Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Tribunale di Nola, Sez. Lav., 18 maggio 2017, n. 1193 - Licenziamento illegittimo del rappresentante sindacale che denuncia un comportamento aziendale lesivo della sicurezza e della salute dei dipendenti


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI NOLA

 


Il Giudice designato, dr.ssa Federica Salvatore nella causa n. R.G.
TRA
rappresentato e difeso, in virtù di procura a margine del ricorso, dall’avv. OMISSIS
ricorrente
E
S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti OMISSIS; all’udienza del 18/05/2017
 

 

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

 


FattoDiritto

 

 

 


Con ricorso ex art. 1, comma 48,1. 92/2012 : , aveva chiesto di accertare la nullità, invalidità ed illegittimità del licenziamento irrogato nei suoi confronti il 7.8.2015, con applicazione delle conseguenze previste dall’art. 18 1. 300/1970. A fondamento delle domande azionate aveva dedotto, in primis, il carattere discriminatorio e ritorsivo del licenziamento; in secondo luogo, l’insussistenza del fatto contestato e della giusta causa, per mancanza sia di un inadempimento disciplinarmente rilevante, sia di un danno all’immagine della società; in terzo luogo, aveva sostenuto la non riconducibilità dei fatti contestati alle ipotesi per le quali la contrattazione collettiva prescrive il licenziamento e, in ogni caso, la mancanza di proporzionalità tra la sanzione adottata ed ì fatti contestati.
Costituendosi in giudizio la società convenuta aveva eccepito la legittimità del licenziamento e la proporzione tra il fatto commesso e la sanzione espulsiva applicata.
Acquisite le informazioni assunte nel corso del procedimento ex art. 28 1. 300/1970 azionato davanti al Tribunale dalla FP CGIL, la domanda veniva parzialmente accolta con ordinanza del 9.5.2016, nella quale veniva dichiarata l’illegittimità del licenziamento e, dichiarato risolto il rapporto, la società veniva condannata a pagare al ricorrente un’indennità omnicomprensiva pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Avverso tale provvedimento ha proposto opposizione, censurando l’ordinanza opposta perché contraddittoria e fondata su erronee valutazioni, sostanzialmente ribadendo le argomentazioni già svolte nella fase sommaria.
La società, costituendosi tardivamente alla prima udienza, ha ribadito le difese già svolte nella fase sommaria.
Con il deposito di note conclusive il ricorrente ha evidenziato i più recenti orientamenti della Suprema Corte, dai quali, in relazione alla propria convinzione della verità dei fatti denunciati (già posta nell’ordinanza della fase sommaria a base della valutazione di non proporzionalità) scaturirebbe l’insussistenza del fatto contestato e non la mera mancanza di proporzione tra il fatto e la sanzione.
All’odierna udienza, previa discussione orale, la causa è stata decisa sulla base degli atti, all’esito della camera di consiglio, con sentenza ai sensi dell’art. 421, primo comma, c.p.c. di cui è stata data lettura.
Va, in via preliminare rilevata la tardiva costituzione della società convenuta, dalla quale consegue la decadenza della stessa dalla proposizione di istanze istruttorie.
In particolare, ritiene il giudicante che le istanze istruttorie contenute nella memoria di costituzione della fase sommaria sono state già esaminate e in quella sede, sulla base appunto della cognizione in atto, ritenute inammissibili, vista anche l’acquisizione delle dichiarazioni testimoniali rese nell’ambito del giudizio ex art. 28 St. Lav., involgente la valutazione di antisindacalità del licenziamento oggetto del presente giudizio.
Il datore di lavoro, quindi, ove avesse voluto reiterare le istanze istruttorie articolate nella fase sommaria, avrebbe dovuto farlo, a pena di decadenza, nella memoria di costituzione tempestivamente depositata dieci giorni prima dell’udienza fissata per la trattazione del giudizio di opposizione; ciò in virtù del disposto dell’art. 1, comma 53,1. 92/2012, a norma del quale: “L’opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’art. 416 c.p.c.”.
Va anche sottolineato che la convenuta non ha chiesto la riforma della decisione sommaria con rigetto integrale delle domande, ma, come anche precisato a verbale, si è limitata a chiedere la conferma del provvedimento opposto.
