Cassazione Civile, Sez. Lav., 29 novembre 2017, n. 28507 - Danno patrimoniale e danno biologico del dirigente medico dipendente dell'Azienda ospedaliera privato delle proprie funzioni


 

 

Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE Relatore: BLASUTTO DANIELA Data pubblicazione: 29/11/2017

 

 

Rilevato
che la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2262 del 23 marzo 2012, pronunciando sugli appelli riuniti, in parziale accoglimento di quello principale proposto dall'Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi, riduceva la liquidazione del danno professionale, riconosciuto dal Giudice di primo grado in favore del dott. A.LR., ad euro 45.000,00 e, in parziale accoglimento di quello incidentale, condannava l'Azienda ospedaliera a riassegnare al A.LR. mansioni equivalenti a quelle svolte precedentemente alla delibera n. 509/04 del 17.6.04;
che, secondo l'accertamento dei giudici di merito di primo e di secondo grado:
- il dott. A.LR., dirigente medico dipendente dell'Azienda ospedaliera, per molti anni responsabile di servizi o di unità strutturali, dal giugno 2004 aveva subito una sostanziale privazione di tutte le funzioni in precedenza svolte, in coincidenza con l'attuazione della delibera n. 509/2004 con cui gli erano stati conferiti compiti di sorveglianza sanitaria per i lavoratori dipendenti da terzi, per asserita esigenza di riorganizzazione operativa delle attività di sorveglianza sanitaria; da tale momento e fino al dicembre 2005 egli aveva svolto un'attività esigua, per essere poi lasciato completamente inattivo dal gennaio 2006; il suo ruolo di dirigente era stato così privato di contenuto; in relazione a ciò l'appellato aveva diritto a vedersi riassegnate "funzioni equivalenti a quelle svolte precedentemente all'attuazione della stessa" delibera n. 509/04;
- il dott. A.LR. aveva altresì diritto al ristoro dei danni subiti per effetto di tale illegittima privazione: il danno patrimoniale legato alla lesione della dignità professionale era quantificabile in € 45.000,00 pari a circa il 25% della retribuzione mensile per il periodo di 60 mesi (corrispondente alla durata della accertata lesione); il danno biologico, avente natura non patrimoniale, doveva essere liquidato in € 64.000,00 sulla base della c.t.u. medico-legale, che aveva accertato danni alla salute nella percentuale del 23% con riguardo a postumi permanenti, oltre ad un mese di invalidità temporanea parziale al 75%, tre mesi al 50% e ulteriori tre mesi al 25%; in proposito, il C.t.u., sulla base di un accurato accertamento, aveva concluso che non vi erano elementi per ammettere la ricorrenza di preesistenti patologie e che gli avvenimenti oggetto di causa possedevano requisiti di causa efficiente e forza lesiva dal punto di vista quantitativo e qualitativo per poter provocare un danno biologico psichico al periziando;
- con riguardo alla liquidazione operata dall'INAIL nelle more del giudizio, occorreva condividere quanto già ritenuto dal Giudice di primo grado secondo il quale le patologie in questione erano escluse dall'ambito di quelle indennizzabili; difatti, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1576/2009, aveva annullato il D.M. n. 134 del 27.4.2004 affermando che le malattie psicosomatiche da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro, non connettendosi al presupposto legale del rischio specifico, non erano suscettibili di dare luogo all'indennizzo; di.
conseguenza, l'esclusione della generalizzata rilevanza delle malattie psichiche, rendevano il provvedimento adottato dall'INAIL nei confronti del A.LR. suscettibile di revoca, con l'ulteriore conseguenza che non poteva operarsi la detrazione dei relativi importi dai crediti risarcitori come sopra liquidati;
che per la cassazione di tale sentenza l'Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, al quale ha opposto difese il dott. A.LR. con controricorso;
che entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c.;
 

 

