Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 15 settembre 2017, n. 42305 - Caduta fatale durante la posa in opera di ringhiere su edificio in costruzione. Mancanza di formazione e di cintura di sicurezza


 

Presidente: BIANCHI LUISA Relatore: MICCICHE' LOREDANA Data Udienza: 07/06/2017

 

 

 

Fatto

 


1. La Corte d'Appello di Roma, con sentenza del 25 novembre 2015, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, dichiarava la prescrizione dei reati contravvenzionali relativi alla violazione della normativa antinfortunistica e confermava la penale responsabilità di L.M., in qualità di legale rappresentante della CSA carpenteria metallica srl e datore di lavoro di M.O., per il reato di cui all'art. 589, commi 1 e 2 cod pen, condannandolo alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione nonché al risarcimento dei danni nei confronti della costituita parte civile, con provvisionale pari a €.100.000,00 provvisoriamente esecutiva.
2. All'imputato era stato contestato che, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, e, in particolare, per non aver fornito all'operaio M.O. adeguata formazione sulla attività da realizzare (posa in opera di ringhiere su edificio in costruzione) e per non aver redatto un POS idoneo e corrispondente alle prescrizioni normative di sicurezza, aveva cagionato la morte del predetto operaio, precipitato dal primo piano dell'edificio in costruzione ove si stavano svolgendo i lavori mentre era intento alla posa in opera della ringhiera e saldatura dei ferri piatti sui montanti precedentemente istallati sul frontalino del balcone.
3. Riteneva la Corte, disattendendo i motivi di gravame, che erano state accertate le violazioni specifiche contestate e, in particolare, il fatto che il M.O., assunto tre giorni prima dell'infortunio morale, non avesse ricevuto alcuna adeguata formazione sulle misure di sicurezza, che il POS era privo di adeguati contenuti, neppure menzionando la necessità dell'uso della cintura di sicurezza, che sul balcone erano state rinvenuti un saldatore e una maschera ma non era stata ritrovata la necessaria cintura di sicurezza con relativo cordino, indispensabile per l'esecuzione delle lavorazioni senza rischi, che, infine, l'asta di ferro posta nella parte superiore della apertura del balcone era stata montata ad una altezza inferiore a quella stabilita per i parapetti. Tanto premesso, argomentava la Corte d'Appello che, anche se nessuno aveva assistito al mortale sinistro, non potesse esservi dubbio alcuno sul fatto che il M.O. era salito sul balcone per eseguire la saldatura della ringhiera, come comprovato dal ritrovamento della saldatrice e della mascherina, e che la caduta era riconducibile, anzitutto, al mancato uso della cintura di sicurezza con cordino nonché alla irregolare altezza del parapetto, che aveva consentito al lavoratore di sporgersi oltre misura e di precipitare conseguentemente al suolo. Il Collegio disattendeva altresì l'affermazione difensiva secondo cui non sarebbe stata raggiunta la prova circa le concrete cause dell'incidente, osservando che il tipo di lavorazione imponeva l'uso della cintura di sicurezza - che invece non era stata fornita al lavoratore - dal momento che la saldatura avrebbe tenuto occupate tutte e due le mani del lavoratore, che doveva impugnare la maschera e il saldatore,e che comunque vi era un rischio concreto di caduta in quanto il parapetto era di altezza inferiore a quella regolamentare di ben 25 centimetri, dovendosi decurtare dal calcolo dell'altezza sia i venti centimetri di due travi di legno collocate nella parte inferiore del balcone sia l'ulteriore ingombro di altri pezzi di polistirolo collocati al di sopra delle travi.
4. Ricorre per Cassazione L.M. a mezzo del proprio difensore di fiducia lamentando, con unico motivo motivo, il vizio di mancanza e contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova in ordine alla ritenuta responsabilità penale. La Corte aveva erroneamente affermato che il M.O. fosse stato "costretto a fissare la ringhiera tenendo con una mano il saldatore e coprendosi con l'altra il volto con la maschera", mentre era pacificamente emerso dall'istruttoria (in particolare, dai testi G. e Z.) che la maschera e il saldatore fossero stati ritrovati sul balcone e non sul piazzale in cui il M.O. era caduto, peraltro il saldatore non era stato neppure ritrovato connesso alla corrente elettrica, e ciò dimostrava che, al momento del sinistro, il M.O. non fosse intento alla lavorazione di saldatura della ringhiera. Ancora, quanto alla altezza del parapetto, nessun teste aveva mai riferito circa l'esistenza delle due travi di legno dell'altezza di 20 cm; né detta circostanza risultava dalle foto che documentavano lo stato dei luoghi. La Corte era dunque incorsa in un vizio di travisamento della prova, con incidenza fuorviante sulla ricostruzione dei fatti.
 

