Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 ottobre 2017, n. 24450 - Reiterati trasferimenti e "schizofrenia gestionale" lamentata dall'istruttore amministrativo del Comune


 

 

 

Presidente: MACIOCE LUIGI Relatore: BLASUTTO DANIELA Data pubblicazione: 17/10/2017

 

 

 

Rilevato

 


che V.G., dipendente del Comune di Trieste in qualità di istruttore amministrativo, categoria C, assegnata alla Direzione dei Servizi Centrali, Programmazione Osservatorio e Statistica, adiva il Giudice del lavoro di Trieste lamentando di essere stata trasferita, dapprima, con provvedimento del 18 nell'aprile 2003, all'Area Affari Generali ed Istituzionali per asserite esigenze di servizio e incompatibilità ambientale, in ragione di un contenzioso instaurato da alcuni dipendenti appartenenti l'Ufficio Statistica nei confronti del responsabile del medesimo Ufficio, al quale ella era affettivamente legata; successivamente, con provvedimento del 1° ottobre 2003, al Servizio Comunicazione in staff presso la Direzione Generale e, nuovamente, con provvedimento del 12 novembre 2003, all'Area Affari Generali e Istituzionali, per asserita carenza di personale presso i centri civici; che i reiterati trasferimenti configuravano una sorta di "schizofrenia gestionale", che aveva determinato la sostanziale emarginazione della ricorrente, espulsa di fatto dal quadro organico del Comune, in quanto inutilizzabile sia presso l'Ufficio Statistica dove era incompatibile, sia nel Servizio Comunicazione, stante la disposizione adottata dal Segretario Generale, sia nell'Area Affari Generali dove in realtà non serviva; che in detto periodo si era trovata nella necessità di ricorrere ad una terapia psichiatrica, in connessione alle problematiche insorte sul posto di lavoro; agiva, dunque, nei confronti del Comune di Trieste per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal prospettato mobbing, evocando in giudizio anche l'INAIL in relazione alla domanda di risarcimento per danno biologico;
che il Giudice adito escludeva la natura illecita del comportamento adottato dal Comune di Trieste, ritenendo insussistente una condotta configurabile quale mobbing, ovvero una dequalificazione o un demansionamento professionale; compensava le spese di lite e poneva l'onere delle spese di c.t.u. a carico di tutte le parti in solido;
che la Corte di appello di Trieste, con sentenza n. 179/12, rigettava l'appello principale proposto dalla lavoratrice e, in accoglimento di quello incidentale del Comune, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava la V.G. al pagamento delle spese del giudizio di primo grado;
che la Corte di appello disattendeva le censure formulate dall'appellante, osservando che era del tutto assente la prova della condotta e delle intenzioni vessatorie del Comune confronti della dipendente: quanto al provvedimento del 18 aprile 2003, il trasferimento si presentava addirittura doveroso, stante la relazione sentimentale tra la V.G. e il dirigente del servizio, per la tutela dell'immagine dell'ufficio nei confronti degli utenti e degli altri dipendenti; peraltro, detto provvedimento rimase ineseguito, stante l'immediato sopraggiungere di un lungo periodo di assenza dall'Ufficio della stessa V.G.; il provvedimento del 1° ottobre 2003, relativo all'assegnazione al servizio comunicazioni (collocazione espressamente gradita dalla lavoratrice), era rimasto parimenti privo di riscontro, così come la successiva determinazione amministrativa del 12 novembre 2003 che ripristinava il doveroso provvedimento del 18 aprile 2003, difatti la V.G. rimase ininterrottamente assente fino all'estate 2004; dunque, per effetto delle reiterate assenze dal lavoro, dal mese di aprile 2003 fino alla definitiva nuova sistemazione del 2006 al Servizio Statistica, la ricorrente rimase "...quasi sempre estranea all'ambiente di lavoro, per malattia ovvero per aspettativa non retribuita ovvero ancora per congedo ordinario", di conseguenza i primi tre provvedimenti del 18 aprile, del 1° ottobre e del 12 novembre 2003 non sortirono alcun effetto pratico; inoltre, la V.G. disattese il successivo invito a coordinare il cali center del progetto destinato alla carta d'identità elettronica, sostanzialmente disertando il posto di lavoro infine individuato nell'ufficio di via dei Mille; "...correttamente il Tribunale di Trieste si era posto l'interrogativo di quale effettivo demansionamento potesse discutersi" (pag. 18 seni, imp.); "nella situazione data ben poco poteva infatti essere affidato alla V.G., che dall'ufficio nel suo complesso si era in realtà distaccata in occasione del provvedimento che, sulla carta, l'allontanava - e del tutto opportunamente..." per ingaggiare "....una battaglia personale nei confronti dell'Amministrazione triestina...."; dunque, doveva essere confermata "...l'inesistenza di condotte persecutorie di alcun tipo nei riguardi della V.G., sottrattasi - con la propria condotta - anche a qualsivoglia verifica circa un'eventuale modifica in peius del proprio profilo professionale";
che, quanto alla compensazione delle spese di lite di primo grado, il gravame incidentale proposto dal Comune di Trieste era fondato poiché la controversia si presentava sicuramente infondata alla stregua delle stesse considerazioni svolte dal primo Giudice, che aveva escluso con nettezza e coerenza la sussistenza di condotte ascritte all'Ente pubblico territoriale; il contenzioso innescato dalla V.G. si collocava in palese contrasto quantomeno con gli elementari principi di buon andamento amministrativo;
che per la cassazione di tale sentenza V.G. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi; resistono con controricorso il Comune di Trieste e l'INAIL;
che la ricorrente e il Comune hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c.;
 