Sempre in via preliminare, va rigettata la richiesta di riunione al giudizio in esame di quello promosso dalla F.P. CGIL in opposizione al decreto ex art. 28 1. 300/1970, ostandovi, da
un lato, la diversità dei riti applicabili e, dall'altro lato, la mancanza di connessione soggettiva ed oggettiva, fondandosi la dedotta antisindacalità della condotta datoriale su valutazioni del medesimo fatto del tutto diverse da quelle involgenti la legittimità del recesso.
Nel merito, il ricorso in opposizione è fondato e va accolto, ritenendo il giudicante di uniformarsi ai più recenti orientamenti espressi dalla Suprema Corte in tema di denunce presentate dai lavoratori alle Autorità competenti.
E’ documentato che la società convenuta con lettera del 21.7.2015 ha comunicato al una contestazione disciplinare nella quale gli imputava di aver sporto denuncia alle Autorità Pubbliche in data 2.7.2015, esponendo fatti non veri e tali da ledere l’immagine aziendale. In particolare, la società ha contestato al ricorrente i fatti di seguito sintetizzati:
1) aver indicato nella denuncia che si era recato prima in Amministrazione e poi in Reparto, quando, invece, risultava che era andato prima in Reparto (fuori dall’orario di lavoro e senza autorizzazione), poi in Amministrazione e, poi, nuovamente in Reparto;
2) aver riferito nella denuncia che il (Direttore Amministrativo della struttura), di fronte alla sua richiesta di informazioni sulla sostituzione del rilevatore di ozono danneggiato, gli aveva detto “non devi scocciare”, quando, invece, gli aveva solo ribadito che il rilevatore era stato già ordinato, ma non ancora arrivato;
3) aver indicato nella denuncia di aver fatto notare al che “era diventata una situazione schifosa in quanto si trattava della salute dei pazienti e dei lavoratori” e che questi, dopo tali dichiarazioni, lo aveva minacciato di “stare attento alle parole che usava”, quando, invece, il .. lo aveva solo invitato ad abbassare i toni, ritenuti inopportuni;
4) che le espressioni usate al cospetto del e riportate nella denuncia (“è diventata una situazione schifosa...”) erano, in primo luogo, inveritiere, in quanto la sicurezza dei pazienti e dei dipendenti nel reparto era stata attestata dal dott. prima della ripresa dell’attività e mai messa in pericolo dalla società; in secondo luogo, erano lesive dell’immagine della società, in quanto proferite alla presenza di terzi (anche pazienti) presenti nel centro e portati a conoscenza delle Autorità Pubbliche; e, comunque, non erano consone allo svolgimento del rapporto di lavoro;
5) aver rivolto, dopo essere sceso in Reparto, con toni accesi, parole offensive al dott. (Direttore del Reparto), mostrando insubordinazione verso il proprio superiore gerarchico (“fai il responsabile del reparto, interessati della salute dei collaboratori e dei pazienti”);
6) aver esposto nella denuncia che anche il lo aveva minacciato, quando invece il direttore lo aveva solo invitato a tranquillizzarsi e ad abbassare i toni.
Tali fatti sono stati contestati al ricorrente con le aggravanti di essere consapevole sia della mancanza di rischi per la salute nel reparto, per le rassicurazioni più volte fomite dall’azienda e per il parere reso in merito dall’Esperto Qualificato in ordine alla superfluità del rilevatore di ozono; sia dell’ordine già effettuato dalla società per la sostituzione del perno danneggiato; sia, ancora, della mancanza di qualsiasi minaccia proferita nei suoi confronti da parte dei suoi superiori.
Risulta anche dai documenti di causa che la società convenuta, in relazione a tali fatti, con lettera datata 7.8.2015, ha comunicato al ricorrente il licenziamento disciplinare per giusta causa.
Dalle prove presenti in atti (c£r. documenti e deposizioni testimoniali presenti nel fascicolo della fase sommaria) emerge anche che la mattina del 27.5.2015, dopo l’attivazione dell’allarme del rilevatore di ozono, l’attività nel reparto di radioterapia era stata sospesa e che in tarda mattinata, a seguito delle rassicurazioni fomite telefonicamente dal Responsabile della qualità, ne era stata disposta la ripresa.
Deve anche ritenersi provato che il ricorrente, a seguito dell’accaduto, si è recato più volte (a suo dire quotidianamente) dai responsabili aziendali per chiedere quando il pezzo guasto del rilevatore di ozono venisse sostituito e che ogni giorno riceveva la rassicurazione che il pezzo sarebbe arrivato il giorno dopo. Dalle dichiarazioni dei testi presenti in atti risulta, poi, che anche altri dipendenti dopo l’accaduto si erano recati dai responsabili aziendali per avere notizie sulla riparazione del rilevatore.
