Cassazione Penale, Sez. 4, 09 maggio 2017, n. 22613 - Schiacciamento di un dito con la pressa: la contemporanea presenza di due operatori aveva reso prevedibile la possibilità dell'evento verificatosi


 

 

Presidente: ROMIS VINCENZO Relatore: MONTAGNI ANDREA Data Udienza: 06/04/2017

 

Fatto

 

1. La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava la sentenza di condanna del Tribunale di Ravenna, sezione distaccata di Lugo, resa in data 15.12.2011, nei confronti di B.G., in relazione al reato di lesioni colpose, indicato in epigrafe. Al B.G., nella sua qualità di presidente del consiglio di amministrazione della società Vulvaflex spa, si addebita di aver cagionato, per inosservanza delle norme antinfortunistiche, lesioni personali in danno della dipendente R.M., consistite nel trauma da schiacciamento del secondo dito della mano destra. Ciò in quanto, mentre la R.M. si trovava a lavorare alla pressa modello Micro unitamente ad un collega, nel tentativo di estrarre un frammento di plastica, infilava la mano destra nella corsia in cui doveva passare il filo metallico destinato alla legatura dei pallet, schiacciandosi il dito indice. Il profilo di colpa specifica ascritto all'imputato discende dall'utilizzo della pressa Micro, nonostante la stessa fosse sprovvista dei dispositivi idonei ad impedire che le mani degli addetti si introducessero nella corsia di passaggio del filo metallico destinato all'imballaggio.
I giudici del merito, rilevavano che, in particolare, in caso di contemporanea presenza di due operatori, la mancanza di disponibilità di tutti i comandi, non garantiva condizioni di sicurezza anche in ragione dell'Ingombro esistente tra i due lavoratori, rappresentato dalla macchia stessa. E riferivano che il collega, avendo la visuale impedita dalla pressa, non si avvedeva del gesto della R.M. e azionava il pistone che, tornando indietro, procurava alla donna le lesioni indicate nel capo di imputazione.
2. Avverso la predetta sentenza della Corte di Appello di Bologna ha proposto ricorso per cassazione B.G., a mezzo dei difensori.
L'esponente osserva che la Corte di Appello, nel confermare la valutazione del primo giudice, ha ritenuto non abnorme il comportamento della lavoratrice. Al riguardo, il ricorrente richiama arresti della giurisprudenza di legittimità e considera che i giudici di merito non hanno considerato che il comportamento del lavoratore, nel caso, era eccentrico, rispetto al rischio lavorativo che il titolare della posizione di garanzia doveva governare.
Il ricorrente osserva che l'estrazione di frammenti di tela dalla canalina per il passaggio del filo di ferro non rientrava nelle mansioni del lavoratore addetto, tanto più nel caso in cui venga effettuata senza previamente accertarsi della fase in cui si trovi l'operazione di pressatura. Sottolinea che le mansioni degli operatori alla linea di visionatura non prevedevano l'assistenza agli operatori alla pressa. E rileva che la R.M. era stata formata sulle attività da svolgere e sui rischi connessi alla propria mansione.
Il ricorrente osserva che la pressa è intrinsecamente sicura, posto che il lavoratore addetto non ha la possibilità di avviare dal quadro comandi il ritorno del pistone e, contemporaneamente, di introdurre il dito nella fessura.
L'esponente rileva che la Corte di Appello erroneamente ha ritenuto che la presenza di un secondo operatore avesse reso la macchina pericolosa, contraddicendo quanto sostento dal consulente tecnico della difesa. Rileva che neppure i due tubi inseriti nella macchina all'indomani dell'infortunio possono impedire il verificarsi di un incidente. Il deducente sottolinea che la macchina era conforme alle prescrizioni di legge; e ribadisce che l'infortunio si è verificato per una serie di fatti inverosimili eccezionalmente concatenati, da qualificarsi come fattore anomalo sopravvenuto.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso in esame impone le considerazioni che seguono.
La parte denuncia la conferenza logica dell'apparato motivazionale, afferente al tema della abnormità della condotta posta in essere dalla lavoratrice, rispetto alle prescrizioni che erano state impartite dal B.G., titolare della posizione di garanzia, in rapporto alle concrete modalità di utilizzo della pressa Micro.
Giova premettere, nel procedere all'esame del motivo di ricorso che occupa, che questa Suprema Corte ha chiarito che il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (tra le altre Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207945). E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, Sentenza n. 17905 del 23.03.2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 1, Sentenza n. 1769 del 23/03/1995, Rv. 201177; Sez. 6, Sentenza n. 22445 in data 8.05.2009, Rv. 244181).
Deve poi considerarsi che la Corte regolatrice ha da tempo chiarito che non è consentito alle parti dedurre censure che riguardano la selezione delle prove effettuata da parte del giudice di merito. A tale approdo, si perviene considerando che, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, Sentenza n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. 2, Sentenza n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Rv. 196955). Come già sopra si è considerato, secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, l'art. 606 cod. proc. pen. non consente alla Corte di Cassazione una diversa "lettura" dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali. E questa interpretazione non risulta superata in ragione delle modifiche apportate all'art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen. ad opera della Legge n. 46 del 2006; ciò in quanto la selezione delle prove resta attribuita in via esclusiva al giudice del merito e permane il divieto di accesso agli atti istruttori, quale conseguenza dei limiti posti all'ambito di cognizione della Corte di Cassazione. Ebbene, si deve in questa sede ribadire l'insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, per condivise ragioni, in base al quale si è rilevato che nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; che occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; che il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito e che il giudice di legittimità non può ad esso sostituirsi sulla base della lettura necessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione (Sez. 5, Sentenza n. 16959 del 12/04/2006, Rv. 233464).
