Categoria: Cassazione penale
Visite: 10814

Cassazione Penale, Sez. 4, 11 maggio 2017, n. 23115 - Caduta dall'alto. Due ricostruzioni dello stesso fatto plausibili e possibili: nessuna prova della colpevolezza del committente al di là di ogni ragionevole dubbio


 

 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: SAVINO MARIAPIA GAETANA Data Udienza: 21/03/2017

 

Fatto

 

Il Procuratore Generale della Repubblica di Milano e G.A., parte civile costituita nel procedimento penale a carico di E.P., hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano in data 17.3.2016 con la quale, in riforma della sentenza di condanna del Tribunale di Como in data 4.6.2015, il predetto imputato è stato assolto dai reati di cui agli artt. 590 co 1,2,3, c.p. in relazione all’art. 583 comma 1 n 1 c.p., all’art. 2087 c.p. ed alle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro indicate nell’imputazione, perché, in qualità di committente dei lavori di realizzazione di una stalla per asini, da effettuarsi presso il terreno di pertinenza della sua abitazione sita a Omissis, nonché di datore di lavoro di fatto (ex art. 299 d.lvo 81/08) del lavoratore “in nero”G.A., cagionava allo stesso lesioni personali consistite in frattura vertebrale con presenza di frammenti nel canale midollare, da cui derivava una malattia di oltre 84 giorni, per colpa, imprudenza, imperizia consistita inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni - segnatamente per aver omesso di adottare, nell’esecuzione dei lavori di copertura dell’edificio denominato “stalla per asini”, in fase di realizzazione, ad un’altezza di metri 2,5, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali atte ad eliminare i pericoli di caduta dall’alto del predetto lavoratore G.A. (art. 122 d.lgs 81/2008), per non avere redatto il piano operativo di sicurezza contenente con la valutazione di tutti i rischi specifici relativi ai lavori che il dipendente di fatto G.A. doveva eseguire in cantiere, nonché le misure di prevenzione e di protezione da adottare, con particolare riferimento a quelle derivanti dalla effettuazione dei lavori di copertura della citata stalla, che prevedevano operazioni da effettuarsi ad un’altezza maggiore di metri due (circa 2,5 mt) e per non aver predisposto le misure necessarie da adottare per un adeguato soccorso in caso di infortunio - cosicché l’G.A., mentre eseguiva i lavori di posa in opera di assi di legno di copertura del suddetto edificio, ad un’altezza di m. 2,50, perdeva l’equilibrio e precipitava a terra.
Come risulta dalla versione dei fatti fornita dall’infortunato e recepita dal Giudice di primo grado, la mattina del 5.4.2008, verso le 8,00, G.A. si recava insieme a L.F., con l’auto di quest’ultimo, presso l’abitazione di E.P., per eseguite la posa ed il montaggio di una struttura in legno da adibire a stalla, insieme all’imputato, al figlio,M.P. ed al L.F..
Nel pomeriggio, verso le 16.30, l’G.A. saliva sul tetto della struttura, ad un’altezza di metri 2,5 per posizionare le assi della copertura che il E.P. gli passava sollevandole da terra. All’improvviso perdeva l’equilibrio e, data l’assenza di parapetti, ponteggi o altre protezioni, cadeva a terra battendo violentemente la schiena tanto da perdere la sensibilità degli arti inferiori.
Seguiva un’alternanza di perdita di coscienza per il forte dolore e di lucidità nel corso della quale sentiva gli altri parlare, preoccupati della gravità delle sue condizioni, delle possibili soluzioni da prendere, fino a quando si sentì trasportare, sdraiato e legato su una tavola di legno, a braccia dai due P. e dal L.F. lungo il viottolo che dalla villa dei P. conduce alla strada statale soprastante e dopo si sentì caricare nella parte posteriore del Suv Toyota di proprietà di E.P. parcheggiato lungo il margine destro della statale Regina. Fu, quindi, condotto con l’auto nel piazzale antistante il box di sua proprietà posto al di sotto dell’abitazione, sita a distanza di circa km 1 dalla casa dei P., e lì fu slegato ed adagiato al suolo sempre sdraiato sulla tavola di legno. Fu quindi chiamata l’ambulanza che giungeva sul posto verso le ore 19,00 e portava l’G.A. in ospedale.
I due E.P. e M.P. riferirono, nell’immediatezza al personale del 118, e successivamente all’autorità inquirente, che, mentre si trovavano a passare con l’auto del E.P., davanti all’abitazione di G.A., avevano visto il predetto sul tetto del garage intento a lavorare e, avendo deciso di andarlo a trovare, nel tratto successivo della strada avevano fatto manovra di inversione e, recatasi presso l’abitazione del predetto, lo avevano trovato dolorante, steso per terra sulla ghiaia nel piazzale antistante il garage, apprendendo che era appena caduto dal tetto ove lo avevano visto poco prima. Per attutire i dolori lo avevano adagiato sulla tavola di legno e avevano chiamato il 118. L’G.A., riavutosi, per evitare conseguenza pregiudizievoli al P. al quale era legato da rapporto di amicizia, non contrastava la versione dei fatti resa dal predetto e dal figlio.
