Cassazione Penale, Sez. 4, 23 novembre 2016, n. 49626 - Frattura da schiacciamento della falange. Rischio previsto ma nessuna misura di sicurezza adottata


 

Il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, (sez. 4, n. 37986 del 27.6.2012, Battafarano, rv. 254365; conf. sez. 4, n. 3787 del 17.10.2014 dep. il 27.1.2015).
Nel caso che occupa, dunque, secondo la logica conclusione dei giudici di merito, l'imputato - pur avendo ampiamente previsto i rischi di quella lavorazione, nel DUVRI dell'azienda - non aveva posto in essere misure idonee a impedire comunque l'evento, cioè misure tecniche valide a neutralizzare il rischio di cui stiamo parlando. E tali omissioni sono state poste a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'odierno ricorrente, sul già ricordato presupposto che il datore di lavoro non ha soltanto l’obbligo di fornire al lavoratore gli strumenti idonei all'attività demandata, ma ha anche l'obbligo di verificare in modo puntuale e pregnante, che tali strumenti e tutti i DPI vengano diuturnamente utilizzati. Compito datoriale che è stato ritenuto essere ampiamente ed evidentemente disatteso nell'azienda dell’imputato, che permetteva all'infortunato di movimentare le pesantissime barre di metallo semplicemente utilizzando le mani.


Presidente: BIANCHI LUISA Relatore: PEZZELLA VINCENZO Data Udienza: 18/10/2016

 

 

 

Fatto

 


