REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO
QUINTA SEZIONE PENALE


Il Tribunale di Torino - V Sezione Penale, in composizione monocratica, nella persona del magistrato dr. STRATA alla udienza del 12.3.2010 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

nei confronti di:
T.B., nato a Villanova Marchesana (RO) il ***,
- libero contumace -
difeso di fiducia dagli avv. Renzo Cappelletto e Gino Obert del foro di Torino
IMPUTATO
nella sua qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione e datore di lavoro della società F. S.r.l.
a) del reato di cui all'art. 590 c III, in relazione all'art. 583 ci n. 1 c.p. per aver cagionato, con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione delle norma per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, al dipendente I.N. lesioni personali gravi segnatamente amputazione della terza falange del dito indice della mano destra, tali da determinare incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni (specificamente giudicate guaribili in gg 87) in particolare, in conseguenza della violazione di cui all'art. 68 dpr 547/75 (ora art. 71 comma 1 Dl 81/2008 all. V parte I punto 6.1.) per non aver disposto che l'organo di lavorazione della rettificatrice marca Tacchella tipo 1018U matr. 3525 del 1972, costituente pericolo per i lavoratori, fosse protetto o segregato adeguatamente.
In conseguenza di tale omissione I. mentre rettificava delle gole interne di un particolare di circa 230 mm di diametro e spesso 35 mm inavvertitamente avvicinava la mano destra all'organo di lavorazione non protetto dal coprimandrino e si provocava le lesioni di cui sopra.
In Grugliasco il 24.10.2007

b) del reato di cui all'art. 437 c.p. per aver ordinato la rimozione di apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro ed in particolare per avere ordinato, al fine di eseguire il lavoro più velocemente, al dipendente I.N., addetto alla rettificatrice marca Tacchella tipo 1018U matr. 3525 del 1972, di non installare la "cuffia coprimandrino" necessaria per la sicurezza della lavorazione da compiere e presente in officina.
Con l'aggravante di aver provocato l'infortunio di cui al capo a)
In Grugliasco il 24.10.2007

Con l'intervento del Pubblico Ministero dott. ssa Quaglino e degli avvocati Renzo Cappelletto e Rita Carretta, quest'ultima in sostituzione ex art. 102 c.p.p. dell'avv. Obert.
Le parti hanno concluso come da verbale di udienza.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Si procedeva con le forme del rito ordinario in contumacia dell'imputato.

All'udienza del 18.02.2010 venivano esaminati i testi del pubblico ministero (la persona offesa I.N., P.F., collega dello I., e O.R., ispettore dell'Asl di Orbassano) e della difesa (L.T.F., collega dello I. e T.R., figlio dell'imputato) e si acquisiva la documentazione prodotta dalle parti specificatamente indicata nel verbale di udienza. Veniva infine data lettura ex art. 513 c.p.p. del verbale di interrogatorio reso da T.B. in data 9.03.2009.

In data 24.10.2007 I.N., operaio specializzato dipendente della società F. Srl, con sede a Grugliasco, subiva un infortunio sul luogo di lavoro che gli causava la perdita della terza falange del dito indice della mano destra e l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore ai 40 giorni; la durata complessiva della malattia ammontava ad 87 giorni.

Nel corso della sua deposizione lo I. ha riferito che il giorno dell'incidente stava lavorando ad una macchina rettificatrice universale di marca Tacchella, con il compito di rettificare il diametro interno di alcune flange; tale macchinario era provvisto di un pezzo di riparo, il coprimandrino, che però non era montato, ma si trovava accanto alla rettificatrice. Lo I., prima di cominciare il lavoro, si accingeva quindi a montare il riparo, ma il suo datore di lavoro, T.B., gli diceva di non installare la protezione, dal momento che i pezzi che dovevano essere rettificati erano solo due; direttiva, quella di non usare lo schermo di protezione, che il datore di lavoro aveva in passato già dato. L'operaio iniziava allora la lavorazione con la macchina priva di protezioni ed avvicinava il dito indice della mano destra per verificare se la parte esterna del pezzo si stava surriscaldando. In quello stesso istante si rendeva conto della presenza del T. accanto a lui e, distraendosi, infilava inavvertitamente il dito nella zona di lavoro non protetta, dove si trovava in mandrino.

