Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 maggio 2017, n. 11566 - Domanda per accertare i postumi invalidanti dell'infortunio. Nessuna prova che le lesioni denunziate siano la conseguenza di un trauma verificatosi durante la prestazione lavorativa


 

Presidente: BERRINO UMBERTO Relatore: BERRINO UMBERTO Data pubblicazione: 11/05/2017

 

Fatto

 


La Corte d'appello di Roma ha rigettato l'impugnazione di C.M.C. avverso la sentenza del Tribunale di Tivoli che le aveva respinto la domanda proposta nei confronti delI'Inail per l'accertamento dei postumi invalidanti permanenti, pari almeno al 6%, per l'infortunio occorsole il 27.11.2003 e per il conseguimento dell'indennizzo in capitale per il danno biologico subito.
La Corte di merito ha spiegato che non si era avuta la prova che le lesioni denunziate fossero la conseguenza di un trauma verificatosi durante la prestazione lavorativa.
Per la cassazione della sentenza ricorre la C.M.C. con un unico motivo, illustrato da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso l'Inail.
 

 

 

 

Diritto

 


Con un solo motivo la ricorrente deduce sia il vizio di motivazione, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., che la violazione dell'art. 2 del T.U. n. 1124 del 1965 e degli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., con riferimento alla parte della decisione impugnata in cui si afferma che non si era avuta la prova che il trauma si fosse verificato durante la prestazione lavorativa o l'orario di lavoro, essendo stata dimostrata la sola circostanza del suo accompagnamento al pronto soccorso al termine della giornata lavorativa. La ricorrente assume, in contrario, che l'incidente era avvenuto in tarda mattinata durante lo svolgimento dell'attività lavorativa all'interno dell'istituto psichiatrico in cui lavorava come infermiera e tale circostanza avrebbe potuto desumersi dalla deposizione del teste T.G. che l'aveva accompagnata al pronto soccorso dell'ospedale di Tivoli. Inoltre, secondo la ricorrente, la Corte d'appello aveva trascurato di valutare le presunzioni emergenti dagli atti processuali che l'avrebbero condotta a riconoscere la sussistenza del nesso di causalità tra l'incidente occorsole e l'attività lavorativa espletata, così come la stessa Corte non aveva esercitato i poteri ufficiosi d'indagine inutilmente sollecitati, atti a superare l'incertezza dei fatti costitutivi in contestazione.
Il ricorso è infondato.
Invero, la ricorrente formula sostanzialmente censure che mirano a riproporre un nuovo esame del fatto che non è consentito in cassazione allorquando, come nella fattispecie, la motivazione impugnata è esente da rilievi di legittimità.
Infatti, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), "il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall'art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., è configurabile soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l'obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest'ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse".
Quanto al fatto che la Corte di merito non avrebbe valutato le presunzioni evincibili dagli atti di causa e non si sarebbe avvalsa dei poteri d'ufficio atti ad integrare la prova si osserva quanto segue: -Premesso che spetta esclusivamente al giudice di merito valutare la pertinenza dei mezzi istruttori di cui una parte chiede la produzione, rientrando nei poteri del giudicante verificarne la rilevanza ai fini della dimostrazione di punti decisivi della controversia, si è precisato (Cass. Sez. 3 n. 14611 del 12/7/2005) che il giudice di merito non è tenuto ad ammettere e valutare tutti i mezzi di prova dedotti dalle parti, atteso che qualora ritenga sufficientemente istruito il processo bene può, nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, insindacabili in sede di legittimità, non ammettere un mezzo istruttorio, valutandolo, alla stregua di tutte le risultanze processuali, irrilevante o superfluo. Al riguardo, inoltre, l'obbligo di motivazione sul carattere superfluo di tale mezzo istruttorio non esclude che le ragioni del rigetto della richiesta di ammissione possano chiaramente desumersi dalle complessive articolate argomentazioni contenute nella sentenza, in ordine alla sussistenza di sufficienti elementi di prova già raggiunti per fondare la decisione, sì da rendere inutile l'ulteriore istruttoria (Cass. 17/03/2004, n. 5421; Cass. 16/07/1987, n. 6256; Cass. 05/06/1987, n. 4903; Cass. 10/05/1995, n. 5106; Cass. 16/01/2003, n. 559).
Si è, altresì, chiarito (Cass. Sez. Lav. n. 15502 del 2/7/2009) che "il giudice di merito non è tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste di prova avanzate dalla parte ove i fatti risultino già accertati a sufficienza e i mezzi istruttori formulati appaiano, alla luce della stessa prospettazione della parte, inidonei a vanificare, anche solo parzialmente, detto accertamento." Orbene, nella fattispecie, dalla lettura della motivazione dell'impugnata sentenza emerge che la Corte territoriale è pervenuta al convincimento di confermare la sentenza di rigetto di primo grado dopo aver rilevato che non vi era la prova che le lesioni denunciate dalla C.M.C. al pronto soccorso in data 27.11.2003 fossero la conseguenza di un trauma accaduto durante la prestazione lavorativa o durante l'orario di lavoro, tanto che secondo la stessa Corte la ricorrente non aveva dimostrato che quelle lesioni fossero ricollegabili alle circostanze ed alle modalità descritte nel ricorso amministrativo, peraltro diverse da quelle indicate nel ricorso giudiziario. Nella sentenza si legge, altresì, che la ricorrente non aveva chiesto di dimostrare la circostanza addotta nel ricorso di primo grado relativa all'informativa dell'incidente fatta nell'immediatezza alla dottoressa C., medico di turno, limitandosi a provare di essere stata accompagnata al pronto soccorso al termine della sua giornata lavorativa.
Quanto all'asserita violazione dell'art. 2 del T.U. n. 1124 del 1965 si osserva che la relativa censura non è supportata dalla spiegazione del motivo e del modo attraverso i quali la Corte territoriale avrebbe disatteso il contenuto della stessa norma, per cui tale doglianza cela, in realtà, un tentativo di riesame del merito probatorio che non è consentito nel giudizio di legittimità allorquando la motivazione impugnata riposa, come nella fattispecie, su argomentazioni congrue ed esenti da vizi di ordine logico-giuridico.
Invero, come si è già avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 7394 del 26 marzo 2010), " in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa." (in senso conf. v. anche Cass. Sez. lav. n. 16698 del 16 luglio 2010).
Quindi, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l'esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla "lettura" della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata "male" applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348). Sicché, il processo di sussunzione, nell'ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell'art. 360, primo comma n. 5 c.p.c. (oggetto della recente riformulazione interpretata quale riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053), che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 2200,00, di cui € 2000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma il 31 gennaio 2017