REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D'APPELLO DI TRIESTE
PRIMA SEZIONE PENALE

composta dai Magistrati:
1. dr. Francesca Morelli - Presidente
2. dr. Edoardo Ciriotto - Consigliere
3. dr. Angela Gianelli - Consigliere

Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza dalla dr.ssa Angela Gianelli, sentiti il Pubblico Ministero, e il difensore dell'appellante non comparso ha pronunciato il 13.1.2010 la seguente

sentenza

nella causa penale contro
P.G., nato ***
- libero contumace -

IMPUTATO

delitto p. e p. dagli artt. 81, 113 e 590 c.p. per avere, in qualità rispettivamente, il F. in qualità di Comandante della Caserma P. sede del reggimento lancieri di Novara in Codroipo, ove i militari P.A. e T.A., in data *** erano intenti a sostituire il pneumatico di un mezzo militare, pertanto datore di lavoro, il L. in qualità responsabile della prevenzione infortuni della predetta Caserma, il P. qualità di capo officina ove erano intenti a lavorare i due soldati, pertanto di preposto, per colpa consistita in imprudenza ed in negligenza nonché in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 222 comma 1, 35 comma 2, 4 comma 5 lett. a) e 35 comma 2 del D.Lgs. n. 626 del 1994, avendo in particolare:

a) omesso di assicurarsi che ciascun lavoratore ricevesse adeguata e sufficiente formazione, in merito alle attività da svolgere (sostituzione e gonfiaggio di un pneumatico nell'officina leggera della Caserma);
b) omesso di verificare che le attrezzature in uso da parte dei lavoratori fossero dotate di adeguate misure tecniche, e più specificamente che la gabbia di protezione fosse adeguatamente fissata e fornita di maglie strette, tali da trattenere la proiezione di piccoli frammenti;
c) omesso di assicurarsi che i lavoratori ed in particolare il P., non sostassero in prossimità dell'area di lavoro e cioè quella gonfiaggio, non essendo necessario allo svolgimento delle operazioni cui erano addetti; colposamente cooperato, ponendo in essere condizioni concorrenti a cagionare ai militari suindicati, lesioni personali lievi per il T. e gravissime per il P. (che subiva - tra l'altro - la subamputazione della falange del primo dito della mano sinistra, nonché frattura del polso destro), essendosi verificato che gli stessi, dovendo procedere alla sostituzione del pneumatico di scorta dell'automezzo militare Iveco Atc/81, effettuassero un errato assemblaggio e montaggio degli elementi componenti la ruota, con utilizzo di un anello elastico ed un anello laterale incompatibili con il tipo di pneumatico, così che all'atto del gonfiaggio la pressione faceva esplodere la camera d'aria provocando la violenta eiezione di parti metalliche che ferivano il P. ed un'onda urto che sbalzava all'indietro il T..

In Codroipo il giorno ***.

APPELLANTE

L'imputato avverso la sentenza del Tribunale di Udine del 27.11.2007 che, letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., lo dichiarava colpevole del reato ascritto e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, equivalenti alle aggravanti contestate, lo condannava alla pena di mesi uno di reclusione ciascuno, sostituita con Euro 1.140 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali in solido con F.D., L.G..
Pena estinta per indulto.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Con sentenza in data 27 novembre 2007 (depositata in data 16 gennaio 2008) il Tribunale di Udine, in composizione monocratica, ha condannato P.G. in ordine al reato di cui agli artt. 881, 113, 590 c.p. (in relazione agli artt. 222, comma I, 35 comma 2, 4 comma 5 lett. a) e 35 comma 2 D.Lgs. n. 626/1994) e, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, lo ha condannato alla pena di mesi 1 di reclusione, sostituita con 1.140,00 Euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, dichiarando contestualmente estinta detta pena per indulto.

