nel negozio di barbiere dove presta assistenza, “scappa e piange”. Aggiungeva di non aver mai visto il padre ubriaco che avesse problemi con l’alcol, che la relazione della madre con M. Lucio era iniziata dopo la morte del padre né aveva mai assistito a loro incontri nel bar, che aveva smesso di studiare per difficoltà economiche e non già perché denunciato per “scommesse clandestine” (poi il teste ha chiarito che si trattava di vidopoker installati nel bar di cui egli non si curava restando tutto il giorno fuori sede a studiare all’università a Potenza), che con il padre “si comportavano molto male” e la “spiegazione era che era uno dei pochi che non lo aveva votato”, che dopo le elezioni del 2001 le cose peggiorarono e qualche episodio avvenne prima, ma la maggior parte in epoca successiva, che gli amministratori lo rimproveravano in pubblico e ad alta voce.

La sorella di S. D., Pia, in maniera molto nitida e lineare ha riferito tanti episodi di rimproveri e vessazioni che il fratello, con il quale aveva un rapporto quotidiano e molto stretto, le aveva confidato od ai quali aveva personalmente assistito. Raccontava che inizialmente, quando svolgeva lavoro all’acquedotto, era C.nto del suo lavoro che svolgeva in modo regolare, ed era una persona tranquilla, ma poi, durante il secondo mandato dell’amministrazione P., le cose cambiarono e sorsero dei problemi perché suo fratello aveva lasciato intendere che non aveva rivotato per quell’amministrazione; veniva continuamente richiamato, telefonato anche al di fuori dell’orario di lavoro, sebbene non fosse previsto lo straordinario né la reperibilità. Passava, quindi, ad elencare gli episodi: alla festa del 18° compleanno del figlio Vincenzo, mentre tutto era sereno e tranquillo, arrivò una telefonata che fece irritare il fratello; lei non sapeva di che si trattava ma lo vide cambiare, poi, ripresa la festa, giunsero altre due telefonate e da quel momento “le cose sono cambiate realmente” e vide suo fratello “trasformato”; soltanto nei giorni seguenti Pia chiese al fratello cosa fosse successo e lui le disse “sembra quasi che io fossi l’unico operaio del Comune. Sapevano benissimo che io stavo festeggiando il compleanno di mio figlio, ma hanno preteso da me che io andassi a chiudere l’acqua”, ma alla domanda della sorella se effettivamente dovesse andarci, D. rispose di no, che non era l’unico e perché c’era chi lo avrebbe sostituito; verso la fine del controesame difensivo è anche emerso che il fratello si era poi allontanato dal locale per farvi rientro dopo tre quarti d’ora, un’oretta. Un altro episodio la lasciò ancora più perplessa, risalente a pochi mesi prima della disgrazia: un dì, ritornando a casa, vide il fratello che puliva dei tombini insieme ad un suo collega dinanzi casa propria, e lei si offrì di invitarli in casa per un caffè, ma la risposta di D. non fu né affermativa né negativa bensì le chiese se avesse visto il Sindaco che era nei paraggi, ed all’ulteriore interrogativo sul perché mai le facesse quella domanda, D. le rispose “perché io sono controllato, non mi posso assentare dal mio posto di lavoro”, al che la donna replicò che se proprio non voleva entrare avrebbe portato loro il caffè in strada, ma lui insistette sul rifiuto; il giorno seguente gli chiese spiegazioni ed il fratello le disse che “le cose non stavano come le vedete voi, perché queste persone mi stanno M.crando, mi seguono dovunque io vada e devo essere sempre visibile, io mi devo sempre far vedere che vado al lavoro”, ed insisteva che era proprio quella la verità ed era preoccupato; in sede di controesame precisava che non si trattava di una “fissazione”. Quanto alla timbratura del cartellino, poi, lui le disse “hanno trovato il sistema per farmi fuori, questa volta ci riescono veramente”, e lei cercava di minimizzare la cosa, di tranquillizzarlo, ma lui era “scoraggiato”, sfiduciato”, “piangeva”, “aveva paura”, “aveva paura di essere licenziato” e temeva di come avrebbero potuto vivere i suoi familiari; poi la teste aggiungeva che vi erano stati altri casi di timbratura di cartellino al posto di altri dipendenti, come chi risultava presente al lavoro nonostante fosse ricoverato in ospedale (C.), e “si rodeva del fatto che era stato preso di mira lui”; in sede di controesame aggiungeva che dopo l’episodio del cartellino la trasformazione del fratello si accentuò ancora di più. Un altro episodio, raccontatole dal fratello, riguardava la puntura della vespa, quando un pomeriggio, fuori dell’orario di lavoro, mentre era dedito a dei lavori in campagna, la moglie (P. Angela) ricevette una telefonata dal sindaco che le diceva di rintracciare il marito perché doveva recarsi subito alla casa comunale; al chè si recò da lui e lo incontrò lungo la strada che stava tornando, già con un primo rigonfiamento al volto per la puntura subita; preoccupata, la moglie lo portò dapprima a casa e qui telefonò al sindaco per avvertire che D. aveva quel problema “ma non ci sono state ragioni, perché lui è dovuto andare alla casa comunale”, e quando arrivò davanti alla casa comunale incontrarono il vigile S. Raffaele che, vistolo in quelle condizioni, non lo fece salire, anzi pretese che lo si portasse dal sindaco. In un’altra occasione la loro madre (M. Luisa) le telefonò, “agitatissima” perché aveva ricevuto una telefonata dal sindaco in cui il fratello veniva minacciato di licenziamento se non si fosse presentato al Comune, e la donna si mise in macchina per cercarlo e comunicargli il messaggio, per poi trovarlo, infine, a casa, e D. le disse “ma cosa vogliono, io ho un giorno di permesso!”, quindi, era stato minacciato di licenziamento nonostante fosse in permesso.

S. Pia ha quindi rammentato che il fratello era soprannominato “l’uomo invisibile”, e che aveva accettato di spazzare per le vie del paese per poter essere ben visibile ed essere sotto gli occhi di tutti; tant’è vero che un giorno fu anche sorpreso sotto un albero in piazza poco lontano dal Comune mentre pioveva ed una persona gli chiese cosa stesse facendo e perché non si andasse a riparare, e lui rispose “non mi è concesso, io non posso entrare da nessun parte, devo essere ben visibile”. Questo fatto lo mortificava molto, anche se il fratello tendeva a minimizzare le cose, però nell’ultimo periodo lo vedeva cambiato e pensieroso, “non era più solare” come quando le si avvicinava e le raccontava come andavano le cose “non era così nell’ultimo periodo”. Sull’episodio della festa di Zuppino riferiva ciò che le era stato raccontato dal fratello e dalla cognata: erano le 10 di sera quando fu avvicinato da un consigliere o da un assessore per dirgli che doveva andare a chiudere l’acqua, e D. rispose che si stava divertendo, era sera, e si lamentò che dovesse esserci soltanto lui come operaio a chiudere l’acqua aggiungendo “è come se mi vedessero in mezzo alla strada, C.nto, soddisfatto, eccetera, e non avessi diritto di essere C.nto e stare in mezzo alla gente e di festeggiare insieme alla mia famiglia”. In un’altra occasione, mentre stava salutando la cognata, D. fu chiamato dal Sindaco che gli ordinò di svolgere un’altra mansione, consistente nel dover andare a prendere qualcosa di molto pesante, e, rappresentatogli che con aveva neanche la carriola dove poter poggiare quelle cose, si sentì rispondere “con molta arroganza” che poteva “semplicemente mettersela addosso”; ciò gli fu detto alla presenza anche di altre persone, e lo mortificò molto (l’episodio si collega con quello raccontato da R. Filomena e da S. Vincenzo). Quanto all’episodio della dissenteria, la teste ha premesso che “questa cosa mi ha lasciato esterrefatta”: una mattina, ricercato dal Comandante dei Vigili Urbani, fu accompagnato dinanzi al Sindaco e qui, giustificata la sua assenza, gli si impose di sedersi perché se fosse stato vero quanto asserito di lì a poco avrebbe avuto di nuovo bisogno del bagno, e gli fu anche detto di non scaricare perché c’era qualcuno che doveva andare a controllare se era vero o meno. Nella sala c’era il Sindaco, gli assessori T., C., D'A. ed il Segretario comunale, poi il Tenente N. se ne uscì perché non sopportava più il tono di quel discorso; e quel fatto divenne in breve di dominio pubblico, ed era quello il modo con il quale il sindaco rimproverava il fratello in pubblico, davanti a tutti, senza nessun problema.

Riferiva che il fratello non beveva, salvo che assaggiava qualche bicchiere di vino nelle feste o con degli amici, né aveva problemi con la moglie cui aveva donato un collier d’oro per il suo ultimo compleanno del 4 febbraio 2002, riconosceva la grafia del fratello sulle lettere manoscritte (che furono ritrovate, aggiungeva in controesame, dal maresciallo L.), negava che avesse qualche patologia particolare, ed il suo dimagrimento fisico era in collegamento, come capì in seguito, con il cambiamento di umore e con quei problemi di cui le faceva confidenza (“quando poi sono venuta a conoscenza di tutti gli episodi di cui ho parlato, bè allora mi è stata chiara la cosa”); veniva “sobbissato” di richieste, di telefonate, e coloro che venivano segnalati per l’indebito uso dell’acqua pubblica “lo beffeggiavano nel senso che dicevano di avere le spalle coperte”, ossia che erano “amici del sindaco”; e ricordava pure che al nipote Vincenzo venne negata la richiesta di assunzione come dipendente comunale dopo la morte del padre e che la cognata non presenziò alla cerimonia religiosa del matrimonio del figlio Vincenzo ma partecipò al ricevimento.

In definitiva, la S. Pia ha precisato che tutte le notizie riferite sugli episodi del fratello erano state apprese da lei o su confidenze del fratello D. o del marito C. Giovanni o della cognata P. Angela, ma non da voci di strada; e va osservato che la considerazione circa l’esclusivo circuito familiare delle informazioni raccolte non dimostrerebbe una mera circolarità di notizie, ma il comune humus familiare entro il quale sono state attinte quelle informazioni e nel quale comunque sono confluite le confidenze più intime, immediate e dirette degli stretti congiunti del deceduto. La presenza personale della teste a molti degli episodi dianzi narrati e le spiegazioni fornitele a caldo dal fratello appena dopo aver vissuto quelle esperienze, consentono di assegnare un elevato grado di credibilità alla sua deposizione, fors’anche per la mancanza di interessi processuali diretti (non è costituita parte civile) e per l’inesistenza di collegamenti politici o lavorativi con l’amministrazione comunale precedente o attuale (di cui invece deve darsi atto per gran parte dei testi escussi).

Quanto ai problemi di divisione patrimoniale, è stato escusso, alla fine dell’istruzione dibattimentale, il terzo fratello, S. Pasquale, il quale, premesso che sotto quel profilo i rapporti in famiglia erano normalissimi, anzi era felicissimo che il fratello occupasse quella casa, negava che avesse rinunciato ai propri diritti e che si fosse mai parlato di spartizioni sì da poter recriminare una quota anche su quella casa. Ricordava poi di aver incontrato un giorno suo fratello che era tutto gonfio in faccia perchè era stato punto da un insetto, e di avergli consigliato di denunciare ai Carabinieri il fatto di essere dovuto andare al Comune in quelle condizioni per farle constatare al sindaco che non voleva credergli.

 

 

c) I testimoni della difesa degli imputati, ed altri.

 

Ancora molti altri testimoni di difesa sono stati escussi.

Il primo, C. Pasquale, ha ricordato di avere assistito, una decina-quindicina di giorni prima del suicidio, ad un incontro tra il Sindaco e lo S. cui erano presenti anche T. e D'A., sul marciapiede del palazzo del Municipio, e qui il P. chiedeva allo S. se andava a fargli un servizio urgente; il tono della conversazione era “normale” non ricordava voci alterate o richieste perentorie né, per contro, l’uso di espressioni di cortesia; lo S. era appoggiato ad un attrezzo, una pala o una scopa, e probabilmente (“mi sembra”) c’era una carriola ferma al lato. La deposizione è del tutto neutrale ed indifferente sia per la tesi dell’accusa che della difesa: sebbene non sia stato esplicitato, si potrebbe trattare dello stesso episodio raccontato dai testi S. Pia e S. Vincenzo circa la richiesta di trasportare dei sacchi di cemento, ma l’esposizione del teste è stata generica sul punto dell’oggetto della richiesta rivolta dal sindaco, ed anche le modalità della richiesta non sono descritte in modo contrastante con quanto emerso altrove; di fondo resta, poi, la imprecisione della riferibilità dell’episodio proprio a quello da ultimo citato dai testi della controparte.

Il secondo, T. Pietro, già assessore ai Lavori Pubblici e consigliere di maggioranza nell’amministrazione P., ha riferito quanto accaduto il giorno 17 agosto 1999 (trattasi dell’episodio della festa di Zuppino) sul quale aveva relazionato al Sindaco con nota scritta (acquisita agli atti durante l’esame di C. Luigi); nella mattinata aveva presenziato ai lavori sulla rete idrica in Contrada Tempe eseguiti da C. Albino, all’epoca L.S.U., ma in serata (erano le 20.00-20:30), giunto in piazza a Zuppino dove c’era una festa popolare, fu avvicinato da un ragazzo che gli comunicò che nella contrada era scoppiato un tubo di 90 mm., di portata consistente, al chè, avvicinatosi l’altro assessore C. ed incontrato lo S., chiese a quest’ultimo di indicargli quanto meno il pozzetto dove chiudere l’acqua e di accompagnarlo sul posto; lo S. era in “evidente stato di ebbrezza” e si lamentava d’esser chiamato e disturbato ad ogni festa, ricordando che la stessa cosa era accaduta anche la Domenica delle Palme, rifiutando con insistenza la disponibilità nonostante l’urgenza rappresentatagli, ed allora il T. chiamò l’altro collaboratore, C. Albino, che gli riferì le indicazioni giuste; poi, al fine, andò proprio lui munito di torcia a chiudere la condotta dell’acqua, ed al suo ritorno il C. gli raccontò che lo avevano aggredito sia S. che la moglie, i quali, nel contempo, gli si riavvicinarono profferendo al loro indirizzo parole minacciose (“a voi amministratori vi dobbiamo fare un sedere così”).

Quando ne riferì al Sindaco, che pure arrivò alla festa in piazza, questi era disposto a perdonare la cosa e non prese provvedimenti contro lo S., d’altronde non avevano una commissione disciplinare, e di tanto egli rimase male anche perché il C. presentava dei graffi al braccio e bisognava dare un segnale. In effetti lo S. non era tenuto ad andarci, non aveva la reperibilità “però quando emerge un’emergenza, diciamo, reperibilità o meno, uno comunque deve adoperarsi, … addetto alla rete idrica, in quel frangente, era S.”.

Inoltre, ha ricordato che lo S. beveva liquori, e non gli risultava che avesse patìto pretese ingiuste, mortificazioni ed umiliazioni da parte del sindaco o degli assessori. Si viveva però “un’aria poco tranquilla”, il 99% dei dipendenti era contrario alla loro amministrazione perché si dolevano che P. richiamava all’ordine laddove in precedenza vivevano diversamente; e S. “era un lavoratore del Comune, quindi lascio immaginare i dipendenti del Comune come lavorano, senza offendere nessuno … se la prendeva con comodo, ma ripeto questo lo faceva lui e lo facevano pure gli altri, non è che lui era diverso dagli altri” (va subito osservato che il T. era stato assessore fino al 2001, quindi non aveva vissuto, da intraneus dell’amministrazione, il periodo focale dell’indagine, quello durante il quale lo S. avrebbe maggiormente avvertito il peso delle mortificazioni ed umiliazioni, sicchè potrebbe non essere a conoscenza diretta di quanto accaduto in seno all’amministrazione e nei rapporti con i dipendenti nell’ultimo anno di vita dello S.; va poi osservato anche che la scelta del Sindaco di non adottare provvedimenti disciplinari non necessariamente si abbinava ad opzioni clemenziali, quanto almeno perchè non era istituito il nucleo di valutazione e la commissione disciplinare, circostanza quest’ultima emersa proprio dall’esame del T. (la mancata attivazione di un nucleo di valutazione si legge esplicitamente nella contrattazione decentrata anno 2000, ove era anche precisato che nelle more della sua attivazione, si affidava ai responsabili di servizio l’elaborazione di metodologie di valutazione sufficientemente attendibili ed omogenee per i diversi settori); la rilevanza, poi, di quanto narrato è ad ogni modo ridotta, perché sull’accaduto vale già il dettagliato contenuto della relazione scritta destinata al Sindaco datata 25/8/99 -illustrata al termine dell’analisi della deposizione testimoniale del C.-, e sullo scontro fisico con o del C. nulla il T. poteva riferire in quanto assente (di talché restano antitetiche la posizione di P. con quella di C.).

 

Altro assessore all’urbanistica-acquedotti-agricoltura, della prima e seconda amministrazione P., M. Giovanni, ha ricordato quanto egli ha visto ed assistito nella sala della Giunta comunale durante il richiamo di S., T. e N. in occasione della vicenda della timbratura del cartellino marcatempo.

Era un martedì pomeriggio dei primi di dicembre del 2001 quando arrivò un telefonata nella stanza del sindaco con la quale ci si lamentava che la piazza del mercato era ancora sporca; per verificarne la veridicità l’assessore T. ed il vicesindaco C. andarono a vedere personalmente ed al loro ritorno riferirono che effettivamente la strada era ancora ingombra di cartoni, che nel momento in cui scesero dal Comune il cartellino marcatempo dell’addetto alla pulizia S. non era ancora timbrato in uscita, che avevano incontrato lo S. nel bar, che lungo la strada avevano incrociato il Comandante N. ed il vigile T., e che al loro rientro al Comune notarono che il cartellino era stato timbrato con l’orario di uscita.

Nel frattempo arrivò N. ed il sindaco chiese spiegazioni, ed allora il N. rispose che non doveva prendersela soltanto contro lo S. “qui sono tutti una banda di scalmanati, sono tutti sfaticati, anzi, voi siete pure troppo permissivo, se io fossi al posto vostro avrei già preso provvedimenti”.

Ed allora il sindaco mandò l’assessore O. a chiamare lo S. il quale al cospetto del sindaco disse di aver smontato il lavoro alle tre e mezza, e che aveva chiesto il piacere al comandante ed al vigile T. di timbrare il cartellino circa due ore dopo perché se ne era dimenticato. Fu così che nacque una violenta discussone tra il comandante e lo S., durante la quale il primo diceva “sindaco ma che lo ascoltate a fare, non lo vedete che questo è ubriaco, questo non capisce niente, non gli dare ascolto!” mentre l’altro replicava: “e va bene sindaco, oramai l’ho fatto, è successo, toglietemi le due ore e non succede niente più!” ma il Sindaco cercava di fargli capire che non era il problema delle due ore, la truffa, bensì che si era assentato dal lavoro, e rivoltosi poi al N. gli rimproverava che avrebbe dovuto verificare che quelle cose non succedessero, ed aggiungeva “se ti comporti in questo modo, sei l’irresponsabile del servizio”.

Il tutto si era svolto dinanzi agli assessori di giunta ed al segretario comunale L., e si era pure discusso se fosse stato preferibile infliggere una sanzione del tipo sospensione dal servizio piuttosto che denunciare un fatto di rilievo penale; però poi prevalse la denuncia che fu presentata dopo circa 20 giorni, ma non ne conosceva i motivi, né seguì più l’argomento. (in sede di controesame non è mancato di rimarcare come l’episodio così narrato nella sua seconda parte ha avuto una evoluzione diversa da quanto riferito dai testi N. e T., i quali invece non hanno riferito della risposta che avrebbe reso il N. per voler prendere le distanze da quanto dichiarato dallo S.; ma, ove pure questo epilogo di battibecco fosse avvenuto, ciò che rileva è la modalità di convocazione e cognizione sommaria del fatto, svoltasi innanzi alla Giunta, e la conseguenza che essa ha portato a fronte di un dichiarato -come noto- lassismo dei dipendenti comunali e di una callida giustificazione del dipendente che non soltanto aveva ammesso di non completato la pulizia del mercato ma aveva anche accettato di vedersi decurtate le due ore di lavoro nelle quali effettivamente non aveva svolto servizio).

E più avanti nella sua deposizione aggiungeva che bisognava premere per far fare un servizio ai dipendenti, “insomma dopo ripetuti tentativi li facevano pure i servizi”, e comunque i primi a disattendere ed a non far funzionare la macchina amministrativa erano proprio i responsabili dei servizi.

Riferiva il M., poi, di un altro episodio: un giorno di fine maggio o dei primi di giugno del 2001, poco dopo le elezioni, di ritorno da un intervento di manutenzione, S. notò una rosa fiorita nel giardino di casa del consigliere comunale Antico Valentino e gli chiese se poteva dargliela motivando con la necessità di farsi perdonare, ma l’Antico glielo negò in quanto era l’unica rosa del suo giardino, e se ne voleva, consigliò M. toccandolo sulla schiena poteva rivolgersi ad un vicino vivaio, ma in quel momento lo S. si ritrasse per il dolore “ah, non mi toccare”, si alzò la maglia e gli fece vedere la schiena con dei lividi e aggiunse che la sera precedente tornando a casa lo avevano “linciato” aveva preso le botte dalla moglie e dal figlio perché aveva bevuto qualche bicchiere di troppo, e per quel motivo voleva farsi perdonare.

Già prima di narrare questo episodio il teste aveva dichiarato che lo S. era abituato a prendere il bicchierino di liquore al bar, del tipo sambuca, o cognac.

In sede di controesame, emergeva, tuttavia, che fra lui e lo S. non c’era un rapporto di amicizia nel senso di uscire per “mangiare la pizza insieme”, e che “ci dicevamo buongiorno e buonasera”, si salutavano se si incontravano alle feste, ma non v’era un rapporto confidenziale o di frequentazione, eppure in quella occasione del tocco sulla schiena lo S. gli fece quella confidenza (del tipo intimo e familiare, sulla cui verosimiglianza la difesa di parte civile ha espresso comprensibili perplessità) dopo aver fatto una richiesta nella quale dimostrava di versare in uno stato “quasi pietoso”, tant’è che egli stesso si sbalordì e gli disse “scusa tu hai questo poco e ti vuoi far perdonare” (ciò accresce la inverosimiglianza di una richiesta di una rosa per farsi perdonare).

Non sapeva perchè lo S. aveva cambiato lavoro, non aveva mai ascoltato una conversazione privata tra il Sindaco ed una signora, non sapeva se vi fu un “interrogatorio” di T. innanzi al Sindaco intervento che probabilmente avvenne in un momento successivo quando forse egli si era allontanato, ed affermava che se c’è un camion che non ha raccolto la bancarella “è chiaro che non si può pulire prima”. Ha infine asserito d’essere rappresentante del Consorzio di irrigazione (insieme con L., Antico e V.).

Il teste L. Francesco, poi, già assessore durante la seconda amministrazione P., ha rivelato circostanze del tutto nuove e singolari, e comunque non direttamente pertinenti con i fatti di causa, manifestando anche una certa acredine nei rapporti con altre parti processuali: innanzitutto ha esordito, a titolo esemplificativo dei suoi rapporti con lo S. D., rammentando un episodio del 1994-1995 quando egli, quattordicenne, impegnato in una partita di pallone con amici, si vide imporre lo S., di 21 anni di età più grande di lui, a dover fare da arbitro “a tutti i costi e non era lucido”; quindi ha ricordato che diverse volte lo incontrava nel bar anche di mattina e durante il suo orario di lavoro -“non era un ottimo lavoratore, quando stavo in giro lo vedevo sempre che non faceva niente”-, mentre assumeva una consumazione di tipo alcolica, un amaro o un Nano, sebbene non avesse riferito se fra di loro vi fossero rapporti di amicizia e soprattutto sulla base di quali legami essi si sarebbero fondati (vista la consistente differenza di età e l’assenza di riferimenti, da altri fonti cognitive assunte in dibattimento, circa la sussistenza di quei rapporti al di là dell’ambito familiare e lavorativo). In secondo luogo ha ricordato di aver udito il figlio Vincenzo apostrofare la madre in modo volgare per averla vista all’interno del bar di famiglia con il suo attuale compagno M. Lucio appena un mese dopo la morte di S. D., e di essere dovuto intervenire, lui il L., per interrompere quella lite; ed infine, ricollegandosi a questo episodio, ha accusato il difensore della parte civile, già suo patrocinatore in vertenze pendenti in altra sede, di avergli rappresentato di fargli “perdere filippo e il panaro” se avesse riferito a questa Corte dell’episodio dell’incontro al bar della signora P. e di M. (il che segnala, se vero, l’esistenza di un forte interesse confliggente con la posizione processuale di S. Vincenzo, il quale, come a suo tempo visto durante il suo esame dibattimentale, aveva invece decisamente negato quella circostanza, per poi ribadire il tutto nel suo rinnovato esame ex art. 507 cpp “lui non è mai entrato nel mio bar ed io non ho mai detto quelle parole”). Su domande in controesame negava, poi, di sapere nulla della vicenda del cartellino marcatempo, dell’appostamento notturno, della festa di Zuppino, e del controllo in bagno, ma ricordava di averlo visto, negli ultimi tempi, molto dimagrito, di colore giallo-marrone, e di non avergliene mai chiesto il motivo quando si incontravano al bar, presenti anche gli amici Antico Valentino e Pasquale Di Leo.

M. Elena, gestrice di un circolo culturale sportivo sito al centro di Sicignano, frequentato dai dipendenti comunali, ha riferito che anche lo S. D. si portava spesso nel circolo di buon mattino, intorno alle 8, anche in compagnia di qualche altro suo collega, per prendere una consumazione, e si trattava di liquori od aperitivi, alcolici; per quelle consumazioni doveva risultare iscritto in un apposito registro ma non è che ogni volta che vi si recava doveva essere annotata la sua presenza; ricordava comunque che all’incirca tre anni prima del suicidio era cominciata la frequentazione, per due o tre volte la settimana, e poi un po’ di meno, ed addirittura si incontrava anche il Sindaco -che pure era iscritto-, ma in sua presenza non v’erano mai stati episodi di rimprovero per il fatto che qualche dipendente fosse lì presente di mattino. Su richiesta della parte civile veniva poi acquisita la licenza per la gestione del circolo datata 8/4/1999 recante la autorizzazione allo spaccio di bevande alcoliche inferiori al 21% del volume ai soli soci come risulta dalla produzione documentale dell’11/4/2008, con annotazione che di validità della licenza fino al 31/12/1999. La teste ha poi rammentato un altro episodio verificatosi il 19/3/2002 allorquando, recatasi in compagnia della nipote L. Annamaria alla festa popolare di San Giuseppe a Zuppino vide la signora P. che, attendendo il marito in uscita da un bar (“bar di P.”), urlava ad alta voce al suo indirizzo la frase “tu stavi nel bar, stavi bevendo” apostrofandolo con “ubriacone”, ed il marito la invitava a non gridare.

Le circostanze riferite dalla teste non appaiono credibili e convincenti: innanzitutto stupisce come alla presenza del Sindaco, che aveva sempre richiesto maggiore disciplina nell’adempimento delle prestazioni lavorative, sia stata tollerata la presenza di quei dipendenti comunali che pure frequentavano il circolo negli orari mattutini, inoltre, ovemai pure fossero state servite delle consumazioni allo S., non si desume né che queste fossero di tipo alcolico né che fossero abituali e continuative, e comunque non tali da far apparire lo S. “ubriaco”; e ad ogni modo, quelle frequentazioni non sono collocabili nel suo ultimo anno di vita, quando le nuove mansioni dello S. non lo portavano lontano dal circuito che ordinariamente poteva effettuare per le pulizie delle strade del centro, e quando negli ultimi tempi aveva acquistato la gestione di un bar in territoriale concorrenza con quel circolo. Il rimprovero mosso dalla moglie, poi, non costituisce la prova che lo S. fosse obiettivamente ubriaco, e ad ogni modo l’epsiodio si inserisce nell’ambito spaziale e temporale di una festa popolare. Non mancano, come per molti altri testi escussi, cointeressenze politiche della M. con il P., nella cui lista erano stati candidati il nipote O. Giuseppe (assessore fino al 2001) ed il figlio Scala Nunzio (nelle elezioni del 2006).

E del pari, escussa la L. Annamaria, che ha confermato l’episodio del richiamo della P. al marito, è emerso che la donna, che non aveva rapporti e conosceva solo di vista lo S. nonostante lavorasse al Comune, è coniugata con un altro candidato della lista P. del 2006, e che altri suoi parenti avevano fatto la stessa scelta, Scala Nunzio e O. Giuseppe. 

Esaminato il teste O. Giuseppe, già assessore nel secondo mandato elettorale di P., riportava quanto a sua memoria circa l’episodio del cartellino marcatempo; egli era in Giunta e dopo la telefonata ricevuta dal T., fu accertato che il mercato non era completamente sgombero e che, di ritorno, il cartellino era stato timbrato dopo che ne era stata constatata la mancata timbratura; ricordava che egli fu incaricato dal Sindaco di andare a ricercare lo S. e che il tenente N. disse “ma questi sono tutti sfaticati”, poi, chiese giustificazioni allo S. e sentito che ammetteva di aver dimenticato di timbrare alla chiusura dell’orario e di aver chiesto il piacere al tenente di timbrargli il cartellino, il N. sbottò dicendo “ma questo è ubriaco!” scaraventandosi contro il dipendente; in seguito il T. ammise che era stato invece proprio lui a timbrare il cartellino. E poi ci fu una discussione accesa tra sindaco e tenente nella quale questi rimproverava al primo di essere troppo morbido con i dipendenti e che bisognava adottare una linea dura. L’atteggiamento dei dipendenti verso l’amministrazione P. non era proprio idilliaco, erano un po’ tutti contro, perché gli amministratori si lamentavano che non erano assidui e volenterosi nell’adempimento dei loro doveri.

Su circostanze del tutto nuove nel panorama delle informazioni raccolte in dibattimento si è svolta, poi, la deposizione testimoniale di S. Natalia, vedova di Michele P. già candidato insieme con il P. nelle precedenti elezioni amministrative; la donna ha ricordato alcuni particolari di vita comune e di amicizia con i coniugi S., con i quali condividevano l’interesse per il ballo e non mancavano occasioni conviviali, e ciò accadeva verso la fine degli anni ‘90, quando poi i rapporti fra di loro si allentarono a causa di alcuni screzi.

Ed infatti, approfondiva la teste, nell’ambito di quel rapporto di amicizia, sapeva che vi erano problemi in famiglia fra lo S. ed i suoi fratelli circa la quota patrimoniale da dividere tra i fratelli (avendo ristrutturato la casa di famiglia in cui abitava il suo valore era accresciuto e nel caso di liquidazione della quota al fratello che viveva fuori sede avrebbe dovuto sostenere un impegno economico superiore per la parte spettantegli), ed in questa vertenza anche il compianto marito voleva fare da paciere ma il cognato dello S. gli disse di lasciarlo stare “quell’ubriacone”; quanto al bere, ricordava che nelle frequenti occasioni di uscita, ogni sabato sera per circa un anno e mezzo, aveva constatato che D. beveva a cena e poi, all’uscita, continuava con qualche birra anche nel bar adiacente, ed “ogni volta che beveva un po’ di più venivano fuori le storie”, per delle banalità era litigioso, irascibile, beveva ma non è che si ubriacava; così capitò pure che un giorno, reputando che il figlio minore fosse stato raggirato nell’acquisto di una ricarica telefonica da 5mila lire non funzionante ma che in realtà era stata già consumata dal bambino, entrò nel bar ed andò in escandescenza al punto che il gestore si recò da loro per chiedere di andarsi a riprendere D. altrimenti gli avrebbe messo le mani addosso; in un’altra occasione, in un incontro fra amici a Pasquetta, D. e la moglie arrivarono in ritardo perché avevano litigato e continuarono ad essere alterati e nervosi pur dopo essere giunti. Insomma, “quando beveva diventava un’altra persona”.

Ancora, in una festa di piazza lo S. giunse alle mani con il loro maestro di ballo perché volutamente ad ogni giro gli andava a finire addosso, e le poi se ne andò via, ma non sapeva se versava in stato di ebbrezza; ed infine, pochi giorni, qualche settimana prima del suicidio, incontrarono lo S. e gli chiesero come andava il lavoro, e S., allegro, rispose “si fa che mi sto divertendo a prendere in giro il tuo sindaco – al che mio marito gli ha detto: come il mio sindaco – Si dice, siccome mi sono dovuto assentare per un periodo un po’ lungo, non potendo o non volendo giustificare la mia assenza, mi sono inventato una storia di dissenteria”, poi però non indagarono sul fatto, anche perché era un po’ spiacevole, “però era molto divertito”, ed era pure in servizio quel giorno.