Lo I. ha dichiarato di aver nuovamente ripreso a lavorare presso la società F. nel febbraio del 2008 e di essere rimasto lì fino al giugno dello stesso anno, quando decise di cambiare lavoro perché i rapporti con il T. erano diventati difficili. La persona offesa ha comunque confermato di aver percepito dal suo ex datore di lavoro la somma di circa 9000,00 Euro a titolo di risarcimento.

Il teste P.F., che la mattina dell'infortunio stava lavorando ad un macchinario poco distante da quello al quale era addetto lo I., ha confermato che il coprimandrino non era stato installato sulla macchina, ma si trovava a fianco del mobiletto di lavoro. Anche egli ha affermato di aver sentito il T. dire allo I. di non usare la protezione ed ha confermato di aver sentito in passato il datore di lavoro dire di non utilizzare il coprimandrino.

Il P., che si trovava di profilo rispetto alla persona offesa, non aveva potuto vedere l'incidente, ma aveva solo sentito le urla dello I. al momento dell'infortunio.

La deposizione del teste O.R., ispettore della ASL di Orbassano, ha una limitata rilevanza per quanto attiene la dinamica dell'incidente, dal momento che la sua attività di indagine è avvenuta parecchi mesi dopo l'infortunio; risulta ad ogni modo rilevante ai fini del giudizio di responsabilità dell'imputato la sua affermazione circa lo stato della macchina rettificatrice nel luglio del 2008, al momento del suo sopralluogo. La stessa era priva di riparo, che si trovava su un banchetto metallico dietro la macchina, e, sebbene il teste non si ricordi se qualcuno vi stesse lavorando al momento, è certo che fosse pronta per l'uso, in quanto collegata alla rete e allestita per la lavorazione; in conseguenza della mancanza sul macchinario dello schermo di protezione della zona lavoro o di altri dispositivi atti ad impedire il contatto con gli organi lavoratori della macchina, veniva contestata al T. la relativa contravvenzione per violazione della normativa sulla sicurezza sul posto di lavoro e prescritto di dotare la rettificatrice di un sistema protettivo che impedisse l'accesso alle zone pericolose o in grado di arrestare i movimenti pericolosi nel caso di accesso a dette zone. In udienza è stata depositata documentazione attestante l'adempimento da parte del T. di detta prescrizione; dalle foto allegate si evince come attualmente la macchina sia dotata di una protezione fissa, fatta a schermo, che, se rimossa, blocca movimenti della rettificatrice.

I testi della difesa, L.T. e T.R., rispettivamente dipendente nonché rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e figlio dell'imputato, affermano di non aver mai sentito il T.B. dire di levare il coprimandrino alla rettificatrice e che, ad ogni modo, vi erano alcune lavorazioni che non potevano essere fatte con tale protezione.

L'imputato deve essere ritenuto responsabile dei reati di cui al capo di imputazione.

Il delitto di cui all'art. 590, c. 3 c.p. in relazione all'art 583, c. 1 n. 1 c.p. risulta integrato sia sotto il profilo soggettivo, che oggettivo.

La colpa, generica e specifica, dell'imputato per non aver dotato l'organo di lavorazione della rettificatrice di un'adeguata protezione che impedisse ai lavoratori di entrare in contatto con lo stesso, risulta pacificamente accertata.

Lo stesso T., in sede di interrogatorio, ha dichiarato che la macchina era priva di protezione; a nulla rileva il motivo per cui la rettificatrice ne fosse sprovvista, posto che, anche se risultasse provato (e così non è) che il pezzo in lavorazione non consentiva l'installazione di quello specifico coprimandrino, ciò implicherebbe unicamente che la macchina avrebbe dovuto essere dotata di altro dispositivo per evitare pericoli per i lavoratori. L'incompatibilità di una protezione rispetto ad una determinata lavorazione non può certo escludere la colpa in capo al datore di lavoro che fa lavorare i propri dipendenti senza detta cautela, ma comporta l'obbligo di sostituire la protezione con un'altra adeguata al tipo di attività svolto.