Nel corso del ricovero ospedaliero gli fu diagnosticata una frattura vertebrale LI con dislocazione della corda midollare, per la quale fu sottoposto ad intervento chirurgico di laminectomia decompressiva DI2 LI con fissatore con viti peduncolari. Seguiva alle dimissioni dall’ospedale dopo l’intervento chirurgico un periodo di riabilitazione presso altra struttura all’esito del quale, i sanitari, pur dando atto del miglioramento delle performances funzioni motorie e funzionali, rilevavano la permanenza di un “quadro di paraparesi”, che richiese un ulteriore lungo ciclo di terapie riabilitative.
Il P., dopo un’iniziale sostegno morale ed economico all’amico, uomo di fiducia, si disinteressò della vicenda e rifiutò di corrispondere all’G.A. la somma richiesta per il tramite dell’avvocato e di addivenire ad una composizione bonaria della vicenda con riguardo sia al risarcimento del danno sia alle questioni contributive e retributive per il decorso rapporto di lavoro.
L’G.A. presentò quindi denuncia- querela, esponendo l’effettiva dinamica dell’incidente, e cosi fu dato avvio al presente processo penale a carico del P..
Il primo giudice ha posto a fondamento della condanna la deposizione della parte offesa costituitasi parte civile, ritenuta attendibile e riscontrata dalle deposizioni dei testi Omissis. Il primo, nel fare ritorno verso casa, posta a Moltrasio, il pomeriggio del 3.4.08, aveva visto E.P. e M. e L.F. sistemare una grossa tavola di legno all’interno della parte posteriore dell’auto del E.P. che aveva il portellone posteriore aperto. La seconda, moglie dell’G.A., aveva dichiarato che, nel fare rientro a casa verso le 18.00 di quel giorno, non aveva trovato il marito, che ad un certo punto, mentre stava al balcone, attirata dal cane che abbaiava e si muoveva in direzione del box, era scesa giù ed aveva trovato l’auto dei P. parcheggiate davanti al box ed il marito steso per terra sopra la tavola di legno. Il Li. aveva invece dichiarato che il pomeriggio del 5.4.08 si trovava nel giardino della propria abitazione dal quale aveva piena visuale del tetto del box ove non aveva riscontrato la presenza per tutto il pomeriggio dell’G.A.. 
I giudici di seconde cure erano invece pervenuti all’assoluzione del P., con la formula assolutoria di cui all’art. 530 c.p.p., ritenendo che nessuna delle due versioni dell’incidente fosse dotata di una valenza dimostrativa tale da superare il ragionevole dubbio.
In particolare, mettevano in dubbio l’attendibilità della parte offesa, la quale, a distanza di anni dall’incidente, aveva cambiato versione riferendo di essere caduto dal tetto della stalla nella proprietà del P. mentre stava completando, dietro incarico di E.P., per il quale era solito svolgere lavori edili retribuiti, la realizzazione della copertura. Quanto ai testi, quelli indotti dalla parte civile, non erano dirimenti al fíne di dimostrare tale dinamica dell’infortunio mentre i testi della difesa erano da ritenersi inattendibili per le contraddizioni in cui erano caduti nel riferire i particolari dei loro movimenti il giorno dell’incidente.
Il Procuratore Generale e la parte civile G.A. hanno proposto motivi sostanzialmente sovrapponibili che possono essere trattati unitariamente come segue.
Innanzitutto è stata dedotta violazione della legge penale con riguardo all’art. 190 c.p.p. e correlato vizio di motivazione.
La difesa della parte civile ricorrente - dopo aver richiamato il consolidato orientamento della Corte di Cassazione sul vaglio rigoroso di attendibilità particolarmente rigoroso cui deve essere sottoposta la deposizione delle persona offesa - osserva che il giudice di seconde cure ha negato l’attendibilità della deposizione della parte offesa senza aver effettuato una attenta valutazione delle sue dichiarazioni, demolendone la attendibilità con il riferimento all’interesse risarcitorio sotteso alla denuncia ed alla distanza di tempo con la quale è stata rappresentata, nella denuncia-querela, una nuova dinamica dell’infortunio del tutto divergente rispetto a quella fornita nella immediatezza dei fatti.