1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente A.C., con sentenza del 22/12/2015, confermava la sentenza emessa in data 15/5/2015 dal Tribunale di Busto Arsizio che lo aveva condannato alla pena di 309 euro di multa riconosciutolo colpevole del delitto p. e p. dall'art, 590, 1° e 30 comma, c.p., perché in qualità di titolare e legale rappresentante della TRAFILERIA C.C. S.p.A,, non ottemperando alle prescrizioni antinfortunistiche prescritte dall'art 29 comma 10 del d.lgs. 81/2008, cagionava a EF.M. lesioni personali consistite in una "FRATTURA DA SCHIACCIAMENTO DELLA FALANGE DISTALE DEL PRIMO RAGGIO"; giudicate guaribili in giorni 40 con un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un eguale periodo di tempo. Evento verificatosi per colpa da parte di A.C., consistita nel non aver fornito alla persona offesa, ovvero l'operaio EF.M., le istruzioni relative all'utilizzo del macchinario a disposizione della p.o., nonché nel non aver fornito un adeguato e specifico addestramento in rapporto alla sicurezza, tale de consentirne l'impiego in modo idoneo e sicuro, ovvero nel non aver valutato e adottato misure tecniche idonee a prevenire l'evento lesivo. In Marnate (VA) in data 20.05.2010
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, il A.C., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
Con un primo motivo, ricostruita la vicenda che ci occupa, il ricorrente deduce vizio motivazionale, affermandosi che la Corte territoriale si sarebbe limitata a recepire acriticamente le conclusioni del giudice di primo grado.
La Corte territoriale si concentrerebbe sulla compatibilità tra le lesioni subite dall'EF.M. e le modalità dell'infortunio, senza avvedersi che le considerazioni utilizzate per negare valore alle tesi difensive, se correttamente declinate, inducono a dubitare del racconto della persona offesa.
Il Collegio ambrosiano, poi, pretermetterebbe ogni valutazione dei profili di colpa specificamente contestati, mai affrontando i temi relativi alla formazione e informazione del lavoratore. Inoltre, le considerazioni della difesa in ordine all'abnormità del comportamento dell'EF.M. sarebbero state respinte senza accertare la corretta prassi aziendale, le istruzioni impartite al lavoratore e l'idoneità dei presidi all'uopo predisposti. 
La Corte milanese, infine, non si preoccuperebbe in alcun modo di ancorare il proprio giudizio a dati certi e incontrovertibili, ma fonderebbe il proprio convincimento su immotivate supposizioni, senza verificare l'effettiva sussistenza di una responsabilità penale.
Con un secondo motivo, sempre quale vizio motivazionale, sub specie di assenza di consequenzialità razionale tra premessa e conclusioni del procedimento argomentativo, si sostiene l'incompatibilità tra le lesioni subite dal lavoratore e le presunte modalità di verificazione del sinistro, apparendo illogiche entrambe le dinamiche che la Corte territoriale ha ritenuto compatibili con le lesioni.
Ci si duole che nella prima ipotesi ricostruttiva, trattandosi di barra sovrastante, il movimento rotatorio, dall’alto verso il basso, avrebbe determinato un impatto tale (atteso il peso) da coinvolgere l'intera mano ed è impensabile che il lavoratore potesse movimentare una barra di quel peso e di quelle dimensioni impugnandola con il pollice al di sotto della stessa (sarebbe rimasto schiacciato ancora prima dell'urto); se, invece, la barra era impugnata - sempre con la mano sinistra - tenendo il pollice lateralmente, le altre dita della mano, atteso il diametro della barra, sarebbero state le prime a essere colpite.
Nella seconda ipotesi, invece, la barra avrebbe colpito prima il pollice, ma il movimento inferto dall'urto avrebbe impedito al lavoratore, sempre in ragione del peso, di sottrarre le altre dita allo schiacciamento.
Per il ricorrente sembrerebbe difettare nella vicenda in esame una ricostruzione puntuale del sinistro (sempre che di ciò si tratti, dato che le sentenze di merito si fondano esclusivamente - si lamenta- sulle dichiarazioni della persona offesa e su una ricostruzione fattuale, effettuata dal funzionario ASL, ancorata esclusivamente al racconto dell' EF.M., tale da consentire l’individuazione delle effettive responsabilità ad esso correlate.
A fronte dì siffatta carenza di elementi probatori, tale da inficiare la ricostruzione stessa della dinamica del sinistro, e di valutazioni - quelle operate dalla Corte di Appello - scisse da riscontri, le quali si sostanzierebbero, secondo il ricorrente, in mere elucubrazioni, difetterebbero i requisiti minimi per un'affermazione di penale responsabilità.