Non le aveva mai parlato male dell’amministrazione ed aveva stima per il Sindaco.

Poi i rapporti si allentarono: già non gradiva le questioni che succedevano a causa del bere, poi l’amicizia e la sincerità fu messa in discussione in occasione di due episodi di vita familiare, uno relativo a dei polli allevati per la S. e non resi dopo che furono macellati e congelati, uno relativo ad una damigiana di vino andato a male “rifilata” quale compenso a gratitudine di una erogazione gratuita di libri di scuola per i figli dello S.. (ovviamente l’unico episodio rilevante fra quanti narrati dalla teste è quello del modo in cui lo S., pochi giorni prima del suicidio, avesse raccontato in tono scherzoso della vicenda della dissenteria, il che da un lato non esclude la oggettività del fatto come vissuto innanzi al Sindaco ed agli assessori, dall’altro non esclude la possibilità -non remota- che lo S. avesse voluto minimizzare l’accaduto simulando di aver preso in giro l’amministrazione P. e non dimostrando, così, d’essere stato un vinto in quella umiliante vicenda. Quanto poi agli episodi della abitudine a bere, non v’è dimostrazione in essi di alcun collegamento con dati oggettivi influenti sulla ricostruzione delle vicende oggetto di contestazione; sull’aspetto comportamentale ci si soffermerà, poi, in seguito).

 

Sulla personalità degli imputati T. e C. sono stati escussi i testi R. Nobile, M. Maria Gabriella e L. Giacomo. Il primo, Comandante della Compagnia Carabinieri di Eboli, ha riferito che T. Felice, brigadiere della Stazione CC di Postiglione, ha riportato un giudizio di valutazione “eccellente” nelle note caratteristiche del personale e che non ha mai fruito di permessi lavorativi in relazione al suo ruolo di consigliere di minoranza del Comune di Sicignano, circostanza nota anche al Brig. L. con il quale il T. faceva “coppia fissa” in pattuglia a Sala Consilina. La seconda, vice questore aggiunto forestale del Comando Provinciale di S., ha espresso pari giudizio valutativo sul Commissario C., la cui guida della stazione di Campagna non ha destato problemi di sorta nei rapporti con i sottoposti, i quali mai hanno avanzato rimostranze in ordine al so comportamento professionale; ha ricordato poi, riconoscendo le firme di presenza del 7/1/2002 (secondo una ricostruzione dei fatti espressa dalla sig.a P., sarebbe questa la data del controllo in bagno, in quanto trattasi del primo giorno feriale dopo l’Epifania -il teste Di I. ha detto che l’episodio si collocherebbe dopo l’Epifania- e giorno cui si riferisce il certificato medico del dott. P. su prescrizione di Enterogermina, mentre per T. Gerardo Vincenzo sarebbe stato invece un sabato -5 o 12 gennaio-), che per il suo impegno politico-amministrativo, il C. fruiva come per legge di un giorno di permesso alla settimana ma ciò non aveva assolutamente influito in senso negativo sul rendimento e sul puntuale espletamento degli incarichi affidatigli.

 

Tortoriello Armando, F. Nicola ed O. Donato hanno deposto sull’episodio della cagna, quando nel 2001 (epoca in cui avevano 14-15 anni circa) il Comandante N. disse loro cosa fare della cagnetta in calore trovata per strada, ossia di portarla a casa del Sindaco, cosa che ingenuamente essi fecero, presentandola così alla moglie che ne rimase perplessa ma non la accolse, e poi alla fine tennero con sé l’animale.

Dalla deposizione dei testi non risulta che però il N. abbia detto loro di consegnare l’animale alla moglie del sindaco, bensì di portarla da Sindaco, il che si concilia con la versione fornita dal N. Alfonso il quale ricordava di aver dato loro l’incarico di portarla dal Sindaco per vedere cosa farne; e della narrazione dell’episodio resta davvero equivoco l’interesse destato da quei ragazzi per l’animale abbandonato, del quale avrebbero inizialmente avuto cura interessandosi delle sue sorti, e poi, inspiegabilmente, dopo l’incontro con la moglie del Sindaco, si sarebbero disinteressati abbandonandola per strada. L’episodio è comunque lontano dai temi di prova dei fatti per cui si procede, se non nei limiti in cui esso voglia lumeggiare i rapporti tra il sindaco ed il comandante dei vigili urbani, ovemai da questo episodio stesso potesse trarsi un significato manifestativo di intenti vendicativi o calunniatori.

 

D'A. Tullio, consigliere comunale dal 1997 ed assessore dal 2001 nella lista del Sindaco, ha riferito che in virtù del rapporto di amicizia con lo S., ne conosceva alcune abitudini di vita. Ha ricordato della telefonata che giunse nella stanza del sindaco circa la omessa pulizia dell’area di mercato, cui fece seguito l’incarico volto a T. e C. di andare a verificare, i quali videro N. e T. dinanzi al bar di S., per poi far ritorno e constatarono la timbratura del cartellino; quindi, alla sua presenza, il N. disse al sindaco di non sapere niente, che i dipendenti sono “una maniata di sfaticati”, e recuperato lo S. tramite l’intervento dell’assessore O., ascoltarono le giustificazioni di D. sul fatto di aver smontato alle tre e mezza e di essersi dimenticato di timbrare dando poi l’incarico ai vigili, e l’acceso battibecco che ne scaturì, con la frase del N. “ma non vedete che questo è ubriaco e non si mantiene manco all’erta” e l’allontanamento dello S., cui fece seguito l’ingresso del T. che ammise il tutto e chiese scusa; di seguito, lo S. era dispiaciuto di quanto potesse capitare al T. per colpa sua e preoccupato d’esser denunziato. Ha ricordato pure che dopo questo episodio non era più sereno, ed un giorno lo trovò in lacrime che piangeva sulle scale del Comune e pronunciò pure una parolaccia perché lo avevano stufato ed esasperato, mentre il responsabile di servizio, D’A., si lamentava del comportamento dello S. che non riusciva mai a rintracciare.

Ha raccontato, poi, di altri episodi di vita privata dello S. ai quali aveva assistito, come la lite con la moglie il giorno di Pasqua del 1997, la lite con il maestro di ballo durante la festa di San Rocco a Galdo, le consumazioni di liquore o birra dopo aver cenato insieme al ristorante; e le informazioni che il fratello, Pasquale S., volle prendere da lui, nonché delle chiacchiere apprese al bar sul conto della P. Angela sui suoi rapporti con M. C. e con R. Gaetano (né lo S. sapeva che la moglie avesse più amanti), e la lite che ebbe con lui, R. alla festa della vigilia di San Rocco nel 1997 o ’98, dopo di chè si chiusero i rapporti fra le due famiglie, e di nuovo la lite tra la M. Luisa e la nuora Angela, ed i segni di graffi alle spalle esibiti dallo S. al D'A..

Quanto all’episodio della diarrea, egli arrivò qualche minuto dopo che la discussione del Sindaco fosse già iniziata, e la porta era aperta sicché potè sentire la discussione nella quale il Sindaco disse: “non tirare l’acqua” ed invitò il Vicesindaco C. di andare poi a fare una verifica, cosa che questi, però, rifiutò di fare, ed in quel contesto di racconto “fu pigliata quasi come una barzelletta”; e comunque, poiché si era allontanato dal luogo di lavoro,  disse agli amici che non era vero e che inventò quella scusa per giustificarsi.

Quanto ai suoi rapporti con l’Amministrazione, lo S. diceva che per lui P. era un signore, e ne parlava bene; né sapeva che vi fosse una prassi fra dipendenti per far timbrare l’uno all’altro.

V. Elia, già assessore all’artigianato ed al commercio  dal 2001 al 2006, in buoni rapporti con S. D., di semplice conoscenza, non di frequentazione, ha rammentato in primo luogo quanto accadde nel pomeriggio in cui fu scoperta la omessa timbratura del cartellino marcatempo, precisando che il sindaco dapprima voleva dare incarico ai Vigili Urbani di verificare se il mercato fosse stato pulito, ma poiché non rispondevano, dette incarico a T. e C. i quali, andando verso il mercato, videro N. e T. dinanzi al bar di S.; di poi, al ritorno, i vigili non c’erano più, ed il tesserino era stato timbrato alle ore 17:30; detto ciò al Sindaco, tramite l’assessore O. fu convocato lo S. il quale ammetteva di aver cessato il servizio alle 15:30 e di aver chiesto ai vigili se gli “facevano il piacere” di timbrarlo, ma tanto il comandante esclamò “ma non vedete, questo non sa nemmeno cosa dice, è mezzo ubriaco!”, dopo di chè lo S. andò via e fu mandato a chiamare l’altro vigile T. che ammise di aver timbrato lui il tesserino.

In quella circostanza lo S. sembrava che effettivamente avesse bevuto, lo si vedeva proprio, il V. se ne accorse dal modo di ragionare; aggiungeva poi che per quanto ne sapesse non era in uso presso i dipendenti lo scambio dei cartellini, che lo S. era molto arrabbiato con il N. perché negava la circostanza, e che la questione non era incentrata tanto sull’appropriazione delle ore di lavoro, quanto sul fatto che qualcuno avesse timbrato al posto del dipendente, perché d’altronde non c’era lo straordinario. Ricordava poi di avere assistito ad alcune liti dello S. in occasione di feste patronali ed una, circa un anno prima del suicidio, con la moglie ed una terza persona con cui ci fu una “lite un pochettino pesante”.

Quanto all’episodio dell’appostamento dinanzi alla scuola, il V. escludeva recisamente che si trattasse di un controllo; in realtà lui ed il T. si erano dati appuntamento per andare a cercare funghi e lasciarono soltanto la macchina lì alle 5 del mattino -il cancello era aperto- per poi farvi rientro alle 8. Nulla sapeva, poi, di una telefonata fatta la sera del festeggiamento del 18° compleanno del figlio di S., mentre ricordava che la signora M. Luisa gli raccontò che un giorno nell’anno 2000 cercavano D. dal Comune e lui stava a coltivare le fragole mentre era in servizio.

L’episodio del cartellino, alla luce delle ultime dichiarazioni testimoniali, ha avuto allora un definitivo chiarimento: T. non aveva sentito la frase pronunciata dal N., di non dar credito alle parole di S. in quanto ubriaco, poiché era arrivato in un momento successivo, dopo addirittura che S. si era allontanato; e l’ammissione di quest’ultimo di essere stato il materiale esecutore della timbratura e l’esigenza richiesta dal Sindaco di ammorbidire la rappresentazione dei fatti nella relazione che il N. gli avrebbe dovuto rendere sembra essere soddisfatta proprio attraverso l’omissione di quel passaggio che, altrimenti, avrebbe acuito ulteriormente i rapporti fiduciari con il Sindaco ed avrebbe esposto il N. a censure analoghe a quelle patite dal T., non tanto per il fatto di non essersi opposto all’incarico ricevuto dallo S. di timbrare il cartellino al posto suo, quanto per il fatto di aver mentito al sindaco ed agli assessori presenti su quanto invece, callidamente, avevano ammesso lo S. prima ed il T. poi.

 

Nuovi episodi relativi alla vita di S. D. sono stati narrati da altri testi di lista difensiva: R. Giacomo, amico d’infanzia del predetto, ha ricordato che D., considerata un po’ “la pecora nera della famiglia”, non voleva liquidare la quota del suo appartamento ai fratelli per il valore reputato eccessivo stimato da un tecnico incaricato dal padre; inoltre, incontratolo dieci-quindici giorni prima della disgrazia, mentre stava pulendo la piazza del paese, notò che lo S. aveva perso parecchi chili di peso e ne era preoccupato al punto di temere di avere un tumore al fegato, patologia che tuttavia nessun medico gli aveva diagnosticato, anzi era stato lui stesso a consigliargli di farsi visitare da un medico, e di quella paura aveva parlato anche la moglie quando poi egli andò a trovarla dopo il suicidio; di certo abusava un po’ nel bere ma non l’aveva mai visto ubriaco, e quando beveva andava un po’ in escandescenza.

Sapeva che aveva un pessimo rapporto con la famiglia del padre e della moglie; e sapeva pure che circolavano delle “chiacchiere” in paese circa le frequentazioni sentimentali del padre Cesare R. con la P. Angela e del pari circa le frequentazioni assidue con M. Carlo detto C..

Ammetteva di aver messo a disposizione una propria autovettura per la propaganda elettorale del P. alle elezioni del 2001, e ricordava pure che cinque o sei mesi prima del suicidio lo S. gli aveva chiesto di insegnargli a fare il nodo scorsoio.

Inoltre, lo S. non gli aveva mai detto che c’erano stati dei rimproveri sul lavoro, e, riguardo all’episodio della dissenteria, sapeva che lo S. fu trattenuto nello studio del sindaco per vedere se avesse lo stimolo di andare al bagno, ma era un fatto che lo stesso S. raccontava al bar come una barzelletta, “ci rideva sopra”, nel senso che, come ha poi affermato in sede di controesame, che lo raccontava al bar “per far ridere gli amici che c’erano attorno là” e tra gli amici cui raccontava ciò v’erano Alessandro B. e Gianfranco C..

Entrambi poi escussi ex art. 507 cpp, negavano, il secondo, di ricordare l’accaduto o una conversazione con R. e B. nel bar dello S., il primo la presenza del R. mentre S. gli raccontava d’esser dovuto rimanere ad aspettare che gli venisse lo stimolo non potendo tirare lo scarico “perché dovevano vedere la diarrea che avevo fatto” come da incarico che il Sindaco aveva dato ad un’altra persona, fatto narrato non in tono scherzoso ma con umiliazione giacché lo S. diceva “pensa un poco, io sono un padre di famiglia, insomma ho tre figli e sono stato costretto a fare questa cosa , che io quando magari torna mio figlio a casa non riesco neanche a strillarlo”.

(Insomma, la circostanza riferita dal R. ha trovato una forte smentita dai testi indicati come presenti e le critiche di inattendibilità mosse sul teste B. si sono mostrate poi non fondate, stante la precisazione fornita dal teste di non essere un pregiudicato e la non attinenza ai fatti di causa dei rapporti con altre persone che -neppure questo è accertato- abbiano avuto dei pregiudizi penali, cosa di cui si sarebbe lamentato con il Sindaco in occasione di una pratica edilizia che lo riguarda in Sicignano.)

Grieco Gerardo, autista dello scuolabus, ha ricordato che quando si incontrava con S. questi “prendeva qualche bicchierino”, e che quando si recò a casa dei familiari il giorno del suicidio sentì la P. dire, abbracciando il figlio, che il sindaco non ne aveva colpa ma il padre aveva un brutto male, ed il giovane si batteva perché aveva visto il genitore in quelle condizioni ma non è che respingeva l’abbraccio del sindaco; di tutti gli altri episodi non sapeva niente.

C. Antonio ha ricordato di essere giunto un giorno dinanzi alla porta dell’ufficio del sindaco e lì c’erano lo S., D'A. Mario, il vicesindaco ed il Comandante N., e poiché la porta era mezza aperta, restando in attesa per dieci-quindici minuti, potè ascoltare che stavano parlando di una questione di mal di pancia, di diarrea, ed il sindaco ad un tratto disse “ma sei stato qua mezz’ora, perché adesso non vai al bagno?” e la risposta fu “vuoi vedere se non vado mò ? però devi venire a vedere”, ed il Sindaco disse che gli avrebbe mandato il vicesindaco a vedere; poi il vicesindaco uscì fuori per parlare con lui di una pratica che gli interessava, e si recarono al piano inferiore, pertanto non sapeva se lo S. fu seguito da qualcuno in bagno.

Di quel dialogo aveva visto sindaco, vicesindaco e S. parlare fra loro di spalle, e “ridevano tutti quanti, … cioè la prendevano sullo scherzo”, insomma il contesto era tranquillo, e dopo che il sindaco disse di mandargli C. a controllare, ci fu una risata fra tutti loro. Di S. sapeva che beveva qualche liquore, come aveva constatato consumando qualcosa insieme al bar.

I coniugi DI F. Giuseppina e G. Alfonso Fedele hanno invece ricordato di un controllo che lo S. fece sulla loro proprietà per il consumo dell’acqua.

Anzi, precisamente, la DI F. ha ricordato che un giorno nell’estate 2001, mentre la figlia faceva la doccia, richiamò lo S. per aver interrotto, senza preavviso, l’erogazione dell’acqua per sistemare una tubazione e questi le disse “che se volevo potevo andarmela a sciacquare ad Eboli”, ma di conseguenza a ciò lei si recò dal sindaco perché prendesse provvedimenti verso quel dipendente ed il sindaco nel tentativo di risolvere diversamente la questione e per evitare un richiamo scritto, in sua presenza telefonò alla madre dello S. affinché rimproverasse il figlio.

Un altro episodio, solo accennato dalla DI F. e più approfonditamente narrato dal G., riguarda un richiamo che lo S. fece al G. per l’utilizzo indebito di una fontana di un vicino per innaffiare il proprio orto, ed era l’anno 2000; lui stava prendendo qualche secchio d’acqua, autorizzato a ciò dal suo vicino di terreno che, in quella circostanza, era pure presente sul terreno sebbene a distanza da non poter sentire cosa quei due si dicessero, e lo S. lo redarguì dicendo che non poteva prendere l’acqua, ponendosi con fare invadente; il G. si era accorto che aveva un alito vinoso, come se avesse assunto dell’alcol, poi, rivoltosi al sindaco per rappresentargli lo spiacevole accaduto, quegli rispose che bisognava sopportarlo “che dobbiamo fare”, “non è successo niente, tanto due secchi d’acqua non sono la fine del mondo, non ti preoccupare”. (dei due episodi narrati si segnala, anche in tal caso, come il sindaco piuttosto che fare un richiamo formale e diretto al dipendente si rivolga invece ad un suo familiare -la madre- per rimproverarlo, e si affidi a comprensibili minimizzazioni delle vicende per evitare rilievi disciplinari formali; inoltre, nel secondo episodio, appare quantomai singolare che il G., richiamato su un uso indebito di acqua da una fontana privata, non abbia immediatamente replicato d’essere stato autorizzato dal vicino, peraltro lì presente, e di non essere quindi incorso in alcuna illecita od indebita attività di prelievo idrico, mentre invece si era limitato a rispondere che per qualche secchio d’acqua usato per innaffiare alcune giovani piante del suo orto non “succedeva la fine del mondo”, che poi era la stessa giustificazione riduttiva offerta al Sindaco per tacitare le sue proteste !).

Il G. ha poi riferito un altro episodio inerente la vita coniugale dello S.: giocando a carte in un bar con M. Carlo detto C., questi gli confidò di un comportamento da prostituta della moglie dello S., fruitrice di “accortezze economiche” da parte del C., cosa che era anche nota in paese per cattiva nominata, e non risparmiò apprezzamenti sul conto della signora.

Ma M. Carlo, teste di riferimento escusso ex art. 195 cpp, ha marcatamente negato di aver mai avuto quel dialogo con il G., con il quale occasionalmente si frequentava quando veniva a Galdo, mentre con gli S. c’era un eccellente rapporto con tutti i componenti della famiglia.

Il M. ha anche aggiunto che pochi giorni prima della sua deposizione innanzi alla Corte il G. lo aveva cercato a dirgli che aveva fatto il suo nome davanti al giudice riportando una frase volgare che egli avrebbe commentato nel veder passare la signora P. “guarda che bel culo che c’ha”; ma per quelle frasi attribuitegli egli intendeva denunciarlo per calunnia e citarlo per risarcimento danni, come consigliato dal suo legale l’attuale sindaco di Sicignano (e costituito responsabile civile nel processo), perché non era assolutamente vero, ed il G. si sarebbe promesso poi di ritirare quelle frasi davanti alla Corte. Poi emergeva in controesame che il M. aveva accompagnato la P. a Perugia per il funerale di R. Cesare e parecchie volte a S. per fare le terapie al nonno, e lo stesso D. gli aveva chiesto di accompagnarla per farle compagnia, ma c’era una “fiducia enorme”.

Aveva regalato 500mila lire al figlio di S. per il suo 18° compleanno, e non si era mai lamentato con nessuno del fatto che il nonno di S. avesse messo in giro la voce che lui era l’amante della moglie, ed aveva ribadito la natura solo amicale di quei rapporti anche di recente alla signora M..

Infine, il Segretario Comunale, L. Pasquale, ha asserito di non aver notato alcun comportamento vessatorio verso i dipendenti comunali che non avevano votato a favore della lista del sindaco, e che non gli risultava che fossero stati compiuti dei controlli a sorpresa.

Sapeva che non erano mai stati attivati dei procedimenti disciplinari nonostante ci fossero stati dei casi in cui ciò era possibile, e si riferiva alla assenza dell’operatore ecologico S. laddove il carrettino stazionava per strada, o le pause caffè, oppure la mancata apposizione di firma sul registro delle presenze nonostante risultasse invece timbrato il cartellino in entrata ed in uscita, quanto all’episodio della diarrea, ricordava d’essere entrato nella stanza del sindaco quando già era avviata la discussione ed il sindaco aveva constatato che, trascorsa mezz’ora, lo S. non aveva avuto lo stimolo per andare al bagno, per cui probabilmente non corrispondeva al vero quanto dichiarato dal dipendente, ma questi disse subito “venite a vedere, adesso devo andare al bagno, venite a controllare”; il tono del discorso era “scherzoso”, “di tipo ironico”, e lo S. non sembrava turbato ma “normale”; nella stanza c’erano sindaco, vicesindaco, tenente N., lui e S., poi, quando uscì, il dipendente non fu seguito e loro se ne andarono. Insomma, lui percepì la discussione in un contesto non serioso, ma scherzoso, e comunque era intervenuto nella stanza quando il discorso era già avviato (per cui la contestazione del mancato adempimento della prestazione lavorativa non l’aveva ascoltata); al fine il sindaco conferì la delega al vicesindaco di effettuare quel controllo ma il C. rispose di rifiutarla, dopo di chè andarono via tutti e lui si ritirò nel suo ufficio affianco alla stanza del sindaco.

Quanto all’episodio del cartellino marcatempo, ricordava della telefonata anonima, della verifica fatta da C. e T., della timbratura del cartellino che prima non era stato marcato, della spiegazione fornita dal N., della convocazione immediata di S. e della giustificazione da questi fornita; ma non rammentava con precisione cosa ebbe a dire il N. pur ricordando che ci fu un alterco tra N. ed il sindaco (non ricordava, tuttavia, su domanda della parte civile, se N. disse di non ascoltare lo S. perché era ubriaco), nel quale si diceva pure che non era un problema isolato, ma era un malcostume “in parte diffuso”; poi la denuncia fu presentata una ventina di giorni dopo in quanto il sindaco cercava di rimandare e temporeggiare ma poi, consultato un legale ed essendoci la relazione del N., si determinò per la denuncia; ed il T. ammise d’esser stato lui a timbrare e che la pulizia non fu completata perché c’era ancora un ultimo operatore commerciale in piazza.

Il L. ha poi ricordato che la C., a differenza degli altri candidati, non vinse il concorso e che comunque non aveva lavorato bene per lui come dattilografa, che gli LSU furono stabilizzati tutti per coprire i posti della pianta organica con i finanziamenti normativi (la delibera di stabilizzazione de lavoratori V. Francesco, M. Antonio e C. Luigi al servizio ecologia e di C. Albino e M. Cosimo al servizio idrico fu adottata dalla Giunta Comunale il 24/12/2001 con delibera n.293/01 acquisita al dibattimento il 7/5/08), che non aveva mai sentito il sindaco redarguire i dipendenti ad alta voce e comunque non si trattava di rimproveri oltraggiosi come pure capitava che ne avesse elogiato qualcuno; quanto al rapporto con R. Luigi, la questione di valenza sindacale comportò una assegnazione di funzioni di servizio sul suo ruolo di segretario comunale ma ciò determinò pure un risparmio di spesa per l’ente perché per quel trasferimento di servizio egli non percepiva alcun compenso; quanto alle firme di presenza, ricordava che le stesse non sempre combaciavano con le timbrature del cartellino, ad esempio il 7/1/2002 (il giorno in ci si sarebbe verificato l’episodio della dissenteria) il registro risulta firmato solo in entrata non in uscita, ed a sua memoria il controllo al bagno si verificò prima di mezzogiorno. Un altro caso di timbratura del cartellino per un dipendente assente dal servizio aveva riguardato C. Luigi, e per lui partì una denuncia anonima non da parte dell’amministrazione; non fu mai iniziata, tuttavia, l’azione disciplinare nei confronti dello S..

 

 

LE CONVERSAZIONI REGISTRATE SU MICROCASSETTE AUDIOFONICHE.

 

 

Se le prove testimoniali, con le loro apparenti contraddizioni, hanno illustrato i diversi aspetti delle medesime vicende, il diverso modo di interpretare il vissuto dello S., ed i diversi tempi di percezione delle contestate vicende vessatorie, le prove documentali -di cui pure si è fatta menzione al pari del giudizio di attendibilità per ciascun teste- ne hanno ripristinato l’ordine logico, contenutistico e cronologico.

Si è tralasciata l’analisi del contenuto delle conversazioni registrate sulle cassette depositate al P.M. nel corso delle indagini perché da esse, più d’ogni altra fonte cognitiva, si trae il suggello di quelle tappe evolutive di alcune significative vicende rientranti nel fuoco dell’indagine; la genuinità delle esternazioni ivi registrate, proprio per la spontaneità dei dialoghi e la puntualità del contenuto delle parole usate, è indice di alta affidabilità ed attendibilità, sicché proprio da questa documentazione audiofonica delle vicende in esame si raccoglie il riscontro oggettivo e storico di quanto narrato dalle fonti testimoniali, ed anche di quanto già evinto, aliunde, sui comportamenti rilevanti tenuti dalle parti coinvolte nelle vicende medesime.

E’ databile al 18/8/99 la conversazione registrata da S. D. su una cassetta TDK denominata come “cassetta 2, lato A” e consegnata, post mortem, dalla moglie P. Angela al P.M. ad illustrazione di quanto accaduto in seguito ai fatti oramai noti della “festa di Zuppino”. Trattasi dell’incontro con il Sindaco, al quale entrambi i coniugi furono convocati, a chiarimento dell’episodio sfociato con insulti ed aggressione all’assessore C., di cui hanno ripetutamente parlato molti testimoni.

La registrazione, come atto a sorpresa per chi fosse ignaro della captazione e sulla cui utilizzabilità probatoria si rinvia a quanto enunciato in premessa della presente sentenza, riserva rilevantissimi elementi dimostrativi sulle modalità comportamentali dei soggetti coinvolti nel dialogo, sulle tonalità dei rimproveri e le giustificazioni rese, su quanto accaduto anche in altri precedenti vicende e quanto concretamente vissuto la sera del 17/8/99.

Si segnala, in primo luogo, la convocazione “coniugale” e non personale del singolo dipendente, l’ampiezza delle condotte contestate al lavoratore, e la diffusione di rimproveri anche “familiari”, la risalenza già a quell’epoca di un contrasto tra il Sindaco e lo S., la necessità avvertita da quest’ultimo di precostituirsi una prova documentale a suffragio di quanto aveva patito o avrebbe potuto ancora patire, la predilezione per metodi di richiamo verbali piuttosto che formali (legali ma opponibili). E valga quanto segue.

Il dialogo si apre con un confronto tra le due verità, quella appresa dal Sindaco (identificato con voce 2) e quella rappresentata dallo S. (voce 1); lo S. esordiva dicendo che se gli avesse fatto una lettera di richiamo lui si sarebbe “messo l’avvocato perché i testimoni ce li ho”, in quanto aveva detto a Pietro T. (l’assessore che per primo lo contattò in piazza per chiedergli l’intervento urgente) che poteva dargli le chiavi d’arresto del serbatoio idrico ma non era disponibile ad andare perché voleva divertirsi un po’, negando, come emerge a fine del colloquio, di avere mai detto “no, voi siete assessore e voi dovete andare a chiudere” e ricordava che in quel periodo di ferie, controfirmato anche dal sindaco, era rientrato in servizio 4 giorni, ed il T. rispose, con un tono non troppo simpatico, “goditi la festa, siediti” e c’erano pure i vigili presenti.

E qui interveniva la moglie che, ricordando che in quel frangente “ci voleva un po’ di disciplina”, aggiungeva che “però la disciplina, caro sindaco, ci vuole prima con gli assessori e consiglieri, perché mi ha messo le mani addosso…quel bel signore mi ha messo le mani addosso…io sono andata a farmi la radiografia perché sono andata a terra, sono andata alla guardia medica, ho un certificato che parla”; ma il sindaco replicava dicendo che “qualcuno aveva bevuto” e che la dottoressa che l’aveva visitata “dice che non c’era niente” (così dimostrando di essere già  a conoscenza degli esiti di quel referto, proprio come ha ricordato il teste C. in udienza).

E qui inizia il primo rimprovero del sindaco: “tu devi capire una cosa: i dipendenti pubblici vengono improntata la loro condotta al massimo rispetto per gli amministratori e devono essere esemplari in ogni loro cosa.

Cioè un dipendente pubblico se beve e si ubriaca, per esempio, è suscettibile di richiami ed anche di licenziamento”; ma alla risposta di S. che si sarebbe comunque dovuto constatare quello stato di ubriachezza, aggiungendo “noi abbiamo fatto le analisi, mi sembra che è tutto a posto, io vino non ne bevo”, quegli replicava: “io ho detto che anche la condotta al di fuori dell’orario di servizio è censurata… tu rappresenti, anche quando non sei in servizio, sei un pubblico dipendente” e segnalava che “siete diventati oggetto di chiacchiere…si fa la testa calda nel campo e tu vai a litigare, fai le ore calde e succede storie là in mezzo”, ed ancora “anche tuo figlio mi ha risposto in una maniera” “anche tuo figlio ha assunto…” al punto di dover dire “senti, tu se mi consenti fatti i fatti tuoi, io ho a che fare solo con tuo padre e con nessun altro…, non è che il rapporto tra l’amministratore con un dipendente è con tutta la famiglia! Io ho il diritto ed il dovere di parlare solo con te e con nessun altro, ora pure tuo figlio mi ha risposto con un tono tutt’altro che…”, “perché se tuo figlio parla con uno che è il sindaco e che ha sessantun’anni e che di fronte a lui  nonno o bisnonno e assume atteggiamenti da pari a pari, allora io ti dico che tuo figlio, sarà un ragazzo intelligente, però è un maleducato” (il richiamo in questo brano della conversazione va, evidentemente, a quanto ha riferito S. Vincenzo sulle continue telefonate che il sindaco faceva a casa mentre lui studiava, per cercare il padre al di fuori dell’orario di servizio, dubitando che fosse invece presente in casa).

Subentra poi la moglie: “Sindaco, però qua sbagliamo tutti quanti. Noi abbiamo avuto quella discussione per telefono io e lei, poi vi ho chiamato, vi ho detto la situazione, in che stato era mio marito, voi l’avete fatto salire a Sicignano, che poi  tornato a casa, che io poi all’una e mezza sono andata a Postiglione e a P. lo potete chiedere, da Postiglione poi sono andata al pronto soccorso, perché il gonfiore a D. stava arrivando alla gola, voi comunque lo avete fatto salire qua, avete capito?” (si introduce l’episodio della puntura della vespa risalente, allora, ad epoca antecedente rispetto alla data di registrazione di questo colloquio, episodio conformemente descritto e riportato dai testi proprio con i riferimenti e le successioni cronologiche citate dalla P. in questo brano); ed il Sindaco replicava: “forse non avete capito una cosa, che la pubblica utilità viene prima di tutto e che un posto di lavoro si difende con le unghie e con i denti”, e la P.: “ma durante le sei ore di lavoro, le sei ore e quaranta”, ma la risposta è netta: “no signora si difende sempre, perché evidentemente voi…io debbo capire anche dal tono vostro di questo momento, devo capire che voi vi siete stancata di…dipendente comunale”. (in questo passo è indubbia una indiretta minaccia di licenziamento, alla quale fanno seguito ulteriori richieste e argomenti esposti dal Sindaco su come debba intendersi l’osservanza degli obblighi connessi al rapporto lavorativo).