Si noti, per inciso, che nemmeno l'infortunio occorso allo I. ha indotto il T. a cambiare le protezioni alla rettificatrice: ben nove mesi dopo l'incidente, l'ispettore dell'ASL ha verificato che, sebbene la macchina fosse ancora utilizzata, come si evince dal fatto che la stessa era collegata alla rete, era ancora priva di protezione, con il relativo comprimandrino appoggiato a lato.

Per quanto concerne l'elemento oggettivo del reato di lesioni contestato all'imputato, accertata la violazione della norma cautelare, si deve ritenere sussistente il nesso causale tra detta violazione e l'infortunio subito dalla persona offesa. Proprio per l'assenza di protezione del mandrino lo I. veniva a contatto con l'organo lavoratore e si procurava le lesioni descritte nel certificato medico in atti, qualificabili come gravi; l'eventuale disattenzione del lavoratore, che ha inavvertitamente avvicinato la mano destra all'organo lavoratore, non interrompe il nesso causale, dal momento che la stessa non può essere considerata causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento, in quanto non integra né una serie causale autonoma, né è qualificabile quale fatto sopravvenuto che realizza una linea di sviluppo causale della condotta antecedente del tutto anomala e imprevedibile. Porre in dubbio la sussistenza del nesso causale perché, dato il comportamento dello I. che ha avvicinato la mano al mandrino, l'infortunio, anche con la cuffia protettiva, si sarebbe verificato, è un argomento fuorviante perché non prova l'insussistenza del nesso eziologico, bensì l'inidoneità di quella determinata protezione che avrebbe dovuto essere, secondo la normativa in materia, tale da proteggere il lavoratore anche in caso di distrazione o di gesti imprevedibili del medesimo. Tant'è vero che la prescrizione imposta dall'ASL al T. dopo l'infortunio, ha previsto l'installazione di un sistema protettivo che impedisca tout court l'accesso alle zone pericolose o che arresti i movimenti della macchina prima che sia possibile accedere alle stesse.

Si deve ritenere parimenti sussistente la responsabilità del T. per il reato di rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

In via principale la difesa ha chiesto l'assoluzione dell'imputato con riferimento a tale delitto, perché il fatto non sussiste.

In primo luogo la difesa ritiene che detto reato non si possa dire integrato per mancanza dell'elemento soggettivo. In particolare, secondo l'assunto difensivo, il delitto di cui all'art. 437 c.p. richiederebbe, secondo i principi generali essendo fattispecie punita a titolo di dolo generico, che in capo all'agente sia dimostrata la sussistenza quantomeno del dolo eventuale, mentre, nel caso di specie, si potrebbe al più ritenere che il T. abbia agito con colpa cosciente. Non si può sostenere, secondo la difesa, che l'imputato abbia accettato il rischio che lo I. si facesse male dal momento che egli stesso utilizzava quella macchina, che il pezzo da rettificare non poteva essere lavorato con la protezione (che per questo motivo era stata rimossa) e che non c'era alcuna plausibile ragione per cui il T. dovesse volere il ferimento del proprio lavoratore. L'atteggiamento psicologico dell'imputato, secondo la difesa, deve ritenersi quello della colpa cosciente: confidando nelle proprie capacità ed in quelle del lavoratore, il T. confidava che non si sarebbe verificato alcun infortunio.