Questa è in sintesi la ricostruzione del fatto cui è pervenuto il giudicante, sulla base delle testimonianze assunte e della documentazione acquisita:

- Le deposizioni delle persone offese P.A. e T.A. e gli altri testi assunti, nonché le risultanze della consulenza tecnica disposta dal P.M. e la documentazione acquisita - elementi tutti che non avevano costituito oggetto di contestazione nella loro oggettività da parte degli imputati - dimostravano, a parere del primo giudice, la materialità della vicenda in esame.

- In data 8.3.2004 i cap. magg. P. e T., militari di leva presso la caserma Paglieri di Codroipo, sede del reggimento E.I. Lancieri di Novara V, nell'effettuare una manovra di gonfiaggio di un pneumatico di un automezzo pesante Iveco Atc/81 nei locali officina del reparto, secondo le disposizioni loro impartite dal capofficina mar. P.G., venivano investiti dallo scoppio dello stesso e riportavano lesioni consistite per il P. in amputazione subtotale falange distale primo dito mano sinistra e frattura-lussazione polso destro, con prognosi di 40 giorni e per il T. in plurime contusioni ed escoriazioni con prognosi di 15 giorni.

- L'attività investigativa svolta consentiva di acclarare che l'infortunio andava ascritto ad un'erronea operazione di assemblaggio della ruota che, durante l'immissione dell'aria nella fase di gonfiaggio, determinava lo scoppio del pneumatico con violenta proiezione di frammenti anche all'esterno dell'apposita gabbia metallica, costruita nel 1982 e non più conforme ai criteri antinfortunistici, essendo provvista di maglie non sufficientemente fitte per prevenire la fuoriuscita di corpi contundenti e non essendo adeguatamente ancorata, in violazione del D.P.R. n. 489/1996 e del D.M. n. 284/2000.

- Risultava, dunque, la violazione delle norme antinfortunistiche di cui all'art. 22, comma I e 35, comma II D.Lgs. n. 626/1994, per non avere assicurato che i lavoratori ricevessero adeguata formazione in materia di sicurezza, con particolare riferimento alle mansioni svolte e per non essersi assicurati che la corretta procedura venisse effettivamente messa in pratica, nonché per non aver adottato le idonee misure tecniche, nella specie una gabbia metallica di protezione munita delle caratteristiche adeguate, ed organizzative, in particolare impartendo le necessarie istruzioni sull'allontanamento degli operatori durante la fase di gonfiaggio a norma dell'art. 3, comma I, lett. h) D.Lgs. cit. per converso, non era stato violato l'art. 4, comma V, lett. d) del detto D.Lgs. onde la declaratoria di colpevolezza anche nei confronti dell'appellante, nella qualità di capo officina, di cui in epigrafe.

2. Avverso tale sentenza ha interposto rituale appello l'imputato P.G., per il tramite del difensore fiduciario, formulando le seguenti doglianze:

- omessa valutazione delle diverse posizioni "di garanzia" dei coimputati. La difesa premette che nella specie è stata affermata la penale responsabilità dei coimputati, equiparando la posizione processuale degli stessi, a titolo di cooperazione colposa nelle lesioni riportate dalle persone offese, sia a titolo di colpa generica, sia a titolo di colpa specifica e qualificando gli stessi imputati come datore di lavoro (F.), preposto (P.) e responsabile del servizio prevenzione e protezione (L.). Ricorda, quindi, il disposto dell'art. 2, comma 1, lett. b) D.L.vo n. 626/1994 e succ. mod., da leggere in combinato disposto con l'art. 27, comma 1 Cost., laddove afferma il principio della personalità della responsabilità penale e sostiene che nell'ambito gerarchico della Caserma Paglieri di Codroipo risulta con evidenza che la qualifica di "datore di lavoro" debba attribuirsi esclusivamente al Comandante del Reggimento, primo destinatario dell'obbligo di adottare e far osservare le norme antinfortunistiche, nonché garante della incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei lavoratori. Ulteriore soggetto preposto a fornire ai lavoratori tutte le nozioni antinfortunistiche sufficienti e ad indicare agli stessi gli specifici Dispositivi di Protezione Individuale da adottare risulterebbe essere il Responsabile della Prevenzione Infortuni della predetta Caserma. Altri soggetti cui spettavano i compiti di applicare e far rispettare ai lavoratori le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro e di vigilare sui rischi connessi erano tre rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza ed il medico competente. Viceversa, il P., in qualità di capo officina, si sarebbe dovuto occupare esclusivamente della formazione tecnica ed informazione dei lavoratori nello specifico reparto. Non vi sarebbe alcuna prova concreta circa il conferimento, da parte del Comandante del Reggimento (datore di lavoro), di una delega al P. che potesse legittimare quest'ultimo ad adottare provvedimenti specifici in ordine al potenziamento delle conoscenze antinfortunistiche del personale; all'integrazione dei D.P.I. in adozione ai lavoratori; all'adeguamento dei macchinari non a norma, compiti questi di competenza dei soggetti indicati nell'organico della Caserma Paglieri relativo all'anno 2004. si contesta, dunque, in particolare la violazione al P. dell'art. 35, comma 1, D.Lvo. n. 626/1994. L'appellante non era preposto né gerarchicamente né sostanzialmente all'individuazione del fattore di rischio nell'unità lavorativa specifica, del processo produttivo ed alla verifica e predisposizione delle misure di sicurezza necessarie, compresa la valutazione della non conformità della gabbia di protezione alle vigenti norme in materia di sicurezza. Al contrario, tali, specifici obblighi sussistevano in capo al datore di lavoro (Comandante del reparto), al Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione della Caserma ed agli altri soggetti (Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza). Né, per altro aspetto, è stata fornita prova che il P. non avesse istruito i militari circa la distanza di sicurezza da tenere in tale ipotesi ed anzi, a parere della difesa, il primo giudice non avrebbe tenuto in considerazione le dichiarazioni delle due vittime dell'infortunio e la ricostruzione complessiva dei fatti, che insisterebbero proprio nell'opposta direzione circa l'istruzione tecnica ed in materia di sicurezza impartita dal P. ai due militari lesi nell'incidente, dal quale avrebbero anche ricevuto il "vademecum sulla sicurezza". Le stesse conclusioni del consulente tecnico del P.M., D., sarebbero nel senso di individuare la colpevolezza in capo al Responsabile per la Prevenzione degli infortuni in Caserma, nonché al Comandante della stessa, ma nulla si direbbe circa un'eventuale responsabilità del P..

- Nesso di causalità. Nei confronti del P. non sarebbe operante il meccanismo di cui all'art. 40, II comma, c.p., dal momento che in sede processuale non sarebbe stata fornita alcuna prova concreta che il P. abbia tenuto una condotta colposa idonea causalmente a produrre l'evento, vale a dire, nello specifico, che egli abbia fornito ai due militari un'istruzione ed informazione insufficiente. La circostanza, peraltro, che i due militari avessero provveduto al gonfiaggio di ben 65 pneumatici nei giorni precedenti all'infortunio sarebbe sufficiente a dimostrare, per la difesa, che i medesimi possedevano una buona conoscenza del procedimento da seguire e che lo stesso fosse per loro di routine. Anche la deposizione del teste C.V., dirigente del Servizio Sanitario dei Lancieri di Novara presso la detta Caserma confermerebbe che nella specifica sede lavorativa vi era, in materia infortunistica, informazione ed istruzione. Nella stessa direzione militerebbe altresì la testimonianza di L.P..

Formula pertanto corrispondenti conclusioni, chiedendo che la Corte adita, in via principale assolva il P. con la formula di cui all'art. 530, I comma, c.p.p., perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso; in via subordinata, lo assolva quantomeno ex art. 530, XI comma, c.p.p., per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova che l'imputato abbia commesso il fatto.

3. All'udienza del 13.1.2010, procedutosi nella contumacia dell'imputato, omessa la relazione sull'accordo delle parti, il Procuratore Generale ha concluso chiedendo la conferma dell'impugnata sentenza, mentre il difensore dell'imputato ha concluso chiedendo l'accoglimento del proposto appello.