Il 30.6.2015, inoltre, il ricorrente aveva inoltrato al responsabile per la sicurezza aziendale una comunicazione, nella quale lo esortava a fornire una risposta in ordine allo stato della sostituzione del rilevatore di ozono; a tale richiesta faceva seguito, il 1.7.2015, l’ulteriore richiesta di incontro inoltrata direttamente all’Amministrazione dalla F.P. CGIL.
Ciò posto in punto di fatto, vanno ribadite le considerazioni già svolte nella fase sommaria con riferimento al dedotto carattere discriminatorio e ritorsivo del licenziamento, non potendosi condividere le censure formulate sul punto nell’atto di opposizione.
Il ricorrente contesta la discriminatorietà e ritorsività del licenziamento, ritenendo che esso tragga la sua reale motivazione nell’attività sindacale svolta all’intemo dell’azienda a decorrere dal 2011, nonché nella denuncia da lui sporta alle Autorità Pubbliche in data 2.7.2015.
Al riguardo, in linea generale, va effettuata una distinzione tra il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo, caratterizzandosi le due diverse fattispecie non solo per gli elementi costitutivi, ma anche per il regime probatorio a ciascuna applicabile. 
L’art. 4 della 1. 604/1966 dispone che: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”.
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ampliando tali ipotesi e ritenendo affetto da nullità anche il licenziamento adottato per rappresaglia o per ritorsione, richiede per entrambe le fattispecie (quella della discriminazione e quella della ritorsione) la prova da parte del lavoratore della sussistenza in capo al datore del motivo illecito esclusivo e determinante (anche da ultimo Cass., 3986/2015; Cass., 24648/2015; Cass., 10834/2015; ed in precedenza, tra le tante, Cass., 6282/2011; Cass., 12349/2003).
Va, tuttavia, evidenziato che, di recente, a seguito degli impulsi comunitari e delle riforme attuate in tema di licenziamento dalla 1. 92/2012 e dal d.lgs. 23/2015, si è andata affermando la tendenza ad effettuare una netta distinzione tra le ipotesi di discriminazione e quelle di ritorsione, rientrando nella prima categoria le ipotesi di licenziamenti adottati in presenza dei fattori di rischio tipicamente individuati dalla legge - rispetto ai quali è del tutto irrilevante l’intento soggettivo dell’agente e il motivo formalmente addotto - e, nella seconda ipotesi, i licenziamenti comminati dal datore di lavoro al solo scopo di rappresaglia o vendetta nei confronti del lavoratore, per circostanze che esulano dai fattori di rischio tipizzati - rispetto ai quali non solo devono ricorrere tutti i presupposti di cui all’art. 1345 c.c., ma assume rilevanza decisiva la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, che escludono in radice l’unicità del motivo ritorsivo.
In tale ottica, nella valutazione della sussistenza di ima discriminazione diventa essenziale l’elemento di comparazione tra le diverse posizioni soggettive (quella esposta ai fattori di rischio e tutte le altre per così dire “neutre”), essendo sufficiente “che sia accertata 1’esistenza di elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti, o comportamenti discriminatori...”
(in tal senso art. 28 co.4 d.lgs. n. 150/2011; art. 40, co.l, d.lgs. n. 198/2006).
Dalle disposizioni normative citate si ricava il principio generale secondo cui nelle ipotesi tipiche di discriminazione non è più necessario che il lavoratore dimostri che l’intento discriminatorio ha costituito il motivo esclusivo e determinante del licenziamento che l’ha colpito, essendo sufficiente che egli deduca e dimostri un trattamento differenziato, rispetto all’elemento di comparazione che non è portatore del suo stesso fattore (tipico) di rischio.
Ai fini della prova, quindi, assume importanza decisiva - essendo dotato di una evidente forza dimostrativa - il dato statistico ovvero altri fatti comunque significativi (quali ad esempio, la mancanza di ogni motivazione alla base del licenziamento tale da indicare significativamente la pretestuosità dello stesso).
