Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. 6, 21 dicembre 2016, n. 26564 - Sindrome depressiva da stress per il lavoratore della struttura alberghiera


 

 

Presidente: CURZIO PIETRO Relatore: PAGETTA ANTONELLA Data pubblicazione: 21/12/2016

 

 

 

FattoDiritto

 


Con sentenza n. 9411/2014 la Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello proposto da D.P. avverso la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda dell’odierno ricorrente intesa all’accertamento del diritto ex lege n. 38 del 2000 all’indennizzo in conto capitale o alla rendita per inabilità permanente scaturita da malattia professionale — sindrome depressiva da stress — asseritamente contratta per l'attività lavorativa prestata presso struttura alberghiera.
Il giudice di appello, accolto il motivo di gravame con il quale era censurata la sentenza di primo grado per avere affermato la genericità dei fatti costitutivi della pretesa indicati nel ricorso giudiziale, ha ritenuto ugualmente infondata la domanda del lavoratore sul rilievo che la deposizione resa dal teste escusso in seconde cure non consentiva di ritenere provate le circostanze allegate; da tale deposizione era, infatti, emerso che il D.P., prima del cambio della gestione dell’albergo, lavorava con le medesime mansioni degli altri camerieri, non risultando dimostrata la qualifica di capo servizio; era emerso, inoltre, che a tutti i dipendenti capitava di essere adibiti a compiti diversi, anche di facchinaggio e pulizia piatti. Ha osservato, quindi, il giudice d’appello che, in assenza di puntualizzazioni della frequenza con la quale era richiesto al lavoratore di lavare piatti o caricare e scaricare pesi, ed in mancanza di riscontro probatorio circa l’assoggettamento ad orari di lavoro che, ove protratti nel tempo sarebbero stati certamente usuranti, non era possibile ritenere l’assoggettamento a condizioni di lavoro stressanti e non consone alla qualifica.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso D.P. sulla base di un unico motivo articolato in una pluralità di censure; l’INAIL ha resistito con tempestivo controricorso Con l’unico motivo parte ricorrente, deducendo, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. , omesso esame circa un fatto decisivo, ha censurato la decisione:  a) per avere omesso di motivare in maniera adeguata il mancato accoglimento della richiesta istruttoria di consulenza tecnica d’ufficio che avrebbe potuto dimostrare l’origine professionale della malattia denunziata; b) per omessa considerazione delle conseguenze derivanti dalla tardiva ammissione della prova testimoniale, sia sotto il profilo della difficoltà di ricordo da parte del teste escusso, stante il tempo trascorso dai fatti, sia sotto il profilo della corretta valutazione del contenuto della deposizione testimoniale, che asserisce ampiamente dimostrativa dello straining subito dal ricorrente, condotta non richiedente quella sistematicità di condotte proprie del mobbing.
Il motivo, in adesione alla proposta formulata nella relazione depositata ai sensi degli artt. 375 e 380 bis cod. proc. civ., è da reputarsi inammissibile per una pluralità di profili. In primo luogo, come eccepito dall’INAIL, il ricorso è privo di autosufficienza posto che parte ricorrente omette la compiuta ricostruzione della vicenda processuale, con specifico riferimento al contenuto del ricorso di primo grado ed alle deduzioni difensive dell’INAIL; omette,inoltre, di riportare, anche in forma riassuntiva, il contenuto degli atti e dei documenti di causa alla base delle censure svolte.
In secondo luogo i vizi motivazionali denunziati non sono riconducibili all’attuale configurazione del motivo di ricorso di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.
Con riferimento alla nuova configurazione del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360 comma primo n. 5 cod.proc.civ. le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che “la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione”. ( Cass. ss.uu. n.8053 del 2014)
In particolare è stato precisato che il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell'art. 360 cod. proc. civ. concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extra testuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In conseguenza la parte ricorrente sarà tenuta ad indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma , n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. - il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l'esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.
Parte ricorrente non articola le proprie censure in maniera conforme a tali prescrizioni posto che non indica il “fatto storico”, la cui omessa considerazione avrebbe, in tesi, viziato la decisione di secondo grado, non potendo tale fatto, alla stregua dei principi richiamati, identificarsi con il mancato conferimento dell’incarico peritale. La consulenza tecnica d' ufficio è mezzo istruttorio ( e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell'ausiliario giudiziario e la motivazione dell'eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice, (v. , tra le altre, Cass. n. 15219 del 2007 ) Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie apparendo la scelta di non disporre consulenza tecnica d’ufficio del tutto coerente con la rilevata carenza di prova dei fatti alla base della pretesa azionata Parimenti non sono configurabili come “fatto storico” né la considerazione della difficoltà di ricordo del teste in ragione del tempo trascorso dagli accadimenti né la ricostruzione del contenuto della deposizione testimoniale come idonea a fondare l’assunto del ricorrente sulla esistenza di malattia di origine professionale. In effetti con tali doglianze parte ricorrente tende a sollecitare un diverso apprezzamento delle risultanze probatorie, attività preclusa al giudice di legittimità anche nel vigore dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nel testo antecedente alla novella del 2012. Secondo l’insegnamento costante di questa Corte, la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico — formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonché scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge ( tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008, n.5489 del 2007, n. 20455 del 2006, n. 20322 del 2005, n. 2537 del 2004). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità — non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità .
Le spese del giudizio sono regolate secondo soccombenza.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l'applicazione dell'ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).
 

 

P.Q.M.
 

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione all’INAIL delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 2.700,00 per compensi professionali, € 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%,oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13 .
Roma, 20 ottobre 2016