Si lamenta, inoltre, illogicità della motivazione laddove il giudice di seconde cure ritiene che l’G.A. avrebbe condizionato i testi nelle indagini e poi in dibattimento, inducendoli a mettere a punto “la nuova verità”; a tale convincimento la Corte di merito sarebbe pervenuta, sulla base di valutazione del tutto illogica, sul rilievo che — dato il tempo trascorso dai fatti ed il naturale annebbiamento dei ricordi che esso produce - la precisione dei racconti e la dovizia di particolari riferiti dai testi, sarebbe piuttosto il frutto di ripensamenti e di revisioni e non di genuinità dei racconti. La difesa osserva che tale conclusione è il risultato di una marcata soggettiva sensazione, il metodo utilizzato per vagliare l’attendibilità dei dichiaranti si base su personali sensazioni ed illazioni anziché su un rigoroso vaglio logico del contenuto delle dichiarazioni accusatorie.
Le stesse considerazioni sul fatto che la parte offesa non si recava mai di sabato a lavorare nella villa dei P. risulta smentita dalle dichiarazioni di G.A. circa la consuetudine di svolgere lavori nella proprietà dei P. anche di sabato e, comunque, non risultano dirimenti alla luce della deposizione della moglie che ha riferito che il giorno sabato il marito si recò nella villa di E.P. sin dalla prima mattina per eseguire dei lavori concordati da tempo.
Ancora si censura l’illogicità della sentenza assolutoria impugnata nel punto in cui, quanto alla dichiarazione del teste L.F., che ha negato di essersi recato insieme all’G.A. nella villa del P. per eseguire i lavori il giorno dell’infortunio, ritiene che eventuali contraddizioni in cui è incorso il L.F. nel descrivere dove si trovasse quella giornata, confermerebbero l’attendibilità del teste, in quanto, a distanza di tre anni non poteva avere un ricordo preciso e dettagliato. Il collegio, osserva il difensore, sulla base di questa semplicistica, apodittica affermazione, ha ritenuto credibile la versione del L.F. circa la sua assenza dalla villa del P. il giorno della caduta, sebbene la sua diversa collocazione fosse infarcita di riferimenti temporali e spaziali del tutto incerti e contraddittori.
Osserva la difesa la scarsa tenuta logica della motivazione della corte milanese secondo cui la attendibilità del teste L.F. si desume anche dal suo rapporto di lunga amicizia con l’G.A., ragione per la quale, secondo i giudici gravati, non si comprende perché il L.F. abbia dovuto dire il falso. A tal proposito la difesa enuncia una serie di ragioni che avrebbero potuto verosimilmente indurre L.F. a riferire una dinamica dell’incidente diversa da quella effettiva poi denunciata dall’G.A., quali il fatto che era amico da lunga data anche del P. e, al pari dell’G.A., prestava la propria opera retribuita a servizio del predetto. Inoltre - secondo l’ipotesi di accusa accolta dal primo giudice - lo stesso ebbe un ruolo preponderante nell’organizzare la messinscena volta a coprire la reale origine dell’infortunio facendo risultare che l’G.A. era caduto dal tetto del suo garage. Quindi il L.F. aveva un reale interesse a far risultare una dinamica del sinistro diversa da quella effettivamente verificatasi.
Con una seconda censura la parte civile e la pubblica accusa deducono l’illogicità/contraddittorietà della motivazione con riferimento alla deposizione della parte offesa, costituitasi parte civile G.A. e dei testi da questa indotti.
Lamenta la difesa che la Corte di merito ha omesso di valutare la deposizione della parte civile nonostante l’assoluta linearità, precisione e concordanza dei ricordi ed ha dato scarsa importanza alle deposizioni dei testi da questa indotti, SC., moglie dell’G.A., Li., il vicino di casa, e DV., il vicino di casa di G.A. che vide, nel fare rientro nella sua abitazione, il SUV di E.P. parcheggiato pericolosamente lungo il margine destro della strada statale, in corrispondenza di una curva, con accanto i due P. e il L.F., davanti al portellone posteriore aperto.
Ancora la difesa di parte civile e la pubblica accusa lamentano la illogicità-contraddittorietà della motivazione con riferimento alla rinuncia alla prescrizione dell’imputato, che, secondo la corte di merito, sarebbe segno inequivoco della sua innocenza, mentre, ad avviso della difesa, tale iniziativa è dettata soprattutto da una strategia difensiva che tiene conto del coinvolgimento del figlio, per il quale il PM di udienza ha chiesto la trasmissione degli atti alla Procura, e del fatto che comunque la pena cui è stato condannato, condizionalmente sospesa, è mite, mentre le ben più importanti statuizioni civili della sentenza prescindono dalla prescrizione del reato, avendo seguito anche in caso di estinzione del reato per prescrizione.
La difesa dell’imputato ha presentato una memoria difensiva sostenendo la manifesta infondatezza dei ricorsi presentati dal PG presso la Corte di appello di Milano e dalla parte civile e chiedendo, pertanto, che gli stessi siano dichiarati inammissibili ovvero vengano rigettati.