Nel caso di specie, non solo non risulta fornita la prova che l’attività sindacale svolta dal ricorrente a partire dal 2011 abbia costituito il motivo unico e determinante che ha indotto la società a procedere al licenziamento; ma il ricorrente non ha neppure dedotto l'esistenza di un elemento di comparazione o di altre circostanze significative da cui presumere la discriminatorietà del licenziamento adottato nei suoi confronti.
Né il licenziamento si presenta del tutto pretestuoso, considerato che dal punto di vista oggettivo si deve escludere, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, che vi fosse nel caso in esame un reale pericolo per la salute dei lavoratori e dei pazienti del centro, con conseguente mancanza di una ragione del licenziamento ricollegabile esclusivamente alla carica di RSA svolta dal ricorrente.
Anche le vicende sindacali riproposte nell’atto di opposizione (ossia le questioni relative ai permessi non accordati, alle misure organizzative poste in essere dalla convenuta, nonché le vicende relative alla modifica contrattuale) non appaiono univocamente significative della discriminazione operata dal datore di lavoro in danno del ricorrente o del sindacato da lui rappresentato in azienda, trattandosi in molti casi di misure organizzative poste in essere dalla società nei confronti di tutti i dipendenti. La sigla sindacale rappresentata dal ricorrente, inoltre, era rappresentata in azienda anche da altri due esponenti, che molto frequentemente, come emerge dai documenti di causa, hanno sottoscritto senza la partecipazione del ricorrente gli atti di denuncia sindacale invocati.
Lo stesso ricorrente, peraltro, alla stampa locale, in occasione della modifica del contratto collettivo applicato in azienda, ha dichiarato che l’adozione del nuovo contratto non era stata sottoscritta da alcuna delle sigle sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e che in passato aveva condotto battaglie sindacali ben più aspre (cfr. pag. 23 ric. della fase sommaria).
Va anche evidenziato che per il lasso di tempo trascorso (la maggior parte dei fatti indicati risalgono al 2012/2013) non può neppure ritenersi che la società convenuta abbia attuato un accanimento contro il ricorrente, tale da far ritenere ritorsivo il licenziamento irrogato: non risulta che il ricorrente sia mai stato destinatario di altro procedimento disciplinare, né i fatti contestati appaiono pretestuosi, per i motivi di seguito esposti.
Parte ricorrente sostiene, poi, che i fatti a lui contestati sarebbero privi di rilievo disciplinare, in quanto la denuncia oggetto del licenziamento sarebbe stata da lui sporta nello svolgimento del suo ruolo sindacale ed a tutela del bene primario della salute dei lavoratori e dei pazienti del centro.
Certamente privi di rilievo disciplinare sono i fatti contestati al ricorrente e riportati sopra al punto 1), ossia l’aver riferito alle Autorità che si era recato prima in Amministrazione e poi al reparto e non viceversa.
Per quanto concerne, invece, gli altri fatti contestati, riportati sopra, è necessario accertare se possa assumere rilievo disciplinare, ed eventualmente a quali condizioni e in quali limiti, la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o all’autorità amministrativa fatti commessi dal datore di lavoro, in violazione delle norme penali o delle disposizioni che, nel disciplinare il rapporto di lavoro, nei suoi diversi e molteplici aspetti, impongono regole di comportamento soggette a sanzione.
Sul punto, in una recentissima pronuncia, la Suprema Corte ha affermato: “Il Collegio ritiene di dovere dare continuità all’orientamento già espresso da questa Corte che, chiamata a valutare condotte analoghe a quella addebitata al ricorrente, ha escluso che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell’azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi (in tal senso Cass. 14 marzo 2013 n. 6501 e Cass. 8.7.2015 n.14249). Invero è da escludere che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli arti. 1175 e 1375 c.c. (fra le più recenti in tal senso Cass. 9.1.2015 n. 144), possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso "si correrebbe il rischio di scivolare verso - non voluti, ma impliciti - riconoscimenti di una sorta di "dovere di omertà" (ben diverso da quello di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento" (Cass. n. 6501 del 2013)...sicché solo la consapevolezza dell’insussistenza del fatto denunciato può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ove il lavoratore si sia limitato alla presentazione dell’esposto o della denuncia e si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti” (Cass., 4125/2017).
Solo in caso di divulgazione della denuncia e del suo contenuto, quindi, vengono in gioco gli ulteriori limiti della continenza formale e sostanziale enunciati dalla Suprema Corte in relazione all’esercizio del diritto di critica. 