La Corte milanese, poi, incorrerebbe in un'evidente contraddizione, in quanto in azienda erano presenti, a disposizione del lavoratore, leverini di varie misure (strumenti che, ad avviso dei funzionario ASL e del giudice di primo grado, se utilizzati correttamente avrebbero evitato il verificarsi dell'evento), ma poiché la movimentazione manuale delle barre sarebbe un comportamento "reiterato nel tempo e consentito dal datore dì lavoro" (non si comprende sulla base di quali elementi si giunga a una simile conclusione), allora evidente sarebbe la responsabilità dell'imputato, il quale, pur avendo previsto la tipologia di rischio in questione, non avrebbe adottato misure atte a fronteggiarlo (ma il ricorrente si domanda quali), poiché i leverini, "sono anch'essi strumenti manuali, che però non proteggono il lavoratore da incidenti assolutamente prevedibili (...) e perciò doverosamente prevenibili.
Quale sia il significato di siffatto ragionamento - ci si duole- sfuggirebbe alla logica comune: l'assunto secondo cui il comportamento del lavoratore sarebbe stato tollerato dall'imputato, infatti, oltre a essere affermazione apodittica, sarebbe priva di qualsivoglia collegamento logico con l'idoneità dei leverini a evitare l’evento. La Corte territoriale, infatti, porrebbe in relazione tra loro due questioni diverse e indipendenti, ponendo come premessa del ragionamento un'osservazione (condotta tollerata dal datore di lavoro) che nulla ha a che vedere con le conclusioni (inidoneità degli strumenti predisposti dal datore di lavoro). Non solo. Dando atto della presenza in azienda dei leverini - strumenti che ad avviso del giudice dì Busto Arsizío avrebbero consentito al lavoratore di non utilizzare le mani - che, in quanto "manuali", non avrebbero evitato l'evento, si giungerebbe, anche sotto il profilo lessicale, a una conclusione non comprensibile.
L'effetto di siffatta soluzione, poi, sarebbe quello di eliminare l'individuazione del comportamento alternativo lecito, con conseguente impossibilità di ascrivere l'evento, a titolo di colpa, all'imputato: quale fossero le misure idonee a evitare l'occorso rimane infatti, una volta esclusi i leverini, un dato inespresso.
I giudici milanese, di contro, avrebbero dovuto secondo il ricorrente: individuare le omissioni in cui è effettivamente incorso il A.C., ricostruendo in relazione ad esse il nesso eziologico con l'infortunio; determinare quale comportamento, se attuato, avrebbe impedito l'occorso; verificare se, dagli atti, emergessero elementi da cui desumere le indicazioni fornite al lavoratore circa il corretto espletamento delle mansioni a lui affidate.
Nulla di tutto ciò sarebbe ravvisabile nella decisione impugnata, che sarebbe connotata da omissioni, su aspetti essenziali in ordine alla configurabilità del reato colposo, che impediscono una pronuncia di condanna.
Nell'affermare, poi, che il comportamento del lavoratore non può ritenersi abnorme, i giudici del gravame del merito avrebbero fatto ampio ricorso a formule di stile, senza però mai spiegare le ragioni per le quali le prospettazioni difensive dovessero ritenersi infondate.
Con un terzo motivo si lamenta, cumulativamente violazione di legge e vizio motivazionale, in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi della colpa e, in particolare, al mancato accertamento dei profili di colpa specifica contestati. Nella decisione in discorso il giudizio controfattuale sarebbe stato del tutto pretermesso. Difetterebbe, poi, la verifica circa la c.d. "causalità della colpa": è necessario che l’evento verificatosi rientri proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva a evitare, costituendo la concretizzazione del rischio specifico che la norma cautelare mirava a prevenire e, per altro verso, nessun rimprovero può essere mosso all'agente quando una condotta appropriata (il c.d. comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento" (così questa sez. 4 nella richiamata sentenza 37606/2007).
Nella vicenda in esame non sarebbe possibile individuare la regola cautelare violata, perché tra quanto contestato e quanto affermato in sentenza non vi è corrispondenza né vi è alcun riferimento al comportamento alternativo lecito.
Quali dispositivi antinfortunistici avrebbe dovuto adottare l'imputato? Dove la formazione del lavoratore ha fallito? La persona offesa si è attenuta alle istruzioni, inadeguate, del datore di lavoro o ha disatteso istruzioni corrette che, se seguite alle lettera, avrebbero impedito l'occorso?
In assenza di risposte a tali domande non sarebbe possibile, ad avviso del ricorrente, pronunciare sentenza di condanna.
Con un quarto motivo di ricorso, sempre sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, ci si duole dell'omesso accertamento delle istruzioni impartite al lavoratore e della formazione dallo stesso ricevuta, oltre che della mancata verifica circa la possibile abnormità della condotta della persona offesa.
Con un quinto ed ultimo motivo di ricorso si lamenta violazione di legge e vizio motivazionale ritenendosi che la sentenza non abbia raggiunto quel quantum probatorio necessario per un'affermazione dì penale responsabilità.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