Ed il Sindaco proseguiva: “cioè tuo marito non può fare nemmeno un minuto di lavoro oltre l’orario di servizio… non può coltivare la terra lo sai tu?... non può fare niente, lo sai tu?” e la donna: “però lui non si può più dedicare alla famiglia”, ed il Sindaco: “allora tuo marito deve fare sei ore di lavoro e niente più… si deve riposare dopo… se tuo marito fa il contadino mentre fa… non lo può fare” e  poi rivolto a S.: “ D. se tu vai a fare un lavoro senza l’autorizzazione dell’amministrazione tu non puoi fare niente, tu devi …se pagato….il tuo stipendio presuppone che oltre l’orario non devi fare più niente, ti puoi fare la passeggiata, ti puoi fare la partitina al bar,… ti puoi sentire la musica, non puoi fare niente”.

Interveniva nuovamente la P. evidenziando che però “manco quello si può fare, perché come usciamo puntualmente viene qualcuno; il Sindaco allora, rammentando che D. aveva votato per lui, insisteva dicendo: “se ti vengo a prendere dentro la terra che hai il motozappa io ti licenzio, insomma… capisce che tu sei licenziato in quel momento? Allora dobbiamo arrivare a questo punto qua… se non vuoi arrivare a questo punto qua ti devi abituare a capire che il Comune viene prima di tutto… il rispetto e l’obbedienza viene prima di tutto… se tu mi crei problemi di ogni genere…”, e lo S. accennava di non voler arrivare a questo punto qua, che il Comune viene prima di tutto, “ma di che cosa!”, che il rispetto era anche nei suoi confronti, e che non aveva mai creato problemi bensì “sono stati i vostri amministratori che mi hanno creato problemi a me”. Ma qui insorgeva la replica: “tu sui miei amministratori non sei in grado …distinguiamo, io con il mio superiore, con il provveditore, non è che posso dire ‘provveditore, ma tu che dici?’, tu fai il mestiere tuo.

L’insegnante, ognuno di noi, ha gente che sta da sopra, alla quale gente deve rispetto ed obbedienza, come la gente che… alla quale deve impartire ordini che non vanno discussi, a meno che non siano palesemente contro legge, solo in quel caso”, e ricordando che gli amministratori sono sotto il giudizio del popolo, aggiungeva: “però tu sei un dipendente comunale e non hai le stesse libertà e gli stessi diritti degli altri cittadini” riferendosi al fatto di non poter obiettare, “mi devo stare zitto” proprio come egli stesso ebbe dei richiami, anni addietro, dal provveditore agli studi che lo avvisò della possibilità di un trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale.

Si inseriva poi un dialogo dal contenuto davvero poco pertinente al rapporto di lavoro, allorquando la P. segnalava che comunque si era preoccupata per la salute di suo marito che non era in grado di poter eseguire quanto impartitogli; ma il Sindaco le rispondeva: “dal tono tuo debbo capire che quello che dice la gente, …compresa la gente vicina a te, vicina, che tu sei l’istigatrice di tuo marito” e, dopo la reazione della donna che accettava e le faceva piacere che si dicesse tanto di lei, ricordando anche di avere accettato di venire a quell’incontro con convocazione d’urgenza  permettendosi di obbedire ai suoi ordini, il Sindaco aggiungeva: “il tono tuo di questo momento mi fa pentire di averti… perché io pensavo, l’obiettivo e la finalità, era quello di evitare a te e a tuo marito problemi futuri”, “perché tu se devi fare una causa, così come lui è andato…allora a me le persone che ragionano così sono profondamente fesse”, “perché non sanno che una causa sono milioni, rabbia, perdita della tranquillità, disturbi, rischi”, “perché fare una causa è proprio da stronzi”; e, verso la fine della conversazione, asseriva che proprio quella mattina aveva cercato di dissuadere il C. dallo sporgere denuncia.

E si ritornava all’episodio della sera precedente sul quale la P. ricordava che le erano state messe le mani addosso, che “quel bel signore” (ossia il C.) l’aveva buttata per terra, ed aveva i testimoni, come pure lui ne aveva e non poteva accettare di far picchiare il marito, tant’è che quattro persone dovettero trattenere il loro aggressore, il quale aveva insultato il marito chiamandolo cinque volte “stronzo” davanti alla gente, e di replica il marito gli disse: “ora ti faccio il culo tanto”, ed alla fine fu lei a voler andare via -nonostante il Sindaco le avesse segnalato d’essere una “guerrigliera”-; insomma, a dire di S., è vero che aveva fatto una brutta figura però è da vedersi se “un assessore è meglio di un dipendente”; gli aveva infatti detto di voler stare con la famiglia, di voler fare quattro salti, di volersi godere la festa, e “ma io non ho capito… ma perché… ma mi devo calare i  calzoni, né sindaco, solo perché sono un dipendente comunale?”.

Venivano poi ricordati velocemente un episodio di una lite a San Rocco l’anno precedente (1998, e potrebbe trattarsi dell’episodio narrato da D'A. Tullio e R. Domenico cl.58, allorché si dovette interrompere l’orchestra perché due copie di ballerini si stavano pestando i piedi giungendo a lite (-S. ed il suo maestro di ballo-), e la assenza di provvedimenti che il Sindaco avrebbe potuto prendere allorché gli segnalò l’abusivo allaccio alla rete idrica di alcuni compaesani -tra i quali Antonio V., R. P.- ed il controllo dei contatori.

Al termine poi, il Sindaco ricordava a S. che per il pubblico servizio di erogazione dell’acqua, si poteva persino precettare il dipendente, e lo S. replicava “quando me lo dite voi non mi sono mai rifiutato e mai lo farò”, nonché doveva ricordarsi che la mancanza di rispetto agli amministratori è giusta causa di licenziamento.

 

Parimenti molto rilevante è la conversazione intercettata nel corso della riunione nella quale il Sindaco C.stava ai dipendenti pubblici i furti avvenuti nella sede comunale, riunione che, dall’esame dei testimoni si è appreso che sarebbe avvenuta il 22.01.2002. E’ pertanto a questa data che si colloca la seconda registrazione di conversazioni compiuta dallo S. e consegnata, post mortem, dalla P. al PM, contrassegnata come .

Da questa registrazione emergono molti elementi illustrativi del rapporto tra Sindaco e dipendenti comunali come da entrambe le parti interpretato, e si apprezza la genuinità delle esternazioni espresse, in quel contesto, dal Sindaco, anche senza la sollecitazione proveniente da chi era a conoscenza della captazione in corso. Di volta in volta si evidenzieranno e si commenteranno alcuni passi salienti e rilevanti ai fini probatori.

La registrazione comincia con una sorta di chiamata d’appello dei presenti, e si intuisce che “Ferdinà!” sia il D’A., “Compà Antonio” sia M. Antonio (si veda pure la deposizione testimoniale di quest’ultimo), “Alfonso” sia il N.,  e che ci si attivasse per la comparizione degli assenti, così come si comprende che la Voce 2 appartenga al P. e la Voce 1 sia riferibile a S..

Esordiva il Sindaco dicendo che nonostante avessero cercato di stabilire delle regole improntate a buoni rapporti, e nonostante la loro buona volontà, le cose non andavano bene; bisognava amministrare e in democrazia “che vince comanda, chi non vince fa l’opposizione”; avevano cercato in quattro anni di stabilire un clima sereno, “inutilmente”, e, sempre in un clima di confronto, si erano stabilite le cose da farsi, con puntualità e nei modi prefissati.

Tuttavia era molto arrabbiato perché erano successi dei fatti spiacevoli, accaduti anche nel passato, ed ora, nel secondo mandato elettorale, non dovevano essere accusati di essere stati troppo indulgenti con qualche dipendente, “il treno delle nostre indulgenze aveva raggiunto il capolinea”.

Sarebbe stato davvero felice se a persone volenterose, responsabili, corrette e disponibili avesse potuto accordare un permesso di mezz’ora per fare terminare prima l’orario di lavoro.

D’altronde c’erano stati dei problemi sul rispetto dell’orario di servizio, senza interruzione, però è una mancanza di rispetto dei propri doveri verso l’Amministrazione se si interrompe il lavoro, si firma, si timbra e si va al bar a prendere un caffè (probabilmente, e comunque non è difficile pensarlo, il richiamo volge verso quanto accaduto proprio allo S. in occasione dell’episodio della timbratura del cartellino dell’11.12.2001 e dell’assenza dal lavoro per recarsi in bagno con il conseguente controllo igienico occorsogli poco dopo l’Epifania del 2002, episodi molto vicini nel tempo all’epoca della registrazione). Ricordava, quindi, le responsabilità dell’assessore al personale, Felice T., e di come non avessero né formalizzato gli ordini di servizio né richiesto qualcosa che non rientrasse nei doveri dei dipendenti, riconoscendo i diritti della contrattazione collettiva; e se un dipendente era esemplare ed eccellente lo riconoscevano, però se alcuni “sono da dieci e lode per il verbo avere…sono distrattissimi per quanto il verbo dare, e ce ne accorgiamo noi…perché non siamo fessi”. 

Avvertiva quindi che dall’indomani queste distrazioni non sarebbero state ammesse anche perché se il Comune va verso il dissesto le conseguenze le avrebbero pagate i dipendenti, “quindi noi abbiamo viste disattese le direttive impartite, da domani mattina in poi, le direttive impartite per iscritto sono legge per tutti quanti voi,…chi non le osserva commette atto di insubordinazione, non  osserva i propri doveri ed è suscettibile di sanzioni di tipo disciplinare”, precisando che il nucleo di valutazione sarebbe stato operativo a breve.

“Per me passi avanti, non vai niente…D. S. vai forte” ed in questo modo il nucleo di valutazione sarebbe stato l’organo C. di adottare provvedimenti di ogni genere, “disciplinari ed anche più pesanti” perché erano successi fatti di estrema gravità, imputabili a negligenza di qualche responsabile del servizio: ed infatti, si doleva che “in mezzo a noi c’è qualche ladro, qualche ladro pesante, che non è solamente che si è andato a fottere settecentomila lire da Gennaro” (trattasi di Gennaro A., responsabile dell’Ufficio Tributi), ma anche una batteria della Prisma, dei rotoloni di carta igienica, degli attaccapanni di cinque-sei mila lire, un martellone ed altre cose, “significa che i dipendenti comunali nel loro insieme nascondono nella propria criniera anche pidocchi di questo genere”, e si prefigurava di riuscire “a beccare questo essere immondo, e purtroppo è in mezzo a noi”,  “che non sono degni di stare da nessuna parte, è gente che deve stare solo in galera” (si assiste, è bene fermarsi ed osservare, ad un graduale incremento del rimprovero mosso dal Sindaco ai dipendenti, e non è mancata una citazione esemplificativa sulla persona dello S. collegato direttamente ai rilievi disciplinari dell’instaurando nucleo di valutazione; di poi, come si vedrà, il richiamo alla posizione dello S. sarà ancora più evidente con un dialogo diretto fra i due, nel quale assolutamente non spicca la frase menzionata da qualche teste -C. Albino e M. Antonio- “mò si credeva che è arrivato P. e ci metteva in riga a tutti quanti, noi continueremo a fare i nostri comodi”).

E proseguiva la premessa-discorso del Sindaco sul rispetto dell’orario di lavoro “e veniamo al rapporto … al posto di lavoro”, ricordando che le sei ore di lavoro quotidiano devono essere integrali, efficaci, efficienti e complete, e “facciamo un esempio: se io lascio il lavoro e vado a prendere la tazza di caffè al bar, ma che … una tazza di caffè … io me la prendo, probabilmente no, e noi non saremo tanto sciocchi da non capire che forse ad un certo momento una tazza di caffè potrebbe servire anche a far lavorare … a farvi lavorare meglio”; e c’era chi se la meritava, ma c’era anche chi intendeva il Comune come se fosse il solo posto di riposo dove si va per passare sei ore “e da dove si va via … dentro la terra sua e per i cazzi suoi”. Rincalzava dicendo che la norma prevede che sono sei ore lavorative perché medici sindacalisti e legislatore hanno “riconosciuto che la macchina umana quando ha lavorato 6 ore si deve riposare”, “vai a casa tua, pigli la motozappa e lavora, io gli posso dire, qualche volta lo fai ma se lo fai tutti i giorni” e qui interveniva lo S. dicendo che il lavoro fisico “scarica”, ma il sindaco replicava che ciò era vero se uno fa un lavoro mentale, ma se un dipendente viene a riposarsi quando va al Comune e poi il suo lavoro comincia quando esce dal Comune, loro non facevano finta di non vedere, e bisognava intervenire, “per cui se vogliamo giocare a guardie e ladri noi siamo capacissimi di saperlo fare e ci potremmo anche divertire però alla fine non è da persone intelligenti”, però se a qualcuno non piace l’intelligenza, “allora qua non facciamo i signori, e quello lo devi dare, lo devi fare camminare storto, gli devi spezzare pure i reni, non in senso fisico ma in senso…”.

E qui finiva con il collegare i due concetti relativi l’uno al furto di denaro e suppellettili, l’altro all’osservanza dell’orario di lavoro: “dateci voi la prova, cominciamo che non si ruba più, cominciamo che si rispetta l’orario di servizio…, cominciamo che uno quando vede una cosa in mezzo alla strada, deve capire che c’è una cosa rotta e si deve aggiustare”; quindi “se io tengo venti minuti ed ho visto che non so… una cosa… voglio prendere un momento una scopa…. e voglio aggiustare una cosa… c’è una pianta che… andiamo avanti d’amore e d’accordo”, “allora qua per dire che noi dobbiamo fare le guardie e voi i ladri”. 

A questo punto interveniva una voce che chiedeva di poter interrompere il discorso del Sindaco e che respingeva l’accusa di essere dei ladri “non vi permetto proprio… noi non siamo ladri” “scaricate la colpa solamente sopra i dipendenti”; e di nuovo il Sindaco, pronto a chiarire il concetto di quel collegamento di argomenti come prima evidenziato, diceva: “se rubo settecento mila lire dal portafoglio di Gennaro A. aprendo la cassaforte là, sono un ladro senza mezzi termini, se rubo una saponetta sono ladro tale e quale… se poi io mi fotto venti minuti di lavoro che il Comune fa ed io non faccio niente, sono ladro tale e quale… perché sono ladro ? Perché venti minuti diviso lo stipendio tuo giornaliero, tanto all’ora tanto al minuto, ti fai il conto quanto viene.

Se tu te ne stati a grattarti i coglioni da qualche parte e non lavori e fotti venti minuti al Comune, comunque sei ladro”. Si apriva poi una discussione sulla flessibilità dell’orario, sulla collaborazione, e c’era pure chi obiettava che non fosse giusto che “per una persona devono pagare tutti quanti”.

Ma il Sindaco anche su questo punto replicava che se qualcuno arriva sempre tardi la mattina non è più flessibilità, e non voleva che fra di loro si stabilisse un rapporto del tipo “giochiamo a guardie e ladri”, “però se tu mi vai in quel posto, insomma e siccome io sono allergico a quel posto, dico, non ti faccio andare. Però è anche grave vedere che se è una cosa che deve essere fatta, allora se vado nel garage giù per esempio, no, e trovo uno stato di abbandono vergognoso, allora dico chi di voi….”.

A questo punto, e non è occasionale il richiamo ad una reazione allergica (probabilmente si riferiva alla puntura di una vespa che aveva indotto lo S. a non osservare un ordine prescrittogli) ed al garage (dove lo S. riponeva gli attrezzi di lavoro e dove era parcheggiata una vecchia autovettura di servizio), lo S., proprio per quei motivi sentitosi tirare in ballo, invitava il Sindaco a verificare che nel garage fosse tutto pulito e che avessero buttato “tutta quella roba là”; anzi, ribatteva al Sindaco “ma perché ve ne accorgete quando il secchio è pieno? Voi ve ne dovete accorgere quando il secchio è quasi pieno”.

Nuovamente il Sindaco ripeteva il significato dei doveri del dipendente comunale: “Tu devi dare al Comune ogni giorno 6 ore di lavoro efficace, efficiente ed economico, devi fare 6 ore di servizio previste per il tuo profilo professionale. Se ti dico: ‘guida una Ferrari Testa Rossa’ , dici: ‘non è cosa mia’….,però se ti dico: ‘D. c’è da pulire’, ora o pulisci la strada, o pulisci il Comune o pulisci un sottotetto o pulisci il garage o che pulisci, tu devi fare 6 ore di lavoro  e se io ti chiedo …non sono problemi se io non l’ho detto ad Antonio, a Pasquale o un altro , io frattanto ti dico: ‘tu hai mezz’ora, fammi questo’, non sono fatto tuoi”, “il rapporto non è collettivo, il contratto è collettivo, però il rapporto è a due, cioè di quello che fai devi dar conto a me”, nel senso che non doveva un dipendente controllare ciò che faceva un altro collega o discutere di un ordine impartitogli, “tu non ti puoi giustificare perché fai una cosa perché un altro… tu devi fare le tu sei ore e basta”, e ben potevano segnalare se “Umberto se ne è andato a pescare”, ma non potevano di conseguenza fare ognuno altrettanto.

Lo S., quindi, ricordava di un episodio in cui il Sindaco lo aveva fatto chiamare da Raffaele (S.), mentre il Sindaco replicava che non era tenuto a rappresentargliene il motivo “non sono affari tuoi, io ti posso far chiamare da Raffaele, dai Carabinieri, da un bambino, da mio figlio, da chi voglio io. Tu sei libero di rispondere come vuoi, frattanto però tu non hai il diritto, non hai la facoltà di dire a me ‘perché mi hai fatto chiamare da quello?’, non sono fatti tuoi.

Devi dire semplicemente: ‘che cosa volete da me?’, allora ‘D. io voglio che tu fai questo e questo’, tu mi puoi dire: ‘Sindaco, io ho finito il mio lavoro e me ne devo andare, non lo posso fare’, se poi io te lo ordino per iscritto tu lo devi fare, pure lo straordinario, lo devi fare per iscritto perché tu…ai tuoi doveri se ti faccio l’ordine di servizio scritto e non ti puoi rifiutare, ti puoi rifiutare solo dalla tua azione deriva un reato di carattere penale, solo in quel caso puoi dire: ‘io mi rifiuto’. Però se ti dico: ‘Prendi quella cosa…quel quadro, rompilo perché io non lo sopporto e me lo devi rompere’, pure se ti dico ‘rompi sto’ lampadario’, lo devi rompere il lampadario, dici: ‘è pazzo il Sindaco’, sì perché non è un reato penale”.

La conversazione poi proseguiva anche su un dialogo diretto tra P. e S.; quest’ultimo si lamentava che “ogni volta…sempre a martellate…sempre contro”, che “quando avete vinto le elezioni non eravate così aggressivo, eppure noi stiamo facendo la stessa cosa”, “eravate più calmo prima”, mentre il Sindaco rimarcava che “siamo una famiglia disgraziata”, “se poi volevo una guerra”, così poi continuando su come poter intendere nel miglior modo il loro rapporto.

 

Mentre le sopramenzionate conversazioni si riferiscono ad epoca antecedente al triste epilogo della vita di S., e ne tratteggiano  i momenti salienti delle denunciate vessazioni, le successive nondimeno confermano la consapevolezza degli atteggiamenti persecutori a suo tempo tenuti dal P..

Si badi che ciò che ha rilevanza nei primi episodi pacificamente emersi nelle conversazioni già analizzate non è soltanto la modalità delle prescrizioni ordinate dal Sindaco e non osservate con diligenza, quanto piuttosto la carenza di formali interventi disciplinari alle dolute manchevolezze del dipendente, argomento sicuramente evincibile nella vicenda dei patiti furti o, ancor di più, in quella delle assenze ingiustificate durante gli orari di servizio o, in occasione della mancata esecuzione di ordini non pertinenti con le prescrizioni contrattuali lavorative e quindi, ove se ne pretendesse l’attuazione, ai limiti della legittimità; ed altrettanto ha rilievo non tanto la reazione reciprocamente scomposta tra gli assessori ed i coniugi S. in piazza a Zuppino (nella quale nessuno dei tre imputati è rimasto coinvolto), quanto il richiamo informale, il rimprovero familiare, la continua serie di minacce di licenziamento, formulati tutti il giorno successivo senza, ancora una volta, che venissero adottati seri e formali provvedimenti disciplinari, e la disparità di trattamento tra le parti contendenti (entrambe alzano la voce e si colpiscono vicendevolmente, eppure il Sindaco prende le difese di C. e T., nonostante che anche i coniugi S. si fossero recati al Pronto Soccorso e che, quindi, anche sulla loro versione dei fatti era acquisibile un riscontro oggettivo esterno).

E ciò offre l’ulteriore considerazione sulla discutibile fondatezza di un proposito disciplinare validamente e concretamente perseguibile, nonché sulla abitudine a manifestazioni dure di rimprovero assolutamente ultronee, per le modalità, i tempi ed i soggetti in cui venivano esternate, rispetto agli ordinari rimedi sanzionatori di eventuali condotte censurabili nell’ambito del rapporto lavorativo di tipo pubblicistico.

Non è poi in discussione l’episodio della puntura della vespa e la perentorietà dell’ordine di recarsi al Comune, né il riferimento, neppur troppo velato, alle lamentate  manchevolezze dello S. sul lavoro, per puntualità, assenze, per la timbratura del cartellino.

 

Ed è proprio su quest’ultima vicenda che si innesta la discussone tra il Sindaco ed il vigile T., intercorsa dopo che quest’ultimo aveva reso le sue dichiarazioni al PM, conversazione registrata dal T., come da questi stesso ammesso nel corso del suo esame dibattimentale, ed espressiva di quanto e come il Sindaco avesse inteso i ruoli e le motivazioni di quella vicenda ma anche, si vedrà, dell’altra pietosa vicenda del controllo in bagno. 

La conversazione resta registrata sulla microcassetta Sony MC 60, e pacificamente viene attribuita la voce 1 al P. e la voce 2 al T..

Questi ricordava che “quando è venuto lui io non c’ero” (e si riferisce all’ingresso di S. nella sala della Giunta allorché fu convocato per giustificare la mancata timbratura del cartellino), in quanto lui fu chiamato dopo e fu “sgridato un poco”.

Il sindaco quindi gli rappresentava che non aveva potuto chiudere la cosa perché c’erano delle “fotocopie vicino” (si riferisce probabilmente al fatto che oramai, dopo venti giorni, non si poteva più mettere a tacere la vicenda perché si erano diffuse le fotocopie di quella relazione-denuncia di C. e T., con conseguente necessità di inoltrare gli atti per non incorrere, lui, in una omissione di denuncia; ed infatti, verso la fine della conversazione aggiungeva “sì, ma la cosa finiva se non c’era sta faccenda che qualcuno che si era fatto la fotocopia”).

Ma subito esternava i motivi di quella sua convocazione “si parla di proroga delle indagini a carico mio, avete capito ? … io te lo chiedo, sei libero di non dirlo, però quando io la cosa la saprò, perché l’accesso agli atti, … ora dimmi tu se io ho istigato una persona al suicidio contestandogli verbalmente una condotta scorretta, è una truffa ai danni dell’ente insomma” ed ancora “D. era ubriaco”, “ora io quello che mi chiedo, se puoi dirlo, cioè se tu mi dici, io lo saprò comunque perché, ti ripeto, l’accesso agli atti, le deposizioni che avete fatto voi davanti ai Carabinieri che c’era ? Che se il Giudice ha deciso di andare avanti in base alla vostra dichiarazione, io mi devo pure difendere, che cosa vi siete detti ?” e alla iniziale risposta di T. “a me personalmente chiesero come andarono i fatti di questo...”, il P. nuovamente interveniva “non ti hanno chiesto … perché pi pare che … non è che pare che sembra maltrattamenti a D., io a D. maltrattamenti … fai una cazziata, hai fatto … cioè può darsi pure che un carattere … ma però succedono con questi benedetti dipendenti succedono fatti che uno on sa come cazzo deve fare, cioè … non so se devo fare, se devo prendere a schiaffoni tutti quanti, oppure dice, … io penso che uno, il dirigente … il rispetto”; ed introduceva anche l’episodio di C. Franco, allorché da un lato si arrabbiò con D’A. Ferdinando perché se voleva essere pagato di più doveva dimostrare di saper bene impiegare i suoi dipendenti, dall’altro rammentava che se il lavoro di pulizia al cimitero, che non è grande quanto quello di S., finisce prima alle 10, alle 11, poteva chiedere di andare a pulire un vicolo, ed allora non comprendeva perché il C. venne nella stanza sua “con gli occhi di fuoco”, lui dovette richiamarlo perché doveva abbassare la voce e perché gli aveva chiesto di dare una mano per un lavoro e non lo aveva fatto, ma non accettava la giustificazione del tipo “se gli altri si grattano mi gratto pure io”, né che gli dicesse che lo aveva “cazziato in mezzo alla strada per far vedere alla gente quanto vale lui”, come se “cazziando a te io aumento di prestigio” (l’episodio è stato narrato da C. Francesco e confermato da N. Alfonso e S. Raffaele, ma con un risvolto diverso, nel senso che recatosi dal sindaco per rendere giustificazioni, su rimproverato e gli fu detto di andare via perché parlando con lui il sindaco perdeva di prestigio).

Ancora, T. ricordava di essere stato male per quell’episodio perché non aveva mai fatto niente di male e per una volta che era capitata una cosa del genere ora doveva trovasi coinvolto in un procedimento penale; poi, sempre su domanda del Sindaco “se me lo puoi dire, perché io …”, aggiungeva di aver riferito nel corso delle sue dichiarazioni verbalizzate, circa l’episodio dell’appostamento dietro la scuola “del fatto di Felice quella mattina presto che era qua dentro, quando,  … degli operai, mi aveva chiesto se io ne sapessi qualcosa, fo detto che me lo hanno riferito però non è che io alle 5 ero in mezzo alla strada”, ed è una notizia che aveva appreso dagli stessi operai.

Quindi aveva anche riferito sui suoi rapporti tra loro due, che “il Sindaco ci richiama se andiamo a prendere il caffè e ci cazzea pure, è vero”, “questo qua è in effetti”. Nel riferire di essere andato anche una seconda volta convocato insieme con N. e S., il P. insisteva “ed io.. perché io … io ho chiesto pure a loro, perché in effetti ora che ti risulta ? che ti risulta a te ?”, ed il T. rispondeva che in effetti “quello già sapeva alcune cose” come l’episodio dell’appostamento di Felice (T.) e della diarrea di D.; e su quest’ultimo “che cosa ha chiesto in particolare il Giudice ?”, il T. rispondeva che aveva dichiarato quanto gli aveva raccontato D. perché lui in quella occasione non era presente. Ed allora P. gli narrava la sua versione dei fatti “per esempio quella mattina io presi la …, ad un certo punto, dice, pazzea o non pazzea con tutti quanti, quando io .. e a me”, “e parlava, parlava, poi uscì, lui disse che ogni cinque minuti doveva andare al gabinetto che aveva la diarrea.

Poi siamo stati quasi mezz’ora, tre quarti d’ora, dissi, vedi che ora la diarrea, voglio dire, ti è passata, dissi io sfottendo,… questa è l’unica cosa che ho fatto. E lui fece ‘ora voi mi dovete vedere e … fare, .. poi dovete venire a vedere’, cioè che lui voleva andare a cacare e voleva far vedere a me. Dissi ‘vai a cacare!’, dissi ‘vai, no!’. Quindi praticamente le cose a carico mio o a carico di T. o a carico di Vito, ti risultano ? perché poi se voi mi avete … se voi, … cioè lui ha chiesto a te se sapevi del fatto …”. E sul punto dell’episodio in bagno, T. aggiungeva che “no solo il fatto della diarrea se era vero che poi l’avevate fatto fare, diciamo, quasi alla vostra presenza, .. perché non è che ero presente io. D. mi ha raccontato sta cosa, così, pure perché io poi l’ultimo periodo con D. ci ho avuto proprio …”, “che D. mi aveva raccontato”. Aggiungeva ancora il T. che probabilmente avranno chiesto le stesse cose pure a loro, prima dai Carabinieri a Sicignano poi dal Giudice a S..

Va osservato che i brani di questa conversazione non soltanto confermano la conoscenza da parte dei due interlocutori di molti episodi accaduti in via allo S. e di come essi fossero stati “gestiti” ed interpretati nel momento della loro verificazione ma anche il peculiare interesse del P. nel conoscere gli argomenti trattati durante la raccolta di informazioni ad opera della PG e del PM durante la fase delle indagini preliminari, atti di indagine che sono ex lege (art. 329 cpp) coperti dal segreto fin a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza (e non viene a cessare con l’avviso di proroga del termine delle indagini preliminari); ed in questo caso proprio uno degli indagati chiedeva ed otteneva informazioni su quanto nei suoi riguardi era stato deposto alla PG ed al PM dalla persona informata sui fatti. E le stesse considerazioni varranno anche all’esito dell’analisi dell’ultima cassetta di registrazione portata all’esame della Corte, quella intervenuta tra P. e N., successivamente alla assunzione di informazioni innanzi al P.M.

Trattasi della conversazione riversata sulla microcassetta Panasonic MC 60 consegnata al PM da N. Alfonso e concernente un colloquio che egli, durante il corso delle indagini preliminari, aveva avuto con il P.. Anche in tal caso il contenuto del dialogo consente di assegnare un nome alle voci indicate numericamente dal perito trascrittore (voce 3 si appartiene al Sindaco e la voce 4 al N.).

Alla domanda di sapere cosa il N. aveva detto al PM, il N. rispondeva “là in effetti il magistrato quando ci ha chiesto … teneva già domande … cioè ci ha fatto domande mirate, no! Voleva sapere questo, questo e questo, quindi era già a conoscenza di tante situazioni”, e di aver detto “che voi mi avete chiesto una relazione accomodante … in modo da apparare” (si tratta della relazione del 17/12/2001 circa i fatti relativi alla timbratura del cartellino); e su questo aspetto il P. non poneva obiezioni a quanto riferito dal N..

Inoltre, circa “il fatto della diarrea, io ho dovuto riferire che quello è venuto là” e sul punto si innestava una discussione sul fatto di dire la verità e che il P. asseriva “noi quante bugie diciamo tutti i giorni per apparare la situazione ?”; quindi, replicava il N. che in quella circostanza egli non sapeva se fosse vero o meno quanto riferito dallo S., “tanto è vero io in quella occasione lo andai a cazziare perché aveva lasciato i cosi, però non sapevo della … che quello già l’avevamo controllato là, il fatto che andavano a portare sempre i cartellini e cose, secondo me questa manco è un’attività che devono tenere e continuano a tenere”.

Brevi accenni si innestano su altri fatti di cui pure si è discusso in dibattimento, tra cui “il fatto delle telefonate” (quelle private captate tra il Sindaco ed una donna) sulle quali il P. diceva che “tu stesso ha detto ‘è una vigliaccata, io mi vergogno’ ” ed il N. “Lo so, però io giustamente, uno si deve guardare, si deve parare ?”, ed anche in merito al comportamento del sindaco che non aveva fatto nulla di male ma “a voi quello che vi guasta è solo l’atteggiamento un poco, la voce, la cosa”; e seguivano accenni sulla denuncia inoltrata per il cartellino marcatempo, sulla iniziativa di volerlo sostituire perché c’era un malcontento in giro nei suoi confronti, sulla discussione con C. Franco circa la perdita di prestigio se il Sindaco avesse parlato con lui oppure, come intendeva il dipendente, l’incremento di prestigio se il Sindaco lo avesse “cazziato in pubblico”, sull’episodio della “cazziata” davanti alla banca, sulla ostilità della famiglia di S. verso di lui, e comunque il N. confidava al Sindaco che “il Magistrato era a conoscenza di tante situazioni e poi chiedeva conferma a noi”.

Quanto all’episodio del cartellino, il Sindaco ricordava di essersi arrabbiato con lui, e lo avrebbe anche riferito in indagini, ma il N. replicava che lui voleva anche apparare la situazione perché non ci trovava “niente di … perché quello il servizio lo aveva fatto, quindi era una … stronzata quella, secondo me, anche perché poi non è che quello prendeva lo straordinario”, insomma non trovava giusto una denuncia contro lo S.; ma il sindaco rispondeva che era stata messa in giro la voce della denuncia, e dovette prendere provvedimenti per il fatto che il vicesindaco reclamava che dovessero essere presi dei provvedimenti. Quindi il N. riferiva della questione degli ordini di servizio e del fatto della diarrea che, visto che c’era un precedente, si poteva anche superare la questione.

 

 

RILEVANZA GIURIDICA ED ANALISI CRITICA DEI SINGOLI EPISODI.

NOZIONE E RICOSTRUZIONE DELLA FATTISPECIE INCRIMINATRICE contestata.