Alla luce di tali principi, nonché delle risultanze probatorie e delle complessive circostanze del caso concreto da queste emergenti, ritiene il giudicante che il ricorso è fondato e va accolto per insussistenza del fatto contestato.
Non è contestato tra le parti che il ricorrente il 2.7.2015 si è recato alla Polizia di Stato ed ha sporto denuncia contro la convenuta, riferendo i fatti indicati nella contestazione disciplinare e nella stessa denuncia. Le circostanze risultano anche confermate dal ricorrente in sede di informazioni rese nel corso del procedimento ex art. 28, nonché in sede di libero interrogatorio reso nella fase sommaria del presente giudizio.
Dalla lettera di contestazione, poi, emerge che il licenziamento è stato disposto non per la presentazione della denuncia in sé, ma per la ritenuta gravità dei fatti in essa dichiarati, atteso anche il danno all'immagine derivato all’azienda dalla denuncia di fatti non veri: la contestazione, in altri termini, si è incentrata sulla non veridicità dei fatti denunciati, calunniosamente riferiti dal ricorrente alla Polizia ed in particolare sull’inesistenza del paventato pericolo alla salute dei pazienti e dei dipendenti del reparto, nonché sulla mancanza di minacce proferite dai suoi superiori, aggravati dalla consapevolezza nel ricorrente della loro non corrispondenza al vero.
Gli informatori, sentiti sotto il vincolo del giuramento nel corso del procedimento ex art. 28 1. 300/1970 - le cui dichiarazioni sono state acquisite nella fase sommaria del presente giudizio -, hanno riferito che il ricorrente, al momento della presentazione della denuncia, aveva avuto più volte rassicurazioni che il pezzo di ricambio del rilevatore di ozono era già stato ordinato dalla società, ordine effettivamente avvenuto il 10.6.2015, come emerge dall’ordine di acquisto agli atti; inoltre, dalle dichiarazioni dei testi è emerso anche che il dott. (l’Esperto Qualificato) aveva garantito, prima telefonicamente alla dott.ssa nell’imminenza del guasto e, poi, per iscritto, tramite una specifica certificazione datata 1.7.2015 (cfr. doc. 19 all. conv. e dichiarazioni rese in sede di informazioni dalla dottssa ... nel corso del procedimento ex art. 28 St. Lav.) che tale dispositivo era del tutto opzionale nel reparto, non essendo necessario per la tutela della salute dei dipendenti e dei pazienti in base agli esami ivi praticati.
La dott.ssa ... ha, poi, aggiunto che anche il ricorrente era stato messo al corrente di tali circostanze ed era stato più volte rassicurato, sia della mancanza di rischi per la salute, sia del fatto che, comunque, era stato già ordinato il pezzo di ricambio.
Le attestazioni del dott. non sono state confutate dal ricorrente con prove di segno contrario neppure nella presente fase del giudizio, né possono ritenersi smentite dal successivo verbale di contestazione in materia di Igiene del Lavoro, elevato dall’ASL in danno della convenuta in data 13.7.2015: con esso l'ASL ha comminato una sanzione alla società convenuta non per il mancato funzionamento del rilevatore di ozono e per la pericolosità per la salute dei dipendenti e dei pazienti nell’ambiente lavorativo, bensì per la mancata previsione nel documento di valutazione dei rischi anche del rischio ozono.
D’altro canto, le ragioni della ritenuta superfluità del rilevatore da parte del dott. (ossia la presenza di un rischio ozono solo negli esami Total Skin Irradiation, non praticati presso il laboratorio della convenuta, e la presenza in reparto di un sistema di areazione che garantisce 6/10 ricambi di aria/ora) rendono del tutto irrilevante, almeno dal punto di vista dell’oggettivo pericolo per la salute, la circostanza che l’attività sia ripresa in mancanza di un sopralluogo (doc. 19 all. conv.).
Giova sottolineare anche che l’effettivo pericolo per la salute legato alle emanazioni di ozono non può essere astrattamente ipotizzato, come si evince dal ricorso, per il semplice fatto che il rilevatore era presente nel reparto, ma va valutato in concreto con riferimento ai luoghi di lavoro ed alla tipologia di esami praticati.
Tuttavia, dal complesso delle circostanze emerse dalle dichiarazioni dei testi e dai documenti in atti, deve ritenersi che, benché non vi fosse alcun pericolo oggettivo per la salute dei pazienti e dei dipendenti del reparto, il ricorrente, al momento in cui ha presentato la denuncia, non era sicuro di ciò e si è rivolto alle Autorità senza la consapevolezza della non veridicità dei fatti denunciati e, quindi, della calunniosità della denuncia.