 

Diritto

 


Entrambi i ricorsi risultano infondati e, pertanto, devono essere rigettati.
Sia la difesa della parte civile sia il PG non si limitano a prospettare una diversa soluzione giuridica della vicenda ma, censurando la parte motiva dell’impugnata sentenza sotto il profilo della logicità, finiscono per presentare una diversa ricostruzione di rilevanti profili fattuali richiedendo in questa sede valutazioni proprie del giudice di merito. In altri termini i ricorsi mirano ad un apprezzamento di elementi di fatto diverso rispetto a quello prospettato dai giudici di appello: operazione quest’ultima, come è noto, preclusa al giudice di legittimità al quale spetta solo un potere di verifica della motivazione sotto il profilo della logicità e non contraddittorietà intrinseca e in relazione alle risultanze istruttorie.
Ebbene sotto quest’angolo visuale la sentenza impugnata risulta incensurabile. Come già detto, la Corte di appello di Milano, riformando la sentenza di condanna emessa in primo grado, ha assolto E.P. ex art. 530 co. 2 c.p.p. per insufficienza e contraddittorietà delle prove a suo carico: cioè perché ha ritenuto non dimostrata la sua colpevolezza in merito ai fatti al medesimo ascritti al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò sulla base di argomentazioni estremamente logiche che questo collegio non può che condividere.
Come è noto il parametro del ragionevole dubbio - codificato dal 2006 ma già da prima applicato in via giurisprudenziale - impone al giudice una verifica particolarmente approfondita di tutte le possibili ricostruzioni della vicenda portata alla sua attenzione. Per pronunciare una sentenza di condanna non basta ritenere sufficientemente fondata la tesi accusatoria ma occorre anche passare in rassegna ed escludere la bontà di eventuali ipotesi alternative. Questo significa superare ogni ragionevole dubbio laddove per ragionevole dubbio si intende, appunto, un dubbio comprensibile da una persona normalmente raziocinante e quindi oggettivabile tramite una motivazione fondata su argomentazioni logiche (non quindi una mera congettura, un incertezza soggettiva del giudice).
Come è facile intuire, si tratta di un canone particolarmente severo che, nella sua applicazione più rigorosa, porta a ritenere possibile la condanna solo qualora ogni spiegazione del fatto addebitato all’imputato differente rispetto alla tesi accusatoria appaia, sulla base delle prove raccolte, non ragionevolmente sostenibile (Cass. Sez. I n. 199933/2010).
Ebbene la Corte di appello nel caso di specie non ha fatto che applicare con rigore i su menzionati principi. In estrema sintesi ha messo a confronto le due versioni dell’incidente fornite a distanza di due anni dallo stesso G.A. - quella secondo la quale l’incidente era avvenuto presso la sua abitazione e quella in base alla quale l’incidente si sarebbe verificato mentre il predetto eseguiva lavori presso la stalla per asini dei P. - verificando punto per punto la fondatezza dell’una e dell’altra ed arrivando alla condivisibile conclusione che entrambe le ricostruzione si presentano come plausibili/possibili senza che sia ravvisabile alcuna maggiore credibilità dell’una rispetto all’altra. Per prediligere l’una rispetto all’altra, osserva la Corte territoriale, dovrebbero ricorrere prove evidenti ed inoppugnabili della sua valenza e, contestualmente, elementi idonei a rendere assolutamente insostenibile l’altra. Tale situazione, però, non ricorre nel caso di specie: in particolare il giudice di prime cure, continua la Corte di appello, nel prediligere la tesi accusatoria pronunciando condanna, sembra aver del tutto obliterato alcuni profili di forte perplessità che connotano la tesi della parte civile.
