Cassazione Penale, Sez. 7, 23 dicembre 2016, n. 54829 - Sicurezza nei cantieri. Responsabilità del datore di lavoro di fatto, del direttore dei lavori e del capocantiere


Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: MONTAGNI ANDREA Data Udienza: 28/09/2016

 

 

 

FattoDiritto

 


J.A., R.L. e M.S. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano indicata in epigrafe con la quale, sostituita la pena detentiva inflitta a J.A. con quella pecuniaria della specie corrispondente, è stata confermata la sentenza di condanna resa dal Tribunale di Pavia in data 22.10.2014, in riferimento al reato di lesioni colpose, aggravato dalla violazione delle norme poste a tutela della sicurezza nei cantieri.
Gli esponenti, con il primo motivo, deducono la violazione di legge.
In riferimento alla posizione di J.A., si contesta che costui possa qualificarsi come datore di lavoro del lavoratore infortunato. Rileva di avere conferito delega al capo cantiere.
Con riguardo alla posizione di R.L., si ribadisce che il predetto non era presente in cantiere; e si rileva che le dichiarazioni della parte civile devono essere oggetto di attento vaglio, da parte del giudice del merito.
Rispetto all'imputato M.S., si ribadisce che il cantiere era chiuso all'epoca del fatto; e che le dichiarazioni della parte civile devono essere oggetto di attento vaglio, da parte del giudice del merito.
Con ulteriore motivo gli esponenti si dolgono del diniego delle attenuanti generiche e della entità delle pene.
I ricorsi sono inammissibili.
Soffermandosi sulle questioni afferenti alla affermazione di responsabilità degli imputati, si osserva che i ricorrenti introducono censure non consentite nel giudizio di legittimità, in quanto concernenti la ricostruzione e la valutazione del fatto, come pure l’apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito, che ha fornito una congrua e adeguata motivazione, immune da incongruenze di ordine logico. Come è noto la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto, pressocchè costantemente, che "l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali" (Cass. 24.9.2003 n. 18; conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997). Più specificamente si è chiarito che "esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Cass. sezioni unite 30.4.1997, Dessimone). Ed invero, in sede di legittimità non sono consentite le censure, che pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Cass. 23.03.1995, n. 1769, Rv. 201177; Cass. Sez. VI sentenza n. 22445 in data 8.05.2009, dep. 28.05.2009, Rv. 244181).
Del resto, la Corte di Appello ha espressamente considerato - soffermandosi sugli specifici motivi di doglianza, sviluppando un percorso argomentativo immune da aporie di ordine logico, saldamente ancorato al compendio di prova - che tutti gli imputati erano pienamente responsabili del reato loro ascritto. Con riguardo a M.S., il Collegio ha chiarito che il predetto era colui che dirigeva i lavori - non sospesi all'epoca dell'infortunio - e che aveva ordinato specificamente alla vittima B.H.H. di riparare un pluviale, posto a sei metri di altezza dal terreno, posizionando una scala sopra una tavola appoggiata su due cavalletti. Con riferimento alla posizione di R.L., la Corte distrettuale ha evidenziato che costui era il capocantiere ed il responsabile dei lavoratori. Quanto a J.A., la Corte di Appello ha in particolare sottolineato che costui aveva reclutato "in nero" il muratore B.H.H.; che il predetto imputato si era comportato come datore di lavoro di fatto; e che, all'indomani dell'infortunio, J.A. aveva minacciato la vittima, al fine di evitare che venisse formalizzata la denuncia del sinistro.
Le censure affidate al secondo motivo di ricorso sono del pari inammissibili.
Si osserva che la decisione impugnata risulta sorretta da conferente apparato argomentativo, che soddisfa appieno l'obbligo motivazionale, anche per quanto concerne la determinazione del trattamento sanzionatorio. E' appena il caso di considerare che in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Cass. sez. VI 22 settembre 2003 n. 36382 n. 227142) o con formule sintetiche (tipo "si ritiene congrua" vedi Cass. sez. VI 4 agosto 1998 n. 9120 Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Cass. sez. IlI 16 giugno 2004 n. 26908, Rv. 229298). Si tratta di evenienza che non sussiste nel caso di specie. La Corte territoriale ha infatti evidenziato che agli imputati non potevano essere concesse le attenuanti generiche, tenuto anche conto del comportamento successivo al reato. Il Collegio ha inoltre considerato che il mite trattamento sanzionatorio applicato dal primo giudice non poteva essere ulteriormente ridotto, avuto riguardo al grado della colpa. Non di meno, la Corte territoriale ha accolto l'istanza di sostituzione della pena, avanzata nell'interesse dell'imputato J.A..
Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma in favore della Cassa delle Ammende indicata in dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di 2.000,00 euro alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, in data 28 settembre 2016.