 

L’analisi particolareggiata delle deposizioni testimoniali con i rilievi di attendibilità di volta in volta rimarcati per ciascun teste, ha consentito di offrire in questa fase di giudizio un’ampia veduta panoramica di quanto vissuto da S. D. negli ultimi anni della sua vita, con esame si potrebbe dire quasi “spettrografico” delle vicende personali, familiari, coniugali, amicali, sanitarie, politiche e lavorative; e proprio a cagione di questo tipo di esame a 360 gradi è stata inevitabile l’intromissione di aspetti forse meno pertinenti ai fatti di causa ma che pur sempre si insinuavano nell’ambito della valutazione di personalità degli imputati o della vita anteatta dei protagonisti di quelle vicende, e dei loro rapporti con la persona offesa, assumendo quindi anch’essi rilevanza da un punto di vista processuale, al fine di ricercare le cause manifeste od intrinseche di quell’insano gesto ed, ancor prima, il significato giuridico di quegli atti e comportamenti che lo S., in vita, lamentava di dover patìre. L’oggettiva verificazione di quei fatti e la consapevolezza del significato della loro commissione sono poi emersi pacificamente, come visto, dai colloqui intercettati e versati nelle cassette audio acquisite in atti.

Il terreno sul quale si è mossa l’intera indagine è stato, come prevedibile, molto scivoloso: non sono mancate digressioni, apparentemente inappropriate, sulla vita privata dei congiunti del defunto, sulle scelte elettorali di alcuni testi, sulla origine dei rapporti lavorativi dei colleghi dello S., sui silenzi e contraddizioni di alcuni testi ricettori di informazioni utili di cui non sapevano o non volevano indicare la fonte, e sulle modalità difensive espletate, in questa o in altre sedi, dai patrocinatori delle rispettive parti; si è spesso affacciato il sospetto, e la Corte lo ha distintamente percepito, che in questo processo si innestassero questioni che andassero al di là della vicenda processuale.

Ma tant’è. E superando le anse vorticose di una indagine a spirale che non ha risparmiato approfondimenti di ogni genere, ampliando l’orizzonte valutativo verso i fatti certi nel modo e nei tempi in cui essi sono stati visti e sentiti dai testimoni escussi, si può senz’altro affermare che resta integrato il sostrato materiale del delitto in contestazione. I maltrattamenti inferti allo S. e dei quali v’è prova sicura nel processo, infatti, sono caratterizzati da una pluralità di azioni le quali, considerate nel loro insieme, compongono il reato; la caratteristica è che ciascuna delle singole azioni rappresenta un elemento della serie, al realizzarsi della quale sorge la condotta tipica. Trattasi, come è ben noto, di una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (atti di umiliazione generica) ovvero non perseguibili (ingiurie o minacce lievi perseguibili solo a querela), ma che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; ed il delitto si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte collegate ad un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art. 81 cpv. cp, come nel caso in cui la serie reiterativa sia interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di episodi e l’altra (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 28/2/95).

Il reato consiste, quindi, nella sottoposizione della vittima ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo (Cass. Pen., Sez. VI, 4/12/03 – 19/2/04 n.7192); ed ancora, nel reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cp, l’oggetto giuridico è costituito non solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa della incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di singoli fatti che ledono o mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante, e insostenibile (Cass. Pen., Sez. VI, 27/5/03 – 26/9/03 n.37019).

Il bene giuridico protetto dal reato dell’art. 572 cp è dunque la personalità del singolo in relazione al legame che lo unisce al soggetto attivo. E rientra nello schema legale tipico non soltanto il rapporto familiare in cui si sviluppa la personalità dell’individuo, ma anche (come già citato nella parte iniziale della presente sentenza, cui si fa rinvio) il rapporto lavorativo connotato da sottoposizione all’autorità di taluno od affidamento per l’esercizio di un’arte o di una professione. Anche questo è infatti un ambito in cui si sviluppa la personalità dell’uomo adulto, in cui i diritti ed i doveri del lavoratore trovano giusto equilibrio nel riconoscimento della legalità di pari diritti e doveri del datore di lavoro, ovvero nel riconoscimento di un potere di autorità che indirizzi e gratifichi la propria prestazione lavorativa.

L’applicazione della disciplina penalistica del reato di maltrattamenti in famiglia anche nell’ambito lavorativo è stata poi già discussa nella parte introduttiva della presente sentenza. Si richiama, per tutte, la sentenza Corte Cass., Sez. Pen. V, n. 33624 del 9/7/2007, circa l’inquadramento nella fattispecie dell’art.572 c.p. -maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità- della condotta di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, fenomeno in cui è ravvisabile il parametro di frequenza e durata nel tempo delle azioni ostili al fine di valutarne il complessivo carattere persecutorio e discriminatorio.

 

Nel caso di specie, lo S., già vincitore di concorso pubblico per muratore, bandito con delibera del Consiglio Comunale n.165/81 ed asunto in ruolo giusta delibera n.216/83, era legato all’amministrazione comunale da un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stipulato il 29/12/1999, con decorrenza dal 31/3/99 del suo inserimento come dipendente dal profilo professionale “Muratore” (art.1) assegnato all’Ufficio Tecnico (art.2), contratto stipulato tra il lavoratore ed il Comune di Sicignano rappresentato dal Segretario Comunale, responsabile del Servizio personale, che agiva “per conto e nell’interesse del Comune” (il contratto trovasi nel fascicolo personale del dipendente, in produzione documentale del PM); ed il Responsabile di Servizio aveva il potere di adibirlo “ad ogni mansione della categoria nella quale è inserito il dipendente” (art.3), nell’ambito dell’orario di lavoro di 36 ore settimanali (art.4) durante le quali il dipendente, nell’espletamento del servizio, era tenuto “al rigoroso rispetto di tutte le disposizioni di legge e contrattuali, delle norme statutarie e regolamentari vigenti nel Comune” la violazione dei cui doveri avrebbe dato luogo all’applicazione, previo apposito procedimento, delle sanzioni disciplinari previste dalle vigenti normative in materia” (art.5); e per tutto quanto non previsto nel contratto si faceva espresso rinvio alle norme ed alle condizioni C.nute nel D.Lgs. 29/93, nel codice civile, nel contratto nazionale di lavoro per i dipendenti del comparto Regione-Autonomie Locali. E lo S. era già stato adibito anche a funzioni di idraulico comunale, giusta delibera di Giunta Comunale del 9/12/98 (in fascicolo personale del dipendente), essendo stato collocato in quiescenza il precedente idraulico comunale (Polito) ed essendo stato lo S. “incaricato sia pure verbalmente di prestare collaborazione all’idraulico comunale durante l’esecuzione di particolari riparazioni idriche e posa in opera di condotte nonché di allacciamenti idrici, acquisendo, pertanto, una notevole capacità attitudinale in tal senso da poter, ora, anche da solo, rendere utili prestazioni laddove si renda necessario ed urgente intervenire”; in quella delibera si leggeva pure che era “doveroso riconoscere al predetto dipendente tali acquisite capacità lavorative” e lo si incaricava, pertanto, “compatibilmente con le funzioni che riveste nell’ambito dell’organico, anche prestazioni di idraulico comunale”,

Se, quindi, il rapporto di lavoro inizialmente (nel 1983) era stato instaurato tra gli organi politico-rappresentativi del Comune, con la riforma della normativa di inquadramento dei dipendenti pubblici degli enti locali il medesimo rapporto era stato formalizzato (nel 1999) in ambito amministrativo.

Sicché il rapporto che legava S. D. con il Sindaco e gli assessori odierni imputati (C. e T.) non era un rapporto professionale o di lavoro subordinato tipico, ma un rapporto organico di autorità, nel senso che sindaco ed assessori, rappresentando l’ente, la sua volontà e le scelte politiche con obiettivi prefissati, impersonavano l’amministrazione comunale da cui formalmente dipendeva il lavoratore; ed il connotato di “autorità amministrativa locale” li collocava in posizione gerarchica sovraordinata rispetto al pubblico dipendente, non foss’altro per il potere di indirizzo, sovrintendenza e rappresentanza loro riconosciuto ex lege nell’ambito gestionale dell’ente territoriale locale. I fatti si sono verificati, dunque, nell’ambito di quel rapporto di autorità, dove l’abuso (ossia il non corretto uso dei poteri ad esso insiti e connessi) e la deviazione da quei poteri legalmente dati ha trasmodato in veri e propri maltrattamenti del lavoratore dipendente comunale, nel senso che ogni episodio, che qui di seguito si riporterà in esame critico, ha costituito una sopraffazione ed un sopruso, una vessazione ed una mortificazione, una privazione ed una umiliazione, con deleteri effetti lesivi della incolumità fisio-psichica del lavoratore, così instaurandosi un intollerabile regime di vita lavorativo e personale.

 

Solo un inciso di carattere normativo: i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa e sono regolati contrattualmente (art. 2 DLgs n.165/2001), ed il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive (art. 52 cit. DLgs). È rilevante, poi, distinguere, nell’ambito delle pubbliche amministrazioni di enti territoriali locali, dove gli organi di vertice sono espressione di rappresentanza politica, i ruoli e le funzioni degli organi di governo da quelli dei dirigenti amministrativi: i primi esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti, mentre ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, la gestione finanziaria, l’organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, e sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati (art. 4 DLgs 165/2001). Orbene, in questo contesto, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro, e gli organismi di controllo interno verificano periodicamente la rispondenza delle determinazioni organizzative ai princìpi cardine dell’azione amministrativa (di funzionalità rispetto ai compiti dell’attività ed agli obiettivi di efficienza-efficacia-economicità, di ampia flessibilità nelle determinazioni operative e gestionali, di collegamento fra uffici, di garanzia di imparzialità e trasparenza, di armonizzazione degli orari di servizio e di apertura al pubblico con le esigenze dell’utenza e con gli orari delle amministrazioni pubbliche dei Paesi dell’Unione Europea; cfr. artt. 2 e 5 cit. DLgs).

Ciò posto, è chiaro che il rapporto di lavoro si instaura con l’ente ma la gestione organizzativa e di controllo è dei dirigenti; nel caso concreto, se è vero che il lavoro del dipendente comunale era organizzato dal suo dirigente-responsabile di servizio, nondimeno il suo rapporto lo legava all’ente tramite il rappresentante del suo organo di governo.

E qui subentra il rapporto organico quale base soggettiva e funzionale delle relazioni giuridiche e patrimoniali riconoscibili all’esterno dell’ente. Ai sensi dell’art. 50 del DLgs 267/2000 il  Sindaco è l’organo responsabile dell’amministrazione del comune, rappresenta l’ente, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti, e nomina i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuendo incarichi dirigenziali e di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri dello statuto e del regolamento comunale. Nello stesso testo di legge si legge anche la definizione di amministratore locale, e per tali si intendono i sindaci, i consiglieri ed i componenti delle giunte (art. 77), il cui comportamento deve essere improntato all’imparzialità ed al principio di buona amministrazione, nel pieno rispetto della distinzione tra le funzioni, competenze e responsabilità degli amministratori e quelle proprie dei dirigenti delle rispettive amministrazioni (art. 78). Infine, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo le norme dettate da statuti e regolamenti, e quelli si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo (art. 107).

E ritornando al caso specifico, il rapporto tra Sindaco e dipendente comunale non può dirsi strictu sensu un rapporto di lavoro dipendente, ma una relazione di carattere istituzionale dove il rapporto di lavoro subordinato è instaurato con l’ente, di cui è rappresentante il sindaco, ma è organizzato e controllato dai dirigenti di servizio e disciplinato per contratto e per normativa collettiva nazionale. In ciò trova fondamento la recriminata “incursione” degli amministratori nelle disposizioni sullo svolgimento delle prestazioni di lavoro, ma anche il riconoscimento legale dell’autorità di chi ha poteri di indirizzo, sovrintendenza e segnalazione, secondo quanto innanzi menzionato e tratto dalla disciplina vigente.

Da un punto di vista penalistico, allora, resta integrata la identificazione dell’autore di maltrattamenti anche nella posizione del sindaco che, investito di autorità, dotato di quei poteri e prerogative, ne abusi con comportamenti offensivi e costrittivi verso i dipendenti comunali, ma anche laddove si interponga al dirigente di servizio nei richiami di tipo disciplinare (anche su quest’ultimo punto, si rammentano alcune disposizioni del Dlgs 165/2001, dove all’art. 54 si legge che l’organo di vertice di ciascuna pubblica amministrazione verifica l’applicabilità del codice di comportamento, ed all’art. 55 si afferma che ciascuna amministrazione secondo il proprio ordinamento individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, e tale ufficio, su segnalazione del capo della struttura in cui il dipendente lavora, C.sta l’addebito al dipendente medesimo, istruisce il procedimento disciplinare e applica la sanzione, ma quando le sanzioni da applicare siano il rimprovero verbale e la censura, il capo della struttura in cui il dipendente lavora provvede direttamente). Il primo elemento descrittivo soggettivo della fattispecie penale contestata resta, pertanto, integrato.

 

Devesi poi osservare che gli episodi accaduti (e tra di essi se ne annoverano anche alcuni risalenti a data anteriore al maggio 2001 cui pure si riferisce il tempus delicti della formale imputazione lì dove si legge che “reiteratamente nel corso degli anni ed in particolare del maggio-giugno 2001 al 23 marzo 2002”) sono espressivi di privazioni, umiliazioni, sono atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, e si risolvono in vere e proprie sofferenze morali.

Il primo, in ordine cronologico, è l’episodio della puntura della vespa: le prime due azioni, la ricerca di S. a casa in un giorno di ferie e la pretesa della sua presenza anche dopo che la moglie gli rappresenta che non sta bene, appartengono direttamente al Sindaco, ed in esse spicca l’irrinunciabilità dell’ossequio anche a costo di mettere a repentaglio la propria salute, così come del pari è già evidente una modalità di richiamo che va ben oltre le regole del formale rapporto lavorativo con il dipendente comunale: è infatti il Sindaco in prima persona che chiama all’ordine l’idraulico, non si affida al responsabile di servizio per il suo rientro in un giorno di legittima assenza dal lavoro, e non si affida alla Polizia Municipale per ricercare il dipendente assente in casa, ma cura egli stesso, in prima persona, il rintraccio telefonico conversando con la madre prima, e la moglie poi. L’estensione in ambito familiare di un richiamo lavorativo aumenta la possibilità di rintraccio e la valenza ineluttabile del rientro in servizio, ed accresce anche il sentimento di mortificazione per la divulgazione dello stesso. Siamo nella primavera del 1999.

Ma poche settimane dopo, ecco un analogo richiamo, in una pubblica piazza, durante la Festa dell’Amicizia a Zuppino: è la sera del 17/8/1999 e gli assessori T. e C. cercano del personale del settore idraulica per un urgente intervento riparatore di una tubatura rotta; e si rivolgono a S. nonostante che egli non abbia obbligo di reperibilità e non abbia avuto un ordine di servizio del suo responsabile di settore e quindi possa legittimamente rifiutarsi di effettuare l’intervento, e nonostante non sia stato lui a compiere l’intervento di manutenzione su quel tubo quella mattina stessa (l’intervento era stato compiuto da C. Albino e da T.). La vessazione, in tal caso, è pretendere ciò che non era dovuto, ed in quella vicenda lo S. non soltanto non era in servizio e non aveva la reperibilità in orario serale, ma non aveva ricevuto l’ordine di servizio del suo responsabile preposto, l’ing. D’A., al quale T. e C. non pensano proprio di doversi preliminarmente rivolgere, reputando di risolvere da soli e direttamente il problema; inoltre perché mai pretendere che vi si recasse S. e non chiedere altrettanto al C. che aveva compiuto personalmente quell’intervento in mattinata ? infatti, non consta che neppure il C. si sia poi recato a fare quella riparazione urgente ma che addirittura vi si recò l’assessore T. con una torcia in mano insieme con un altro vigile R. Domenico, compiendo un’operazione non complessa (chiusura di una chiave di un pozzetto). Insomma, è sembrato davvero troppo pretendere l’intervento di S., che comunque, discrezionalmente e per spirito di collaborazione, avrebbe pur potuto -‘non dovuto’- fare. Quella sera, però, non ci fu alcuna iniziativa del Sindaco P., pur essendo presente in piazza e prontamente avvertito di quanto fosse successo, ma la vicenda rileva come antefatto di ciò che accadde il giorno seguente, non essendo comunque imputabile ad alcuno dei tre imputati la pretenziosa richiesta rivolta alle otto di sera a S. D.. Né la scomposta reazione, verbale o fisica che sia, tenuta nei riguardi del C. è ricollegabile al rapporto instaurato da P. con lo S. già durante gli ultimi anni del primo mandato elettorale, del quale significativa lettura è invece tratta nella registrazione della conversazione tenuta il giorno seguente nell’ufficio del Sindaco, di cui si è innanzi dato conto.

Il rimprovero del giorno seguente: il sindaco convoca marito a moglie, ossia dipendente comunale e cittadino, entrambi a suo avviso autori di un episodio illecito in piazza a Zuppino, eppure non c’è una denuncia di lesioni o di rissa o di percosse, non c’è un richiamo scritto a comportamenti morigerati ed irreprensibili in pubblico, non c’è un contraddittorio fra le parti antagoniste e tentativo di risoluzione bonaria della vertenza; ci sono soltanto minacce di licenziamento implicite e velate ma anche esplicite e dirette, ci sono inadeguati rimproveri educativi al figlio della convocata coppia ed impropri commenti al comportamento della P., ci sono pacifici richiami a vicende pregresse (una richiesta di intervento urgente compiuta anche la Domenica delle Palme) che già avevano lanciato il segnale della lamentata insofferenza; e lo stesso fatto di munirsi di un registratore per documentare un dialogo al fine di precostituirsi una prova (probabilmente una prova da spendere in un procedimento che il C. avrebbe potuto avviare per tutelarsi dalla patìta aggressione con graffi) dimostra come per lo S. non sia sufficiente una conversazione non ufficiale con il Sindaco per accordarsi o per appianare la vertenza ma occorra un rafforzamento probatorio inequivoco a propria tutela; dal dialogo registrato e trascritto emerge un tono tutto autoritario del sindaco ed una modalità tutta particolare di interpretare i doveri del dipendente pubblico, che dovrebbe addirittura astenersi dal compiere altre attività lavorative private e personali (ad esempio, in agricoltura) per non veder sminuite le proprie forze fisiche il giorno seguente. L’ingerenza nella vita privata, la continua minaccia di licenziamento alla presenza del coniuge, l’unilaterale presa di posizione in favore dei due amministratori, la mancanza di contestazione di addebiti su una vicenda formalizzata con una relazione di servizio ricevuta soltanto otto giorni dopo, manifestano una condotta connotata da sopruso ed umiliazione, di cui già lo S. (e la moglie) avevano manifestato l’insostenibile tollerabilità in occasione delle due precedenti esperienze pure rievocate nel dialogo registrato (la puntura della vespa e la convocazione in servizio il giorno festivo della Domenica delle Palme).

È del biennio 1999-2000 la vicenda C. la cui comparazione con la vicenda S. lascia un segno di indiscussa discriminazione in ambito lavorativo: la frase “ne abbiamo fatto fuori uno, ora dobbiamo eliminarne un altro” pronunciata dall’assessore M. in una riunione sindacale con i dipendenti, aveva seriamente inciso sull’animo di S., tant’è che dopo aver patìto anche lui i primi richiami e rimproveri si rivolse confidenzialmente verso la fine estate dell’anno 2000 alla collega C. dicendole che ora le credeva, perché anche lui non ce la faceva più. Anche in tal caso l’azione non è riferibile direttamente al Sindaco né agli altri due assessori oggi imputati, ma l’episodio è rilevante per comprendere lo stato d’animo vissuto dallo S. e trovare il punto di conferma di quelle patite vessazioni. Perché non è certo dal maggio 2001 che sorgono i problemi lavorativi e relazionali dello S. con l’amministrazione P.; d’altronde se fu posto uno striscione pubblicizzante l’adesione della famiglia S. alla lista avversaria al Sindaco uscente, vuol dire che i rapporti si erano incrinati già in epoca antecedente, e quindi prima della campagna elettorale del 2001 culminata nella vittoria del sindaco uscente alle consultazioni del 13/5/2001 (cfr. attestato sulla delega ricevuta dall’assessore T. il 21/5/2001); ne consegue anche, e qui va rettificato quanto da altre voci emerso in dibattimento, che l’episodio accaduto la sera della festa di 18° compleanno del figlio Vincenzo (29/5/2001) è successivo alle elezioni amministrative.

Questa è la vicenda che, come e più dell’episodio del richiamo in servizio la sera della festa di Zuppino, dimostra maggiormente l’intento persecutorio e le modalità vessatorie delle richieste del Sindaco. I passaggi cronologici di quelle telefonate al ristorante sono stati ben descritti in dettaglio dal teste D’A. Ferdinando; si colgono alcuni aspetti salienti, come la preventiva telefonata fatta direttamente dal Sindaco al ristorante una volta appreso dal D’A. che lo S. stava lì festeggiando il 18° compleanno del figlio, e quindi senza aspettare che a tale incombente prestasse cura il responsabile di servizio, la unilaterale scelta di disporre un ordine di servizio ad un dipendente che non aveva la reperibilità ma solo la “disponibilità” per un intervento urgente, e la omessa valutazione di opportunità sul richiamo in servizio di altro lavoratore, C. Albino, più vicino rispetto al luogo di intervento (come hanno riferito pure N. e V.), preferendo contattare lo S. il quale addirittura si trovava in altro territorio comunale (a Petina).

E che si tratti di una richiesta di prestazione non doverosa perché non rientrante nell’ambito delle prestazioni lavorative esigibili ai dipendenti comunali è argomento evincibile dalla carenza di disposizioni sulla reperibilità al di fuori degli orari di lavoro; tutti i responsabili amministrativi hanno escluso che vi fosse una disciplina delle reperibilità, ma più che altro si poteva parlare di “disponibilità” rimesse, quindi, allo spirito di collaborazione del dipendente pubblico verso le finalità e le attività dell’ente; ed è stato anche escluso che esistesse una regolamentazione del lavoro straordinario, non nel senso che esso non fosse riconosciuto (giacché giuridicamente è un istituto disciplinato dalla legislazione laburistica) quanto perché il lavoro straordinario andava prestato solo a seguito di autorizzazione scritta del responsabile di servizio competente (lo scriveva il Sindaco nella direttiva di servizio del 22/1/2002 -in produzione documentale del PM, fascicolo personale del dipendente- nella quale veniva anche disposta la restrizione a 10 minuti della flessibilità dell’orario di lavoro, la programmazione dei recuperi entro il mese successivo e la presentazione almeno due giorni prima delle richieste di recuperi o di ferie, previo accertamento dell’intervenuta autorizzazione), ed anche perchè nella contrattazione di lavoro di quell’ente si era preveduta una disciplina si potrebbe dire ‘a forfait’ delle prestazioni in più richieste per determinati obiettivi da raggiungere, nell’ambito dei cd. “piani di lavoro”. Uno di essi, lo si è ricordato nel corso dell’esame di C. Francesco e di T. Gerardo Francesco, riguardava ad esempio, lo spazzamento delle frazioni nel periodo estivo 2001 (quando lo S. svolgeva ancora le mansioni di idraulico) autorizzato con delibera di Giunta Comunale n.161 del 9/8/2001 (acquisita dai CC di Sicignano il 22/5/2008 ed allegata alla produzione documentale disposta ex art. 507 cpp all’udienza del 19/5/08) e per quelle prestazioni non era previsto un monte ore fisso ma un compenso unitario a fine periodo (per il predetto lavoro, ad esempio, era stata preventivata la spesa di 5 milioni di lire per l’utilizzo di entrambi i lavoratori). La contrattazione decentrata stipulata tra parte pubblica e parte sindacale (cfr. delibera di Giunta del 30/4/98, del 23/12/99), istituto previsto per il perseguimento di obiettivi di efficienza e qualità dei servizi, disciplinava il riparto delle somme destinate al trattamento accessorio, e va osservato che, sebbene all’art. 25 del contratto collettivo decentrato del Comune di Sicignano degli Alburni fosse stato previsto che “per l’anno 1999 per la corresponsione dei compensi relativi al lavoro straordinario potrà essere utilizzata al massimo la somma di £.14.414.542, di cui £. ……. a utilizzare per fronteggiare prestazioni rese in regime di reperibilità” non risulta, tuttavia, che l’amministrazione avesse fornito una relazione sulla situazione relativa all’utilizzo del lavoro straordinario suddiviso per servizi con l’indicazione di quali ore siano state liquidate e quali siano state recuperate (con riposo compensativo) da parte del personale dipendente, prescrizione pure prevista al settimo comma del cit. art. 25. E nelle contrattazioni decentrate per l’anno 2000, per l’anno 2001 e per l’anno 2002 si concordavano “piani di lavoro” e “compenso per lavoro straordinario”, come due voci distinte e dal trattamento economico differenziato (cfr. allegati alla produzione documentale acquisita ex art. 507 cpp); ancora, nella delibera di Giunta del 28/4/2001 veniva disposta la riduzione del 50% dello stanziamento pesto dalla contrattazione del 1999 per le prestazioni di lavoro straordinario e di far confluire l’importo corrispondente nel fondo finalizzato ai piani di lavoro, a conferma, pertanto, della distinzione delle voci e del compenso per essi previsto.

Tornando agli episodi dei richiami in servizio la sera della festa di Zuppino e la sera del festeggiamento del 18° compleanno del figlio di S. D., v’è da chiedersi allora, se lo S. in quei periodi fosse coinvolto in un piano di lavoro per riparazioni idriche urgenti alla Contrada Tempe di Zuppino (anno 1999) ovvero sulla rete idrica della frazione di Zuppino (dove occorreva chiudere la manichetta d’acqua la sera del 29/5/2001), o se fosse prevista una indennità per lavoro straordinario notturno. Ebbene, in atti, non v’è una disposizione di tal genere, né è aliunde desumibile dalle determine di liquidazione dei piani di lavoro (v’è solo una liquidazione del 6/7/2001 concernente, però il piano di lavoro per apertura e chiusura acqua al serbatoio di Galdo-Caglienti per il muratore-fontaniere S. D.; altri compensi incentivanti o remunerazioni di lavoro straordinario si riferiscono ad altri periodi -anno 1998 ed anno 2000-, mentre un’altra liquidazione di compensi per lavoro straordinario anno 1999 si riferisce a diverse mansioni non idriche, come si legge nella determina n.9 del 25/1/2000: “sono stati chiamati a svolgere prestazioni di lavoro straordinario per improcrastinabili esigenze di ufficio -redazione urgente di atti amministrativi, assistenza ad organi dell’ente-”).

In definitiva, non si ravvisa una esigibilità delle prestazioni richieste al di fuori delle ordinarie mansioni e dei piani di lavoro, non autorizzate dal responsabile di servizio, e non qualificabili, pertanto, come lavoro straordinario. E tutto ciò aveva ben interpretato lo S. nel rispondere che ci sarebbe andato solo se ci fosse stato un ordine del suo responsabile di servizio o se gli fosse riconosciuta la reperibilità (così rispose a C. in occasione della festa di Zuppino), lamentandosi che chiamavano sempre a lui -perfino quando non si trovava in sede- (ed è il caso della festa di compleanno).

È di epoca di poco successiva l’adesione dello S. alla proposta di mutamento di mansioni, da idraulico ad operatore ecologico. Non è difficile comprendere che si tratti di un declassamento di qualifica, non foss’altro perché si trattava di operaio specializzato (lo ricorda il teste R. Domenico cl.58) ed aveva insegnato il lavoro ai suoi colleghi più giovani o di prossima assunzione (lo ha ricordato con apprezzamento il teste C. Albino). Le motivazioni di quel mutamento, scelto e voluto dallo stesso S., risiedevano nella avvertita esigenza di rendersi più visibile agli occhi degli amministratori, potendo lavorare in piazza e nella speranza di sottrarsi a quei continui controlli e ricerche quando lavorava nelle frazioni; per contro, l’esigenza di poter stare più vicino alla famiglia nella gestione del bar non poteva essere concretamente perseguibile, giacché la successione temporale degli accadimenti non propende a favore di questa tesi (la assunzione delle nuove mansioni è del settembre 2001 mentre l’acquisto del bar è di epoca successiva, l’8/12/2001), e seppure fossero già da mesi in corso delle trattative, non poteva coerentemente essere quella l’unica e prevalente ragione dell’accettazione delle nuove mansioni stante la mera aspettativa, a fine estate 2001, di realizzare la desiderata -ma non ancora attuata- autonomia lavorativa per i componenti della sua famiglia. Ed anche questo mutamento (o declassamento) di mansioni illustra una patìta privazione, ed una mortificante tolleranza di quei controlli che purtuttavia continuarono anche durante le nuove mansioni (si ricordino i richiami di fronte alla banca, quelli di pulire meglio le strade, quelli sulle scale del Municipio, quelli per caricare sacchi pesanti sulle spalle, quelli di non allontanarsi dal carrettino neppure sotto la pioggia), al punto da fargli balenare l’idea di ritornare a lavorare nel settore idrico con l’ing. D’A.. Il tutto si combina con il “nomignolo”, ossia il soprannome affibbiatogli dagli amministratori di “uomo invisibile”, di cui molti testi hanno parlato e che ben si concilia con quanto, di fatto, vissuto dallo S., quale dipendente ‘ricercato’ fuori dell’orario di servizio, in ore serali o in giorni festivi, in giorni di ferie o di permesso, o durante l’ora di lavoro (se ricorda, uno per tutti, il controllo che il Sindaco richiese a R. Domenico cl.58 per verificare se S. stesse lavorando a Zuppino).

Non più rilevante, alla fine, si è dimostrato l’episodio dell’appostamento alla scuola per controllare l’ingresso dei dipendenti nell’orario prescritto: non sembra che fosse mirato su S. o comunque, seppure lo fosse stato, non aveva sortito l’effetto desiderato in quanto quel giorno lo S. non era in servizio e fu sostituito da P. (lo ricorda il teste, collocando l’episodio al mese di settembre 2001); nonché mancano conseguenze di tipo disciplinare, come accertamento di ritardi o timbrature a nome d’altri. Ed allora anche la giustificazione d’essersi recati sul posto solo per parcheggiare l’auto e proseguire poi andando per funghi nei boschi circostanti (come hanno detto V. e T.), costituisce una versione alternativa di poco interesse nell’economia della vicenda perché, comunque, quell’episodio non può essere letto come una manifestazione di intento persecutorio verso S. D..

