Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 agosto 2016, n. 17110  - Licenziamento e reintegrazione. Il lavoratore si sente male a seguito di un alterco sul lavoro e qualifica erroneamente l'episodio come infortunio sul lavoro


Presidente: NOBILE VITTORIO Relatore: MANNA ANTONIO Data pubblicazione: 16/08/2016

 

Fatto


Con sentenza pubblicata il 23.2.15 la Corte d'appello di Torino, in totale riforma della sentenza di rigetto emessa dal Tribunale di Alessandria, annullava perché sproporzionato il licenziamento disciplinare intimato con lettera del 28.6.13 nei confronti di A.E. da G. S.r.l., che condannava ex art. 18 legge n. 300/70 (nel testo novellato dall'art. 1 legge n. 94/12) a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a pagargli a titolo risarcitorio otto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre ai contributi dovuti dal licenziamento sino all'effettiva reintegra.
Per la cassazione della sentenza ricorre G. S.r.l. affidandosi a quattro motivi.
L'intimato resiste con controricorso.
Le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.
 

Diritto


1- Il primo motivo denuncia omesso esame d'un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti consistente nell’esistenza di ulteriori addebiti mossi al lavoratore, che non si era limitato ad affermare falsamente di aver subito un infortunio sul lavoro, ma aveva anche falsamente denunciato un'omissione di soccorso e insulti e minacce che avrebbe ricevuto da parte del suo superiore G.B., fatti mai accaduti (come accertato all'esito dell'istruzione probatoria); la Corte territoriale - prosegue il ricorso - non ha esaminato quest'ultima infrazione, pur essendo suscettibile di ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti; inoltre, nessuno dei testi ha confermato il fatto storico degli insulti e delle minacce che il controricorrente aveva detto di aver subito.
Il secondo motivo denuncia omesso esame d'un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti consistente nell'irriducibile contraddittorietà e incoerenza della decisione adottata dai giudici del reclamo, nella parte in cui la sentenza da un lato ha riconosciuto la falsa denuncia d'un infortunio sul lavoro e d'una omissione di soccorso, ma - dall'altro - ha fondato la motivazione sull'inesistenza d’una simulazione di infortunio che, in realtà, non era mai stata contestata al lavoratore; ciò detto - prosegue il ricorso - i fatti addebitati ed accertati in sede di merito erano di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 commi 4° e 5° legge n. 300/70 e dell'art. 61 CCNL Federpanificatori Panifici Industriali, in quanto la tutela reintegratoria cd. attenuata applicata dalla gravata pronuncia postula l’inesistenza del fatto inteso in senso materiale e non giuridico (mentre nel caso di specie il fatto nella sua materialità era stato accertato), o la sua assoggettabilità ad una mera sanzione conservativa, mentre nel caso in oggetto, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, l'addebito non era espressamente previsto tra i casi in via esemplificativa enumerati dal cit. CCNL come passibili di sanzioni conservative; pertanto, conclude il motivo, al più si sarebbe dovuta applicare la tutela meramente indennitaria di cui al comma 5° cit. art. 18.
Con il quarto motivo si lamenta violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in sede di interpretazione dell'art. 61 CCNL Federpanificatori Panifici Industriali, integrando i fatti de quibus grave pregiudizio alla morale, all’igiene o alla disciplina o insubordinazione grave ai superiori, infrazioni per le quale la cit. clausola contrattuale prevede la sanzione espulsiva.
2- I primi due motivi di ricorso - da esaminare congiuntamente perché connessi - sono infondati.
La sentenza impugnata non ha affatto omesso di esaminare la denuncia di omissione di soccorso, ma ha ritenuto che i fatti narrati dal lavoratore nella propria lettera indirizzata il 28.5.13 alla società - e dalla quale quest'ultima aveva preso le mosse per la contestazione disciplinare - fossero stati malamente qualificati come di infortunio sul lavoro, nel senso che in realtà quel che A.E. aveva lamentato era l'essersi sentito male a seguito d'un alterco sul lavoro (e come tale l'aveva poi espressamente definito al Pronto Soccorso, cosi come tale era stato definito nella certificazione medica poi inviata alla società) senza che il suo superiore ritenesse di chiamare un’ambulanza (tanto che il dipendente si era poi dovuto recare con mezzo proprio all'ospedale).