Tali profili vengono poi dettagliatamente indicati nella sentenza di appello a cominciare dal fatto che l’G.A. cambiò la propria versione circa l’incidente ben due anni dopo e proprio in concomitanza con il prepensionamento (giungeva a prepensionamento anticipato proprio nel giugno 2008). Quindi un primo dubbio è se l’incidente occorsogli non gli sia valso ad anticipare la pensione: circostanza questa mai chiarita nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
Ancora, evidenziano i giudici di appello, il cambio di versione è avvenuto a seguito di specifici contatti con tutte le persone poi indicate come testimoni: ne consegue la possibilità che la nuova versione sia stata previamente concordata con i futuri testimoni. Ciò troverebbe conferma, secondo la Corte territoriale, nella circostanza che, pur essendo stato il processo trattato a sei anni di distanza dai fatti, i predetti testi ricordavano in maniera sorprendentemente nitida eventi e particolari banali del giorno dell’incidente. Normalmente il resoconto di un fatto cui si è assistito anni prima non risulta preciso e dettagliato: nel caso in esame, invece, si ha un testimone che ricorda l’orario esatto in cui si recò al bar e fece ritorno a casa ed un altro addirittura in grado di riportare l’ora in cui passò da via Regina (luogo interessato dall’incidente). Ciò pur trattandosi di attività che per la loro scarsa rilevanza e la ripetitività difficilmente si fissano nella memoria.
A fronte di questa certezza mostrata dai testimoni di parte civile, l’amico dell’G.A., il L.F., che - a detta della parte civile aveva lavorato con lui ed aveva avuto ruolo attivo nel suo trasporto a casa ad opera dei P. - ha dichiarato di non ricordare bene dove si trovasse quel sabato ma ha escluso con certezza di aver lavorato alla stalla per asini dell’imputato assieme all’G.A.. Ebbene, continua la Corte di appello, non è stata dimostrata e non risulta alcuna logica ragione che potesse spingere il L.F. a mentire. Di conseguenza i giudici di appello hanno ritenuto la sua deposizione attendibile anche in considerazione del fatto che corrisponde pienamente all’originario racconto dell’accaduto fatto dallo stesso G.A.. Continuando nella disanima delle risultanze processuali, la Corte di appello ha messo in evidenza un altro aspetto di non poco rilievo: pur essendo la zona in questione molto frequentata durante la stagione primaverile, nessuno quel sabato vide i due P. ed il L.F. trasportare sulla barella improvvisata il corpo legato dell’G.A., caricarlo sul SUV e scaricarlo a casa del predetto; ciononostante le tempistiche alquanto prolungate che un siffatto trasporto indubbiamente richiede.
Infine i giudici di appello hanno richiamato l’attenzione sul comportamento tenuto dal cane degli G.A. Lo stesso, come ogni buon cane da guardia, era solito abbaiare quando c’era qualcuno di estraneo nei pressi della propria abitazione. La SC., moglie della parte civile, ha riferito di aver sentito il cane abbaiare, di essersi affacciata e di aver visto il marito steso su un asse di legno davanti al garage. Orbene è ovvio che il cane non abbaiasse mentre il padrone era intento a lavorare nel proprio garage mentre deve ritenersi che se fosse effettivamente giunto qualcuno di estraneo a scaricare l’G.A. infortunato si sarebbe messo ad abbaiare. Invece risulta che il latrare del cane iniziò proprio con il sopraggiungere del SUV secondo le tempistiche indicate dall’imputato. Quest’ultimo, infatti, ha dichiarato che passando per la strada, vedendo l'amico intento a lavorare sul tetto del garage, invertiva la marcia per andare a salutarlo trovandolo poi caduto a terra. Al suo sopraggiungere il cane iniziava ad abbaiare.
Al rigetto del ricorso segue per la parte civile la condanna al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta i ricorsi e condanna la parte civile al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, in data 21 marzo 2017.