Va innanzitutto rilevato che l’attività nel reparto è ripresa poco dopo l’attivazione dell'allarme, a seguito del parere reso solo telefonicamente dall’Esperto della Qualità; non vi è alcuna prova agli atti che questi si sia mai recato personalmente in reparto, anche successivamente alla ripresa dell’attività, per confermare quanto verbalmente riferito ai dipendenti dalla dott.ssa né vi è prova che la sua perizia, datata 1.7.2015, sia mai stata divulgata nel reparto ovvero comunicata al ricorrente o alle organizzazioni sindacali prima della denuncia in esame, al fine di rendere note le valutazioni compiute dal dott. inoltre, non risulta dalle prove testimoniali acquisite che al ricorrente sia stato mai mostrato l’ordine di acquisto del pezzo non funzionante, avendo egli sempre ricevuto solo rassicurazioni verbali che il pezzo sarebbe stato sostituito.
La circostanza, poi, che anche altri tecnici del reparto si siano più volte recati dalla dott.ssa per chiedere quando il rilevatore sarebbe stato riparato, dimostra lo stato di allarme e preoccupazione generale, nonostante le rassicurazioni ricevute verbalmente.
La stessa presenza del rilevatore, pur se oggettivamente superflua in base agli esami praticati, può aver indotto in errore il ricorrente e gli altri dipendenti in merito alla sua necessità per la tutela della salute, atteso anche che il ricorrente rivestiva la qualifica di tecnico di laboratorio, inidonea a consentirgli di valutare autonomamente la superfluità del rilevatore di ozono nell’ambiente lavorativo.
Tali circostanze, unite al lungo tempo trascorso dal verificarsi del guasto ed allo stato d’animo del ricorrente - che ha dichiarato di essersi sentito ignorato dal comportamento noncurante della società (si veda in tal senso il verbale di audizione del ricorrente del 3.8.2015, le dichiarazioni dello stesso s il contenuto della denuncia) - dimostrano la mancanza di consapevolezza da parte del ricorrente della non verità dei fatti denunciati alle Autorità.
Non può, infine, ignorarsi che il guasto al rilevatore di ozono si è verificato in un periodo di difficile confronto sindacale e di continue contrapposizioni tra azienda e lavoratori - tra cui ultima quella relativa alla modifica unilaterale del contratto collettivo applicabile -, alla luce dei quali il ricorrente ha ritenuto di segnalare i fatti accaduti alle Autorità al fine di esercitare il suo ruolo sindacale nel modo ritenuto più efficace possibile e non con l’intento di calunniare la società attribuendole fatti mai accaduti; ciò tenuto anche conto che è emerso dagli atti che il per il ruolo sindacale ricoperto, veniva quotidianamente compulsato dai propri colleghi di lavoro circa i tempi di riparazione del rilevatore.
Analoghe considerazioni devono essere svolte con riferimento alle "minacce" riferite dal ricorrente nella denuncia ed a lui contestate come falsamente attestate all’Autorità.
Dalle dichiarazioni testimoniali in atti è emerso che i superiori del ricorrente ( e ... ) non lo hanno mai espressamente minacciato di comminare nei suoi confronti sanzioni disciplinari, limitandosi ad invitarlo ad abbassare i toni perché non consoni all’ambiente di lavoro ed a calmarsi.
Anche con riferimento a tali fatti, tuttavia, va rilevato che dalla stessa denuncia presentata dal e dai toni in essa utilizzati emerge che il lavoratore si è limitato a riportare i fatti e le parole dette che, seppure non corrispondenti a quelle realmente ed esattamente proferite, indicavano il senso della conversazione da lui percepito.
In altri termini, anche nella parte in cui il ricorrente ha denunciato di sentirsi minacciato e non adeguatamente tutelato nella salute sui luoghi di lavoro non aveva l’intenzione di calunniare il proprio datore di lavoro, essendo consapevole della falsità dei fatti denunciati e delle frasi riportate, ma intendeva solo allertare le Autorità, suscitando al contempo una tempestiva reazione del proprio datore di lavoro, su ima situazione ritenuta preoccupante e pregiudizievole per la salute propria e dei propri colleghi di lavoro.