Centrale nella ricostruzione del regime di vita nel quale versava lo S., è l’episodio dell’11/12/2001, quello del cartellino marcatempo, con tutte le implicazioni ed accadimenti successivi che ne sono derivati. Molti testi ne hanno parlato, e la descrizione di quanto accaduto appare fedelmente rimessa, perché conciliante nei tempi e nelle prospettive di visuale, a coloro che erano presenti nella stanza del Sindaco prima di avviare i lavori di una seduta di giunta comunale, ma anche a quanto riferito dal T. la cui attendibilità, come si è visto, non è sminuita per il ruolo processuale assunto nella parallela vicenda giudiziaria che lo coinvolge. Innanzitutto valgano le seguenti perplessità: sembra strano che T. e C., veduto lo S. nel bar e sapendo che il cartellino non era stato timbrato in uscita, non lo avessero richiamato all’osservanza della timbratura, e che poi, avendo verificato che effettivamente il mercato era spO. (così acquisendo conferma della telefonata anonima), non gli avessero chiesto di darne C.zza, ma si fossero limitati a ritornare al Comune, prelevare il cartellino -ora timbrato- e riferire al sindaco, il tutto dopo aver incontrato N. e T. che venivano dalla parte opposta del loro cammino. E poi, ammesso pure che N. abbia sbottato dicendo “ma che dici ubriacone”, ciò non significa che S. fosse in quel contesto ubriaco, e che invece possa aver pronunciato quella frase proprio per difendersi da un’accusa falsa (il cartellino, per ammissione di T., lo timbrò proprio T. e non N.), e che la relazione al Sindaco fosse stata redatto in modo “morbido” proprio come il sindaco la desiderava (così omettendo passaggi burrascosi di quella discussione in Giunta). Inoltre, per R. e V., il T. giunse dopo che S. andò via, per cui non ebbe modo di ascoltare ciò che il N. disse al Sindaco per giustificarsi. E su tutto v’è da dire che le modalità di quella sorta di “processo a cognizione sommaria” sono davvero illuminanti per comprendere come si svolgevano le cose in occasione dei richiami al dipendente che aveva trasgredito ad una disposizione regolamentare (rimproverare innanzi alla gente, tenere sulle spine, non procedere a rilievi disciplinari, mortificare senza chiarezza sul da farsi). Si ricorda, tuttavia, che era del 7/9/01 la disposizione di servizio del Sindaco di Sicignano rivolta a tutti i dipendenti comunali, con la quale prescriveva che l’orario di apertura al pubblico degli uffici “è e resta 8-14”, che la flessibilità dell’orario di 15 minuti, “evento da ritenersi comunque eccezionale e non abitudinario”, restasse valido a condizione che fosse di volta in volta giustificata per iscritto e con obbligo di recupero al termine della stessa giornata lavorativa in cui si verificava il ritardo, che tutti i dipendenti dovevano aver cura di timbrare “personalmente” il proprio cartellino in coincidenza puntuale dell’effettivo inizio e termine del proprio lavoro, e che C.stualmente avrebbero dovuto aver cura di apporre la propria firma sull’apposito registro riportando, accanto alla firma, l’ora ed il minuto d’inizio e termine del lavoro, risultanti dal cartellino marcatempo, con la precisazione che non sarebbero state ammesse annotazioni a penna, abrasioni o simili sui cartellini marcatempo. Ed è evincibile da questa disposizione di servizio non soltanto che si voleva instaurare un maggior rigore nell’ossequio dell’orario di lavoro, ma che probabilmente quell’ossequio fino ad allora non era stato soddisfatto, così emergendo, ex post, una situazione di lassismo e di assenteismo generalizzato contro il quale il Sindaco voleva intraprendere una decisiva lotta. Ma quelle disposizioni, è facile notare, non furono eseguite nella vicenda dell’11/12/01, probabilmente perché il metodo tuttavia non era condiviso né nelle scelte né nelle competenze: ed invero, nella riunione fra dipendenti del giorno seguente, 8/9/2001 (se ne è discusso in occasione dell’esame dei testi N. Alfonso e D’A. Ferdinando), i lavoratori C.stavano che una continua apertura dell’ufficio al pubblico rischiava di penalizzare le attività interne dell’ufficio, che una giustifica per iscritto di ogni ritardo vanificava il concetto stesso di “flessibilità”, e che quella disposizione di servizio non proveniva dai responsabili di settore per cui si denunciavano le continue “incursioni” del Sindaco in ambiti che non fossero di sua competenza. E parimenti non è difficile constatare, attraverso la mera lettura delle copie dei registri presenze dei dipendenti dal giugno 2001 al marzo 2002, che non soltanto quel registro era istituito anche prima dell’8/9/01, ma anche che non tutti i dipendenti ossequiavano quelle prescrizioni (mancano numerose firme, mancano gli orari di entrata e di uscita, con una netta inversione di tendenza a partire dal gennaio 2002, in concomitanza -e non solo per occasionale coincidenza cronologica- con la divulgazione di quanto a titolo esemplare accaduto a T. ed a S.), come del pari, annotazioni a penna risultano apposte sul cartellino marcatempo sia prima che dopo il settembre 2001.

Insomma, la rigorosa osservanza delle disposizioni in materia di timbratura del cartellino non trovava in quell’episodio occorso allo S. in data 11/12/2001 la sola e prima possibilità di verifica e di reazione sanzionatoria, ed in ciò si manifesta una disparità di trattamento con altri dipendenti; e la inascoltata giustificazione espressa al cospetto di più amministratori non aveva prevalso sulla intenzione di perseguire anche chi aveva assecondato, con palese ammissione, quella richiesta di timbratura per conto d’altri, timbratura posticcia e postuma alla quale si poteva ovviare con una annotazione di pugno del responsabile di servizio e del dipendente (il quale non aveva alcuna intenzione di “rubare” due ore di lavoro” anche perché effettivamente aveva terminato la giornata di servizio alle ore 15:30 senza poter completare le pulizie a causa della permanenza nel mercato dell’ultimo operatore ambulante), annotazione che, però, per inattuata disposizione di servizio del 7/9/01 non sarebbe stata più assolutamente consentita. Tutta la vicenda è quindi connotata da contraddizioni nella gestione della regolamentazione del lavoro dei dipendenti comunali, da controlli giusti ma sproporzionati e compiuti da chi non ne aveva la competenza amministrativa, da accuse pubbliche e sommarie assoluzioni (per il N.), dall’assenza di alcuna valenza formale della contestazione di addebiti, salvo poi a sfociare nella relazione del 28/12/2001, di 17 giorni successiva ai fatti (quella “morbida” del N. era invece del 17/12/01), prodromica all’inoltro alla Procura della Repubblica di S. come denuncia di fatti illeciti.

La vicenda era stata vista come una forte ingiustizia dallo S., ed aveva inciso profondamente sul suo equilibrio; si doleva, infatti, di aver coinvolto il T., ed era fortemente preoccupato per le conseguenze che ne potevano derivare, prima fra tutte il licenziamento (“di cui aveva “paura”). D’altronde, non risulta che, medio tempore, fosse stato convocato per discutere dell’accaduto, per conciliare o per concordare una diversa risposta sanzionatoria (auspicabilmente di tipo disciplinare, come hanno ricordato T. e M.); e la sua mortificazione era grande perché era quello il primo caso di denuncia per omessa timbratura del cartellino marcatempo, anzi di ritardata timbratura ad opera di terzi (cosa che non era infrequente, come ha ricordato il teste Di I.), e soltanto su denuncia della C. -originata da un interesse personale connesso al contenuto di una delibera a suo sfavore alla quale intendeva opporsi- fu scoperto anche il gran numero di annotazione di indebite presenze del lavoratore C. mentre questi era impegnato nelle riunioni di Giunta. A ciò si aggiunga anche la modalità di divulgazione informale della notizia presso i dipendenti comunali in virtù di quel ritardato inoltro della relazione C.-T. all’Autorità Giudiziaria, anzi della diffusione delle fotocopie di quella denuncia (come è emerso nel colloquio intercettato tra P. e T.), che incrementava il disagio e l’umiliazione al cospetto dei suoi colleghi di lavoro.

Senza dubbio eclatante è stato poi l’episodio del controllo in bagno che lo S. dovette subire non essendosi dato credito alla sua affermazione di soffrire di dissenteria. Anche qui il tutto si origina da un controllo sul posto di lavoro, con constatazione della sua assenza dal luogo in cui erano stati lasciati incustoditi gli strumenti di lavoro; era andato in bagno, quello sito al piano terra all’esterno del palazzo municipale, che, aperto o chiuso che sia, non versava in adeguate condizioni igieniche. Ma, colto dal Ten. N., si dovette recare al cospetto del Sindaco per giustificare la sua temporanea assenza; e ciò fece al cospetto di assessori e segretario comunale, riferendo di un’esigenza fisiologica non certo gradevole od ordinaria, e subendo il trattenimento nella stanza del sindaco per attendere il rinnovato stimolo, non solo, ma anche subendo la sfida di un controllo visivo nel WC. L’umiliazione è profonda e senza pari, e non merita ulteriori commenti; lo stesso P., nel dialogo registrato con il T., ammetteva l’ossatura centrale del fatto (la giustificazione dello S. sulla sua necessità di andare al bagno ogni cinque minuti, la presenza nella sua stanza per 30-45 minuti, il commento ironico sul fatto che la diarrea era passata, la proposta dello S. di andare a vedere gli esiti di uno stimolo, la risposta minimizzante per non aver creduto alla sua giustificazione). Seppure fosse vero il “mezzo sorrisetto” con cui S. aveva poi raccontato la cosa al D’A., oppure il tono “scherzoso” della conversazione con il sindaco (si rammentano i testi C. e L.), v’è da chiedersi: in primo luogo, come potesse mai avere un contenuto ‘scherzoso o giocoso’ un vero e proprio richiamo per assenza dal servizio ed abbandono degli strumenti di lavoro, contestazione fondata su un fatto di indubbia veridicità e prontamente accertato de visu; in secondo luogo, se quel tono scherzoso fosse stato assunto da tutti o non appartenesse soltanto a chi C.stava allo S. che se soffrisse effettivamente di diarrea sarebbe dovuto correre in bagno anche in quella mezz’oretta in cui era stato convocato dal Sindaco, e quindi se non fosse espressione di un tono ilare di una presa in giro rivolta a chi non era, a priori, creduto (lo stesso P. nella conversazione registrata con T. parlava di “sfottò”, e nella sua memoria difensiva ha asserito che “da me fu vissuto, nel suo insieme, soltanto come un maldestro ed ingenuo tentativo da parte dello S. di improvvisare una giustificazione di un suo prolungato abbandono del posto di lavoro, senza ombra di acredine e fors’anche con un pizzico di divertimento da parte mia, per come egli cercava di prendersi gioco di me”); ed in terzo luogo, se tutti i presenti avessero effettivamente centrato l’attenzione su quanto stesse accadendo e se lo S., per imbarazzo e orgoglio, non avesse voluto dimostrare di poter sopportare con normalità quel prendersi gioco di lui. E quest’ultimo rilievo ben si concilierebbe con l’esternazione scherzosa e divertita fatta quel giorno stesso, secondo alcuni testi, ai suoi colleghi all’interno dell’ufficio anagrafe o al bar (sebbene smentito dal teste di riferimento B.): l’unico modo per riscattare la sua dignità in un fatto che, nel volgere di poco tempo, era ormai noto ai più e diffuso nell’ambito lavorativo, avrebbe potuto essere soltanto quello di sdrammatizzare la situazione, ironizzare su se stesso, fingere che fosse stato lui a prendere in giro il Sindaco, far diventare una barzelletta ciò che invece, nel suo intimo, lo aveva profondamente lacerato; e le confidenze ai suoi stretti congiunti erano cristalline perché in quell’ambito familiare si conoscevano i trascorsi dei suoi tribolati rapporti con l’amministrazione e perché solo in quell’ambito poteva trovare sfogo la sua cupa amarezza. A nulla vale, allora, scoprire da chi partì l’iniziativa del controllo in bagno, se fu disposto con un singolarissimo ordine di servizio verbale dal Sindaco all’assessore C., o se fu proposto dallo S.: fatto sta che fu accolta la sfida provocatoria, che il P. ne era pienamente consapevole (lo riconosceva nella conversazione privata intercettata e trascritta di cui innanzidetto), e che lo S., ammesso pure che avesse finto, aveva seriamente accettato tant’è che, come riferito dal teste P., provvide anche a sporcare con lo scopino la tazza del gabinetto, creando quindi una rappresentazione veridica della situazione pronta ad esser accertata da chiunque volesse in quel momento verificare; ed allora, è assolutamente indifferente conoscere se poi il C. si sia al fine recato nel gabinetto per vedere se aveva evacuato, o meno: S. non era stato creduto nelle sue giustificazioni, aveva dovuto sopportare la mortificante dichiarazione pubblica d’ammenda, aveva dovuto probabilmente fingere per assecondare la maggioranza dei presenti (solo N. se ne andò “disgustato”), ed aveva dovuto concludere quella terribile vicenda prestandosi ad un controllo visivo in bagno, lui che, avendo subìto un intervento di colecistectomia (come ha riferito il figlio), doveva recarsi spesso al bagno.

Altro problema che si pone è quello della datazione dell’episodio; secondo la deposizione del T. l’episodio sarebbe accaduto di sabato agli inizi del mese di gennaio -quindi il 5 o il 12-, invece la P. avrebbe ricostruito gli accadimenti datando l’episodio al lunedì 7 gennaio 2002, dopo l’Epifania come dice il teste Di I., oppure come dice C. potrebbe essere accaduto di martedì, giorno di giunta in cui egli si trovava in Comune -quindi il giorno 15, ma non l’8 gennaio perché dal cartellino marcatempo -acquisito all’udienza del 16/5/08- risulta che l’8/1/02 lo S. non era in servizio dalle ore 9:50 alle 12:51, ossia proprio nella fascia oraria in cui invece gli si C.stava l’indebito allontanamento dal posto di lavoro per essersi recato in bagno, e neppure può collocarsi il giorno 22/1/02 perché parimenti non era in sevizio dalle ore 9:30 alle 13:30 e perché in quella data ci fu la riunione con i dipendenti comunali per i furti nella sede comunale; si badi tuttavia, che fra le quattro date possibili, sabato 5, lunedì 7, sabato 12, martedì 15 gennaio 2002, soltanto per il giorno 7 v’è un riscontro oggettivo attendibile ossia la prescrizione medica del dott. P. avente ad oggetto il farmaco anticolite Enterogermina, prescritto proprio per attacco di diarrea, come ha ricordato il medico; e tuttavia se ciò è molto verosimile, di contro non altrettanto veridica sarebbe allora la annotazione sul foglio presenze del Corpo Forestale dello Stato del 7/1/2002 attestante l’entrata e l’uscita in servizio -dalle ore 8:00 alle ore 14:00- del C. Vitantonio, quindi in tempi e luoghi incompatibili con la sua accertata presenza nello studio del Sindaco di Sicignano intorno alle ore 11:00 (come ha riferito l’imputato) e prima di mezzogiorno (come ha riferito il Segretario Comunale).

In conclusione, ritiene la Corte che il fatto storico sia realmente accaduto; ne parlano tutti i testi e soprattutto lo ammettono gli imputati P. e C.. Il problema è invece quello di accertare se il discorso tra Sindaco e S. fosse in tono di duro rimprovero o in tono scherzoso come qualche ultimo teste ha riferito; e si è già visto che, se anche questo fosse stato il tono del dialogo, seppure l’iniziativa di farsi seguire in bagno fosse partita dallo S., resta certo che il P. ne accolse la “sfida” predisponendo modalità e soggetti deputati a quel controllo igienico; ed è anche certo che oggettivamene il fatto fosse umiliante perché fortemente lesivo della dignità umana vuoi per l’intimità del tipo di controllo vuoi per la aprioristica incredulità di quanto giustificato, come è altamente probabile, proprio per quest’ultimo motivo, che lo S. non avesse voluto dare a vedere innanzi al Sindaco ed agli assessori il proprio naturale imbarazzo e che invece abbia voluto partecipare a quel tono ilare per sdrammatizzare la situazione critica che, suo malgrado, l’aveva coinvolto. E seppure, poi, lo S. avesse raccontato l’accaduto con tono ridanciano ai suoi colleghi di lavoro ed avesse riferito loro di aver simulato un attacco di mal di pancia giungendo addirittura a sporcare il water con lo scopino, ciò non toglie che possa aver finto una rappresentazione attutita di quanto in concreto vissuto al solo scopo di minimizzare l’accaduto e di non mostrarsi umiliato dinanzi ai suoi colleghi di lavoro; e comunque, anche l’esigenza di insudiciare i servizi igienici non può che fondarsi sulla avvertita necessità di non deludere il predisposto controllo al bagno. Per più di una motivazione, dunque, si reputa che le due tesi ricostruttive della medesima vicenda non siano fra di esse inconciliabili.

Ad ogni modo resta, di fondo, l’amara odiosità del fatto, sia per le modalità della convocazione e l’inaccettata giustificazione fornita da un dipendente comunale al cospetto delle massime autorità comunali, sia per l’ennesima sommarietà del contraddittorio con il dipendente, sia per la mancanza di iniziative volte ad incoraggiare la tutela della salute, sia per l’ineludibile sfondamento della riservata intimità di un’esigenza fisiologica, immeritevole di tale pubblicità divulgata nel volgere di poco tempo, sia per l’assenza totale di riservatezza della peculiare contestazione a causa della presenza di più persone al cospetto del sindaco e della apertura della porta del suo ufficio, sia infine per la indegna tolleranza di un controllo delle feci al bagno previa accettazione di quella sfida probabilmente lanciata dallo stesso S.. Si aggiunga, infine, che, nonostante non fosse stato creduto ed avesse accettato di sottoporsi a quel controllo, lo S. aveva però preferito proseguire nel lavoro in quella mattina e recarvisi ancora nei giorni seguenti, malgrado un certificato medico ne attestasse, fino a querela di falso, la veridicità, e ciò si sentì di dover fare lo S. probabilmente anche a cagione del timore di non essere ulteriormente creduto.

Del pari non veniva creduto neppure quando segnalava all’amministrazione comunale gli abusivi allacciamenti idrici di proprietà private su fontane pubbliche, o gli sprechi d’acqua in un comune che versava in gravi condizioni di approvvigionamento e riserva d’acqua a causa anche di una rete di tubazioni non regolare e percolante; “lo beffeggiavano” ricordava la sorella S. Pia, nel senso che perfino quei privati non si curavano di lui perché avevano le spalle coperte, ossia sapevano che i risultati d quelle lamentele presso gli amministratori sarebbero stati a loro favore.

Come non interpretare vessatorio e mortificante tutto ciò ? come non comprendere lo stato d’animo di S. D. dopo questo sconcertante episodio ? come non collegare tutti gli eventi, e soprattutto quelli recentissimi del cartellino marcatempo, con un evidente ribaltamento dell’umore e deperimento fisico ? come non vedere in chi subisce quel tipo di umiliazioni e patisce quel tipo di preoccupazioni e minacce di licenziamento una prostrazione umana che scalfisca e pregiudichi la naturale dignità personale e professionale ? come non seguire le tracce di quell’abbattimento morale che lo portò a chiedere al R. informazioni su come si fa un nodo scorsoio ed a confidare a R. Filomena di minacciare di farla finita ? e, non è da poco, come non leggere in quella totale assenza di formale contraddittorio l’annullamento delle proprie legittime istanze e la deprivazione di regolari rimedi difensivi ?

E non finisce qui. Appena quindici giorni dopo, in una riunione con i dipendenti comunali, datata pacificamente al martedì 22/1/2002, il Sindaco direttamente collegava, nel suo discorso, il furto di denaro, di batteria d’auto e di piccoli oggetti con la truffa per la timbratura falsa del cartellino marcatempo, reputando entrambi i fatti come “furto”, e chiamando indirettamente “ladri” non soltanto tutti coloro che avevano rubato quegli oggetti (presupponendo che fra di essi fosse presente proprio l’additato ladro, il “pidocchio”) ma anche coloro che avevano falsamente attestato la loro presenza in servizio con timbrature posticce o per conto d’altri (e qui v’è un colpo diretto inferto allo S., per la recentissima e notoria vicenda sfociata nella denuncia penale). La seconda parte della riunione registrata si concentra, poi, in un dialogo tra S. ed il Sindaco, ma il chiarimento fra i due non v’è stato ed anche quell’incontro aveva lasciato il segno: non c’era stata una denuncia per i segnalati furti e non c’erano state denunce per altre irregolarità nei cartellini marcatempo -che pure sarebbero stati verificati se il Sindaco le menzionava per C.stare le trasgressioni (rimaste impunite) dei dipendenti-; ed allora perché parlarne in generale accusando l’ignoto (anzi formulando accuse ad incertam personam) ? di contro, soltanto lui aveva dovuto patìre una denuncia penale e sopportare l’umiliazione del controllo intimo.

Altri singoli episodi completavano il quadro: la richiesta di trasportare pesanti sacchi di cemento con il proprio carrettino (o addirittura in spalla) laddove i mezzi di trasporto a disposizione del Comune erano usati da altri colleghi dello S., e l’ordine di procedere a lavori di interramento di piantine di fronte la sede comunale distogliendolo dal suo ordinario servizio, sono anch’essi espressivi, per le modalità con cui venivano esternate le disposizioni e per l’impellenza delle stesse, di una consueta prevaricazione e di un sistematico travalicamento dei poteri spettanti ai responsabili di settore; quella “intrusione” contestata dai dipendenti era non più tollerabile da parte di chi oramai si sentiva perseguitato e tormentato dagli amministratori, puntualmente richiamato in pubblico ed inC. di assumere a sua tutela strumenti difensivi nel legittimo contraddittorio delle parti. Forse proprio per questo motivo non venivano adottati rilievi scritti, come invece era accaduto proprio nei riguardi dello S. in pendenza delle precedenti amministrazioni; la gestione del rapporto con i dipendenti da “buon padre di famiglia”, se da un lato non lasciava traccia scritta di ciò che accadeva e misurava con l’apparente “lasciar perdere” ciò che esordiva con forti rimproveri (le “cazziate”), dall’altro lasciava indifendibili le posizioni criticate dei lavoratori e prestava il fianco a spazi di incontrollabili “voci” su quanto si verificava; una scelta, quella dell’amministrazione dell’epoca, che non forniva chiarimenti formali e che, abbinata con ordini di servizio verbali e con rigorose disposizioni restrittive scritte, lasciava disorientati i lavoratori: se bisognava firmare il registro e riportare l’orario del cartellino marcatempo non si comprende perché mai si consentiva a tanti di trasgredire quelle disposizioni; se la risposta formale poteva sfociare in procedimenti disciplinari non si comprende perché non fu istituito un nucleo di valutazione o fosse avviata la segnalazione disciplinare al responsabile del personale; se si acconsentiva ad una flessibilità dell’orario di entrata nei limiti di 15 minuti -poi ridotti a 10 minuti-, con recupero a fine giornata o nel mese successivo, non si comprende perché poi occorreva pretendere anche una giustificazione scritta; se “l’andazzo” non piaceva, non si comprende perché si era giunti a colpire, dopo cinque anni di mandato elettorale, soltanto S. e T.; se non era consentita addirittura la pausa caffè, non si comprende quale potesse essere il motivo che riducesse fatti anche più gravi all’audizione di una non creduta giustificazione orale. Ed infine, se il lavoro viene prima di tutto perché trascendere in ingiustificabili intromissioni della vita privata dei dipendenti al punto da affrontare rimproveri endofamiliari ? Insomma, ad un rigore apparente si contrapponeva un allentamento disciplinare, ad un vibrante rimprovero anche pubblico si contrapponeva una acquiescente morbidezza delle relazioni scritte. Ed a riprova della inaccettata incomprensione di quell’apparente rigorismo v’è la considerazione che, per contro, negli anni precedenti, con le pregresse amministrazioni, lo S. fu sì segnalato con richiami scritti e disciplinari (del 1987 e quelle del 21/10/96, del 28/10/96, cui fecero seguito le contestazioni d’addebito del 29/10/96 e del 21/11/96, in produzione documentale del PM, fascicolo personale del lavoratore dipendente), ma ad essi non aveva posto obiezione e, soprattutto, ad essi non aveva fatto seguito uno sconvolgimento così forte della propria personalità.

Simili comportamenti autoritari non davano chiarezza nei rapporti con i dipendenti, ed il peso di questa discrasia, con grande sacrificio per la propria dignità, aveva fatto breccia nell’animo di S. D., non più disponibile, dopo quanto accaduto nel mese di gennaio 2002, a tollerare quelle vessazioni decisamente influenti, oramai, sul proprio regime di vita e sul proprio equilibrio.

E qui si innesta anche una considerazione espressa dal consulente tecnico di parte civile che ben fa capire, anticipando quanto di qui in seguito verrà approfondito, a quali conseguenze portava quel tipo di condotte: “la depressione di D. è stato il prodotto finale di una condizione di vita stressante in cui i comportamenti ostili, dequalificanti e vessatori si sono integrati con la totale assenza di quei processi di controllo e di sana organizzazione del lavoro che avrebbero potuto svolgere un ruolo positivo e protettivo nei confronti della sua salute psichica e fisica.

 

LE CONSULENZE TECNICHE PSICOLOGICHE.

 

Come può aver vissuto quei momenti lo S. è indagine che si è cercato di condurre attraverso lo specchio delle confidenze e delle manifestazioni visive ed auditive dei testimoni. Come e cosa può aver spinto lo S. ad affrontare l’insano gesto suicida è indagine affidata ai consulenti tecnici psicologi specialisti. La Corte si è imbattuta in temi, del tutto nuovi, di “autopsia psicologica” e di “suicidiologia”, di cause di depressione e di manifestazioni di disturbi comportamentali della personalità. Efficaci sono state le relazioni del dott. T. Alfonso (CT della parte civile) e del prof. R. Pietrantonio (CT della difesa degli imputati).

Il prof. T. Alfonso, nella sua relazione di consulenza, ha ritenuto che, dalla lettura degli atti processuali, non risultava che lo S. avesse patito una condizione premorbosa: la sua personalità era caratterizzata da una ricca vita di relazione, completa sotto il profilo affettivo, sociale e lavorativo, e non risultavano patologie pregresse o difficoltà nei rapporti interpersonali, anzi la presenza di tali condizioni avrebbe invece condizionato se non proprio impedito lo svilupparsi di quella rete di relazioni affettive sociali e lavorative che lo S. aveva costruito intorno a sé. Risultava però che egli avesse vissuto degli eventi stressanti (come appunto le vessazioni sul lavoro) che gli avevano cagionato quel cambiamento notato dai suoi colleghi e parenti, sia sotto il profilo fisico che del tono dell’umore, e lo avevano condotto ad uno stato di grave depressione; vessazioni, come attacchi personali e dequalificanti con argomentazioni immotivate, intimidazioni in pubblico e ripetute azioni di controllo, offese personali ed aggressioni verbali, intimazioni minacciose fino al controllo al bagno, la sistematica perdita di credibilità, la scelta autonoma di un demansionamento, lo avevano portato ad una totale “disconferma”, fino alla rottura del sé, il che si traduce nella alienazione, nel senso che mentre il rifiuto equivale al messaggio del “Tu hai torto” la disconferma in realtà dice “Tu non esisti”.  Riteneva sussistente il rapporto causale tra le vessazioni subìte e la grave depressione vissuta, e tale grave condizione morbosa instauratasi lo aveva danneggiato fisicamente e psicologicamente, con menomazione della capacità lavorativa e dell’autostima, annullamento di ogni condizione di comunicazione diretta e perdita di interesse per ogni attività, fino alla maturazione dell’idea suicidiaria che, paradossalmente, rappresenta la liberazione dalla sofferenza per sé e per i propri familiari. Aggiungeva che nel determinismo di tale comportamento drammatico di chi non vede altra via d’uscita al proprio fallimento ed al rischio di trasportare in questo fallimento le persone amate, non trovano rilievo di merito, nel caso di specie, condizioni cliniche concomitanti (patologie fisiche o presunta cirrosi), condizioni di attrito familiare (divergenze ereditarie o coniugali), né la lucidità del suo “testamento-denuncia” si poteva conciliare con una condizione di abuso di alcool o di altre sostanze. In dibattimento, poi, ha asserito che quella patologia depressiva, manifestata con dimagrimento, insonnia, sensi di colpa, turbamenti dell’umore, isolamento, perdita di autostima, porta il 30% dei pazienti ad avere una ideazione suicidiaria, il 12% dei quali tenta il suicidio, e vi riescono il 6-7% dei casi; il complesso di quegli eventi stressanti è stato poi qualificato nell’ambito del “mobbing”, come sequela di piccole, medie e grandi situazioni dalle quali una persona non riesce a venir fuori, quale condizione di sottosvalutazione nella quale non si intravede una via d’uscita, ed ecco il ragionamento del suicida: l’unica via d’uscita per non rovinare la mia famiglia, per non rovinare le persone che amo, è quella di togliermi di mezzo”. In quegli scritti lasciati ai posteri, v’era una tale lucidità da escludere che lo S. stesse facendo la cosa più drammatica della sua esistenza sotto l’effetto di sostanze alcoliche, ovvero che stesse mentendo nella redazione dei motivi di quel gesto; di certo si leggeva una grande tensione emotiva concentrata su degli argomenti specifici.

Quanto alle intimidazioni in pubblico, quel sistema viene ampliato, la tensione si amplia, e se la vittima è più sensibile quel tipo di stress lo vive in maniera ancora più complessa. Un’ulteriore disconferma è poi quella di dover essere costretto a fare certe cose, e l’esempio di riferimento è quello del controllo in bagno, e si tratta di situazioni frustranti perché il depresso e non supera la difficoltà v sempre più giù. Ognuno ha poi una sensibilità diversa verso lo stress, anche il modo di reagire può cambiare, perché magari la valutazione di quegli eventi cambia, ed ecco il motivo per cui anche eventi di piccola entità possono portare a situazioni molto stressanti, “come per esempio il fatto di scegliere un mansione diversa, di cadere un pò nella scala sociale o di isolarsi, pur di evitare quella situazione drammatica che è l’evento stressante”; e se il soggetto riesce a distaccarsi, a mettere in atto un meccanismo di compenso, vive di meno la tensione, altrimenti “il dramma in queste condizioni è non avere una soluzione”. Su domande del P.M., previa lettura di alcuni brani delle lettere lasciate dal suicida, il consulente giudicava “ridicolo” intravedere in quelle frasi volte alla moglie ed ai figli la causa del suicidio nella scoperta di una relazione extraconiugale, o nella scoperta di un male incurabile, anzi “si suicidano molto di più i depressi che i malati di cancro”; lì, invece, v’è una visione delirante della colpa, nel senso che, attribuendosi la colpa di tutto, il suicida reputa “se o mi sottraggo a questo voi potrete poi vivere in maniera serena, perché io, elemento destabilizzante, mi tolgo di mezzo”. Insomma, indipendentemente da quali potessero essere la cause, reali, immaginarie o presunte, in quel momento il suicida se ne sta liberando. Ha inoltre precisato che nel mobbing non è che il mobber sia il cattivo ed il mobbizzato sia il buono, si tratta di un sistema nel quale entrano in conflitto due elementi sostanziali; “il mobber non è la persona che vuole determinare una situazione di sofferenza, è un persona che probabilmente non ha la capacità in quel sistema, di trovare la canalizzazione giusta per raggiungere un obiettivo”; e nel caso di specie tutti gli eventi occorsi erano idonei a rompere l’equilibrio, peraltro, in letteratura, gli eventi del mobbing “sono cose molto più sfumate”, come lo spostamento di una scrivania, l’assegnazione di un computer V., il non poter colloquiare con il dirigente ma con un suo sottordinato. La condotta di mobbing non si riduce in una sola azione, ma in una serie continua di eventi stressanti ripetuti in un ambito relazionale -un sistema, quale è l’ambito lavorativo- nel quale risulta impossibile trovare una soluzione ad un problema; i tempi di manifestazione sono indicati nell’arco di sei mesi e la disconferma consiste nel fatto che il soggetto avverte di non essere più stimato, di non essere più valutato, di non essere più parte di quel sistema. Da un punto di vista clinico, poi, gli effetti di una condizione di stress (la precipitazione in una condizione di depressione) non cambiano se la condizione patologica che ne costituisce la causa cambia; ma nel caso di specie mancano dati di fatto che aggancino quella condizione a situazioni sanitarie od affettive patologiche; né diversamente sarebbe se il soggetto avesse avuto in passato altri eventi depressivi, perché la disconferma si aggancia comunque alla nuova reazione patologica. Nel caso in esame il soggetto non sapeva più gestire l’ansia in altro modo, avvertiva di non avere più via d’uscita, ed anche quando nella lettera diceva di lasciare i suoi congiunti perché non aveva più la forza di combattere la gente “sono sempre stato un duro ora invece un fragile”, era significativo di un soggetto che aveva subìto la frattura del sé, c’era stato un evento che aveva determinato la “frattura tra un prima e un dopo”. Quanto al vizio del bere, premesso che il bere è stata addirittura “la prima terapia antidepressiva della storia”, che può dare un presunto sollievo, non era quello però la causa di una depressione; né la reazione di rifiuto avuta dallo S. contro l’ordine di andare a chiudere l’acqua era nondimeno incompatibile con la situazione di un soggetto mobbizzato, giacché in quella vicenda vi era una situazione supportata da un contesto sociale e familiare in cui si sentiva forte. Né, ancora, è a dirsi che una persona affetta da depressione potesse simulare la sua patologia trasferendo in un altro ambiente, diverso da quello nel quale si sono avverati gli eventi stressogeni, la manifestazione di frattura della sua personalità, in quanto la depressione “è un discorso unitario” non di scissione, e la depressione grave “è un evento che permea un po’ tutta l’esperienza di vita”.