4. Ritiene la Corte che l'appello sia fondato e debba per l'effetto venire accolto.

Invero appare corretta - e, peraltro, non ha costituito oggetto di contestazione di sorta da parte dell'appellante - la ricostruzione dell'infortunio in esame operata dal primo giudice, alla stregua delle emergenze fattuali, sicché a quella decisione la Corte può fare tranquillante rinvio per tutte le parti appresso non specificatamente trattate.

Giova unicamente rimarcare che è stato appurato che i due militari avevano smontato la ruota del veicolo; avevano sostituito il pneumatico e, dopo averla riassemblata, l'avevano portata all'interno della gabbia metallica per procedere al gonfiaggio; durante l'immissione dell'aria l'anello elastico di tenuta del cerchione si era disinnestato, venendo proiettato contro la gabbia unitamente ad altri elementi della ruota; la camera d'aria del pneumatico era esplosa, non essendo più trattenuta dagli apposito anelli. Il T., che stava provvedendo seduto su uno sgabello ad immettere l'aria con un manometro, era stato sbalzato a circa tre metri di distanza, mentre il P., che si trovava in piedi nelle vicinanze del commilitone, era stato colpito agli arti superiori; entrambi erano a distanza di circa mezzo metro dalla gabbia.

Correttamente, dunque, il primo giudice ha ritenuto che l'incidente sia imputabile al fatto che durante il montaggio della ruota erano stati erroneamente impiegati degli anelli di altra tipologia di ruote, ciò che risulta riscontrato dall'esame dei codici identificativi dei vari pezzi e che, sotto diverso profilo, il piano di valutazione dei rischi è apparso lacunoso in molti suoi punti e, in particolare, per non aver individuato tra le macchine in dotazione della Caserma la gabbia di protezione dallo scoppio dei pneumatici e per avere omesso la valutazione dei rischi ad essa correlati, nonché le disposizioni sulla procedura di utilizzo; inoltre per avere semplicemente riconosciuto l'attività di manutenzione gomme, senza tuttavia compiere l'analisi dei relativi rischi e riconoscere la mansione di gommista e, quindi, non avere studiato i rischi emergenti dalla sua pratica, non identificando, di conseguenza, il corredo di D.P.I. specifico per tale mansione.

Tanto assodato, dallo studio del corredo probatorio scaturito dall'istruttoria dibattimentale svolta si trae che il capo officina mar. ord. G.T., aveva affidato ai due infortunati l'incarico di eseguire la predetta attività manutentiva.

I profili di responsabilità sui quali si fonda la tesi d'accusa cristallizzata in imputazione e la colpevolezza degli imputati riconosciuta nella gravata sentenza, sono stati individuati nella omessa, idonea formazione tecnica ed antinfortunistica ai due militari, nonché nell'omessa verifica dell'adeguata dotazione delle attrezzature in uso da parte dei lavoratori e nell'omessa assicurazione che i medesimi non sostassero in prossimità dell'area di gonfiaggio.

Il perito industriale P.D., nominato C.T.P. dal P.M. nelle conclusioni rassegnate del proprio elaborato riteneva per un verso che nessuna responsabilità fosse imputabile ai due militari, in quanto la loro formazione tecnica ed antinfortunistica spettava al responsabile per la prevenzione degli infortuni della Caserma ed al Comandante della Caserma, in quanto loro datore di lavoro, come compariva dall'organigramma relativo all'anno 2004.

Dalla disamina di quest'ultimo documento (cfr. pag. 6.1/180 allegati alla C.T.P. D., depositato all'udienza 1.6.2007) l'odierno imputato non figura tra i responsabili o i preposti dell'insediamento militare al vaglio, contrariamente a quanto accade per il Datore di lavoro (il Col. D.F.), il Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (il Ten. Col. G.L.), i Rappresentati dei Lavoratori per la sicurezza ed il Medico Competente, nel periodo di interesse, cioè il 2004.

