Cassazione Penale, Sez. 7, 19 maggio 2017, n. 25246 - Contravvenzioni in materia di prevenzione infortuni sul lavoro. Ricorso inammissibile


 

Presidente: SAVANI PIERO Relatore: SCARCELLA ALESSIO Data Udienza: 10/03/2017

 

 

 

Fatto

 

1. C.G. ha proposto appello a mezzo di difensore fiduciario non cassazionista avverso la sentenza del tribunale di Sciacca, emessa in data 4.03.2016, con cui questi era stato condannato alla pena di € 11000,00 di ammenda per alcune contravvenzioni in materia di prevenzione infortuni sul lavoro ex d. Lgs. n. 81 del 2008 (capi da a) ad f) della rubrica), in relazione a fatti commessi in data 26.06.2012.
2. Con l'originario atto di appello, sottoscritto anche dall'imputato, questi ha dedotto due motivi, chiedendo l'assoluzione ai sensi dell'art. 530, cpv., c.p.p. e censurando la sentenza per l'eccessività della pena inflitta.
 

 

Diritto

 


3. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi non consentiti dalla legge.
4. Ed infatti, premesso che si tratta di sentenza inappellabile e ricorribile unicamente per cassazione ex art. 593, comma terzo, c.p.p., dall'illustrazione dei motivi come proposti nell'atto di appello, emerge all'evidenza come, con gli stessi, l'imputato avesse sollevato censure di merito, che, proprio perché tali, sfuggono al sindacato di questa Corte.
Già emerge all'evidenza dalle conclusioni contenute nell'atto di appello, ove l'imputato formula richieste tipicamente di merito, rivolte al giudice di appello, in particolare avendo concluso per l'assoluzione con formula dubitativa, insistendo in subordine per l'attenuazione del trattamento sanzionatorio.
5. Si è autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte che, in tema di impugnazioni, il precetto di cui al quinto comma dell'art. 568 cod. proc. pen., secondo cui l'impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l'ha proposta, deve essere inteso nel senso che solo l'erronea attribuzione del "nomen juris" non può pregiudicare l'ammissibilità di quel mezzo di impugnazione di cui l'interessato, ad onta dell'inesatta "etichetta", abbia effettivamente inteso avvalersi: ciò significa che il giudice ha il potere-dovere di provvedere all'appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all'uopo predisposto dall'ordinamento giuridico. Ma proprio perché la disposizione indicata è finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volontà reale dell'interessato, al giudice non è consentito sostituire il mezzo d'impugnazione effettivamente voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte, con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile: in tale ipotesi, infatti, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come tale suscettibile di rettifica "ope iudicis", ma di una infondata pretesa da sanzionare con l'inammissibilità (v., per tutte: Sez. U, n. 16 del 26/11/1997 - dep. 26/01/1998, Nexhi, Rv. 209336 ).
6. Segue, a norma dell'articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di una somma che si stima equo fissare in euro 2000,00 (duemila/00).
 

 

P.Q.M.

 


La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 10 marzo 2017