Considerato
che con il primo motivo l'Azienda ospedaliera addebita alla sentenza impugnata insufficiente e contraddittoria motivazione in punto di accertamento del nesso causale tra la condotta che si assume illegittima e il danno biologico psichico, stante la genericità delle affermazioni sul punto da parte del CTU nominato in primo grado;
che il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. nella parte in cui la sentenza ha condannato l'Azienda ospedaliera al reintegro del dott. A.LR. nelle funzioni precedenti, atteso che nel pubblico impiego gli incarichi attribuiti sono necessariamente temporanei e non cristallizzano in capo al dirigente uno status professionale;
che il terzo motivo denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione nella parte in cui la sentenza non ha detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto già erogato dell'INAIL ai sensi del d.lgs. 38/2000; la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il pagamento eseguito dell'Istituto a favore del dott. A.LR. fosse soggetto a revoca, omettendo di considerare che: a) l'INAIL aveva provveduto al pagamento successivamente alla pronuncia del Consiglio di Stato e, a seguito di detto pagamento, intendeva avvalersi della facoltà di esercitare il diritto di regresso nei confronti della resistente; b) ove l'Azienda fosse condannata definitivamente a corrispondere al A.LR. l'intero importo riconosciuto dalla sentenza impugnata, senza alcuna detrazione corrispondente a quanto già versato dall'INAIL in favore dell'assicurato, si verificherebbe un duplice pagamento a carico dell'Azienda ospedaliera e un'ingiustificata locupletazione da parte del dipendente, che si vedrebbe corrispondere due volte il risarcimento per il medesimo titolo; che con il quarto motivo si denuncia violazione deM'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un motivo di appello vertente sul difetto di corrispondenza tra domanda di demansionamento formulata nel ricorso introduttivo e preteso svuotamento totale delle funzioni proprie del ruolo dirigenziale ricostruita in corso di causa; la Corte territoriale aveva posto a fondamento della decisione un concetto estraneo alle deduzioni del ricorrente; che la prima censura è inammissibile; la Corte di appello ha disatteso la contestazione mossa dall'appellante incentrata sulla mancata considerazione, parte del C.t.u., di patologie preesistenti in capo al periziando ed ha riferito che sul punto il Consulente d'ufficio aveva specificamente escluso tale evenienza; ora l'Azienda ricorrente muove l'addebito di mancato accertamento del nesso causale tra comportamento datoriale e danno psichico omettendo di riferire se e in quali termini, a fronte dell'accoglimento della domanda in primo grado, la questione fosse stata proposta in appello, dovendosi ritenere che, in difetto di tali allegazioni in sede di ricorso per cassazione (art. 366 nn. 3 e 4 c.p.c.), ogni questione non trattata dalla sentenza impugnata (o comunque non esaminata sotto l'aspetto specificamente ora dedotto) costituisca una questione nuova e come tale inammissibile; che, quanto alla statuizione con cui l'Azienda è stata condannata "a riassegnare ad A.LR. funzioni equivalenti a quelle svolte precedentemente alla delibera n. 509/04 del 17.6.04", oggetto del secondo motivo di ricorso, occorre chiarire che il dictum della Corte territoriale deve essere inteso come ordine di ripristino delle funzioni proprie della qualifica dirigenziale, di cui il dott. A.LR. era stato privato; così intesa, la statuizione è conforme ai principi di questa Corte che, per quanto specificamente rileva nella presente sede, possono essere così sintetizzati: a) nel lavoro pubblico alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò di ritenere applicabile l'art. 2103 c.c. (cfr. Cass. n. n. 4013 e n. 4621 del 2017; v. pure n. 3451 del 2010); b) la nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente l'equivalenti, sono esigibili; c) tuttavia, ove vi sia stato, con la destinazione ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa, la vicenda esula dall'ambito delle problematiche sull'equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (cfr. Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014); d) pur non essendo configurabile un diritto soggettivo del dirigente pubblico a conservare, ovvero ad ottenere, un determinato incarico di funzione dirigenziale, nondimeno la P.A. non può, a suo insindacabile arbitrio, lasciare immotivatamente ed ingiustificatamente il dirigente pubblico senza incarico e senza compiti di natura dirigenziale (cfr. Cass. n. 12678/2016); che il terzo motivo merita accoglimento:
a) in ordine al risarcimento del c.d. danno differenziale rispetto alla liquidazione del danno biologico operata dall'INAIL, Cass. 9166 del 2017 ha ricostruito, con attenta analisi, l'intero sistema introdotto dal d.lgs. n. 38/2000 (che regola ratione temporis anche la presente fattispecie), osservando che:
- il danno biologico, originariamente non coperto dall'INAIL, costituiva danno complementare sottratto alla regola dell'esonero ed il datore di lavoro poteva sempre essere chiamato a rispondere con azione diretta del lavoratore danneggiato, secondo i comuni presupposti della responsabilità civile (cfr. Corte cost. n. 87 del 1991); successivamente l'art. 13 del d. lgs. 28 febbraio 2000, n. 38, ha esteso la tutela INAIL al danno biologico definito come "la lesione all'integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona", al cui ristoro vengono destinate "prestazioni ... determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato" e secondo una tabella di calcolo dell'indennizzo che sia "comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali". In sintesi la nuova disciplina - applicabile alla fattispecie che ci occupa - così delimita i danni coperti dall'assicurazione obbligatoria: le menomazioni permanenti comprese tra il 6% ed il 15%, danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportato al grado della menomazione; le menomazioni pari o superiori al 16%, danno luogo ad una rendita ripartita in due quote: la prima quota è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno biologico subito dall'infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di natura patrimoniale della lesione. Per i danni di natura biologica inferiori al 6% o temporanei non vi è copertura assicurativa. L'INAIL è esclusivo debitore limitatamente alle prestazioni di tipo indennitario predeterminate in base alla legge. Tutto ciò che non è riconducibile a menomazioni che, per natura o grado, non costituiscono danno biologico -inteso secondo il d. lgs. n. 38 del 2000- superiore al 6% ovvero danno patrimoniale pari o superiore al 16% non è coperto dall'assicurazione obbligatoria e, quindi, è escluso dalla disciplina dell'esonero;