È pacifico che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la posizione di garanzia può sorgere a prescindere da un atto formale di investitura, attraverso il quale vengano dal titolare dell'impresa delegate le funzioni, essendo sufficiente alla individuazione del portatore di essa l'evidenza della sua collocazione verticistica nell'organizzazione del lavoro (Cass. pen., sez. IV, 16.6.2004, n. 40169, Ob. ed altri; Rv. 229566) e, dunque, la delega in materia di sicurezza non deve necessariamente rivestire forma scritta.

Com'è noto, infatti, la progressiva spersonalizzazione dell'attività imprenditoriale ha reso sempre più difficile per il naturale destinatario del precetto penale, il datore di lavoro, adempiere personalmente gli obblighi imposti dalla legge, con conseguente necessità di poter affidare ad altri soggetti specificamente individuati, il compito di vigilare sulla concreta applicazione di tali norme. La delega di funzioni assume dunque un rilievo fondamentale per la possibilità di aumentare in concreto i tassi di sicurezza e abbattere le perdite economiche relative agli infortuni sul lavoro.

Giova sottolineare che tale materia è priva di un'espressa regolamentazione da parte del legislatore, fatta eccezione per l'art. 1, comma 4 ter, D.Lvo n. 626/1994, che stabilisce quali obblighi non sono delegabili. Al di fuori dei casi ivi indicati, dunque, i requisiti di legittimità e validità della delega discendono dalla dottrina e dall'elaborazione giurisprudenziale.

Partendo da siffatte considerazioni la giurisprudenza è giunta, non senza contraddizioni, ad avallare la tesi dottrinaria c.d. sostanziale - funzionalistica, secondo cui alla presenza di determinati requisiti formali e sostanziali, la delega ha come effetto di liberare da responsabilità penale il soggetto delegante. In particolare, è necessario che il delegato, oltre a possedere le competenze necessarie allo svolgimento delle mansioni, sia messo in condizioni di poter effettivamente svolgere le funzioni cui è stato assegnato, per evitare che la delega diventi un mero strumento per concentrare verso il "basso" le responsabilità penali derivanti dal mancato adempimento degli obblighi previsti dalla legge. Tali condizioni devono concretizzarsi in una piena autonomia decisionale, nonché in pieni poteri di disposizione economica (cfr. Cass. pen., sez. IV, 25.6.1990). Ancora, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che affinché la delega di attribuzioni all'interno dell'azienda sia seria e reale e non un mezzo artificioso per scaricare la responsabilità, è necessario che abbia forma espressa e non tacita, oltre a possedere un contenuto chiaro, in modo che il delegato sia messo in grado di conoscere le responsabilità che gli sono attribuite, senza per questo, che sia necessaria una prova scritta dell'esistenza della delega poiché non giustificata da alcuna norma (Cass. pen., sez. III, 13.3.2003, n. 22931, Conci; Rv. 225322).

Sotto diverso profilo, inoltre, il Supremo Collegio ha affrontato la questione delle dimensioni dell'impresa, ritenendolo un requisito per poter considerare valida la delega (così Cass. pen., sez. IV, 976/2004, Cricchi e altro; Rv. 229690). In passato la giurisprudenza, sia pure non uniforme, aveva incluso tra i requisiti per la validità e l'efficacia della delega, la circostanza che l'impresa doveva essere di "notevoli" dimensioni, in modo tale da giustificare il ricorso a tale istituto. In seguito, preso atto della crescente complessità dell'attività imprenditoriale, si è passati da un giudizio basato su parametri di valutazione quantitativi, relativi alla grandezza dell'impresa, a parametri di valutazione qualitativi, relativi alla complessità del sistema produttivo. Più nello specifico, si può ritenere che diverse siano le ragioni che giustifichino il conferimento della delega, dalla titolarità di altre piccole aziende in capo al rappresentante legale, alla particolare professionalità di un dirigente in un settore ad alto tasso tecnico, che induce il titolare dell'azienda ad affidargli la responsabilità di settore. In ogni caso, nessuna efficacia liberatoria riveste la stessa presenza dei requisiti formali e sostanziali richiesti dalla giurisprudenza, qualora sia provata la conoscenza da parte del delegante stesso di prassi illegittime recanti violazione di norme antinfortunistiche (in tal senso Cass. pen., sez. IV, n. 28117/2001).