Tale assunto non può essere condiviso, perché è basato su un'errata ricostruzione dell'elemento psicologico del reato contestato. È certamente vero che il delitto di cui all'art. 437 c.p., secondo l'opinione maggioritaria reato di pericolo presunto che mira a prevenire le conseguenze dannose derivanti dalla mancata adozione, dalla rimozione o dal danneggiamento di mezzi destinati a fini antinfortunistici, è punito a titolo di dolo generico, ma questo consiste, per giurisprudenza costante, nella coscienza e volontà di omettere, rimuovere o danneggiare detti mezzi, unitamente alla rappresentazione della destinazione specifica di tali strumenti. Ai fini della punibilità non occorre dunque la coscienza e volontà di creare una situazione di pericolo o di determinare l'evento dannoso costituito dall'infortunio sul lavoro (Cass., Sez. I, n. 350 del 20/11/1998; Cass., sez. II, n. 11699 del 01/09/1994; Cass., sez. I, n. 7296 del 06/12/1979).

Nel caso di specie non si può ritenere che il T. non conoscesse la destinazione prevenzionistica dello schermo di protezione del mandrino, né può essere posta in dubbio la sua volontà di rimuoverlo: lo stesso imputato, nel corso dell'interrogatorio davanti al pm, ha affermato di aver tolto il coprimandrino e di averlo già fatto altre volte e di sapere bene che le macchine non si possono usare senza le relative protezioni.

Secondo l'opinione giurisprudenziale e dottrinale prevalente, poi, la rappresentazione della destinazione alla prevenzione dei mezzi richiamati dalla norma implicherebbe necessariamente la consapevolezza della pericolosità della situazione, ma non l'intenzione di recare danno ai dipendenti (Cass, sez. I, n. 783 del 19/11/1993: per la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 437 cod. pen. sono necessarie e sufficienti la coscienza e volontà dell'omissione accompagnate dalla rappresentazione dello scopo cui mirano gli accorgimenti tecnici tralasciati e del pericolo che la loro mancata adozione comporta, mentre non è richiesta l'intenzione di recar danno alle persone).

L'atteggiamento psicologico dell'imputato si può dire integrato anche sotto questo profilo, considerate le sue dichiarazioni in sede di interrogatorio. Nel tentativo di sottrarsi alle sue responsabilità, il T. affermava di aver rettificato lui il pezzo: "so che non si possono utilizzare le macchine senza le parti di protezione. Proprio per questo il pezzo l'ho fatto io". Anche se la versione resa in sede di interrogatorio non è attendibile poiché smentita dagli altri testi che hanno dichiarato che alla rettificatrice stava lavorando lo I., dalle sue affermazioni si desume che egli era dunque pienamente consapevole della pericolosità della situazione e che a nulla rileva che l'imputato non avesse alcuna intenzione di arrecare un danno alla persona offesa.

Non pare quindi condivisibile la tesi difensiva, secondo la quale l'imputato, per essere ritenuto responsabile del reato de quo, avrebbe dovuto accettare il rischio della verificazione dell'infortunio; tale tesi, oltre a contrastare con la ricostruzione del dolo dell'art. 437 cp fatta propria dalla Suprema Corte e sopra riportata, avrebbe quale conseguenza quella di confondere l'elemento soggettivo di tale reato con quello del delitto di lesioni dolose. Se il T. avesse rimosso le protezioni accettando il rischio che il suo dipendente si infortunasse, il reato integrato non sarebbe più quello di rimozione di cautele contro infortuni sul lavoro, bensì quello di lesioni dolose.

In secondo luogo la difesa ha altresì sostenuto che, a prescindere dalla sussistenza o meno del dolo in capo al T., il reato di cui all'art. 437 cp non potrebbe essere integrato perché la situazione di pericolo non investirebbe una molteplicità di persone: trattandosi di reato contro l'incolumità pubblica, il pericolo dovrebbe infatti riguardare una pluralità di soggetti. Anche tale ricostruzione non può essere accolta, poiché la giurisprudenza ha più volle ribadito che il delitto in questione sussiste anche nel caso in cui si configuri una situazione di pericolo che possa coinvolgere una sola persona (si veda Cass. Sez. I, n. 4217 del 22/02/1988 - ai fini della configurabilità del delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, non è necessario né che la situazione di pericolo, costituente l'evento in senso giuridico del reato, investa una indefinita molteplicità di persone anche estranee all'ambiente di lavoro né che le cautele omesse siano di importanza fondamentale per la sicurezza del lavoro. É invero sufficiente che la condotta omissiva si concreti nella mancata collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, i quali ultimi possono riguardare, oltre che l'intera collettività dei lavoratori di un'impresa anche i singoli lavoratori, o un unico lavoratore - nonché Cass., sez. I, n. 12464 del 21/02/2007; Cass., sez. I, n. 11161 del 20/11/1996; Cass., sez. I, n. 2033 del 18/12/1990).