In altre parole, in sostanza la Corte territoriale, nel ricostruire la vicenda, ha motivatamente escluso che il lavoratore abbia denunciato fatti mai accaduti o calunniato chicchessia, ma ha ritenuto che egli abbia solo malamente qualificato come infortunio sul lavoro quello che, invece, era stato un mero malessere da lui patito sul luogo di lavoro a seguito d'un alterco con un superiore. Insomma, ha percepito come ingiusta una situazione che tale non era.
Né alla società ricorrente giova addurre una pretesa contraddittorietà nella motivazione. 
Infatti, in primo luogo il nuovo testo dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. (applicabile ratione temporis vista la data di pubblicazione della sentenza impugnata) non prevede più come vizio denunciabile ai sensi della norma citata l'eventuale contraddittorietà della motivazione, che - invece - può essere fatta valere, se del caso (ossia in ipotesi di motivazione tanto contraddittoria da risultare di fatto incomprensibile), come error in procedendo suscettibile di determinare la nullità della sentenza e, quindi, censurabile soltanto attraverso il canale d'accesso costituito dall'art. 360 co. 1° n. 4 c.p.c. (e non è questo il senso delle censure mosse dall’odierna ricorrente).
In secondo luogo, neppure si ravvisa una qualche contraddittorietà nell'avere la sentenza negato la simulazione di infortunio che pur, in sostanza, era stata addebitata dall'azienda al proprio dipendente nella lettera di contestazione disciplinare: infatti, sebbene il lemma "simulazione" non si legga nella lettera de qua, nondimeno quello è stato il senso dell'addebito così come interpretato dalla gravata pronuncia, anche sulla scorta del precedente giurisprudenziale (Cass. n. 24138/10) invocato in sede di merito dalla difesa della società (precedente che - appunto - aveva ad oggetto un caso di simulazione di reato da parte d'una lavoratrice).
Quanto al mancato esame dell'addebito consistente nell’avere falsamente dichiarato di aver subito insulti e minacce da parte del superiore G.B., si noti che la giurisprudenza di questa S.C. - cfr. Cass. S.U. n. 8053/14 e successive pronunce conformi - precisa gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso deve non solo indicare chiaramente il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma deve indicare il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti - il che non è avvenuto nel caso di specie - e spiegarne, infine, la decisività.
Inoltre, a quest'ultimo proposito si aggiunga che lo stesso ricorso, dopo aver trascritto le deposizioni rese sul punto dai testi, ha evidenziato che nessuno dei testi ha confermato il fatto storico degli insulti e delle minacce che al controricorrente sarebbero state mosse dal suo superiore. Ma, visto l'onere della prova incombente sul datore di lavoro, i testi avrebbero dovuto riferire (cosa che non hanno fatto, alla stregua di quanto emerge dalle stesse trascrizioni che si leggono in ricorso) qualcosa di diverso, vale a dire che il superiore non ha in alcun modo insultato o minacciato l'odierno controricorrente.
3- Il terzo motivo è infondato perché, a monte, il fatto è stato ritenuto passibile di sanzione meramente conservativa e, quindi, oggetto della tutela reintegratoria attenuata, espressamente prevista in tale evenienza dall'art. 18 co. 4° legge n. 300/70 nuovo testo.
Non valga in contrario obiettare che fra le esemplificazioni del cit. CCNL non si rinviene il fatto contestato all'A.E., poiché si tratta, appunto, di mere esemplificazioni.
4- Anche il quarto motivo va disatteso, vuoi perché, malgrado il richiamo degli artt. 1362 e 1363 c.c., lo stesso ricorso non riesce ad evidenziare in cosa sarebbero stati violati i canoni ermeneutici civilistici, vuoi perché non ricorre nessuna delle ipotesi invocate ai sensi dell'art. 61 CCNL Federpanificatori Panifici Industriali.
Non ricorrono l’insubordinazione (che presuppone il rifiuto di eseguire un legittimo ordine: non è questo l’addebito contestato all'odierno ricorrente) né i pregiudizi alla morale o all'igiene.
Né sussiste un grave pregiudizio alla disciplina, non ravvisabile in un mero alterco sul lavoro; quanto all'aver mosso al proprio superiore un’accusa calunniosa, in punto di fatto proprio ciò è stato motivatamente escluso dalla sentenza impugnata.
5- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 4.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Roma, cosi deciso nella camera di consiglio del 5.5.2016