Da ultimo, la Corte di Cassazione ha stabilito che in materia di infortuni sul lavoro, relativamente alle funzioni che l'art. 9 D.Lgs. n. 626/1994 attribuisce al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, l'assenza di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale non esclude che l'eventuale inottemperanza a tali funzioni - e segnatamente la mancata individuazione e segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e la mancata elaborazione delle procedure di sicurezza nonché di informazione e formazione dei lavoratori - possa integrare una omissione rilevante per radicare la responsabilità tutte le volte in cui un sinistro sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata dal responsabile del servizio. Anzi, dovendosi ritenere che per l'operatività della suddetta disposizione è da considerarsi estesa, giusta il disposto dell'art. 7 D.Lgs. cit., ai rischi delle lavorazioni cui vanno incontro i dipendenti dell'appaltatore, se e nella misura in cui sia chiamato a rispondere nei loro confronti il datore di lavoro committente (Cass. pen., sez. IV, 15.2.2007, n. 15224, L.).

Applicati al caso di specie i superiori principi espressi, oltre che su piano dogmatico, dalla giurisprudenza di legittimità, nell'ipotesi che ci occupa, ritiene il giudicante che le violazioni degli artt. 222, comma 1 e 35, comma 2, D.Lgs. n. 626/1994, riscontrate a seguito dell'inchiesta sull'infortunio verificatosi l'8.3.2004 in danno di P.A. e T.A., presso l'officina della C.P. in Codroipo siano eziologicamente connesse all'infortunio occorso ai due militari e che, per l'effetto, il fatto di reato di cui in epigrafe sussista e, nondimeno, la responsabilità per l'evento non sia ascrivibile, oltre che ai due coimputati, altresì all'odierno imputato.

Corre l'obbligo di rimarcare, una volta ancora, che in materia di infortuni sul lavoro, è onere dell'imprenditore adottare nell'impresa tutti i più moderni strumenti che offre la tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori ed evitare infortuni (Cass. pen., sez. IV, 26.9.2005, n. 43095, M. ed altro; Rv. 232450). Il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche e organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 cod. civ., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40, comma II, c.p. Tale obbligo comportamentale, che è conseguenza immediata e diretta della "posizione di garanzia" che il datore di lavoro assume nei confronti del lavoratore, in relazione all'obbligo di garantire condizioni di lavoro quanto più possibili sicure, è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia al competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell'obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l'accortezza necessarie a evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi (Cass. pen., sez. IV, 22.1.2007, n. 10109, P. ed altri).

Non ricorrono, nell'ipotesi sub iudice, i richiamati parametri relativi alle notevoli dimensioni dell'insediamento produttivo, né la complessità dell'attività imprenditoriale o, tantomeno, del sistema produttivo tali da giustificare di per sé la validità di una delega.

Ma prima ancora, in termini dirimenti, mette conto considerare che il settore di appartenenza dell'Ente in oggetto, il Reggimento "Lancieri di Novara" (V), come si legge nel ricordato organigramma dell'unità produttiva, ha come Settore di appartenenza l'Amministrazione della Difesa e, dunque, vertendosi nel settore pubblico, deve rivestire forma scritta la delega di funzioni da parte dei vertici aziendali ai soggetti preposti, atteso che solo in campo amministrativo sussiste l'esigenza di una formalizzazione dei rapporti organizzativi all'interno della struttura (Cass. pen., sez. III, 13.7.2004, n. 39268, B. ed altro; Rv. 230088), ciò che non si riscontra in alcuna delle allegazioni cartolari dimesse agli atti inerenti la Caserma, connotata, piuttosto, da estrema rigidità e struttura verticistica, derivante dall'ambiente militare gerarchico, nel quale la posizione di un maresciallo capo officina non rivestiva certo alcuna funzione apicale o, comunque, dotata di poteri e/o autonomia decisionale ed economica.