Con riferimento alla condotta del reato in esame, si deve ritenere raggiunta la prova della rimozione da parte del T. della protezione del mandrino: lo hanno dichiarato la persona offesa ed il teste P. in sede di esame dibattimentale e lo ha confermato lo stesso imputato nel corso dell'interrogatorio davanti al pubblico ministero. Le dichiarazioni rese dal figlio del T. e dal teste L.T., i quali asseriscono di non aver mai sentito dire all'imputato di togliere il coprimandrino, non sono rilevanti: al momento dell'incidente il figlio del T. non si trovava sul posto ed il L.T., che lavorava ad una distanza di circa venti metri dallo I., non ha sentito ciò che l'imputato e la persona offesa si sono detti perché indossava gli auricolari.

Poiché a seguito della rimozione della protezione si è verificato un infortunio, ovvero la perdita della terza falange dell'indice destro dello I., deve essere affermata la responsabilità dell'imputato in relazione alla fattispecie aggravata di cui al secondo comma dell'art. 437 c.p.
In punto trattamento sanzionatorio, si rileva in primo luogo che i reati contestati non possono essere ritenuti unificati dal vincolo della continuazione dal momento che l'unicità del disegno criminoso attiene al momento psicologico (dolo) che non può sussistere nei reati colposi nei quali l'evento non è voluto. In altri termini, posto che l'unicità del disegno criminoso presuppone l'unità del fine a cui tende l'agente, ne deriva che il disegno medesimo può avere ad oggetto soltanto fatti criminosi sorretti dalla volontà di commetterli; sussistendo un'incompatibilità strutturale tra unicità del programma e assenza di volontà rispetto ad un episodio delittuoso, come accade nel caso di specie, ne consegue l'inapplicabilità delle norme sulla continuazione.

In considerazione dell'assenza di precedenti penali, della condotta e della vita dell'imputato antecedentemente al reato e dell'avvenuto risarcimento del danno da parte dello stesso, si ritengono concedibili le attenuanti generiche e l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p., in misura prevalente rispetto alle aggravanti contestate.

La pena, tenuto conto di tutti gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., può pertanto essere determinata, per il capo a) in mesi 1 e giorni 10 di reclusione (pena base mesi 3 di reclusione, diminuita a mesi 2 per l'attenuante di cui all'art. 62 bis cp, diminuita a mesi 1 e giorni 10 per l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cp) e per il capo b) in anni 1 mesi 1 e giorni 10 di reclusione (pena base anni 2 di reclusione, diminuita a 1 anno e 6 mesi per l'attenuante di cui all'art. 62 bis cp, diminuita ad anni 1 per l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cp).

Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

Secondo quanto previsto dall'art. 32 quater, deve essere disposta nei confronti dell'imputato la pena accessoria dell'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per il periodo di un anno.

Attesa la mancata presentazione da parte della parte civile costituita delle conclusioni scritte, la costituzione della stessa deve intendersi implicitamente revocata ai sensi dell'art. 82 comma 2 cpp.

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.
dichiara T.B. responsabile dei reati a lui ascritti e, concesse le attenuanti generiche e l'attenuante del risarcimento del danno prevalenti sulle contestate aggravanti, lo condanna in relazione al delitto di cui al capo a) alla pena di mesi 1 e giorni 10 di reclusione ed in relazione al capo b) alla pena di anni 1 di reclusione e così complessivamente alla pena di anni 1, mesi 1 e giorni 10 di reclusione e inoltre al pagamento delle spese processuali.

Applica all'imputato la pena accessoria dell'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per la durata di anni 1.

Concede all'imputato i doppi benefici di legge.

Torino, 12.3.2010

Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2010