 

Considerato

 


che preliminarmente va disattesa l'eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal controricorrente Comune di Trieste, per essere l'impugnazione stata notificata presso gli uffici comunali a mani di un'impiegata addetta e non presso il domicilio eletto, ossia presso l'Avvocatura comunale; pertanto la notifica dovrebbe ritenersi eseguita alla parte personalmente e sarebbe affetta da nullità;
che la notifica del ricorso per cassazione alla parte personalmente e non al suo procuratore non determina l'inesistenza ma la nullità della notificazione, sanabile ex art. 291, primo comma, c.p.c. con la sua rinnovazione, oppure con l'intervenuta costituzione della parte destinataria, a mezzo del controricorso, secondo la regola generale dettata dall'art. 1 secondo comma, c.p.c., applicabile anche al giudizio di legittimità (Cass. n. 15236 del 2014);
che il primo motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2103, 1175 e 1375 c.c., nonché art. 52 d.lgs. n. 165/2001, vizio di omessa insufficiente contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio, censura la sentenza per avere omesso di verificare se l'assegnazione della ricorrente alle diverse destinazioni fosse conforme all'inquadramento posseduto; inoltre, una serie di circostanze non erano neppure state prese in considerazione, quali l'assenza di una postazione di lavoro per diversi mesi, l'assegnazione a mansioni implicanti un isolamento forzato senza contatti col pubblico e con i colleghi, l'assegnazione ad un servizio inesistente in quanto eliminato da tempo e le altre circostanze dedotte a fondamento della domanda;
che il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché dell'art. 2697 c.c. e vizio di motivazione, in quanto le presenze erano percentualmente non così preponderanti come invece ritenuto dalla Corte territoriale; inoltre, l'illegittimità della condotta del Comune si era estrinsecata già a monte degli stessi provvedimenti formali, in quanto privi di specifica destinazione e dell'assegnazione dei compiti; la prolungata assenza era ascrivibile alla vicenda lavorativa della ricorrente, come accertato dalla consulenza tecnica d'ufficio espletata in primo grado e neppure menzionata nella sentenza impugnata;
che il terzo motivo denuncia violazione falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 c.c., nonché degli artt. 1175, 1375, 1218, 2697, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., vizio di motivazione; il Comune non si era limitato a registrare le assenze della ricorrente e di tentare una sistemazione di gradimento della V.G., come affermato nella sentenza impugnata, ma aveva esercitato un ruolo attivo e consapevole in senso esattamente contrario, coinvolgendo la ricorrente incolpevole in una sorta di conflitto interno all'Amministrazione ed addossandole la responsabilità per essersi ammalata e per non avere dato esecuzione ad un ordine di servizio cui nemmeno i suoi superiori erano in grado di dare attuazione; tale condotta integrava la violazione dell'art. 2087 c.c. e degli obblighi di protezione del lavoratore, attuata mediante la gestione del rapporto di lavoro contraria ai principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.; il Comune aveva addirittura annullato il provvedimento di assegnazione della ricorrente presso il Servizio Comunicazione, dove avrebbe potuto darle una collocazione professionale adeguata, per riassegnarla forzatamente ad un servizio dove la stessa, non potendo essere per formazione professionale in alcun modo utile, fu infine posta e mantenuta in condizioni di totale inattività e di privazione di mansioni per svariati mesi;
che il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 342 e 434 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c.; il Giudice di primo grado aveva compensato tra le parti le spese di lite e condannato in solido le stesse a pagare le spese c.t.u., motivando la sua decisione nei seguenti termini "La complessità della controversia e ragioni di equità giustificano, in ogni caso, la compensazione delle spese di lite; parimenti le spese della c.t.u. - anticipata nell'ottica condivisa dalla parti del tentativo di conciliazione - devono essere poste a carico di tutte le parti in solido"; tale motivazione era idonea a giustificare la statuizione, mentre l'appello incidentale proposto dal Comune di Trieste si era limitato a contestare la mancata applicazione della regola della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c., la quale, nella formulazione applicabile ratione temporis, prevedeva la possibilità di compensare le spese per giusti motivi da indicare esplicitamente la motivazione, come avvenuto nel caso in esame; l'appellante incidentale aveva omesso del tutto di specificare le ragioni dell'eventuale erroneità e/o insufficienza della anzidetta statuizione; che il primo motivo è inammissibile, in quanto tutte le questioni con esso proposte postulano un'effettiva presa di possesso delle mansioni assegnate con i provvedimenti impugnati, mentre la Corte d'appello ha escluso in radice tale presupposto, evidenziando che la protratta assenza dal servizio della ricorrente aveva precluso la stessa possibilità di valutare la legittimità o meno dello ius variandi datoriale; la ricorrente oppone una diversa ricostruzione dei fatti omettendo di censurare la ratio decidendi posta a fondamento della domanda, avente carattere preliminare ed assorbente; è del tutto logica la considerazione, posta a fondamento del decisum, secondo cui la prolungata assenza dal lavoro costituiva