Peraltro va ricordato che in tema di infortuni sul lavoro, indipendentemente dalla esistenza o meno della figura del preposto - la cui specifica competenza è quella di controllare l'ortodossia antinfortunistica dell'esecuzione delle prestazioni lavorative per rapporto all'organizzazione dei dispositivi di sicurezza - il datore di lavoro risponde dell'evento dannoso laddove si accerti che egli abbia omesso di rendere disponibili nell'azienda i predetti dispositivi di sicurezza (Cass. pen., sez. IV, 2.4.2007, n. 21593, B.; Rv. 236725). Più specificamente, il preposto ha l'obbligo di promuovere e controllare l'ortodossia antinfortunistica della esecuzione delle prestazioni lavorative, cioè deve assolvere ai doveri espressamente indicati all'art. 4, comma quinto del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, la cui inosservanza è sanzionata dall'art. 90. Appartiene invece solo alla competenza dei datori di lavoro e dei dirigenti la predisposizione degli strumenti materiali di prevenzione e protezione (Cass. pen., sez. III 17.2.2005, n. 14017; C. ed altro; Rv. 231612).

Inoltre preme notare che il D.Lgs. n. 626/1994, se da un lato prevede anche un obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di lavoro, e le altre figure ivi istituzionalizzate, ed, in mancanza, il soggetto preposto alla responsabilità ed al controllo della fase lavorativa specifica, dal debito di sicurezza nei confronti dei subordinati. Questo consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e di informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui all'art. 2087 cod. civ., norma "di chiusura" del sistema, da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata da specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (Cass. pen., sez. IV, 29.10.2003, n. 49492; D.; Rv. 231612; Cass. pen., sez. IV, 16.11.2006, n. 41997, P. e altro; Rv. 235679): nel caso sub iudice le altre figure istituzionalizzate erano indicate ed effettivamente sussistenti.

Da ultimo, non pare inutile sottolineare che in materia antinfortunistica devono ritenersi destinatari delle disposizioni di prevenzione coloro che presiedono direttamente o per delega alla organizzazione aziendale; non sono invece responsabili dell'incidente derivante dalla mancanza o dalla insufficienza di cautele e mezzi antinfortunistici coloro ai quali - non esplicando essi un potere di supremazia e di direzione nell'organizzazione del lavoro - spetta unicamente l'onere di vigilare sull'osservanza dei precetti imposti. Al preposto (destinatario delle norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro, ma svolgente attività sussidiaria), peraltro, può essere delegato l'apprestamento delle misure preventive, ma non anche quei compiti affidati in via esclusiva dalla legge ai dirigenti o all'imprenditore (Cass. pen., sez. IV, 12.10.2005, n. 44650, P.; Rv. 232617).

A fortiori si aggiunga che entrambe le persone offese hanno dichiarato in dibattimento di essere stati ripetutamente istruiti in punto di sicurezza da parte del P. e che era il Comando ad organizzare riunioni periodiche in tema di sicurezza; che inoltre, ai militari le norme di sicurezza le aveva spiegate il Ten. Col. L. e molte volte nell'arco della settimana transitava in officina anche il Col. F., il quale faceva loro notare possibili scorrettezze del loro agire o modalità più consone per svolgere i compiti cui erano adibiti. Il Comandante si vedeva in officina con cadenza quasi quotidiana.

Non residuano davvero margini di sorta per riconoscere un concorso causale colposo omissivo eziologicamente riconducibile all'odierno appellante in ordine al fatto di cui in rubrica.

Si impone, in definitiva, in riforma dell'impugnata sentenza, declaratoria di assoluzione dell'imputato, per non aver commesso il fatto.

P.Q.M.
la Corte d'Appello di Trieste Prima Sezione penale visto l'art. 605 c.p.p.,

in riforma della sentenza del Tribunale di Udine, del 14 marzo 2006, appellata da P.G., assolve l'imputato dal reato a lui ascritto, per non aver commesso il fatto.

Visto l'art. 544, III comma, c.p.p., indica in giorni 60 il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Trieste, il 13 gennaio 2010.

Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2010.