1. I motivi di doglianza in precedenza illustrati, prevalentemente di natura fattuale, sono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.
2. Sul punto va ricordato che il controllo del giudice dì legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19,3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542)
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Non c'è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46.
Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (il comportamento abnorme del lavoratore), senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Com'è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte, la sentenza deve essere logica "rispetto a sé stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
3. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Milano alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
Anche in appello la tesi difensiva era stata quella: 1. di un'errata ricostruzione del fatto, con dinamica dell'Incidente incompatibile con il tipo di lesione occorsa alla persona offesa, così da dover intendersi non veritiera la versione del lavoratore, tesa a sostenere un infortunio che non vi sarebbe mai stato. 2. che in ogni caso il datore di lavoro odierno ricorrente, aveva predisposto appositi strumenti - c.d. 'leverini' - per compiere le operazioni di movimentazione manuale dei manufatti (e in azienda, e proprio davanti alla zona di deposito delle barre, venne trovata una cassetta contenente una serie di leverini, in funzione del diametro delle barre stesse). Il loro mancato utilizzo da parte del lavoratore configurerebbe pertanto un’ipotesi di comportamento abnorme che, come tale, esclude la responsabilità del datore di lavoro.
Ebbene, i giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno risposto a tali doglianze, oggi riproposte, in primo luogo facendo propria la motivazione del giudice di primo grado.
Il che, com'è noto, è assolutamente legittimo.
Ed invero, quanto alla doglianza secondo cui la Corte di Appello avrebbe recepito integralmente e acriticamente la motivazione dei giudici di prime cure va ricordato sul punto che, per giurisprudenza pacifica di questa Corte, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.
Il giudice di secondo grado, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez, 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4. 2012, Valerio, rv. 252615: sez, 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107),
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l’"ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003, Deivai, rv. 223061).
4. E' stato anche sottolineato di recente da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non stano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio delta motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242 dell'8.2.2013, Reggio, rv. 254988).
Peraltro, nel caso in esame la Corte di Appello di Milano non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha risposto punto per punto ai motivi di gravame proposti. 
Così, in primo luogo, è stato evidenziato essere più che evidente come un fascio di barre rotonde, per quanto lunghe e pesanti, una volta liberate delle regge di trattenuta, rotolino le une sulle altre per andarsi a distendere sul piano a cui sono appoggiate. Nessun altro movimento è stato ritenuto essere plausibile e concepibile. È stata quindi ritenuta anche in tal caso assolutamente corretta l'indicazione del giudice di prime cure, disattendendo la prospettazione difensiva che voleva trattarsi di una illazione, che descriveva il fatto come un movimento incontrollato dei manufatti. Non vi era infatti alcun mezzo meccanico che controllasse gli spostamenti delle lunghe barre metalliche.
La Corte territoriale ha risposto poi in maniera assolutamente logica alla doglianza oggi riproposta secondo cui la lesione occorsa al lavoratore EF.M. risulterebbe incompatibile con l'accaduto, e con quanto dalla stessa parte lesa spiegato agli organi inquirenti.
I giudici del gravame del merito sono pervenuti a tale conclusione prendendo dichiaratamente in considerazione le due ipotesi fatte dalla Difesa: a) che il lavoratore avesse afferrato la barra con la mano sinistra, con il dorso della mano verso l'alto, e cioè con il pollice nella parte inferiore della barra, e le altre dita nella parte superiore. Una barra sovrastante, dal peso di 150 - 200 chili, rotolava verso quella afferrata, cadendoci sopra, ma senza attingere direttamente le dita dell'operaio. La barra afferrata veniva spinta pesantemente verso il basso, schiacciando il pollice del lavoratore, b) il lavoratore afferrava la barra con la mano con il dorso verso il basso, e cioè con il pollice nella parte superiore della barra, e le altre dita nella parte inferiore. La barra sovrastante rotolava direttamente sulla mano di EF.M. schiacciandogli il pollice.
È stato dunque logicamente ritenuto essere assolutamente errato ritenere impossibile lo schiacciamento del pollice da parte della barra sovrapposta quella movimentata.
5. La Corte territoriale ha già logicamente e congruamente confutato, con una motivazione con la quale in concreto l'odierno ricorrente non si confronta, anche la tesi difensiva del comportamento abnorme del lavoratore, anch'essa oggi riproposta.
E' stato acclarato che, per prendere e sistemare le barre, EF.M. usava le mani, protette soltanto dai guanti.
I giudici del gravame del merito danno atto che in azienda fossero presenti a disposizione del lavoratore, leverini di varie misure, e anche del fatto che gli stessi non fossero stati usati, ma evidenziano altresì che si trattava di un comportamento evidentemente reiterato nel tempo e consentito dal datore di lavoro (o dai suoi sottoposti).
Ma i giudici di appello vanno oltre il non uso dei leverini, rilevando che la movimentazione manuale delle lunghe barre di metallo, aveva degli ampi limiti di pericolosità, derivanti proprio dal loro ingente peso. Pericolosità ben individuata nel DUVRI dell'azienda, ma non fronteggiata in alcun modo.
Gli stessi leverini infatti - evidenzia la sentenza impugnata - sono anch'essi strumenti manuali, che però non proteggono il lavoratore da incidenti assolutamente prevedibili (e infatti annotati nel documento unico di valutazione dei rischi), e perciò doverosamente prevenibili.
La Corte territoriale ricorda che non sono riconducibili a un'ipotesi di comportamento abnorme, gli incidenti sul lavoro determinati da colpa del lavoratore, poiché le prescrizioni poste a tutela dei lavoratori mirano a garantire l'incolumità degli stessi anche nell'ipotesi in cui, per stanchezza, imprudenza, inosservanza di istruzioni, malore od altro, essi si siano venuti a trovare in situazione di particolare pericolo. Del pari corretto appare il rilievo che il datore di lavoro, che ha negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Va ricordato come, secondo il dictum di questa Corte di legittimità, il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere da quest'ultimo del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione del lavoro.
Ritiene il Collegio di condividere il principio affermato da questa sez. 4 con la sentenza n. 7364 del 14.1.2014, Scarselli, rv. 259321 secondo cui non esclude la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia riconducibile comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal tale comportamento imprudente. (Fattispecie relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un'idonea impalcatura - "trabattello" - nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza).
Il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumìtà fisica dei lavoratori - si è peraltro affermato in altre condivisibili pronunce- ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, (sez. 4, n. 37986 del 27.6.2012, Battafarano, rv. 254365; conf. sez. 4, n. 3787 del 17.10.2014 dep. il 27.1.2015, Bonelli, rv. 261946 relativa ad un caso in cui la Corte ha ritenuto non abnorme il comportamento del lavoratore che, per l'esecuzione di lavori di verniciatura, aveva impiegato una scala doppia invece di approntare un trabattello pur esistente in cantiere).
Nel caso che occupa, dunque, secondo la logica conclusione dei giudici di merito, l'imputato - pur avendo ampiamente previsto i rischi di quella lavorazione, nel DUVRI dell'azienda - non aveva posto in essere misure idonee a impedire comunque l'evento, cioè misure tecniche valide a neutralizzare il rischio di cui stiamo parlando. E tali omissioni sono state poste a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'odierno ricorrente, sul già ricordato presupposto che il datore di lavoro non ha soltanto l’obbligo di fornire al lavoratore gli strumenti idonei all'attività demandata, ma ha anche l'obbligo di verificare in modo puntuale e pregnante, che tali strumenti e tutti i DPI vengano diuturnamente utilizzati. Compito datoriale che è stato ritenuto essere ampiamente ed evidentemente disatteso nell'azienda dell’imputato, che permetteva a EF.M. di movimentare le pesantissime barre di metallo semplicemente utilizzando le mani.
La sentenza impugnata, dunque, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, offre una motivazione congrua circa i profili di colpa ascrivibili all'odierno ricorrente.
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto. 
6. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 18 ottobre 2016