- le somme eventualmente versate dall'Inail a titolo di indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l'inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all'evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal d.P.R. n. 1124 del 1965, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio, alla verifica dell'applicabilità dell'art. 10 del decreto citato, ossia all'individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (cd. "danni complementari"), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile;
- che, ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell'eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall'INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, ed a tale ultimo accertamento procederà pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all'indennizzo, ed anche se l'Istituto non abbia in concreto provveduto all'indennizzo stesso;
- di qui la nozione di "danno differenziale", rettamente inteso come quella parte di risarcimento che eccede l'importo dell'indennizzo dovuto in base all'assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove il fatto costituisca reato perseguibile d'ufficio; parallelamente l'art. 11 dello stesso decreto consente all'INAIL di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile "per le somme pagate a titolo di indennità";
- in favore del lavoratore danneggiato l'indennizzo viene erogato a prescindere da ogni valutazione di responsabilità, stante l'automaticità delle prestazioni, le quali spettano anche se il datore di lavoro non sia adempiente ai suoi obblighi assicurativi; inoltre, dal punto di vista quantitativo, le prestazioni assicurative, svincolate dalla personalizzazione del danno, sono erogate sulla base di criteri predeterminati stabiliti dalla legge;
- con tale tutela può concorrere, pur restando autonoma, quella azionabile nei confronti del datore di lavoro che resta civilmente responsabile per i danni complementari e differenziali, basati su diversi presupposti e condizioni; i confini posti al concorso di tutele sono quelli fissati, ad un estremo, dal divieto di occulte duplicazioni o indebite locupletazioni risarcitorie in favore del danneggiato, ma, all'estremo opposto, dalla necessità di garantire al lavoratore l'integrale risarcimento, tanto più quando vengano coinvolti beni primari della persona, in particolare il nucleo irriducibile del diritto fondamentale alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (Corte cost. n. 309 del 1999; cfr. Cass. n. 777 del 2015; successive conformi: Cass. n. 13689 del 2015; Cass. n. 3074 del 2016; in precedenza v. Cass. n. 18469 del 2012; Cass. n. 5437 del 2011; tutte in motivazione);
b) tale esigenza di detrazione è confermata da altre recenti pronunce della Corte che hanno chiarito alcuni criteri che presiedono allo scomputo: Cass. 20807 del 2016 ha affermato che, in tema di liquidazione del danno biologico c.d. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall'ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato, volta all'indennizzo del danno patrimoniale (Cass. n. 20807/2016);
c) tale operazione di scomputo va effettuata d'ufficio ed anche se l'INAIL non abbia in concreto provveduto all'indennizzo: Cass. n. 9166 del 2017 ha precisato che depone per tale soluzione il tenore letterale dell'art. 10 D.P.R. 1124/65 cit. compatibile anche col caso del difetto di un già intervenuto indennizzo. Infatti, i commi 6, 7 ed 8 della disposizione parlano di indennità o rendita "liquidata a norma" del decreto. Dunque non dicono "che è stata liquidata", né "pagata", ma parlano di mera "liquidazione", che è operazione contabile astratta che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Di contro l'art. 11 dello stesso decreto n. 1124/65, in materia di regresso, usa la ben diversa espressione di "somme pagate", certamente presupponendo il reale ed effettivo pagarne degli importi. Quindi, l'indennizzo può essere anche un termine di raffronto solo virtù;
cioè astrattamente liquidabile secondo un puro criterio tabellare. Altrimenti ragionando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare né al dipendente (perché il risarcimento al lavoratore, anche in casi di responsabilità penale, è dovuto solo per l'eccedenza), né all'INAIL (che può agire in regresso solo per le somme versate e, quindi, senza indennizzo non vi sarebbe regresso);
che è infondato il quarto motivo: gli oneri di allegazione del lavoratore attengono alle circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia, ossia agli elementi di fatto significativi dell'illegittimo esercizio del potere datoriale, non anche a quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre spetta al giudice qualificare i fatti allegati, ben potendo egli desumere, nell'esercizio dei poteri anche officiosi a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati, nonché da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo (arg. Cass. n. 15527 del 2014, nonché S.U. n 5454 del 2009); l'inerzia lavorativa in cui era stato posto il dirigente per un lungo periodo rientrava tra i fatti allegati - come si desume con chiarezza dalla sentenza impugnata - per cui nessun mutamento di domanda è riscontrabile nella specie, ma solo una diversa qualificazione giuridica dei fatti rilevanti ai fini del giudizio, operata dal giudice di merito alla stregua delle risultanze processuali; che, in conclusione, in accoglimento del terzo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione, che procederà ad un riesame della liquidazione dei danni attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità;
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie il terzo motivo, respinti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazioni al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.
Così deciso nella Adunanza camerale del 24 maggio 2017