 

Diritto

 

1. Il ricorso è infondato.
2. Non si riscontra, nel tessuto argomentativo della pronuncia impugnata, la denunciata manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Al riguardo, va in primo luogo rammentato che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione ( Sez. . 3, n.44418 del 16/07/2013, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 Rv. 252615; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007 Rv. 236181).
3. Tanto premesso, lungi da quanto asserito nei motivi di ricorso, la Corte territoriale non afferma che, al momento del sinistro, l'operaio stesse effettivamente saldando la ringhiera. In conformità alla ricostruzione del primo giudice, la Corte d'Appello dà atto che l'operaio era salito sul balcone per effettuare la saldatura delle barre di ferro; tanto deducendo, del tutto logicamente, dalla presenza, sul balcone, degli attrezzi necessari, ossia della maschera e del saldatore. Argomenta dunque la Corte che il tipo di lavorazione da eseguire, comportante il totale impegno delle mani (il lavoratore doveva impugnare mascherina e saldatore), imponeva l'obbligo di assicurarsi mediante cintura di sicurezza e cordino, come emerso dalla chiara e precisa deposizione dei tecnici della ASL, mentre il M.O. non aveva ricevuto adeguata formazione circa i rischi delle operazioni da eseguire in quota e non aveva neppure avuto in dotazione la strumentazione necessaria. Sul punto, vanno richiamate le puntuali motivazioni della sentenza di primo grado, che, basandosi sulla precisa deposizione dell'ispettore della ASL T., ha logicamente ricostruito la dinamica del sinistro nel senso che il M.O., al fine di eseguire le operazioni di saldatura, avrebbe dovuto controllare il fissaggio anche esternamente, sporgendosi e quindi esponendosi al rischio di caduta dall'alto, effettivamente concretizzatosi. Sono dunque immuni da vizi logico-giuridici le considerazioni dei giudici di merito relative alla assoluta assenza di idonea formazione del M.O. riguardo alle operazioni di saldatura delle balconate in ferro, da eseguire in quota: l'operaio, infatti, era stato assunto qualche giorno prima del mortale sinistro, aveva svolto mansioni di fabbro e saldatore ma non aveva alcuna specifica formazione in ordine alle peculiari operazioni di saldatura di ringhiere di balconi di edifici, la cui esecuzione, svolgendosi in altezza, avrebbe certamente richiesto la adeguata conoscenza delle necessarie accortezze e precauzioni da porre in atto onde evitare cadute, atteso che, nel caso in esame, i ponteggi erano stati rimossi. In particolare, il datore di lavoro non aveva formato e informato il M.O. circa la necessità di utilizzare dispositivi di protezione ( neppure rinvenuti in dotazione del lavoratore) quali appunto la cintura di sicurezza, da ancorarsi mediante aggancio della fune di trattenuta ad un organo fisso che deve essere preventivamente individuato e calcolato. Correttamente , inoltre, la Corte territoriale ha puntualizzato che il POS della CSA Metallica srl, datrice di lavoro del M.O., neppure menzionava la necessità d' uso del dispositivo predetto.
4. La giurisprudenza di questa Corte ha tratteggiato i contorni ed i contenuti dell'obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni. Questi ha l'obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto (cfr. Sez. 3, n. 4063 del 04/10/2007, Rv. 238540; Sez. 4, n. 41997 del 16/11/2006, Rv. 235679). Il D.Lgs. n. 626 del 1994, al quale occorre fare riferimento ratione temporis, all'art. 3, comma 1 lett. s) pone la "informazione, formazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori ovvero dei loro rappresentanti, sulle questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro" tra le misure generali di tutela. Gli artt. 21 e 22 del