Cassazione Civile, Sez. 6, 22 giugno 2017, n. 15570 - Tumore alla prostata: ricorso per ottenere la rendita per il riconoscimento della natura professionale della malattia


 

Presidente: CURZIO PIETRO Relatore: GHINOY PAOLA Data pubblicazione: 22/06/2017

 

 

Rilevato che:
1.  M.L.S, in qualità di erede di G.P., ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Lecce che confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda proposta dal de cuius per ottenere la rendita per il riconoscimento della natura professionale della malattia (tumore alla prostata) asseritamente contratta nell'esercizio a causa dell'attività lavorativa svolta.
2.  La Corte territoriale recepiva la valutazione del consulente tecnico nominato in secondo grado che, a fronte della mancanza di sufficienti elementi per individuare nel lavoro svolto dal G.P. una possibile fonte di contaminazione con prodotti cancerogeni per la prostata, aveva ritenuto che la neoplasia potesse essere attribuita ad un fattore di natura extralavorativa quale l'esposizione alle radiazioni non ionizzanti cui il G.P. era stato esposto come terapia del cancro del retto.
3.   A fondamento del ricorso, la M.L.S deduce il vizio di motivazione nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale laddove ha ignorato circostanze fattuali dalle quali emergerebbe l'esposizione nel corso dell'attività lavorativa da parte del de cuius a fattori professionali costituenti possibile causa del carcinoma prostatico, quali in particolare l'esposizione ad amianto, a resine, a cloruro di vinile, in settori aziendali chiusi proprio per l'alta incidenza di tumori. Come secondo motivo, lamenta violazione del d.lgs n. 1124 del 1965 e delle disposizioni dettate dall'Inail con la circolare numero 81 del 2000 e lamenta che non sia stata riconosciuta rilevante per la malattia professionale la pericolosità degli ambienti lavorativi frequentati, in contrasto con i rilievi svolti dal consulente di parte.
4.    L'Inail ha resistito con controricorso
5.  Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.
 

 

Considerato che:
1.  i due motivi, da valutarsi congiuntamente in quanto entrambi attingono l’esclusione del nesso di causalità tra attività lavorativa e malattia, sono inammissibili.
Deve qui ribadirsi che il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell'omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un'inammissibile critica del convincimento del giudice (v. explurimis da ultimo Cass. ord. n. 1652 del 2012, Cass. ord. 23/12/2014 n. 27378).
1.1. Il giudice di merito ha nel caso condiviso l'accertamento peritale, ripercorrendone sul piano medico-legale tutti i passaggi, e tenendo conto anche dei rilievi critici mossi alla c.t.u. dal consulente di parte, cui riferisce che il consulente d'ufficio aveva adeguatamente risposto precisando di avere preso in considerazione tutte le sostanze con cui G.P. era venuto in contatto in sede lavorativa, compresi PVC, benzene ed amianto e, quanto ai campi elettrici, evidenziando che non esisteva alcuna prova scientifica di una loro associazione con una maggiore incidenza di neoplasia della prostata.
2. Con il ricorso non vengono dedotti vizi logico- formali che si concretino in devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, ma, con riferimento a circostanze già esplicitamente valutate e confutate sul piano medico-legale dal giudice di merito, sono formulate osservazioni che risultano configurare un mero dissenso diagnostico.
3. Il richiamo ivi operato alla scienza medica — già valorizzata dal c.t.p. - non consente peraltro di ritenere superata la soglia della mera possibilità teorica che fattività lavorativa abbia contribuito all'insorgenza della malattia, in luogo di quella della ragionevole probabilità scientifica (necessaria per l'accertamento dell'eziologia professionale della patologia contratta, v. Cass. 19/01/2011 n. 1135), che varrebbe ad escludere che il fattore extralavorativo individuato dal c.t.u.. avesse costituito causa da sola sufficiente determinare l'evento.
4. Osta infine alla valutazione della sussistenza di un vizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. (nel senso reso esplicito dal Cass. S.U 07/04/2014, n. 8053 e 8054) il fatto che le concrete caratteristiche morbigene dell'attività lavorativa svolta siano descritte in ricorso in modo del tutto generico, senza precisi elementi circostanziali corredati dai riscontri probatori acquisiti nel giudizio di merito, sicché non può ritenersi che siano stati trascurati fatti che valgano ad attribuire alla concreta situazione lavorativa una valenza morbigena ulteriore e più significativa di quella ad essa attribuita dalla Corte di merito (ed ancor prima dal c.t.u.).
5.    Il ricorso risulta quindi inammissibile.
6. La regolamentazione delle spese processuali, liquidate come da dispositivo, segue la soccombenza, non riferendosi nel ricorso per cassazione di avere assolto nel corso del giudizio di merito, né ivi assolvendosi, l’onere autocertificativo previsto per l’esonero dall'art. 152 disp. att. c.p.c.., che richiede la rituale dichiarazione di essere titolare, nell'anno precedente a quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall'ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (la dichiarazione sostitutiva di certificazione allegata al ricorso riferisce infatti solo che il reddito è inferiore al triplo di € 10.628,16).
7. Sussistono infine i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 .
 

 

P.Q.M.

 


dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 2.500,00 per compensi, oltre ad € 200,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5.4.2017