Delineato nei superiori termini l'orizzonte del presente scrutinio di legittimità, si osserva che il ricorrente sembra invocare, in realtà, una inammissibile riconsiderazione alternativa del compendio probatorio, con riguardo all'affermazione di penale responsabilità. Invero, il deducente piuttosto che sollevare censure che attingono il percorso argomentativo sviluppato dalla Corte di Appello, si duole della mancata valorizzazione di determinati elementi di fatto, emergenti in tesi difensiva dal contenuto del compendio probatorio, omettendo di confrontarsi con il percorso argomentativo sviluppato dalla Corte di Appello.
É poi il caso di rilevare che le valutazioni espresse dalla Corte di Appello, rispetto al contenuto dell'obbligo protettivo gravante sull'imputato e sulla condotta realizzata dalla R.M., risultano immuni da aporie di ordine logico ed appaiono saldamente ancorate all'acquisito compendio probatorio.
Il Collegio ha chiarito che era stata la presenza di un secondo operatore a rendere pericolosa la macchina e che l'incidente era avvenuto per l'intervento del secondo addetto.
La Corte distrettuale ha considerato che era infondata la tesi difensiva, in base alla quale doveva ritenersi impossibile prevedere un infortunio come quello occorso alla R.M.. Al riguardo, in sentenza si chiarisce che proprio la contemporanea presenza di due operatori aveva reso prevedibilissima la possibilità che il secondo agente potesse compiere proprio l'operazione posta concretamente in essere dalla infortunata, in difetto di adeguato coordinamento. Preme pure considerare che la Corte di Appello ha precisato che l'infortunio non era dipeso da una improvvida iniziativa assunta dalla dipendente infortunata. Al riguardo, in sentenza si chiarisce che i due addetti alla linea arrotolatrice e della pressa collaboravano tra loro; e che l'operazione posta in essere dalla R.M. risultava funzionale allo svolgimento della attività produttiva, giacché era idonea a ridurre i tempi di lavorazione. Sulla scorta di tali rilievi, il Collegio considera che il comportamento della R.M. rientrava nel contesto della attività lavorativa, se pure non espressamente previsto nel mansionario; che lo stesso comportamento garantiva la funzionalità della linea produttiva; e che l'evento ad esso connesso era prevedibile e prevenibile da parte del datore di lavoro.
In tali termini, la Corte di appello, secondo un percorso argomentativo logicamente conferente, ha censito il tema relativo al contenuto dell'obbligo di vigilanza che grava sul datore, in caso di condotta colposa del lavoratore. Il Collegio ha osservato che la condotta posta in essere dalla R.M. risultava imprudente, giacché doveva ritenersi percepibile il pericolo rappresentato dalla presenza dei cavi elettrici; non di meno, ha escluso il carattere della abnormità, posto che l'azione rientrava nelle mansioni ordinariamente svolte, delle quali costituiva naturale esplicazione. Si tratta di argomentazione che si colloca nell'alveo dell'insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità.
Invero, la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Segnatamente, si è chiarito che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità; che può escludersi l'esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; che, nella materia che occupa, deve considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro; e che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili - come avvenuto nel caso di specie - della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Sez. 4, sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. 2000, Rv. 215686). E preme altresì evidenziare che la Suprema Corte ha chiarito che non può affermarsi che abbia queste caratteristiche il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione rientrante pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli (Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, Rv. 236109).
Non sfugge che la Corte regolatrice ha pure considerato che il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, abbia fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed abbia adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore (Sez. 4, Sentenza n. 8883 del 10/02/2016, dep. 03/03/2016, Rv. 266073). Occorre peraltro considerare che, nel caso di specie, le indicazioni emergenti dalla sentenza impugnata conducono ad escludere che M., titolare della posizione di garanzia, abbia adempiuto a tutte le obbligazioni discendenti sua posizione; conseguentemente, il caso di giudizio resta estraneo dall'ambito di operatività della teorica ora citata, per insussistenza delle specifiche condizioni fattuali di riferimento. La responsabilità del datore di lavoro, infatti, pure aderendo all'orientamento da ultimo richiamato, può essere esclusa solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, cosi da connotarsi come del tutto imprevedibile o inopinabile (Sez. 4, Sentenza n. 37986 del 27/06/2012, dep. 01/10/2012, Rv. 254365).
2. Deve pertanto in conclusione rilevarsi che le valutazioni effettuate dai giudici di merito, in ordine alla non abnormità del comportamento imprudente posto in essere dalla dipendente infortunata, risultano immuni dalle dedotte censure; e che il ricorso dell'imputato meriterebbe di essere rigettato. A questo punto della trattazione occorre, infatti, osservare che il reato per il quale si procede risulta estinto per intervenuta prescrizione, essendo spirato il termine massimo, di anni sette e mesi sei, alla data del 3.09.2015, successivamente rispetto alla pronuncia della sentenza oggi ricorsa. Esclusa, sulla scorta considerazioni sopra espresse, la sussistenza delle condizioni legittimanti l'adozione di sentenza liberatoria ai sensi dell'art. 129 comma 2, cod. proc. pen., si impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere il reato estinto per prescrizione.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.
Così deciso il 6 aprile 2017.