Peraltro, il clima di tensione generale tra l’imprenditore e i lavoratori, le discussioni già avute nei giorni precedenti e il tono acceso della conversazione - risultanti dallo stesso tenore letterale della denuncia, oltre che dalla testimonianza resa dal ricorrente e dallo stesso -, nonché lo stato di agitazione in cui il ... si trovava da giorni (come peraltro riferito dalla stessa teste  è presumibile che lo abbiano indotto a fraintendere le frasi pronunciate dai propri superiori nel contesto dell'intera discussione, facendogli ritenere che l’azienda cercava di tutelare i propri interessi anche a scapito di quelli dei lavoratori.
I fatti contestati al ricorrente, quindi, così come accertati devono ritenersi insussistenti.
Occorre, infine, valutare anche le espressioni di insubordinazione pronunciate dal ricorrente nei confronti dei suoi superiori gerarchici.
Al riguardo, va in primo luogo osservato che, dalla lettura complessiva della lettera di contestazione, le frasi pronunciate dal ... risultano indicate piuttosto al fine di descrivere compiutamente l’accaduto che non quali elementi incidenti sulla fiducia riposta nel lavoratore; la contestazione, infatti, risulta incentrata prevalentemente sulla circostanza che il ricorrente aveva denunciato alle Autorità fatti non veri (il pericolo per la salute e le minacce ricevute) nella consapevolezza della loro falsità.
In ogni caso, le frasi proferite dal ricorrente nei confronti dei suoi superiori gerarchici sono, comunque, inidonee a fondare da sole il provvedimento di licenziamento adottato, rientrando nella nozione contrattuale di insubordinazione lieve, punita con la sanzione conservativa.
E’ pacifico, oltre che riferito da tutti i testi escussi e risultante dalla stessa denuncia, che il ... alla presenza di altre persone, rivolto ai propri superiori gerarchici, ha proferito le seguenti frasi: rivolto al ... ha dichiarato: “è uno schifo, lei ce li manderebbe i suoi figli laggiù?” e rivolto al ... “fai il responsabile del reparto, interessati della salute di collaboratori e pazienti”.
L’art. 100 del CCNL ASPAT - applicato dalla convenuta al momento della contestazione dei fatti, a prescindere dalla legittimità o meno della modifica contrattuale operata - prevede che ricorrono ipotesi di notevole inadempimento contrattuale, con conseguente possibilità di procedere al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, quando il lavoratore “compia atti di insubordinazione nei confronti dei superiori” o “arrechi pregiudizio all’economia, all’ordine ed all’immagine della struttura” “quando tali azioni abbiano carattere di particolare gravità”, dovendosi applicare negli altri casi le minori sanzioni conservative.
Ebbene, le parole proferite dal ricorrente, non contenendo alcuna negazione del potere gerarchico dei propri superiori, non integrano un’insubordinazione di particolare gravità e ciò ancor più ove si consideri il clima complessivo e il contesto della conversazione nella quale sono state pronunciate. 
Ciò posto, il licenziamento irrogato al ricorrente in data 7.8.2015 deve ritenersi illegittimo e la convenuta, ai sensi dell’art. 18, quarto comma, 1. 300/1970, va condannata a reintegrare nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché condannata a pagargli un’indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, corrispondente ad € 1.901,47 (risultanti dall’ultima busta paga di settembre 2015 e non contestati dalla convenuta come non corrispondenti all’ultima retribuzione globale di fatto), dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, in ogni caso non superiore a dodici mensilità.
Le spese di lite seguono la soccombenza con condanna della società convenuta nella misura liquidata in dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Il Tribunale di Nola, in funzione di giudice del lavoro e della previdenza, nella persona della dottssa Federica Salvatore, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, cosi provvede:
1) dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato a ... dalla società convenuta il 7.8.2015;
2) ordina alla s.p.a. di reintegrare immediatamente il ricorrente nel posto di lavoro precedentemente occupato e condanna la s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., a corrispondere al ricorrente un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto (pari ad € 1.901,47 mensili) dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, in ogni caso non superiore a dodici mensilità, oltre rivalutazione monetaria e interessi sulle somme via via rivalutate dal giorno della maturazione al saldo;
4) condanna la s.p.a. a rimborsare al ricorrente le spese di lite, liquidate in complessivi € 2.600,00, oltre spese generali, iva e cpa come per legge.
Nola, 18/05/2017
Il Giudice