 

Nella relazione del CTP prof. R., veniva invece confutata la diagnosi di stato depressivo presente nello S. o la descrizione di sintomi riconducibili a tale disturbo; a suo avviso, la conclusione di diagnosi di grave depressione cui era pervenuto il prof. T. sembrava essere un’illazione; secondo la definizione manualistica del “disturbo depressivo maggiore”, la sua caratteristica essenziale è la depressione dell’umore o perdita di interesse o di piacere per quasi tutte le attività, cui si abbinano almeno altri quattro sintomi, tra alterazioni dell’appetito o del peso, del sonno e dell’attività psicomotoria, ridotta energia, sentimenti di svalutazione e di colpa, difficoltà a pensare, concentrarsi o prendere decisioni, oppure ricorrenti pensieri di morte o ideazione suicidiaria, pianificazione o tentativi di suicidio, ed i sintomi devono persistere per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, per almeno due settimane consecutive. L’episodio, poi, deve essere accompagnato da disagio o menomazione sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento, clinicamente significativi. Tuttavia, il medico curante dott. P., che lo aveva visitato appena due giorni prima del suicidio, non aveva notato particolari stati d’animo del suo paziente, ed alcuni suoi colleghi di lavoro non avevano notato mutamenti del suo stato d’animo, ossia un ragazzo allegro, gioviale, scherzoso, ma comunque un persona introversa e riservata, e la stessa moglie aveva riferito che l’aveva visto negli ultimi giorni più nervoso del solito e diverso nei suoi atteggiamenti, non depresso. Dalla lettera manoscritta diretta agli amministratori emergeva, poi, più rabbia che depressione, e comunque da nessuna documentazione sanitaria emergeva alcun disturbo psicopatologico, ma solo disturbi fisici. Quanto al mobbing, il consulente riportava una comune accezione definitoria in letteratura, come un insieme di comportamenti violenti, abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni e maldicenze perpetrati da parte di superiori o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale, nonché della salute psicofisica dello stesso; con la precisazione che i singoli atteggiamenti molesti possono non raggiungere necessariamente la soglia del reato né debbono essere d per sé illegittimi, ma nell’insieme producono danneggiamenti purioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, sulla sua salute, sulla sua esistenza. Orbene, per quanto riguarda le presunte azioni vessatorie, negli atti delle indagini di cui il consulente aveva preso visione “si fa riferimento solo alla denuncia per truffa subita dallo S., che giustificherebbe anche il manoscritto lasciato prima del suicidio, senza alcun riferimento a precedenti vessazioni, umiliazioni che solo la moglie ha raccontato al proprio consulente ed al Publico Ministero”.

Entrambe le proposizioni non sono convincenti né condivisibili. In realtà, dall’istruttoria dibattimentale è invece emerso che negli ultimi tempi lo S. aveva avuto una alterazione del peso e dell’umore, avvertiva sensi di colpa per la vicenda occorsa al T., si sentiva svalutato sul piano professionale perché preso di mira dagli amministratori, ed aveva anche avuto pensieri di morte (“la faccio finita”, nodo scorsoio); quindi, sebbene la patologia non fosse stata diagnosticata in vita, almeno cinque sintomi del disturbo depressivo maggiore si erano manifestati. E poi, la individuazione della fonte di quella depressione non poteva che collegarsi alle descritte vessazioni sul piano lavorativo, vuoi perché direttamente e tempestivamente ad esse faceva riferimento lo S. nelle sue confidenze alle persone a lui più vicine, vuoi perché oggettivamente quelle condotte tenute nei suoi confronti, come analizzate nel capitolo che precede, producevano sofferenze ed umiliazione, né è corretto ridurre le azioni vessatorie alla sola denuncia per truffa, fonte tutt’al più di una rinnovata conferma di quell’intento persecutorio che lo S. reputava di patìre.

Il Consulente R. rilevava poi che la letteratura psichiatrica è concorde nel riportare che nel depresso che ha pianificato un suicidio si rileva costantemente, nei momenti immediatamente precedenti a tale atto, una condizione di calma e di sollievo che contrasta con l’episodio riferito dalla moglie di una notte agitata trascorsa dal marito prima del 23 marzo 2002; e se è vero che la percentuale di suicido è alta nei depressi, non è vero che tutte le persone che si suicidano sono depresse. Vi erano elementi, invece, per prospettare una dinamica psicopatologica differente “sostenuta dallo sconfinamento in lucido delirio sulla base di un possibile disturbo di personalità dissimulato dal comportamento affabile e sorridente riferito dalle persone ascoltate. Si propone di non escludere l’ipotesi diagnostica alternativa per uno sviluppo delirante in un soggetto con disturbo di personalità del Cluster B non di depressione maggiore”. E questi elementi venivano individuati nel sogno a contenuto ipocondriaco, le idee a sfondo persecutorio, l’assenza di tracce di segni indicativi di alterazione psichica ad orientamento depressivo, le minuziose e lucide disposizioni e l’atteggiamento di rivalsa nei confronti degli imputati. Ma anche su questo punto lo spostamento dell’asse di attenzione clinica al solo ultimo giorno di vita (quello del sogno e delle lettere) e la mancata valorizzazione delle vicende lavorative pregresse, finisce con il focalizzare soltanto l’effetto di ciò che era il portato di una più lunga elaborazione mentale fondata su esperienze ed elementi storici molto numerosi, come si è potuto vedere. Anche le ultime osservazioni rese in relazione di consulenza si prestano a critiche: il consulente non reputava sostenibile che il presunto comportamento vessatorio degli amministratori comunali imputati potesse “aver causato una depressione maggiore in un soggetto sano nell’arco temporale di poco meno di un anno”, eppure si è visto che la durata minima di una condizione di mobbing in grado di produrre effetti significativi sullo stato di salute è non meno di sei mesi (come riportato anche nella produzione scientifica allegata alla relazione di consulenza), e nel caso di specie la ricostruzione degli eventi fa risalire le condotte di vessazione almeno all’estate 1999. Infine il consulente asseriva che “dall’esame degli atti si rileva incompletezza delle indagini medico-legali in particolare la mancata esecuzione dell’esame autoptico che avrebbe potuto chiarire la natura delle patologie somatiche dalle quali invece il soggetto risultava essere affetto”; ebbene, l’affermazione è antitetica rispetto a quanto inizialmente premesso, ossia la mancanza di elementi documentali probatori su diagnosi pregresse salvo la certificazione medica del dott. P. sulle condizioni di salute degli ultimi giorni, quindi non si comprende quali fossero le patologie somatiche e da quali fonti “risultava essere affetto”.

In udienza, poi, il consulente prof. R. ha esaminato innanzitutto il fenomeno “suicidio” con il quale il suicida crede di poter risolvere tutti suoi problemi salvo quello di impedire la realizzazione del suicidio stesso, ed ha segnalato che non tutte le persone che si suicidano sono depresse, anzi una percentuale del 14-16% di persone che si suicidano hanno storie di dipendenza alcolica o di tossicodipendenza. La formulazione della diagnosi sulla persona dello S. era quella di una persona affetta da disturbo di personalità di Cluster (Gruppo) B, in cui si racchiudono quattro categorie, il narcisistico, l’antisociale, l’istrionico ed il borderline; concentrando la sua valutazione sulla parte finale della sua esistenza, emergevano tratti caratteristici del borderline, con alcuni aspetti di tipo narcisistico ed istrionico, e si riferiva alla estrema accuratezza e puntigliosità con cui aveva lasciato le disposizioni su come doveva essere composta la sua salma, ed alla lucidità con cui si esprimeva verso i suoi presunti vessatori; quindi da un lato si preoccupava di tutto prescrivendo dettagli sul lutto e sul futuro dei familiari, dall’altro trascinava con sé colui contro il qual non riusciva più a combattere; di contro, quel comportamento non concordava con la depressione maggiore grave o unipolare diagnosticata dal prof. T. tipica di chi nel tempo immediatamente precedente al suicidio non dà a vedere di essere assolutamente agitato; anzi il depresso (che nel 40-60% dei casi matura la scelta suicidiaria) è di solito lucido, è una persona che razionalmente è convinta di aver capito tutto della vita e che non vale la pena di viverla. Il tratto ipocondriaco (l’eccessiva preoccupazione per la salute con agitazione notturna) è invece frequente nelle persone con disturbo della personalità; ed un altro tratto comune è quel carattere gioviale e disponibile ma anche chiuso ed introverso, che dimostra una tendenziale fragilità della personalità. Segnalava poi che nei depressi vi sono anche alterazioni del metabolismo e di mediatori chimici del cervello, v’è un carattere di familiarità e necessita di un tempo non breve per la sua evoluzione; probabilmente lo S. era affetto da una condizione premorbosa non diagnosticata, e potrebbe esservi stata anche una componente legata ad abitudini alcoliche; ed aggiungeva che la dipendenza dal bere è poi classificata come una malattia psichiatrica difficilissima da curare. In particolare, l’abitudine a bere in orari fissi mattutini è un sintomo fortemente indicativo della dipendenza alcolica; certo non tutti coloro che bevono sono in quella fase di dipendenza però “è un segnale di forte rischio”. Ed allora, l’episodio del sogno della notte prima del suicidio con la paura di avere la cirrosi, se fosse estrinsecazione di una preoccupazione eccessiva sarebbe manifestativa di un tratto ipocondriaco, se invece ne fosse consapevole allora sarebbe un tratto distintivo dell’alcolismo conclamato perché la cirrosi è anche una conseguenza dell’abuso di alcol. Ancora, citata la circolare INAIL del 2003 sul mobbing quale malattia professionale, il Consulente R. ha riferito che in molti casi la reazione del mobbizzato è contraria, nel senso che sviluppa una reazione di tipo vendicativo verso il mobber, salvo che provenga da una condizione premorbosa che egli stesso potrebbe non conoscere con conseguente alterazione della percezione soggettiva di quei comportamenti da parte degli altri. Escludeva poi che il mobbing potesse essere causa unica ed esclusiva della depressione, ci dovrebbe essere una personalità premorbosa, e che esistesse una correlazione tra mobbing e depressione, “adottando i criteri della causalità diretta ed esclusiva, sicuramente no”; un evento stressante poteva essere la denuncia penale, specie per chi non ha avuto mai rapporti con la Giustizia penale, ma non si può dire che da questo discenda un cambiamento della personalità, ma dell’umore verosimilmente sì, eppure tenendo conto di quanto aveva detto un teste sul fatto che sulle prime era preoccupato poi si tranquillizzò (N. Alfonso) e di quanto da tutti citato come un carattere allegro, gioioso, compagnone, allora quella denuncia penale non era tale da avere una potenzialità stressogena da indurre al suicidio. Su domande della parte civile, la migliore fonte per l’acquisizione di notizie su chi non può più parlare di sé (perché deceduto) non sarebbero i suoi stretti congiunti ma il suo medico curante, e nel caso di specie erano a disposizione pochi elementi concreti per poter dare una risposta in termini di certezza. Inoltre, dinanzi ad una personalità così “prorompente”, non era condivisibile che potesse essere insorta improvvisamente una depressione così grave in un tempo così breve e portare poi quella persona al suicidio; ipotesi alternativa è allora che il soggetto fosse affetto da un disturbo della personalità cluster B, come ipotesi alternativa scientificamente valida esprimibile in termini di probabilità e non di certezza; il soggetto evidentemente aveva una fragilità che riusciva a mascherare e si era creata una conflittualità che però non riusciva a reggere, ma non era un depresso grave, al quale non interessa più nulla, né la famiglia, né i figli, né i rapporti di lavoro; e nei suoi messaggi lo S. “si arrende alla sua fragilità ma nel contempo si vendica”; insomma era possibile che avesse dissimulato una condizione di disagio pregressa rispetto alle ultime manifestazioni, nel senso che è probabile che convivesse con quelle situazioni di disagio (o di disturbo di personalità) senza che lo percepisse con piena coscienza.

Un’ultima risposta, poi, sembrerebbe aver superato anche l’obiezione di una assoluta inconciliabilità delle due patologie: “il soggetto che soffre del disturbo della personalità può avere un viraggio del tono dell’umore verso la depressione, però di norma questo è temporaneo” ma si tratta di una alterazione non di una depressione; ed ancora, definiva il mobbing come una serie continuativa e quotidiana di vessazioni, come prescrizioni lavorative illogiche, non previste da contratto, ed irrazionali.

           

Le argomentazioni del consulente prof. R., rese in udienza, non appaiono tuttavia convincenti: va subito evidenziato, che il medico curante dello S. non aveva mai diagnosticato patologie di tipo psichico o malattie fisiche gravi a suo carico, quindi non soltanto non v’è documentazione od accertamento su condizioni patologiche premorbose, ma soprattutto non appare che possa esservi spazio per ipotesi alternative, di carattere generico ed ipotetico, che si allontanino da quanto documentalmente accertato -o non accertato, o meglio, emergente in termini negativi- da un punto di vista sanitario quando era in vita colui di cui si è andata a compiere una autopsia psicologica postuma. E poi, se fosse vero che allo S, non interessava più niente della famiglia e del lavoro, allora perché nelle missive si rivolgeva in modo affettuoso a moglie e figli e dimostrava di volersi “vendicare” verso gli amministratori trascinandoli nelle colpe del suo malessere; cioè, quali le ragioni e l’oggetto di quella vendetta se non proprio quello che aveva patito?.

Ed aveva sofferto proprio quei caratteri menzionati nel corso dell’esame del consulente, ossia l’emarginazione lavorativa, contemplata nella scala di stress, le costrizioni a prescrizioni irrazionali e non contrattualizzate.

È pur vero che “il principale responsabile del suicidio è il suicida” ma è pur sempre, quello, un punto di arrivo, una scelta, derivante da una cR. psicoemotiva molto forte, le cui radici si innestano non soltanto negli ultimi scritti o negli ultimi mesi, ma nelle plurime vicende descritte in atti. Perché non ritenere che quanto aveva vissuto lo S., una emarginazione lavorativa, fosse davvero una fonte di stress ? e quindi fosse stata idonea a cagionare quelle lesioni nel meccanismo biochimico (come riferito dal CT T.) che potevano condurre alla grave depressione ?

Su tutto, poi, non si dimentichi che il mobbing non è una malattia ma può esserne la causa; e per il CT T. è stata la causa della depressione, e la produzione scientifica allegata alla relazione del CT R. concludeva asserendo proprio che il mobbing può effettivamente causare malattie psichiche o psicosomatiche di differente gravità.

 

Il problema ultimo da discutere è se le esperienze vissute dallo S. nel suo ambito lavorativo possano effettivamente essere inquadrate nell’ambito tipizzato del “mobbing”.

L’accezione nozionistica su ci si è fatto leva è quella medico-legale, utilizzata per il riconoscimento del mobbing nel novero delle malattie professionali; trattasi di persecuzioni, ossia azioni riprovevoli e comportamenti ostili intrapresi nei confronti del singolo lavoratore in modo offensivo, tali da determinarne l’allontanamento dalla collettività che opera nei luoghi di lavoro.

Lo S. ha patìto tutto ciò, anche se lo scopo, o il movente, delle azioni del “mobber” non erano volte al suo allontanamento o alla sua emarginazione, né al suo sfruttamento costringendolo a soportae rtmi di lavoro intensissimi o al mancato pagamento di retribuzioni pattuite, ma al suo maltrattamento tout court, come assenza di credibilità, disparità di trattamento, richiami denigranti e pubblici, continue minacce di licenziamento, controllo costante e penetrante anche fuori dell’orario di lavoro, sconfinamento della riservatezza ed intimità anche familiare; non v’era intento di escluderlo dal novero dei dipendenti comunali, o di non farlo partecipare a riunioni sindacali, o di precludergli possibilità di alternative professionali; v’era, e forse è più grave ancora, una mirata ed intollerabile persecuzione fatta, come detto, di eccessivo rigorismo verbale e di esclusione di strumenti di difesa, di abitudine alla sua localizzazione e di offese alla dignità dell’uomo ancor prima che del lavoratore.

E tutto ciò, se può discostarsi dalla tematica del mobbing, come tipizzata in ambito medico-legale e assistenziale-infortunistico, ma non ancora adeguatamente delineata in ambito penalistico, apre il varco, invece, verso la valutazione dell’elemento intenzionale del delitto di maltrattamenti; bisogna cioè comprendere se sia rilevante che il soggetto agente dei maltrattamenti sul lavoro si sia prefisso uno scopo specifico dell’allontanamento del dipendente dal “sistema” organizzativo lavorativo ovvero se sia sufficiente il mantenimento costante di una condotta ostile, con la consapevolezza di creare un insostenibile regime di vita.

Su questo tema ci si intratterrà a breve, in seguito, anche per verificare se, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del delitto in contestazione, sia rilevante o meno la conoscenza da parte dell’agente della condizione di disagio in cui versa la vittima. Certo è che, contrariamente a quanto prescritto dall’art. 2087 cod. civ., quel datore di lavoro non abbia adottato misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, integrità gradualmente ed irrimediabilmente lesa, con quelle modalità e con quei tragici effetti di cui finora si è parlato.

 

 

LE DICHIARAZIONI DEGLI IMPUTATI E LE TESI DIFENSIVE  ALTERNATIVE.

 

Un ultimo approfondimento sul materiale raccolto si richiede in questa fase, quanto meno per sottoporre a ‘prova di resistenza’ la tesi ricostruttiva accusatoria sull’esistenza del delitto di maltrattamenti, come fin qui esaminata e positivamente verificata.

Nella memoria difensiva prodotta dall’imputato P. Domenico, come trasfusa in atti del dibattimento attraverso il suo esame del 16/5/08, si evidenziano alcuni caratteri predominanti: l’inflessione politica delle argomentazioni interpretative dei fatti, la tendenza a giustificare le sue condotte come espressive del principio di gestione del “buon padre di famiglia”, e la posizione antagonista del Comandante N. quale causa e fonte delle ritenute falsità pronunciate nei suoi riguardi.

In questa ottica, veniva inquadrato il suo rapporto con i dipendenti comunali e con coloro che lo accusavano, ma anche le scelte della sua azione di indirizzo politico-amministrativo, diventando “sempre più scomodo per le stelle fisse della politica sicignanese”. E non lesinava approfondimenti su alcuni episodi relativi ai rapporti con i suoi antagonisti, N. Alfonso (“il più velenoso di tutti”), S. Raffaele (che “più di tutti si è impegnato a farmi campagna elettorale contro, insomma è uno che di voti me ne ha tolti, e non pochi”), T. Gerardo Francesco (“uomo di fiducia” del N., “fidato e devoto”), e R. Luigi, C. Erminia e Di I. Pasquale (che “in quanto a velenosità seguivano a ruota il tenente N.”).

Eppure, va osservato, il N. aveva espresso un’opinione sul lassismo dei dipendenti comunali che era, di fondo, condivisa dal P., il T. aveva pacificamente ammesso la sua responsabilità innanzi al Sindaco in occasione della timbratura del cartellino e con lui si era anche intrattenuto a parlare nel dialogo intercettato sulla microcassetta, il S. Raffaele aveva confermato di aver risposto con una parolaccia al sindaco che lo aveva richiamato mentre parlava al telefono -per motivi d’ufficio- dinanzi alla sede municipale, il R. Luigi -per avendo ricordato l’abbattimento del muro del suo ufficio e la privazione di una indennità fino a quel momento riconosciutagli- non si sentiva vittima del sindaco, ed i coniugi C./Di I. avevano rappresentato una situazione davvero singolare e grave che aveva portato a liti giudiziarie e denuncie penali, il tutto in palese contrasto con il Sindaco (ma anche di questa situazione conflittuale si è tenuto conto per l’analisi di attendibilità svolta nel corso dell’esame critico delle testimonianze raccolte).

Quanto ai suoi rapporti con lo S., escludendo che un uomo normale potesse togliersi la vita solo per aver ricevuto una denuncia a suo carico o perché ha ricevuto un rimprovero, l’imputato ne ricordava i connotati di cordialità e di amicizia familiare con i suoi genitori, e quindi ne rimarcava la notoria dedizione all’alcol, e le note disciplinati ed i addebito elevategli con le precedenti amministrazioni; in quest’ottica alcune volte si era rivolto alla madre per coinvolgerla nella mitigazione delle asperità caratteriali e comportamentali del figlio, ne ricordava i “reciproci sfottò”, e le affettuose parole rivolte alla sua famiglia ed ai suoi figli; insomma se avesse voluto vendicarsi per la sua avversità politica avrebbe potuto adottare provvedimenti scritti a suo carico, ed invece aveva improntato a buon senso e non a rigore e severità il rapporto con lui e con gli altri dipendenti; ma quello di S. era un carattere tutt’altro che remissivo, la moglie era “istigatrice e guerrigliera”, D. aveva avuto un atteggiamento da “vis polemica” nella riunione con i dipendenti, e numerosissime erano state le inosservanze agli ordini impartiti dal maggio 2001 su timbrature e firme di entrata e di uscita. Insomma se egli fosse stato marcato a vista non mancavano elementi per formulare le contestazioni nei modi e nei termini stabiliti dalla legge. Ma si osserva, e si richiama, quanto già innanzi considerato circa le inflessioni che quei comportamenti (eccessivo ed irrazionale rigorismo verbale non seguito da conseguenze chiare da un punto di vista organizzativo o disciplinare) potessero aver avuto, e non solo negli ultimi tempi, sullo S., e come, invece, quei controlli ci furono e furono pesantemente avvertiti come persecutori dallo stesso S..

L’imputato forniva poi alcuni dati concernenti le scelte operate in tema di organizzazione del lavoro degli uffici comunali, affermando in primo luogo che la ‘reperibilità’ veniva conglobata nei progetti e piani di lavoro da attuare in orario aggiuntivo oltre l’ordinario orario di servizio, ed in secondo luogo che la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili comportò una scelta vantaggiosa per l’ente perché fondata su contributi regionali. Entrambi gli argomenti si prestano però a letture alternative: se ad un piano di lavoro per talune prestazioni avessero partecipato (come risulta da alcune delibere acquisite) due o più lavoratori ben poteva esigersi la prestazione a colui che non versasse in impedimenti di sorta, quindi, come più correttamente aveva illustrato il teste D’A., dovrebbe parlarsi di ‘disponibilità’ non di ‘reperibilità’; e poi, quanto ai lavoratori socialmente utili, la loro assunzione a tempo indeterminato avrebbe appesantito, negli anni, il carico fiscale dell’ente.

Quanto ai singoli episodi: della puntura d’ape non ne aveva memoria (eppure ne parlò con la coppia all’indomani della festa di Zuppino), dell’intervento idrico nella sera del 18° compleanno del figlio asseriva che l’episodio fu “riesumato e stravolto dagli interessato soltanto dopo la sepoltura dello S.” (laddove invece molti testi ne hanno parlato, e non solo gli stretti congiunti, riferendo sia dell’arrivo delle telefonate al ristorante, sia del brusco cambiamento di umore, sia di come fu richiesta con insistenza la sua presenza ancor prima della telefonata del responsabile di servizio), del controllo in bagno forniva una lettura dei fati di cui si è già ampiamente parlato innanzi (vale la pena di rimarcare che le stesse argomentazioni ed i ricordi del P. confermano la veridicità storica dell’episodio e delle disposizioni sul controllo intimo), anche del cambio di mansioni si rinvia a quanto già argomentato circa la incompatibilità logica e cronologica della motivazione addotta a discarico, della timbratura del cartellino non vi sono divergenze significative con quanto altrove raccolto (salvo il commento di aver chiesto al tenente N. di essere indulgente per consentirgli di chiudere la vicenda, tipologia di approccio che assolutamente non è convergente né con la proclamata astiosità del N., né con la reazione che ebbe lo stesso N. sul fatto che si trattasse di una “maniata di fetenti” nei cui confronti prendere provvedimenti seri, né con il suo atteggiamento di dover “a malincuore” inoltrare la denuncia di cui circolavano le fotocopie laddove egli stesso intendeva con rigore mettere ordine nell’orario di lavoro -come si evince agevolmente dalle disposizioni di servizio del mese di settembre 2001 e dalle proclamazioni espresse nella riunione con i dipendenti del gennaio 2002-).

Nella sua memoria difensiva, infine, segnalava l’inettitudine professionale del N., l’acredine e la rabbia mossa anche nei confronti di C. e T. quando dopo le elezioni del 2001 fu da questi sollecitato per sostituirlo al Comando dei Vigili Urbani, ed il ricatto della conversazione privata con il quale lo teneva in pugno. Ed infine, sul tema della personalità dello S., ne evidenziava che molti testi hanno affermato la sua dedizione a bere alcolici e non solo nelle riunioni conviviali ma anche di mattino ed al lavoro, e dalla registrazione della riunione sindacale del 22/1/2002 risultava uno stato d’animo non abbattuto o depresso, ma reattivo e provocatorio.

Va comunque osservato che quella registrazione partiva proprio di iniziativa dello S. che, pertanto, forte del mezzo di documentazione audiofonica, si sentiva più sicuro nel controbattere alle esternazioni del Sindaco il quale, come visto, non risparmiava duri colpi generalizzati sul comportamento furtivo dei dipendenti pubblici e sulle truffe perpetrate; di contro, le altre occasioni di rimprovero del sindaco non erano passibili di registrazione non foss’altro perché non prevedibili; non manca poi di rilevare che se il P. si è doluto di un “andazzo”, anche da lui constatato, relativo all’ingresso in ufficio in orari successivi rispetto alla timbratura del cartellino, e dello spreco di energie lavorative in orari non di lavoro per poi venire in ufficio per una giornata lavorativa “soft”, non si comprende per quale motivo soltanto nei confronti dello S. (e di T.) si era intrapresa una seria e dura reazione sanzionatoria esentando gli altri dipendenti da richiami formali sulla inosservanza dell’orario di lavoro. Insomma, ancora una volta, anche nella memoria scritta dell’imputato spuntano contraddizioni ed incoerenze logiche, che non consentono di discostarsi dal solco tracciato in dibattimento rappresentativo della prova delle mortificazioni, vessazioni e costrittività organizzative patite da S. D..

Si aggiunga, inoltre, che nelle spontanee dichiarazioni dell’11/1/08, l’imputato P. qualificava come “dispetti del tenente” le azioni di N. sulla pitturazione della scuola, sulla rimozione del paletto a delimitazione di un’area di sosta dinanzi alla scuola, sulla cagnetta in calore (i ragazzi erano ex alunni di sua moglie), sulla cassetta di registrazione della conversazione privata con una donna portatagli all’attenzione sul finire degli anni 90 e che aveva fatto ascoltare agli amici; non aveva potuto denunciarlo per diffamazione od altro, e si era dovuto opporre alla sua sostituzione, sol perché, in realtà, era lui il ricattato; il suicidio di S. era stata, poi, la ghiotta occasione per N. per continuare a sparare a zero contro di lui e per vendicarsi di T. e C. che volevano sostituirlo.

Sul punto bisogna però osservare che, sebbene lo spessore dimostrativo delle dichiarazioni rese dal N. in udienza non sia stato elevato (si rinvia a quanto commentato in occasione dell’analisi della sua testimonianza), nondimeno l’ossatura delle vicende da lui rappresentate è sostanzialmente coerente con quanto ricostruito tramite le deposizioni degli altri testi, anzi proprio le titubanze ed incertezze mostrate in udienza contrasterebbero con un ruolo di chi “ha in pugno” il sindaco e potrebbe incalzare nei suoi riguardi in una vicenda penale; per cui è pur vero che fra i due non vi fosse un rapporto improntato a chiarezza e stima, sia da un punto di vista istituzionale che personale, ma è altrettanto vero che non si può focalizzare l’attenzione sulla astiosità dei rapporti per negare credibilità al teste e veridicità agli episodi da lui narrati, in considerazione soprattutto delle plurime conferme estrinseche raccolte, per altra via (testimoniale, documentale, trascrittiva), sulla ricostruzione delle vicende che in questa sede interessano.

In merito alle dichiarazioni rese in interrogatorio dal T. Felice all’udienza del 19/5/08, premesso di non doversi addentrare sull’episodio dell’appostamento dietro la scuola (che il T. negava ritenendo di essersi trovato solo una volta lì a quell’ora del mattino per andare nei boschi per funghi) perché, come visto in corso di esame delle deposizioni testimoniali, si è appurato che in quel giorno lo S. non era in servizio (e comunque non vi è traccia di alcuna conseguenza sugli esiti di quel controllo laddove sembra invece acquisito il dato testimoniale che alcuni dipendenti fossero soliti a chiedere ad altri di timbrare per conto proprio), resta a suo carico la partecipazione diretta all’episodio del cartellino marcatempo.

L’imputato, già assessore al personale nel corso dell’unico quinquennio dell’amministrazione comunale cui ha partecipato (dal maggio 2001, come risulta dall’attestato rilasciato dal segretario comunale il 27/11/07), ha negato di avere mai controllato i cartellini dei dipendenti: soltanto due mesi addietro si era accorto delle anomalie su timbri e firme dei dipendenti, e se avesse voluto farlo prima, parimenti sarebbero emerse quelle irregolarità a decorrere dal giugno 2001 sulla posizione dello S., come in dettaglio faceva notare in udienza. Anche il T. asseriva che gran parte dei dipendenti comunali si era schierato contro il Sindaco, e che il N. non svolgeva diligentemente il suo lavoro (faceva sempre il contrario di quanto gli dicesse il sindaco), peraltro il N. “teneva in pugno” il P. per via di quella registrazione “compromettente”. Sapeva poi che allo S. fu consigliato di non bere e non fumare ma poi, da ultimo, riprese a farlo parecchio.

Sull’episodio del cartellino, comunque, ricordava che S. ammise di essere stato al lavoro fino alle ore 15-15:30 e che andando a verificare le condizioni in cui versava la piazza del mercato, effettivamente vide lo S. nel suo bar intento a servire la clientela e lì di fronte vide anche N. e T.; sapeva poi che, a detta del Sindaco, circolava una copia della denuncia fra i dipendenti comunali e non sapeva perché non fu inoltrata tempestivamente alla Procura della Repubblica.

Non sapeva del nomignolo, anzi ne ebbe notizia dopo il suicidio, e sapeva che lo S. cambiò mansioni per stare vicino alla moglie al bar, come gli disse il N.. Affermava, infine, di aver proposto al Sindaco il nominativo di un ex maresciallo dei Carabinieri quale nuovo comandante dei vigili urbani in sostituzione del N. d cui il sindaco non era C.nto, e non conosceva il motivo per il quale quella sostituzione non fu fatta, ma solo adesso ne aveva compreso il motivo.

In merito alle dichiarazioni rese in interrogatorio dal C. Vitoantonio all’udienza del 19/5/08, si richiamano innanzitutto le considerazioni svolte in sede di analisi della vicenda del controllo in bagno circa la datazione dell’episodio; in realtà, va constatato che in nessun giorno di martedì del mese di gennaio e febbraio 2002 lo S. è stato in servizio nell’ora in cui l’imputato ha collocato il suo rintraccio e la sua presentazione al Sindaco (11:00/11:45) perché essendo giorno di mercato, o aveva timbrato l’uscita in orario antecedente o aveva marcato il rientro in orario successivo, quindi stando alle dichiarazioni del C. che ha affermato dovesse essere capitato di martedì, si evince che lo S. non era in servizio in quella fascia oraria e che quindi non poteva esigersene la presenza al lavoro, ma se invece fosse un altro giorno, allora l’imputato potrebbe essersi confuso e non aver rivelato che invece in un altro giorno della settimana si era recato a Sicignano, come probabilmente poteva esser stato il 7/1/2002 (giorno in cui è datato il certificato medico con prescrizione di Enterogermina), ed allora dovrebbe essere rivista la correttezza della firma di uscita sul proprio foglio presenze di quel giorno. Ciò posto, va però rimarcato che non è indiscusso (perché affermato dallo stesso C.) che questi sia stato presente il giorno in cui lo S. dovette giustificare al Sindaco il suo allontanamento dal carrettino per essersi recato al bagno; ma sul punto, asseriva che i bagni comunali erano generalmente chiusi e che nella stanza del sindaco sentì quest’ultimo dire “se è vero, ora che ti è passata mezz’ora non ti è venuto lo stimolo ?” e la risposta di S. fu “se mi viene e ora vado, vieni a controllare”; egli, che non partecipava alla discussione in quanto stava vedendo la posta arrivata in ufficio, sentì pure che il sindaco lo aveva ‘delegato’ al controllo in bagno, ma lui non dette proprio peso, né seguì lo S., scendendosene giù dove c’era ad aspettarlo C. Antonio.

Quanto all’episodio del cartellino marcatempo, di cui sindaco e S. pure parlarono durante l’incontro nello studio del sindaco in occasione del controllo al bagno, ricordava che dopo Natale del 2001 il sindaco disse che purtroppo dovevano mandare avanti la denuncia perché al Comune ne circolavano delle copie e su consulto di un avvocato, sarebbe stato meglio procedere per non rischiare una denuncia per omissione.

 

Orbene, è giunto il momento di soffermarsi su quali siano state, allora, le letture alternative dei fatti, come offerte in contributo dalla difesa degli imputati. In primo luogo, la personalità di S. D. è stata delineata in maniera non limpida: si è parlato di una sua abitudine al bere, di un carattere irascibile, di uno scarso attaccamento ai suoi doveri sul lavoro (su tutto si veda quanto dichiarato di volta in volta da ciascun testimone).