elemento ostativo ad ogni utile valutazione della legittimità dei trasferimenti di ufficio, essendo mancata una prestazione lavorativa suscettibile di apprezzamento; che il secondo e il terzo motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto tra loro connessi, sono infondati; essi vertono sull'esame del contenuto dei documenti (provvedimenti datoriali oggetto di impugnativa) e sul mancato esame di alcune risultanze istruttorie, tra cui la c.t.u. medico-legale espletata in primo grado; giova ricordare al riguardo che, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016 , n. 14267 del 2006). Il ricorso in esame sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile in questa sede, mentre le censure per vizi di motivazione non vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un'errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l'inammissibile intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito;
che, secondo costante nella giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013);
che, quanto al mancato esame della c.t.u medico-legale, il ricorso non ne evidenzia il carattere di fatto decisivo; questo, ai sensi dell'art.360, co. 1 , n. 5 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis (prima delle modifiche introdotte dall'art. 53, comma 1, lett. b, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134), è quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa (Cass. n.18368 del 31 luglio 2013); la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, inerisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa; la decisione assunta dai giudici di primo e di secondo grado verte sull'inesistenza di un inadempimento imputabile all'Amministrazione, in difetto del quale perde di rilevanza l'accertamento del nesso causale tra prestazione lavorativa e malattie che si assumono conseguenti;
che il quarto motivo merita di essere accolto; quanto alle regole dettate dall'art. 92 c.p.c., va osservato che nei giudizi instaurati - come il presente (il ricorso introduttivo risale al marzo 2007) - nella vigenza della disciplina introdotta dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263 (prima delle modifiche apportate dall'art. 45, comma 11 della legge 18 giugno 2009, n. 69 e poi nuovamente dall'art. 13, comma 1, del d.l. 12 settembre 2014, n 132, conv., con mod. nella L. 10 novembre 2014, n. 162) il giudice può procedere a compensazione parziale o totale tra le parti, in mancanza di soccombenza reciproca, se ricorrono "altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione" (Cass. n. 13460 del 2012; conf. Cass. 23507 del 2014), non occorrendo "gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione" (Cass. n. 11284 del 2015);
che, in proposito questa Corte ha osservato che, ove la statuizione di compensazione non sia stata esplicitamente motivata dal giudice di primo grado e vi sia impugnazione sul punto, il giudice di appello, chiamato a valutarne la correttezza, esercitando il potere di correzione, può dare, entro i limiti del devolutum, un diverso fondamento al dispositivo contenuto nella sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 11130 del 2015; v. pure Cass. 26083/2010);
che nel caso in esame, avendo il Giudice di primo grado esplicitato le ragioni poste a base del regolamento delle spese di lite e di c.t.u., l'esercizio del potere di correzione era condizionato alla necessaria specificità dei motivi di appello - previsto dall'art. 342, comma primo, c.p.c., e, nel rito del lavoro, dall'art. 434, comma primo, c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella operata dall'art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134 -, non potendo dirsi soddisfatto tale requisito con il mero richiamo del principio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c.;
che, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384, secondo comma, c.p.c. e, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, va dichiarato inammissibile l'appello incidentale del Comune di Trieste sulle spese di primo grado (compresi gli oneri di c.t.u.);
che, stante la parziale soccombenza del Comune in appello, le spese del secondo grado di giudizio (liquidate per l'intero nella stessa misura di cui alla sentenza impugnata) vanno compensate in ragione di 1/3 nei confronti del Comune;
che, in ragione del limitato accoglimento del ricorso per cassazione, le spese del presente giudizio - liquidate come in dispositivo - sono compensate tra la ricorrente e il Comune di Trieste nella misura di 1/3;
che le statuizioni concernenti il regolamento delle spese nei confronti dell'INAIL non ha formato oggetto di specifico motivo di ricorso p cassazione;
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie il quarto motivo, rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e dichiara inammissibile l'appello incidentale del Comune di Trieste sulle spese di primo grado; compensa, nei confronti del Comune di Trieste, 1/3 delle spese del grado di appello, che liquida per l'intero in € 3.500,00; conferma la condanna di V.G. al pagamento delle spese di appello nei confronti dell'INAIL; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del Comune di Trieste, di 2/3 delle spese del presente giudizio, liquidate per l'intero in € 4.000,00 per compensi e in € 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge; condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell'INAIL, delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000,00 per compensi e in € 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.