citato decreto prevedono e definiscono i contenuti degli obblighi di informazione e di formazione, intesi quindi come attività ed obiettivi distinti. In particolare, il citato complesso normativo definisce sia l'oggetto della formazione, dovendo aver attinenza specifica al posto di lavoro e alle mansioni assegnate al lavoratore, che la tempistica, essendo evidenziati per la somministrazione della formazione i momenti dell'assunzione, del trasferimento o cambio di mansioni, dell'introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, nonché la modifica per evoluzione o per innovazione del quadro dei rischi, e prevede anche il coinvolgimento degli organismi paritetici previsti di cui all'art. 20. Va altresì sottolineato che il regolamento di attuazione del d.lgs 626/1994 (dm 16/1/1997, n.27, intitolato " individuazione dei contenuti minimi della formazione dei lavoratori, dei rappresentanti per la sicurezza e dei datori di lavoro che possono svolgere i compiti propri del responsabile del servizio di prevenzione e protezione") stabilisce, all'art. 4, che " l'attestazione della avvenuta formazione deve essere conservata in azienda a cura del datore di lavoro". Detto breve richiamo del profilo normativo dell’attività di formazione che il datore di lavoro deve assicurare permette dunque di ribadire il seguente principio, già affermato da questa Sezione, secondo cui "in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l'attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno compiute nella cornice formalizzata prevista dalla legge" (Sez. 4, n. 21242 del 12/02/2014; Rv. 259219 ; ; Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Rv. 266860). Sul punto, dunque, la sentenza impugnata è pienamente rispettosa - sulla base del fatto così come tratteggiato - dei principi sopra ricordati. E' innegabile infatti che il M.O. sia precipitato cadendo al di là del parapetto e che l'evento mortale non si sarebbe verificato se egli fosse stato adeguatamente formato e dotato di idonea cintura di sicurezza. Né poteva sopperire alla assoluta assenza di formazione e informazione la pregressa pluriennale esperienza del M.O. quale fabbro saldatore.
5. Infine, non è dato cogliere il denunciato travisamento della prova riguardo all'altezza del parapetto, posto che, come emerge dalle puntuali deposizioni degli operanti di PG (teste Z.) riportate nella sentenza di primo grado, l'asta di ferro che costituiva il parapetto era fissata a distanza di 95 cm dal piano di calpestio, (distanza comunque inferiore a quella regolamentare di un metro); che inoltre, sul piano di calpestio si trovavano due travi di legno di altezza di 20 cm (cd. battitacco) a ridosso delle quali erano poggiati, a protezione della pavimentazione dagli schizzi della saldatura, pezzi di polistirolo alto circa 6 cm. Logicamente, dunque, argomenta la Corte che la distanza in altezza dal piano di calpestio al parapetto si era ulteriormente ridotta con aumento del rischio di caduta. Va rammentato, al riguardo, che ricorre il cd travisamento della prova allorquando si introduca, nella motivazione, una un'informazione rilevante che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 4, n.49361 del 04/12/2015; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, Rv. 269217). Nel caso in esame, i giudici di merito hanno fatto puntuale riferimento alle risultanze istruttorie acquisite dal processo e puntualmente richiamate, traendone deduzioni coerenti e non certamente illogiche.
6. Si impone, quindi, il rigetto del ricorso. Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

PQM

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla refusione delle spese in favore della parte civile che liquida in €.2.500,00 oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 7 giugno 2017