Sul primo punto -l’abitudine al bere-, al di là della evidente divergenza tra le deposizioni di chi ha ritenuto che D. non bevesse affatto e chi ha invece sostenuto di sapere che bevesse parecchio, e superando la tentazione di contare il numero di testi che, a maggioranza, abbia riferito l’una o l’altra circostanza, non è da escludere che le due posizioni non siano inconciliabili, e tutto dipende, come al solito, dai tempi e dai modi di vedere le cose; probabilmente, in una cultura contadina o di piccoli centri meridionali, non è straordinario l’approccio al bere “qualche bicchierino” nelle ore mattutine, oppure il ricercare occasioni conviviali per bere qualche bicchiere di troppo, ma da qui a dire che lo S. fosse ubriaco o che soffrisse di una dipendenza da alcol, il divario è davvero grande. In realtà non risulta che fosse affetto da intossicazione, o che gli fosse stata diagnosticata alcuna patologia derivante dall’abuso di alcolici, e prima fra tutte “la cirrosi”.

Ben potrebbe essere vero, invece, un altro aspetto, e cioè che lo S. abbia alternato periodi in cui si deliziava al bere (quando usciva in compagnia con gli amici di ballo, e comunque prima dell’intervento di colecisti) e periodi in cui si fosse astenuto dal bere su prescrizione medica (si ricordano i consigli del suo medico di base), come del pari è possibile che proprio in conseguenza di uno stato di prostrazione derivante dalle continue vessazioni e offese abbia ricercato nell’alcol uno spazio di sfogo o una via di fuga (come ricordava il CTP prof. T., l’alcol può essere una medicina per i depressi), per isolarsi dai colleghi di lavoro e dalla famiglia (donde, i ricorrenti mal di pancia e la sua presenza nel garage accasciato per terra); e comunque quella abitudine, nell’ultimo periodo, costituirebbe una conseguenza e non una causa della condizione di stress in cui viveva.

Sul secondo punto, il carattere irascibile, anch’esso non ha una peculiare rilevanza nella ricostruzione dei fatti, anzi, la sua tendenza a non trattenersi la risposta ne evidenziava un carattere estroverso e per nulla riservato, pronto al dialogo ma anche alla replica, davvero contrastante con i comportamenti schivi ed isolanti descritti dai testi nell’ultimo periodo di vita; certo, un cambiamento dell’umore v’era stato, e proprio quella connotazione forte e vivace (ma anche briosa ed allegra) del suo carattere metteva in evidenza e con crudezza il mutamento patìto, segnale consistente della descritta patologia psicologica in corso.

Il terzo aspetto, lo scarso attaccamento ai doveri lavorativi, sembrerebbe già documentato nelle contestazioni di addebito ricevute sotto le precedenti amministrazioni, ed è ben probabile che quelle assenze temporanee dal posto di lavoro ne fossero ancora il retaggio di uno stile comportamentale appartenente, comunque, a tanti altri lavoratori (il Sindaco stesso deprecava quell’ “andazzo”); ma la scelta di recarsi a lavorare in piazza come netturbino per rendersi più visibile e non subire più i lamentati controlli ne avrebbe mutato l’orientamento, ed allora quegli ultimi constatati allontanamenti non potevano che essere motivati, temporanei, veritieri nelle giustificazioni fornite, non foss’altro perché proprio in quella condizione egli stesso si era voluto calare; da altre fonti, invece, lo S. veniva descritto come un gran lavoratore, e non è difficile crederlo se è vero che da muratore aveva accettato di svolgere le mansioni di idraulico, ed aveva insegnato il lavoro ai dipendenti LSU, e poi, dopo aver acquisito specializzazione nel predetto ultimo settore, aveva anche accettato una nuova e ben diversa mansione così rimettendo in gioco la sua professionalità e dimostrano, anche in questo settore di lavoro, di saper compiere con dedizione quelle nuove mansioni (lo dimostrerebbero le valutazioni a punteggio allegate al fascicolo personale e, perché no, la sua abilità a costruire le scope).

L’esistenza di precedenti note disciplinari contro lo S. ha fondatamente introdotto il tema della personalità poco dedita al lavoro, ma ciò non toglie che la regolarità di quei richiami non aveva cagionato dissapori con le precedenti amministrazioni, di contro a quanto sia accaduto con la nuova, nella quale non emergevano richiami formali ma rimproveri ed illazioni ed insulti; sulla rilevanza di questi metodi si è già discusso in precedenza, e si segnala la menomazione nel rispetto della dignità del lavoratore oltrechè delle forme di contestazione degli addebiti.

Su questo solco si inserisce anche il tentennamento nello sporgere la denuncia  per la vicenda della timbratura del cartellino, che è espressiva del voler tener legato ad un filo una persona “colta in flagranza” ma priva di una difesa e di un appello nonostante la pronta confessione, e della preferenza di rimedi repressivi autonomi ed autoritari piuttosto che quelli formali (riconoscibili all’esterno e forieri di sanzioni certe).

Ordunque, ed ammesso pure che lo S. bevesse qualche bicchierino nelle ore di lavoro, non fosse caratterialmente mite e sottomesso, e dimostrasse di non ossequiare a menadito le prescrizioni lavorative, ci si chiede come tutto ciò possa aver diversamente influito sul percorso psicologico instauratosi a suo danno, e come possa avere inciso sulla creazione di una situazione di disagio lavorativo lamentata in più parti dell’istruzione dibattimentale.  Di certo le modalità di esternazione di quei rimproveri e vessazioni non saranno stati meno rilevanti se lo S. fosse stato davvero uno “scansafatiche”, di certo non sarebbe stato così lucido nello scrivere le ultime sue volontà se fosse stato un alcoldipendente ed ubriacone, di certo non avrebbe reagito “togliendosi di mezzo” se fosse stato davvero forte e C. di fronteggiare un’ulteriore dura prova nel campo lavorativo, ora che aveva avviato un secondo lavoro produttivo di reddito.

Altre considerazioni sono state svolte sul regime di vita patrimoniale e familiare, mettendo in evidenza una preoccupazione per le disponibilità finanziarie, per le condizioni patrimoniali familiari ed un sospetto sulla linearità dei rapporti coniugali. In realtà, lo S. era riuscito ad aprire il bar con un finanziamento (ricordava S. Raffaele) ed aveva conseguito positivamente la pratica relativa alla cessione del quinto dello stipendio, segno questo dell’affidamento sulle sue capacità reddituali; peraltro, aveva anche programmato di pagare il bar con i ricavi stessi dell’attività, senza intaccare la rendita da lavoro, e ad ogni modo è emerso in atti anche che lo S. si dilettava nella coltivazione di un campo di fragoline, da cui pure ricavava una piccola rendita.

E le discrasie endofamiliari sulla distribuzione del patrimonio ancora intestato ai genitori, e sulla divisione in quote non era un argomento che destava preoccupazione allo S., non soltanto perché di fatto egli abitava nella casa di famiglia a Galdo senza che su di essa manifestassero interesse la sorella (coniugata dimorante nel centro del capoluogo comunale) o il fratello (militare nell’Arma dei Carabinieri che abitava fuori dalla Campania) quanto anche perché di quell’argomento non si era mai discusso con i fratelli né era giunto il momento di parlarne (la madre è tuttora in vita ed ha dichiarato di avere poi distribuito equamente tutto il suo patrimonio); la raccomandazione di “cercate di lasciar loro la casa” scritta nel manoscritto rinvenuto il giorno del suicidio non necessariamente poteva far presupporre che vi fossero contrasti fra D. ed i suoi genitori, ma piuttosto che si raccomandasse, in vista di prossime divisioni ereditarie, di destinare un tetto di proprietà ai suoi congiunti e non già di ripartire in denaro la quota a sé spettante.

Infine, i sospetti sulla fedeltà coniugale sono infondati: alla moglie P. Angela lo S. il mese prima di morire aveva relegato un collier d’oro con dedica, a lei aveva si rivolgeva negli scritti con “amore mio”, nessun sentimenti di gelosia o manifestazione di accusa si rinviene in quelle lettere; e soprattutto il “chiacchieR.o” su un interesse di R. Cesare o di M. C. verso la donna sono rimasti nell’alveo di una “ciancia di paese”, assolutamente esclusa dai testi, anzi ne veniva spiegata pure l’eventuale origine (il R. era spesso presente in casa, il C. aveva accompagnato spesso la donna a Napoli per delle visite mediche al padre); la relazione di convivenza intrapresa con M. Lucio dopo la morte di D. non è stata nascosta a nessuno, ne hanno serenamente parlato la P. ed il figlio, e comunque trattasi di una relazione sorta un anno dopo il suicidio; per contro, le maldicenze di popolo (ma anche di L. e di G.) sono state ampiamente smentite da testi di riferimento opportunamente sentiti sui punti specifici; e comunque, anche le deposizioni sulle compagnie ed i rapporti di amicizia hanno tutte riferito di un legame consolidato con la moglie, anche quando si giungeva a lite per motivi futili o non chiari.

Ad ogni modo, il regime di vita patrimoniale, familiare e coniugale dello S. non lasciava presagire nulla di quanto poi sarebbe accaduto, né risultano fattori di preoccupazione (o “stressogeni”), di comprovata fondatezza, in quegli ambiti familiari e coniugali.

Altra opinione sembrerebbe additare di marcata inattendibilità tutti i testi portatori di un movente politico tale da spingerli a rendere dichiarazioni accusatorie a carico degli imputati. A parte l’ovvia considerazione che analogamente potrebbe sostenersi a carico di altrettanti testi che hanno riferito i fatti citando particolari connotati da opposta valenza significativa, va rilevato, come osservato per ciascun teste nella parte relativa alla valutazione di attendibilità di ognuno di essi, che la ricerca di fonti estrinseche di conferma ha consentito di “epurarne” le spinte individuali di interesse soggiacendo la verifica di attendibilità ai criteri di linearità logica ed alla concordanza con altri elementi di prova di diversa fonte e natura cognitiva. Così è stato per gli antagonisti “conclamati”  dell’amministrazione vincente (N. Alfonso, S. Raffaele, T. Gerardo Francesco), ma anche per i loro sostenitori (D'A. Tullio, T. Pietro, C. Luigi e M. Giovanni) laddove si è cercato di ancorare i tratti salienti delle loro deposizioni ai documenti -relazioni, conversazioni registrate- o a quanto emerso da altri testi -per confrontarne la credibilità oggettiva estrinseca-.

 

In definitiva, le alternative prospettiche fornite dalla difesa non sono soddisfacenti ai fini dell’aggancio con gli elementi descrittivi della fattispecie, ne costituiscono delle deviazioni a volte poco pertinenti a volte illustrative di aspetti non rilevanti della vicenda in esame, esulando dal tema centrale dei maltrattamenti (nel senso illustrato nei paragrafi che precedono) e non riuscendo ad imporsi come validi elementi causali di un iter psicopatologico conducente verso l’evento morte (nel senso illustrato dai consulenti); sotto quest’ultimo profilo, va solo fatto cenno, rinviando poi al paragrafo dedicato alla sola circostanza aggravante contestata, che le eventuali preoccupazioni fondate su tutti quegli altri elementi qui citati, non soltanto non trovano conferma in atti (manca una diagnosi di mali incurabili, manca una accertata problematica finanziaria, manca la consapevole esistenza di un tradimento coniugale, manca la dimostrazione di una intossicazione cronica da alcol che abbia scemato le capacità intellettive al punto da giungere ad una condizione di delirio e desiderare la morte) ma soprattutto non sono idonei a scalfire la solida piattaforma probatoria fin qui approfondita.

E, come si è potuto constatare, il lungo viaggio probatorio partito dall’evidence di una parola scritta della vittima (le sue tre lettere manoscritte all’alba della tragica mossa mortale) ritorna, dopo aver attraversato a ritroso gli ultimi anni di vita di S. D. e percorso i meandri di relazioni lavorative e familiari seguendo gli specchi di una apparente ambiguità comportamentale, sul momento culminante ed irreversibile della realizzata opzione omicidiaria, quale scelta risolutiva di un affanno opprimente che solo con quegli scritti veniva finalmente ad indubbia emersione.

 

 

L’AGGRAVANTE DEL SECONDO COMMA DELL’ART. 572 c.p.

 

S. D. aveva subìto, dunque, dei continui maltrattamenti sul lavoro, causativi di una psicopatologia depressiva grave.

Il passaggio argomentativo ulteriore che in questa sede si richiede concerne, ora, la verifica se sia sussistito quel nesso causale con l’evento morte, proprio come asserito dal CT di parte civile prof. T., e se e come questo evento possa essere addebitato all’autore del fatto illecito penalmente rilevante.

Le valutazioni critiche avviate sul tema dell’analisi delle consulenze tecniche psicologiche vanno qui richiamate. Il triplice passaggio motivazionale e tecnico svolto dal prof. T. (assenza di condizioni premorbose / eventi stressanti / depressione grave / scelta suicidiaria) oltre che essere convincente e fondato su specifici dati di fatto raccolti in atti del procedimento e giuridicamente rilevanti sotto il profilo penalistico, è rimasto inalterato dinanzi alle avverse considerazioni del consulente tecnico della difesa degli imputati, prof. R., fondate invece su dati di fatto non completi (laddove si centrava l’attenzione sull’episodio della denuncia per il cartellino marcatempo e sulla lucidità dei manoscritti rinvenuti) e su rilievi di carattere generale e possibilistico (la diagnosi di disturbo della personalità costituiva una alternativa possibile).

Ma se era insorta una patologia in conseguenza della condotta di chi aveva maltrattato il lavoratore sottoposto alla propria autorità, e se quella patologia aveva portato alla realizzazione di un proposito suicidiario, ne discendeva la valutazione del rapporto di causalità materiale tra la prima condotta e l’evento ultimo avverato, in ossequio al profilo classico della condicio sine qua non: l’evento morte, in questi casi, non è voluto dal soggetto agente ma è posto a suo carico come conseguenza della sua azione od omissione, sicché il rapporto tra il delitto voluto e l’evento non voluto è stabilito in termini di pura causalità materiale.

Se infatti l’autore, pur di realizzare l’evento voluto, avesse previsto anche l’evento mortale o lesivo e tuttavia avesse egualmente posto in essere la sua condotta, egli risponderebbe anche dell’evento mortale o lesivo perché sorretto da causalità non solo materiale ma anche psichica.

Ed in giurisprudenza di legittimità è stato affrontato il tema della intenzionalità dell’evento-morte e del subingresso della causa-suicidio nella evoluzione della fattispecie criminosa dei maltrattamenti: non è configurabile il reato aggravato dall’evento di cui all’art. 572 cp, comma secondo, quando la morte del familiare che sia stato fino a quel momento sottoposto a maltrattamenti, anziché essere conseguenza non voluta della condotta abituale di maltrattamenti, sia cagionata intenzionalmente.

In tali circostanze non è neppure configurabile il nesso teleologico tra il reato di maltrattamenti e quello di omicidio volontario rappresentando quest’ultimo un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 21/2/2003, n.16578); ed ancora, nell’ipotesi in cui dai maltrattamenti derivi una lesione grave o gravissima ovvero la morte della persona offesa, è configurabile il reato circostanziato di cui al capoverso dell’art. 572 cp soltanto se detti eventi siano conseguenza involontaria del fatto costituente tale delitto; sono invece da ravvisare autonomi reati in concorso con il precedente, quando l’agente abbia avuto anche l’intenzione di ledere l’integrità fisica della vittima (Cass. pen., Sez. I, 30/4/87).

Non è quindi, la morte, un evento voluto dall’autore dei maltrattamenti ma essa è a lui addebitabile per il nesso causale rilevante tra l’aver posto in essere condizioni di prevaricazione e quindi cagionato sofferenze fisiche e psichiche ai danni della persona maltrattata, e la scelta di quest’ultima di togliersi la vita.

Infatti, è stato anche osservato che sussiste la circostanza aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti in famiglia, prevista dall’art. 572 cpv. cp, qualora il suicidio del soggetto passivo, benché non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale che lo determinarono a darsi la morte (Cass. Pen., Sez. VI, 19/2/1990).

Ed allora, da un lato ben diverso è il caso della istigazione al suicidio previsto dall’art. 580 cp che si concretizza, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, quando l’attività dell’agente sia rivolta ad istigare od a rafforzare l’altrui proposito suicida, e del pari ancora diverso è il caso del soggetto che si sia prefigurato l’evento morte come possibile conseguenza della sua condotta accettandone il rischio; dall’altro la disciplina che qui ci occupa coinvolge esclusivamente i casi in cui l’evento morte è posto in collegamento causale involontario con la condotta tenuta, ad essa legata dal solo nesso di causalità materiale.

Gli accertamenti testimoniali e tecnici hanno consentito di collegare lo stato di prostrazione in cui versava lo S. con la seria continuativa degli episodi vessatori commessi in suo danno, e l’insorgenza di propositi suicidiari, anche manifestati, collegati causalmente e cronologicamente e, si è visto, anche statisticamente, proprio a quegli episodi.

È pur vero che il nesso intenzionale è evincibile in via diretta soltanto sulla persona del suicida (è senz’altro vero quanto afferma il CT R. che il primo vero responsabile del suicidio è il suicida stesso), ma la scelta suicidiaria, poi malauguratamente realizzata, discende da un iter motivazionale (alterato) fondato e radicato sulla patologia depressiva di cui si erano manifestati i segni.

Orbene, le argomentazioni portate all’attenzione della istruttoria dibattimentale dal collegio difensivo sulla possibile verifica alternativa di cause preesistenti o sopravvenute che potessero aver interrotto quel nesso eziologico materiale ed essersi inserite in un diverso determinismo causale, indipendente dalla condotta degli amministratori, si è visto che non sono convincenti (problemi finanziari) o non dimostrate (abitudine al bere e malattie gravi) se non addirittura poco pertinenti (carattere irascibile) od anacronistiche (infedeltà coniugale).

Insomma, mancano elementi per ritenere la preesistenza di condizioni morbose sulle quali potesse essersi innestato, ove mai esistente, quel disturbo della personalità quale fonte del delirio che avrebbe portato al suicidio; la tesi alternativa soccombe, quindi, rispetto alla prospettazione accusatoria anche per questo aspetto della riconducibilità causale dell’evento morte alla volontarietà dell’azione.

Ben potrebbero quelle condizioni, invece, ove esistenti, collocarsi al fianco di quegli oramai indiscussi atti di vessazione patiti sul luogo di lavoro, divenendo cause concorrenti con la causa principale, ma ad ogni modo inidonee, per spessore dimostrativo, ad essere di per sé sole sufficienti a determinare l’evento.

Qualora pure si fosse in presenza di cause concorrenti (grave ed incurabile patologia medica, insofferenti problematiche endofamiliari, turbe psicotiche o manie di persecuzione), il rapporto di causalità con la prima analisi svolta non verrebbe assolutamente escluso.

Di nuovo in linea con la giurisprudenza di legittimità, va osservato allora che per la sussistenza del nesso di causalità tra maltrattamenti e lesioni o morte, non è necessario che i fatti di maltrattamento costituiscano la causa unica ed esclusiva degli eventi più gravi, trovando applicazione il principio recepito nel primo comma dell’art. 41 cp, secondo cui il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione o dall’omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione, e l’evento (teoria dell’equivalenza delle condizioni o della “condicio sine qua non”).

Tra le cause preesistenti debbono ritenersi compresi anche eventuali stati patologici della vittima che, in unione al comportamento dell’agente, abbiano contribuito alla produzione dell’evento (Cass. Pen., Sez. I, 4/12/74); ma nel caso in esame non emergono e non ricorrono né sono provate cause simili.

Peraltro, l’eventuale stato di malattia, fisica o psichica della vittima, non esclude affatto il dolo del soggetto agente, ma semmai accentua la gravità del fatto, essendo l’offesa arrecata a persona psichicamente o fisicamente menomata (Cass. Pen., Sez. VI, 24/2/98): non avrebbe quindi valenza dirimente per l’interruzione del nesso causale, l’accertamento, nel caso di specie, di una pregressa malattia psichica della vittima S., essendo sufficiente riconoscere l’esistenza di una volontà dell’agente di sottoporre lo stesso ad una propria condotta abitualmente offensiva.

 

Si apre la strada verso due considerazioni: la prima, che non occorre far leva sulle condizioni di salute della vittima per escludere eventualmente il dolo del soggetto agente dei maltrattamenti (nel senso che seppure fosse esistita una pregressa causa psicopatologica e quindi fosse stato in tal modo accelerato o agevolato il pensiero suicidiario, ciò non eliminerebbe la rilevanza giuridica della condotta del soggetto agente del reato di maltrattamento); la seconda, che non è preponderante il dato psicologico o la consapevolezza delle condizioni della vittima quanto piuttosto il fatto obiettivo in sé del mal trattare (nel senso che non si verte in un reato a dolo specifico e che anzi, proprio per la genericità dell’elemento intenzionale nel delitto base del primo comma può elaborarsi il mero collegamento causale con l’aggravante del secondo comma).

La struttura del reato di maltrattamenti aggravato dalla morte della persona offesa -il maltrattato- si articola, allora, in due fasi una dolosa ed una involontaria o di causalità materiale, e per quest’ultima si renderanno applicabili le norme sul rapporto di causalità e sul concorso di cause di cui agli artt. 40 e 41 c.p., spettando al giudice di merito accertare l’eventuale sussistenza di cause sopravvenute e la loro idoneità ad escludere il rapporto di causalità qualora siano state sufficienti a determinare l’evento; nel caso di specie, si è assistito alla assenza, nel determinismo eziologico dell’evento non voluto, di fattori eccezionali non imputabili all’agente e da costui non dominabili, laddove, invece, non soltanto non risultano fondate o dimostrate altre cause alternative, è statisticamente provata una  percentuale significativa di probabilità di eventi suicidiari di persone depresse, e, soprattutto, c’è una nitida proclamazione di colpe (il j’accuse citato ad inizio sentenza) nei manoscritti del suicida.

 

 

 

IL GIUDIZIO DI RESPONSABILITA’.

 

Non a caso la tematica del dolo del reato di maltrattamenti è stata “trascinata” alla fine della valutazione dei fatti. La condotta in contestazione ha rilevanza quando l’agente ha la volontà di vessare la persona offesa, indipendentemente dai motivi per i quali lo fa, e senza guardare agli scopi secondari prefissi (sicuramente non rientra nella fattispecie né il dolo specifico né il motivo di lucro); addirittura non ha rilevanza se la vessazione si rivolga ad una vittima piuttosto che ad un’altra (lo ricorda Cass. Pen. Sez. VI, 7/12/06-7/2/07 n.4931 in cui si esclude che possa esservi una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza l’aver ritenuto che la condotta criminosa fosse stata commessa nei confronti di un familiare diverso da quello menzionato nel capo di imputazione), giacché è il rispetto della integrità fisio-psichica di una persona in un determinato ‘sistema’ di convivenza sociale (familiare o lavorativo) che viene tutelato dalla norma giuridica.

È proprio la condotta di sopraffazione sistematica e programmata nei confronti del soggetto passivo, compiuta attraverso una serie di atti lesivi della integrità fisica, della libertà o del decoro, che rende  la stessa convivenza particolarmente dolorosa (Cass. Pen., Sez. III, 9/3/98).

La premessa giurisprudenziale di legittimità incanala il discorso di verifica degli elementi descrittivi soggettivi del reato in contestazione, sia in punto di appartenenza psicologica del fatto all’autore, sia di attribuzione materiale e/o morale della condotta.

Da una massima della Suprema Corte del 4/12/2003-19/2/2004 n. 7192, in tema (certamente più diffuso) di maltrattamenti in famiglia, si legge che “il reato di cui all’art. 572 cp consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo.

E questo programma sul complesso dei fatti sta a significare che il dolo è unitario, che l’agente è consapevole di tenere una condotta oppressiva e prevaricatoria ben sapendo di insistere in una attività illecita lesiva di integrità e decoro; unitario anche perché il reato è abituale e con condotta a forma libera, quindi non basta la volontarietà di un singolo atto ma occorre la consapevolezza di instaurare e di imporre un regime di vita vessatorio, mortificante, insostenibile” (cfr. pure Cass. Pen., Sez. VI, 27/5/2003, n.37019). Ed ancora, nel delitto di maltrattamenti il dolo è generico sicché non si richiede che l’agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva (Cass. Pen. Sez. VI, 8/1/2004, n.4933).

 

Orbene, ripercorrendo quanto fin qui evidenziato ed argomentato, si può definitivamente asserire che S. D. abbia patito negli ultimi anni di vita una serie di condotte vessatorie e mortificanti da parte degli amministratori, condotte a volte direttamente ascrivibili agli odierni imputati, a volte ad altri assessori della amministrazione P..

Il tutto si consumava nell’ambito lavorativo in cui prestava servizio, da oltre quindici anni, in un contesto sociale, cioè, non connotato da coabitazione o convivenza, ma da un rapporto continuativo di lavoro subordinato, prescindente  da cause di natura familiare.

E si è anche argomentato che il rapporto intersoggettivo instaurato tra datore di lavoro e lavoratore subordinato -e nel caso di specie, tra ente comunale e dipendente pubblico-, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore subordinato -e, nel caso di specie, all’organo di gestione e di controllo dei servizi e degli uffici cui sovrintende il sindaco per la sua funzione di soggetto responsabile dell’amministrazione comunale e di rappresentanza dell’ente, secondo le norme del T.U. 267/2000-, pone il lavoratore dipendente nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale, di “persona sottoposta alla sua autorità”; il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico di quel datore di lavoro -rappresentante dell’ente pubblico da cui dipende il lavoratore- il reato di maltrattamenti in danno del dipendente.

Vi è da aggiungere che, nel caso di specie, il rapporto interpersonale che legava non soltanto formalmente il P. Domenico -in qualità di Sindaco e soggetto investito legalmente di autorità per il rapporto organico con l’ente Comune- e lo S. D. -soggetto lavoratore dipendente- era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quasi quotidiano per ragioni di lavoro nel piccolo centro di Sicignano (incrementato, negli ultimi mesi, con la prestazione di servizio proprio lungo le vie del centro del territorio comunale, con “postazione di base” nei locali del piano terra dell’edificio della sede municipale), vi erano pregresse conoscenze familiari ed un grado di conoscenza diretta e personale fra i due (al punto, come ha ricordato lo stesso imputato, di fermarsi dinanzi casa complimentandosi per i figlioli, oppure di poterlo chiamare al telefono della sua abitazione); e parimenti vi era un rapporto di autorità -ma senza dubbio meno diretto e personale- con il vicesindaco e l’assessore al personale.

Ma l’aspetto saliente della vicenda sta nel fatto che il P., con ripetuti e continui richiami in privato ed in pubblico, con minacce palesi ed implicite di licenziamento, con interventi di rimprovero anche su moglie, madre e figlio, con disposizioni di controllo e convocazioni ad horas, con prescrizioni eccedenti le sue mansioni di lavoro e travalicamento delle competenze proprie dei responsabili di servizio, con manifesta incredulità delle sue giustificazioni e privazione del formale contraddittorio sulle contestazioni oralmente elevategli, aveva confinato lo S. in uno stato di mortificazione ed umiliazione tale da non più risollevarsi negli ultimi tre mesi.

Tutti gli episodi descritti in parte narrativa, ad eccezione del rimprovero in piazza durante la festa di Zuppino (ma non anche del richiamo del giorno successivo) e dell’appostamento mattutino dietro il muretto della scuola, si riconducono direttamente alla condotta del Sindaco P.: è lui che ricercava D. in casa un giorno che non era in servizio e che ribadiva alla moglie di far giungere il marito al Comune nonostante versasse in una crisi anafilattica per la puntura di una vespa, è lui che convoca i coniugi per rimproverarli di una condotta tenuta fuori servizio ai danni dell’assessore C., è lui che rimprovera la moglie ed il figlio per i comportamenti assunti nei suoi confronti e che minaccia di licenziamento se non si ossequia al dovere di  rispettare le prescrizioni lavorative prima di tutto, è il suo aperto contrasto con la dipendente C. Erminia che fa comprendere allo S. a quale grado di serietà e gravità potesse giungere la doluta persecuzione, è lui che chiama per primo al ristorante di Petina per ricercare e richiamare lo S. al lavoro la sera del noto festeggiamento del 18° compleanno del figlio (senza che vigesse reperibilità o piano di lavoro in quella circostanza), è lui che lo richiama mentre parlava con la cognata R. Filomena in piazza, che lo adibisce a lavori di giardinaggio durante le prestazioni di netturbino e che gli ordina di caricare dei pesanti sacchi di cemento, è lui che lo convoca con urgenza nel pomeriggio dell’11/12/2001, nonostante l’avvio dei lavori di Giunta, per sentire le giustificazioni sulla mancata timbratura del cartellino marcatempo (quasi come se fosse l’unico esempio di inottemperanza della rigorose prescrizioni di servizio impartite a tutti i dipendenti) e che ascolta testimoni, autori e complici della timbratura posticcia per conto terzi, è lui che, ricevuta la relazione accomodante del N. e la successiva relazione degli assessori C. e T., dapprima temporeggia poi inoltra con apprezzabile ritardo (ma significativo dal punto di vista della percezione che ne ha avuto S.) la denuncia alla Procura della Repubblica, è lui che pochi giorni dopo convoca nuovamente d’urgenza lo S. perché allontanatosi dal luogo di servizio per essersi recato in bagno e, sentitene e commentatene ironicamente le ragioni di una confessata dissenteria, lo sfida (od accetta la sfida) ad una verifica oculare nei gabinetti del Comune, è lui che ancora pochi giorni dopo in una riunione con i dipendenti ritorna sugli stessi argomenti del rispetto rigoroso delle prescrizioni lavorative e dell’orario del cartellino, aggiungendo i sospetti sui furti nella sede comunale; ma è anche del sindaco il richiamo costante alla necessità per i dipendenti pubblici di non affaticarsi in altri lavori (ad esempio, agricoli) dopo l’orario di lavoro, di non concedersi una pausa per il caffè, di osservare indiscriminatamente le sue disposizioni ancorché irrazionali (come “la rottura di un lampadario”) ma non illecite, di rispettare incondizionatamente le gerarchie del lavoro subordinato.

Ne risulta, allora, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, anche lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa con termine di maltrattamenti; sono atti che hanno travalicato ampiamente le attribuzioni del datore di lavoro per attingere la sfera penalmente illecita. Ed in quegli atti si intravede una espressione di ostilità verso la vittima, per le pretestuose richieste, per le mortificazioni dinanzi a terze persone e, perché no, per il turpiloquio usato (si leggano i brani delle registrazioni riportate sulle cassette) e le frequenti parole di disprezzo utilizzate (“pidocchio”, “ladri”, “va a cacare”, “perdo di prestigio”).

Trattasi di una condotta, sistematica ed abituale, commessa da persona dotata di autorità che, sebbene censurabile e non accettata, non veniva tuttavia da alcunché ripresa o frenata, sì che essa stessa generava automaticamente altre nuove occasioni di vessazione, discriminazione, ed umiliazione, seminate su un terreno fertile di prostrazione frutto di ripetute sofferenze comportamentali e disagi reattivi, lesive nel loro complesso del patrimonio morale della vittima.

Le sofferenze patite dallo S. si sono anche manifestate fisicamente e caratterialmente (dimagrimento, perdita del tono dell’umore) ma ad esse non si era posto rimedio e la vittima interpretava tutto ciò come una persecuzione nei suoi riguardi, invischiandosi in un regime di vita non oltre modo sostenibile.

Stante la molteplicità delle vicende ascrivibili al P. è sufficiente evincerne la coscienza e volontà di sottoporre lo S. alla propria condotta abitualmente offensiva (nel senso ampio del termine, come offesa alla dignità della persona, come disparità di trattamento verso altri dipendenti, e come mancanza di rispetto di alcuni diritti ed ampliamento ingiustificato dei doveri del lavoratore). È qui che si ferma il dolo generico del delitto in contestazione, per il quale non si richiede alcun fine specifico, né ha rilievo alcun movente particolare (sulla sufficienza di un dolo generico, cfr. ex multis Cass. Pen., Sez. VI, n.4933 dell’8/1/2004-6/2/04).

E nel collegamento di quegli episodi forieri di mortificazioni ed umiliazioni si evince un’altra caratteristica dell’elemento psicologico del delitto di maltrattamenti, la sua unitarietà, nel senso che esso funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e si concretizza nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (cfr. pure Cass. Pen., Sez. VI, n.6541 dell’11/12/2003-17/2/04): il Sindaco cioè sapeva di poter persistere in quel tipo di condotta perché auspicabilmente (secondo il suo modo di intendere i rapporti con i dipendenti) efficace per ottenere i risultati prefissi, ossia l’osservanza delle prescrizioni lavorative e l’interruzione di un “andazzo” di scarso rendimento, e perchè, sotto lo schermo dell’apparente pacificazione, poneva le basi, in assenza di contraddittorio, per un incondizionato ascolto ed esigibilità di quanto oggetto di richiamo.

Questi erano i caratteri di quegli episodi vissuti sul lavoro dallo S. dal 1999 al 2002, tutti fra loro connessi e cementati in maniera inscindibile da una volontà unitaria e persistente ai fatti pregressi, sì da perdere -i più risalenti nel tempo- la loro connotazione particolare e, sebbene alcuni di essi siano distaccati l’un l’altro in un apprezzabile arco temporale, tali da non assumere il significato di elementi costitutivi di nuove condotte integranti un nuovo delitto di maltrattamenti. In questo senso si raccordano i primi episodi agli ultimi, proprio come enunciato nel capo di imputazione: ogni episodio è posto in rapporto di diretta ed immediata continuità con la condotta pregressa e ne esalta, in una sorta di gradualità progressiva e con effetti unificatori, la coscienza e volontà dell’agente di continuare a sottoporre, secondo le abitudini, a sofferenza la vittima; il nesso soggettivo tra i diversi atti di maltrattamento deve cioè proiettarsi dal presente al passato come consapevolezza delle preesistenti condotte a cui si aggiunge un nuovo “cattivo trattamento” (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, n.6541 dell’11/12/03-17/2/04).

Nel caso di specie, l’autore delle prime condotte, consapevole delle sofferenze a cui era già stata sottoposta la vittima, si era prefigurato l’ulteriore patimento cagionato dal nuovo fatto lesivo, che andava ad inserirsi, quasi senza soluzione di continuità, in un sistema fatto di vessazioni.

E se di tanto era consapevole il P., sindaco nelle due amministrazioni consecutive a cavallo del periodo oggetto di interesse, e già avvertito nel dialogo con i coniugi S. del 18/8/1999 (quello registrato dopo la festa di Zuppino) della insofferenza del dipendente comunale a quei richiami verbali fuori dell’orario di lavoro (la Domenica delle Palme del 1999, in un giorno di permesso quando fu punto da un insetto, la sera della Festa dell’Amicizia a Zuppino), non altrettanto sembrerebbe a dirsi per il C. Vitantonio, Vicesindaco nelle due amministrazioni, e per il T. Felice, assessore al personale eletto solo nel secondo mandato del maggio 2001.

Ciò non discende da una loro diversa qualifica soggettiva (anch’essi quali amministratori pubblici, secondo la accezione terminologica legislativa del Testo Unico 267/2000, sono ‘soggetti investiti di autorità’, ed in particolare il vicesindaco -per le funzioni vicarie del sindaco e per le deleghe in alcune vicende rilevanti, quali le contrattazioni decentrate e nelle riunioni con  dipendenti- e l’assessore al personale -direttamente influente sulle politiche organizzative del personale dipendente e dei loro responsabili di servizio-), bensì da un diverso ruolo, in concreto, assunto nell’intera vicenda. Si rammenta che il C. ed il T. risultano aver partecipato attivamente all’episodio della scoperta del cartellino marcatempo ed alle conseguenti iniziative di denuncia, nonché il solo C. aveva presenziato anche all’episodio del bagno ricevendo la ‘anomala delega’ di seguire lo S. al gabinetto per controllarne l’evacuazione; non che i due episodi non siano centrali e rilevanti nella ricostruzione del delitto di maltrattamenti (anzi, ne costituiscono come visto, il fulcro delle mortificazioni ed umiliazioni patite e la chiave di volta del cambiamento di umore e deperimento fisico), ma è evidente la diversa prospettiva con cui essi vi hanno partecipato: nel primo episodio, entrambi, mossi dall’intento di verificare la fondatezza della telefonata anonima che annunciava la presenza di cartoni di immondizia nel mercato, hanno accertato quanto realmente accaduto e ne hanno riferito al Sindaco con una relazione di servizio dal contenuto di denuncia, non contestata nel suo oggetto narrativo dalle parti di causa, ma non hanno avuto un ruolo decisionale e deterministico nelle scelte di immediata convocazione, di tempestivo accertamento, di sommario ‘processo” cognitivo, e di forte rimprovero (specie nei dialoghi diretti ed univoci del Sindaco con N., S. e T.), come si è appartenuto, invece, al solo P..

E la ‘pressione’ sul sindaco di avviare l’inoltro della denuncia non poteva che essere conforme all’obbligo istituzionale e non solo funzionale su di essi incombenti (anche in qualità di ufficiali di Polizia Giudiziaria oltre che di pubblici ufficiali), iniziativa di cui si erano fatti promotori anche vincendo l’iniziale tentennamento del Sindaco.

Quanto al secondo episodio, che ha visto partecipe il solo C., questi aveva espresso in quella circostanza una sola opinione, contrastante con la proposta di sfida di andare a controllare il bisogno fisiologico dello S.; a scanso di non voler ritenere compartecipi tutti coloro che, presenti nella stanza del Sindaco, ne sentirono pronunciare le parole di richiamo e deridere il dipendente che si giustificava (umiliandosi) per via della diarrea, la sua partecipazione attiva all’episodio si ridurrebbe al controllo in bagno, controllo che, come si è visto, se sia accaduto o meno, non è massimamente rilevante rispetto a quanto lo S. avesse dovuto sopportare, avendo dovuto soggiacere alla proposta di dimostrare con i fatti quanto fosse stato oggetto delle sue non credute giustificazioni; e già questo, il non essere creduto di sentirsi male, era un fatto mortificante, ancor prima del tipo di giustificazione che aveva dovuto fornire (che, solo a parlarne, già creava imbarazzo anche allo stesso C.).

L’animus con il quale i due assessori avevano partecipato alle suddette vicende, non era certo quello di vessare o perseguitare il dipendente, quanto piuttosto di perseguire, in modo zelante, la lotta all’assenteismo, andando incontro alla voluntas del sindaco.

Si dubita fortemente, cioè, che C. e T. volessero assecondare, fornire un valido contributo causale, alla intenzione di chi voleva invece mantenere una condotta offensiva, costrittiva, persecutoria; e questa considerazione discende dalla mancanza di elementi per ritenere che i due prevenuti fossero consapevoli della abitualità della condotta vessatoria tenuta dal Sindaco, della pregressa risalenza nel tempo di altri interventi ostili compiuti con abuso di poteri autoritativi, del collegamento volontaristico di un atto costrittivo con gli effetti già cagionati da altra azione dello stesso tenore.

E se una condotta apparentemente non illegale assurge a rilievo penale qualora, richiamando la precedente, favorisca l’instaurazione di un regime di vita insopportabile, e se il soggetto non ha partecipato alle precedenti azioni, né ha contribuito a darvi causa a realizzarne la concatenazione cronologica, quella condotta, allora, nella sua abituale unitarietà, non può essere attribuita psicologicamente ma neppure materialmente a colui che subentra soltanto in un momento successivo o solo per alcuni singoli episodi.

Insomma se la condotta del reato presuppone un connotato di abitualità, occorre che il concorrente nel delitto sia consapevole di contribuire, anche con la partecipazione ad un solo atto ostile, al programma unitario della vessazione, programma di cui il concorrente nel reato dovrebbe avere piena conoscenza con adesione di intenti. Ma ciò non si evince né nel T., non presente nell’amministrazione comunale prima del maggio 2001 ed estraneo alle vicende del mutamento delle mansioni o dei rimproveri pubblici o dei controlli a sorpresa (si rammenta che l’appostamento delle 5 del mattino dietro il muretto della scuola si è capito che non fosse orientato esclusivamente a pedinare lo S.), nè nel C., presente a Sicignano degli Alburni nei soli giorni di Giunta e, nonostante avesse ricoperto quella carica già nel precedente mandato elettorale, esente da ulteriori e pregressi richiami nei riguardi dello S..

Quanto infine alla invenzione del soprannome “uomo invisibile”, non è chiaro se questo appellativo dispregiativo usato comunemente per additare lo S. fosse stato effettivamente coniato da entrambi gli assessori (come alcuni testi hanno riferito), ma è certo che quel soprannome era diffusamente noto ai più, in paese, per cui ben potrebbe il T. averlo trovato in uso in seno all’amministrazione dopo averlo recepito aliunde e prima del suo incarico di assessore, ovvero che il C., e poi anche il T., avessero usato tralaticiamente quel soprannome contribuendo così alla diffusione del disonore del dipendente ma senza con ciò aderire all’atteggiamento psicologico (si ripete, dolo generico) di sottoporre lo S. ad una propria od altrui condotta abitualmente offensiva.

La stretta colleganza -funzionale e politica- di C. e T. con il sindaco P. li aveva rapidamente accomunati a tutte le condotte ostili a quegli direttamente attribuibili, ma non risulta che essi abbiano poi contribuito materialmente o causalmente a tutte o a gran parte delle vessazioni, mortificazioni, umiliazioni patite dallo S. ad opera del P., né risulta dimostrata la sussistenza di un accordo fra i tre per annientare (eliminare) lo S. dal sistema organizzativo lavorativo comunale sottoponendolo abitualmente a sofferenze fisiche o morali, ad afflizioni comuni od a malevolenza.

Insomma, non è dimostrato che in capo al vicesindaco ed all’assessore al personale risiedesse la consapevolezza di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza -e da altri-, idonea a ledere la personalità della vittima (arg. ex Cass. Pen. Sez. VI, 14/7/2003 n.33106), e che essi avessero accettato di compiere una singola sopraffazione con la consapevolezza di persistere in una attività illecita posta in essere già altre volte -in loro assenza- (arg. ex Cass. Pen., Sez. VI, 11/12/03 – 17/2/04 n.6541). Per essi si impone, pertanto, una pronuncia assolutoria sotto il profilo psicologico del reato, in formula dubitativa (fatto non costituisce reato).

 

Ritornando sulla posizione del soggetto che, unicamente, si ritiene penalmente responsabile dei fatti illeciti in contestazione, va fatta un’ultima annotazione.

 

In più occasioni l’imputato P. ha ritenuto di essersi comportato in quel modo rigoroso ma informale con i trasgressori per aver prediletto la dialettica del buon padre di famiglia; se così fosse si dovrebbe allora inquadrare la sua condotta in una finalità correttiva, che però, ove compiuta con quelle modalità afflittive e deprimenti della personalità di cui si è dato conto, nella molteplicità delle sue dimensioni, contrasterebbe con la pratica pedagogica e con la modalità di promozione dell’uomo ad un grado di maturità tale da renderlo C. di integrale e libera espressione delle sue attitudini, inclinazioni ed aspirazioni; “ma quando un siffatto esercizio, nel contesto della famiglia ovvero di rapporti di autorità o di dipendenza si ripeta con abituale frequenza nei confronti dello stesso soggetto, l’intento correttivo resta escluso e si versa nell’ipotesi criminosa dell’art. 572 c.p.” (Cass Pen., Sez. VI, 25/9/95 n. 2609).

 

Quanto, infine, alla consapevolezza di cosa e come vivesse la vittima dei maltrattamenti, si rammenta quanto già osservato in chiusura del precedente paragrafo, ossia che l’eventuale stato di malattia, fisica o psichica della vittima, non esclude affatto il dolo del soggetto agente, ma semmai accentua la gravità del fatto, essendo l’offesa arrecata a persona psichicamente o fisicamente menomata (Cass. Pen., Sez. VI, 24/2/98, n.4080): il che non ha incidenza sul nesso causale dell’evento lesivo che potrebbe determinarsi come conseguenza del delitto ai sensi del secondo comma dell’art. 572 cp, ma neppure sulla valutazione di minore intensità del dolo, che invece resterebbe inalterato se non addirittura maggiormente ispessito, laddove fosse illustrativo di una malevola intenzione di proseguire nei maltrattamenti sapendo di poter arrecare un danno ancor più grave alla persona offesa.

Peraltro non emerge che l’imputato si sia mai rappresentato, in termini di conoscibilità, che la sua condotta potesse determinare lo S. al suicidio, e ciò esclude anche la necessità di pretendere un minimo di conoscibilità e prevedibilità dell’evento-morte da parte del soggetto agente.

Ed allora: per negare o ridurre l’intensità del dolo del reato base non occorre che l’agente conosca le condizioni di alterazione psichica della vittima, ma neppure deve richiedersene la conoscenza o ancor meno la conoscibilità di quelle condizioni per escludere l’attribuzione in capo all’agente della circostanza aggravante del secondo comma nel caso in cui la morte sia dipesa dal suicidio della vittima.

 

Ne discende un’ultima considerazione di raccordo con la struttura del reato: al primo comma la fattispecie prevede un comportamento doloso dell’agente, volto a cagionare, con abitualità, offese alla integrità fisio-psichica della designata vittima; il secondo comma invece attribuisce al soggetto agente dei maltrattamenti l’evento morte della vittima, non già volontariamente (altrimenti vi sarebbe un concorso di reati con l’omicidio doloso) ma involontariamente, sulla base della mera materialità causale del fatto, come diretta conseguenza di quei maltrattamenti. Si assiste, dunque, ad una struttura bifasica dell’elemento psicologico del delitto, a seconda che ricorra o meno la circostanza aggravante del secondo comma, nel senso che il legislatore ha previsto un distacco dalla sfera del dolo del delitto di maltrattamenti “se dal fatto deriva la morte”; il legislatore ha cioè previsto che ricorra l’aggravante nel caso di mera derivazione causale della morte dai maltrattamenti, fondato su un nesso diretto che non veda l’inserimento eccezionale, autonomo ed imprevedibile di una causa autonoma e successiva nel processo causale avviato da quella originaria condotta dolosa. La sussistenza di questo nesso causale è stata contemplata in giurisprudenza anche nel caso di suicidio della vittima laddove questo sia posto in essere come rimedio alle continue sofferenze fisio-psichiche (cfr. da ultimo, Cass. Pen., Sez. VI, n.12129 del 29/11/07 -dep. 18/3/08-).

E nel caso di specie, lo S., come si è constatato analizzando le varie tesi difensive, non aveva altro motivo per suicidarsi se non quello descritto lucidamente nelle sue lettere testamentarie, manoscritti che, in poche parole, spiegano ciò che nella lunga attività di istruzione dibattimentale è alla fine emerso: ingerenza diretta degli amministratori nelle disposizioni di servizio (“solo ricatti, voci alte, cazziate”), frequenza di maltrattamenti e persecuzioni (“volevano farmi fuori e ci sono riusciti”), gravità degli stessi con pesanti interferenze sulla vita personalissima e familiare (“distrutto una famiglia, non farlo ancora”), ristretto ambiente lavorativo (“lasciali lavorare è gente seria”), sopravvenuta fragilità caratteriale (“sono sempre stato un duro ora un fragile”), appaganti relazioni di affettività familiare (“amori miei…”); e tutto quello che si era manifestato in vita allo S., come ricordato dagli stretti congiunti che ne raccoglievano le pietose confidenze, dai compagni di lavoro che assistevano ai singoli atti di ostilità e li commentavano anche con ironia, dagli altri amministratori che redigevano relazioni di servizio illustrative di un evidente disagio comportamentale nei rapporti con la amministrazione locale, da alcuni responsabili di servizio sulle angherie e soprusi organizzativi con incursioni nelle loro competenze, poteva anche lasciar presagire lo scavo del profondo solco di quella alterazione del tono dell’umore, di quella depressione, che poi si era manifestata fortemente negli ultimi mesi di vita, specialmente dopo che lo S. sviluppò il senso di colpa per aver coinvolto il vigile T. in una vicenda penale che metteva a rischio il loro posto di lavoro. 

Ed allora sorge un altro quesito: può l’atto volontario del suicida interrompere il nesso causale tra il fatto doloso dei maltrattamenti e la morte non voluta della vittima ? può una libera scelta, frutto della capacità di autodeterminazione della vittima, impedire la ricostruzione del rapporto meramente derivativo di cui al secondo comma dell’art. 572 cp.? A parte l’ovvia considerazione che la capacità di autodeterminazione della vittima dei maltrattamenti tende ad obnubilarsi nel momento in cui sviluppa l’idea suicidiaria, non foss’altro per la estrema contrapposizione con la naturale tendenza all’autoconservazione, non può negarsi che a quella scelta suicidiaria, proprio per i motivi illustrati poc’anzi (comprovati in dibattimento e già a suo tempo sinteticamente trovati scritti nelle lettere lasciate sul davanzale del camino), lo S. sia giunto dopo aver elaborato una psicopatologia non preesistente e determinata, come da relazione di consulenza tecnica di parte civile, proprio da quelle condizioni di degradazione ed avvilimento di personalità, dapprima confidate in privato e poi manifestate in pubblico, in cui a poco a poco, e da tempo, lo stesso S. versava. Non v’è stata, quindi, nel caso in esame, una causa autonoma ed eccezionale, indipendente dallo sviluppo eziologico della patologia originata dai maltrattamenti, che si sia inserita, interrompendolo, nel diretto collegamento tra fatto primordiale ed evento finale.

Tornando allo schema tipico del reato ed all’atteggiamento antidoveroso o causale richiesto dalla norma, si osserva come l’aggravante contestata sussiste “non solo nei casi in cui la morte della vittima delle condotte dei maltrattamenti sia conseguenza diretta delle violenze fisiche materialmente commesse dall’autore del reato, ma anche quando sia stata la stessa vittima a darsi la morte, qualora il suicidio sia da mettere in sicuro collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti pregressi, così da determinare nella vittima uno stato di prostrazione e di disperazione tale da costituire un vero e proprio attentato alla sua integrità fisica e morale così grave ed irrimediabile da spingerla alla morte” (così leggesi nella ultima recentissima sentenza della Corte di Cassazione).

 

Nel caso in esame, si apprezza allora che vi sia stata una derivazione della morte della persona offesa a seguito di maltrattamenti dalla condotta dell’autore del reato senza interruzione di nesso causale.

Si è avverata cioè l’ipotesi del suicidio della vittima dei maltrattamenti posto in essere per sottrarsi alle continue sofferenze psico-fisiche cagionate abitualmente, ed in tal caso potrà riconoscersi la sussistenza di un rapporto eziologico diretto tra la condotta dell’autore dei maltrattamenti e il suicidio della persona offesa, senza che si sia verificata alcuna causa autonoma e successiva, che si sia inserita nel processo causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile.

Si ricordi che la giurisprudenza ha ribadito più volte questa interpretazione del nesso causale nel delitto aggravato del secondo comma dell’art. 572 cp (cfr. Cass. Pen. Sent. 722/1971 in cui si afferma che la circostanza aggravante sussiste non nel solo caso in cui le lesioni siano conseguenze di un trauma fisico inferto direttamente dall’imputato al soggetto passivo ma anche quando le lesioni stesse costituiscano l’esito di atti lesivi della propria integrità personale -nella specie tentato suicidio- compiuti dallo stesso soggetto passivo come conseguenza diretta dei maltrattamenti subiti; Cass. Pen., sent. 8405/1990, in cui si afferma che sussiste la circostanza aggravante della morte derivata dal fatto dei maltrattamenti qualora il suicidio del soggetto passivo, benché non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale che la determinarono a darsi la morte).

 

All’esito della istruttoria dibattimentale, e delle argomentazioni giurisprudenziali innanzi citate, può al fine dirsi che la fattispecie concreta prevista nel capo di imputazione si reputi pienamente provata e correttamente sussunta nella disciplina del reato di maltrattamenti aggravati dalla morte della persona offesa, ritenuti integrati tutti gli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, in essa rappresentati. Del fatto illecito così accertato va affermata la responsabilità penale in capo al solo P. Domenico, dovendosi prescegliere la formula dubitativa della mancanza o insufficienza di elementi di prova sulla sussistenza dell’elemento psicologico per gli altri due imputati C. Vitantonio e T. Felice.

 

 

TRATTAMENTO SANZIONATORIO.

PARTI CIVILI E RESPONSABILE CIVILE.

 

All’imputato P. Domenico possono essere concesse le circostante attenuanti generiche, in ragione della formale incensuratezza e dell’età del prevenuto.

Il beneficio va tuttavia riconosciuto non in termini di prevalenza bensì di sola equivalenza con la contestata aggravante, a cagione di un comportamento processuale non limpido (per tutti valga il ricordo di quelle convocazioni ed incontri con coloro che avevano già reso testimonianza innanzi alla PG ed al PM per conoscere il contenuto delle loro deposizioni e gli argomenti trattati, all’evidente fine di precostituirsi una linea difensiva compatibile con quanto già raccolto agli atti del fascicolo, minando così in radice la genuinità e spontaneità delle sue future dichiarazioni) ed a cagione anche di una connotazione irruente ed a volte aggressiva dei suoi modi comportamentali (lo si evince dal tenore delle conversazioni registrate e da una precedente vicenda giudiziaria che lo ha visto coinvolto come imputato e condannato in primo grado insieme con i suoi congiunti per fatti di ingiurie e lesioni del lontano 1991 commessi ai danni di due ragazze ventenni coetanee delle figlie, reati dichiarati estinti poi, in appello, per prescrizione -cfr. prod.doc. dell’ultima udienza-); anche le condotte concomitanti agli atti per cui è processo denotano analoghi aspetti comportamentali (si ricordino le esternazioni contro C. Francesco e contro C. Erminia), sì che non si traggono elementi prevalentemente favorevoli sul giudizio di personalità dell’imputato.

Quanto alla individuazione della pena base, essa sarà ben superiore al minimo edittale, tenuto conto di tutti i criteri direttivi dell’art. 133 cp, fra i quali spiccano la natura e modalità dell’azione (all’odiosità del fatto dalla cui abitualità di condotta l’imputato non ha inteso recedere dopo i primi atti ostili e vessatori contro lo S., si accompagna poi l’inquietante ma plausibile movente di ritorsione politica delle condotte vessatorie tenute), la gravità del danno cagionato alla persona offesa (depressione, suicidio, morte), l’intensità del dolo (la frequenza degli episodi evidenzia che non c’è stata rielaborazione critica alcuna dei primi interventi mortificatori contro lo S.), e della condotta successiva al reato (si rammentano, oltre ai contatti con i testimoni per sapere cosa avessero dichiarato in fase di indagini preliminari, i rapporti con il figlio del defunto circa la risposta negativa e netta e senza alcuna possibilità di riesame alla domanda di poter essere assunto al Comune, e l’iniziativa per una multa per il temporaneo stazionamento di mobili ai bordi della sede stradale che, invece, il giovane, come dimostrato anche dal rapporto di contravvenzione, era pronto a rimuovere tempestivamente).

E così, stimasi pena equa, quella di anni tre e mesi sei di reclusione, così determinata anche come pena base, previa elisione dell’aumento di pena in virtù della concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti rispetto alla contestata aggravante del secondo comma dell’art. 572 cp.

Segue la condanna al pagamento delle spese processuali.

A mente dell’art. 29 cp va irrogata al predetto anche la sanzione accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

 

All’accertamento della responsabilità penale per il contestato fatto illecito consegue l’accoglimento della domanda di risarcimento danni, con condanna generica, formulata dalle parti civili M. Luisa, S. Fabio e S. Vincenzo, che vanno rimesse dinanzi alla competente autorità giudiziaria civile sulla determinazione del quantum debeatur; può essere invece accolta, allo stato, la domanda di liquidazione di una provvisionale immediatamente esecutiva, nei limiti in cui equitativamente possa ritenersi raggiunta la prova del danno patrimonialmente valutabile sofferto dai figli della vittima, danno che si stima non inferiore a 15.000 euro, ciascuno, alla cui determinazione contribuiscono le seguenti voci: la privazione dell’affetto e della relazione naturale con il padre sin dalla giovane età, la difficoltà di continuare a gestire l’esercizio commerciale di bar aperto con mutuo appena tre mesi e mezzo prima del suicidio, le spese sanitarie sostenute per i gravi problemi psicologici derivanti dalla drammatica vicenda, la difficoltà di sostenersi negli studi.

Quanto alla liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili, esse si determinano, tenuto conto della partecipazione a n.22 udienze dibattimentali utili, delle udienze di discussione, dell’esame e studio atti, della redazione di scritti difensivi e della corrispondenza e sessioni con i rispettivi clienti, in complessive Euro 4.950,00 per cascuna delle parti civili S. Vincenzo e M. Luisa (di cui Euro 550,00 per spese al 12,5% sugli onorari complessivamente determinati in Euro 4.400,00 -tra questi rientrano euro 110 per la partecipazione a ciascuna udienza, ed euro 330 per la discussione finale-), ed in complessive Euro 3.206,25 in favore della parte civile S. Fabio (di cui 356,25 per spese al 12,5%, euro 110 per ciascuna delle 20 udienze in cui è comparso il difensore od un suo sostituto, ed euro 330 per discussione finale ed euro 200 per corrispondenza e sessioni con il cliente).

 

Il responsabile civile, Sindaco p.t. del Comune di Sicignano degli Alburni, concludeva perché venisse dichiarata l’assenza di ascrivibilità di responsabilità civile in capo al Comune di Sicignano degli Alburni per i fatti contestati agli imputati essendo state commesse condotte “fuori legge” e quindi essendo venuto meno il rapporto di immedesimazione organica tra l’amministratore pubblica comunale e le sue condotte e, per l’effetto, dichiarare il Comune di Sicignano degli Alburni non tenuto al risarcimento del danno integrale in favore della costituita parte civile.

Orbene, la tesi esposta non è convincente, essendo invece stato riconosciuto che proprio in virtù di quel tipo di relazione organica e funzionale con l’ente il Sindaco avesse, seppur non correttamente e travalicandone i limiti, esercitato i connessi poteri autoritativi nel suo rapporto con il dipendente comunale.

Problema tecnico che si pone, invece, è quello discendente dalla omessa richiesta di risarcimento danni verso il responsabile civile da parte delle parti civili; si potrebbe discutere se in questo caso sopravvenga una revoca implicita della costituzione di parte civile come è previsto dal secondo comma dell’art. 82 cpp con la conseguenza che la citazione del responsabile civile perda efficacia ex art. 83 comma 6° cpp; in realtà la parte civile ha avanzato conclusioni scritte contro l’imputato e non potrebbe ritenersi parzialmente revocata la costituzione di parte civile nei confronti del solo responsabile civile, non foss’altro per la unitarietà dell’azione civile di danno nel processo penale; peraltro l’imputato, una volta citato il responsabile a cura della parte civile, ha interesse a veder ricadere su altri, in solido, l’onere patrimoniale discendente dalla richiesta risarcitoria.

E poi, a mente dell’art. 538 comma 3 cpp, se il responsabile civile è stato citato nel giudizio, la condanna alle restituzioni e al risarcimento danni è pronunciata anche contro di lui in solido, quando è riconosciuta la sua responsabilità. Ci si chiede allora come poter affermare la responsabilità del responsabile civile e condannarlo in solido con l’imputato al risarcimento danni se la parte civile non ha formulato richieste scritte contro il responsabile civile stesso. La questione ha trovato un unico precedente giurisprudenziale, risalente alla disciplina del codice previgente, dove erano prescritte norme identiche a quelle attuali: sulla perdita di efficacia della citazione del responsabile civile in caso di revoca della parte civile, sub art. 115 cpp (1930)  e sulla condanna al risarcimento in solido, sub art. 489 I co cpp (1930); e si era detto che “qualora la parte civile in sede di discussione finale non prenda conclusioni nei confronti del responsabile civile citato o intervenuto volontariamente, il giudice non può comunque condannare quest’ultimo al risarcimento dei danni, ma è tenuto ugualmente ad accertare e dichiarare se egli è responsabile o meno in ordine alle conseguenze del reato. Ove il giudice non provveda in tal senso si verifica nullità per omessa pronuncia su un capo della sentenza ed il responsabile civile può proporre appello contro la sentenza di condanna dell’imputato (cfr. sent. Cass. Pen., Sez. V, n.4969 dell’11/1/1982, ed ancor prima sent. n.1367 dell’11/10/67 e n. 10959 del 24/5/78).

In adesione al predetto unico orientamento giurisprudenziale non sarà revocata la costituzione di parte civile nei confronti del responsabile civile ma non si procederà a condanna solidale al risarcimento dei danni pur dopo aver affermato e dichiarato la responsabilità in ordine alle conseguenze del reato.

E va subito precisato che, contrariamente a quanto asserito dal difensore del responsabile civile, in virtù del rapporto organico che lega l’amministratore e l’ente ed in forza del quale si ha, di fronte a terzi, identità tra ente pubblico e suo rappresentante, l’azione risarcitoria contro il responsabile civile in sede penale è comunque ammessa e costituisce una ipotesi di responsabilità diretta per fatto proprio ex art. 2048 cod.civ. Soltanto un fine egoistico e personale da cui l’agente è mosso può impedire il riferimento alla pubblica amministrazione dell’atto compiuto in violazione del diritto dei terzi. E dunque, sebbene la riferibilità dell’evento alla amministrazione pubblica non sia esclusa dalla circostanza che l’agente commetta, nelle operazioni intermedie, abusi di potere o violazioni di ordini di servizio, la responsabilità della pubblica amministrazione può essere esclusa solo allorquando il pubblico dipendente persegua un fine del tutto estraneo a quello dell’ente e fuori da ogni collegamento di necessaria occasionalità con le attribuzioni di cui è investito (Cfr. Cass. Pen., 14/6/1984 Cipriani e succ., conformi).

Nel caso che ci occupa l’amministratore-sindaco non perseguiva fini estranei all’ente, i suoi rimproveri e richiami si fondavano su un preteso assolvimento rigoroso e inderogabile delle prescrizioni di servizio, anche inesigibili per mancanza di requisiti formali o di competenza, e le vessazioni e persecuzioni tenute erano espressione di abusi di autorità e di potere ma pur sempre latamente collegate con singolari forme organizzative degli uffici; in questo senso non si è mai perso un collegamento funzionale dell’illecita condotta tenuta con l’ente da cui il lavoratore dipendeva e di cui l’amministratore era rappresentante e responsabile. Residua quindi la riferibilità dell’evento (morte come conseguenza di maltrattamenti) alla pubblica amministrazione comunale di cui oggi è ancora da reputarsi responsabile, in solido con l’imputato, il responsabile civile.

In dispositivo andrà pertanto dichiarata la responsabilità civile del Comune di Sicignano degli Alburni, senza però affermarne la condanna al risarcimento danni in solido con l’imputato.

 

La complessità e l’ampiezza degli argomenti trattati, in fatto e in diritto, ha consigliato di prevedere un termine di 90 giorni dal dispositivo della sentenza per la redazione della motivazione.

 

P.Q.M.

 

Visti gli artt. 533 e 535 cpp,

dichiara P. DOMENICO colpevole del reato ascrittogli e, concessegli le circostanze attenuanti generiche – equivalenti all’aggravante contestata, lo condanna ala pena di anni tre e mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Visto l’art. 29 cod. pen.,

dichiara P. DOMENICO interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni cinque;

visto l’art. 530 cpv. cpp,

assolve C. Vitantonio e T. Felice dal reato loro ascritto perché il fatto non costituisce reato.

Visti gli artt. 538 e ss. cpp,

condanna P. Domenico al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili S. Vincenzo, S. Fabio e M. Luisa, rimettendo le parti davanti al giudice civile per la relativa liquidazione.

Visti gli artt. 539 comma 2° e 540 comma 2° cpp,

assegna a S. Vincenzo ed a S. Fabio una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 15.000 euro ciascuno, che pone a carico dell’imputato P. Domenico;

Visti gli artt. 541 cpp; 1, 3 comma primo, 5 e 8 DM 8/4/2004 n.127,

condanna P. Domenico alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle parti civili sopra indicate, liquidandole in:

-          euro 3.206,25 comprensivi delle spese generali pari ad euro 356,25, oltre IVA e CPA, come per legge, per la parte civile S. Fabio;

-          euro 4.950,00 comprensivi delle spese generali pari ad euro 550, oltre IVA e CPA, come per legge, per la parte civile S. Vincenzo;

-          euro 4.950,00 comprensivi delle spese generali pari ad euro 550, oltre IVA e CPA, come per legge, per la parte civile M. Luisa.

Visto l’art. 538 cpp,

dichiara il Comune di Sicignano degli Alburni, in persona del sindaco p.t., responsabile civile in ordine alle conseguenze del reato.

Visto l’art. 544 comma 3 cpp,

indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in S., nella camera di consiglio della Prima Sezione, della Corte d’Assise, il venti giugno duemilaotto.

Il Giudice Estensore                                                                         Il Presidente