• Datore di Lavoro
  • Vigilanza, Ispezioni e Prescrizioni

Responsabilità di un datore di lavoro per non aver tenuto sgombre le uscite di sicurezza e per aver adattato in parte il laboratorio a dormitorio.

Il giudice di primo grado assolse Z.M. dal reato di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 13, comma 2, e art. 389, lett. c), e D.P.R. n. 303 del 1956, art. 44 perchè il fatto non costituisce reato. Osservò il giudice che la prescrizione di cui al D.Lgs. n. 758 del 1994, art. 20 non era stata consegnata all'imputato, che non era presente, ma ad un lavoratore che si trovava sul posto, sicchè non vi era prova che l'imputato avesse avuto conoscenza delle violazioni accertate e fosse stato messo in condizione di adempiere alle prescrizioni e di evitare il procedimento penale. 

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Ancona propone ricorso per Cassazione - Inammissibilità.

La Corte afferma che: "E' infatti pacifico che nessuna notificazione nel luogo di lavoro o nella residenza dell'imputato fu mai fatta e neppure tentata, sicchè sarebbe irrilevante accertare se fosse colpevole l'assenza dello stesso dall'azienda o se fosse o meno affidabile l'indirizzo della sua abitazione, ovvero se egli avesse avuto volontà di sottrarsi ad una notificazione mai avvenuta.
La realtà è che, come risulta dalla sentenza impugnata, la mancata comunicazione delle prescrizioni fu causata da una certa superficialità degli accertatori, i quali consegnarono il verbale con le prescrizioni ad un lavoratore dipendente rinvenuto sul posto ma che non era addetto nè legittimato alla ricezione della corrispondenza, senza poi preoccuparsi di far notificare il verbale stesso al datore di lavoro.
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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MAIO Guido - Presidente -
Dott. CORDOVA Agostino - Consigliere -
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere -
Dott. MARMO Margherita - Consigliere -
Dott. MULLIRI Guicla - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Z.M., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa il 10 dicembre 2007 dal giudice del tribunale di Macerata, sezione distaccata di Civitanova Marche;
udita nella pubblica udienza dell'8 gennaio 2009 la relazione fatta dal Consigliere Dr. Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ciampoli Luigi, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore avv. Marciano Monica.

Fatto

Con la sentenza in epigrafe il giudice del tribunale di Macerata, sezione distaccata di Civitanova Marche, assolse Z.M. dal reato di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 13, comma 2, e art. 389, lett. c), e D.P.R. n. 303 del 1956, art. 44 (per avere, quale datore di lavoro, non tenuto sgombre le uscite di sicurezza ed adattato in parte il laboratorio a dormitorio) perchè il fatto non costituisce reato.
Osservò il giudice che la prescrizione di cui al D.Lgs. n. 758 del 1994, art. 20 non era stata consegnata all'imputato, che non era presente, ma ad un lavoratore che si trovava sul posto, sicchè non vi era prova che l'imputato avesse avuto conoscenza delle violazioni accertate e fosse stato messo in condizione di adempiere alle prescrizioni e di evitare il procedimento penale.
Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Ancona propone ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione perchè la motivazione della sentenza impugnata avrebbe dovuto semmai determinare la declaratoria di improcedibilità dell'azione penale.
Sostiene inoltre che il giudice non avrebbe potuto dubitare del fatto che l'imputato avesse avuto notizia delle prescrizioni, dato che non aveva personalmente dedotto nulla a propria discolpa.
Il giudice poi non ha accertato se l'assenza dal luogo nelle occasioni di verifica e l'inaffidabilità dell'indirizzo fossero interpretabili come volontà di sottrarsi o come colpevole negligenza.

Diritto


Il secondo motivo con cui si eccepisce che il giudice non avrebbe potuto rilevare la mancata notifica delle prescrizioni perchè l'imputato non aveva dedotto nulla in proposito, è manifestamente infondato, dal momento che il giudice è tenuto a verificare d'ufficio la sussistenza delle condizioni per la procedibilità dell'azione penale.
E' manifestamente infondato anche il terzo motivo con il quale si deduce che il giudice avrebbe dovuto valutare se vi fosse stata una volontà dell'imputato di sottrarsi alla notificazione delle prescrizioni o almeno una sua colpevole negligenza in proposito.
E' infatti pacifico che nessuna notificazione nel luogo di lavoro o nella residenza dell'imputato fu mai fatta e neppure tentata, sicchè sarebbe irrilevante accertare se fosse colpevole l'assenza dello stesso dall'azienda o se fosse o meno affidabile l'indirizzo della sua abitazione, ovvero se egli avesse avuto volontà di sottrarsi ad una notificazione mai avvenuta.
La realtà è che, come risulta dalla sentenza impugnata, la mancata comunicazione delle prescrizioni fu causata da una certa superficialità degli accertatori, i quali consegnarono il verbale con le prescrizioni ad un lavoratore dipendente rinvenuto sul posto ma che non era addetto nè legittimato alla ricezione della corrispondenza, senza poi preoccuparsi di far notificare il verbale stesso al datore di lavoro.
E' invece fondato il primo motivo, perchè effettivamente il giudice ha errato nel dichiarare che il fatto non costituisce reato per difetto dello elemento soggettivo.
E difatti, la mancata conoscenza delle prescrizioni e la mancata possibilità di seguire la procedura per l'estinzione del reato, non incidono sull'elemento soggettivo del reato stesso, che si era già perfezionato in precedenza, ancor prima del suo accertamento.
Come esattamente rileva il Procuratore generale ricorrente, il giudice avrebbe dovuto invece pronunciare sentenza di improcedibilità dell'azione penale, per il mancato verificarsi della condizione di procedibilità consistente nel regolare espletamento della procedura di regolarizzazione finalizzata alla possibile estinzione del reato.
Ritiene tuttavia il collegio che il motivo, pur essendo fondato, sia però inammissibile per carenza di un interesse concreto ed attuale a proporlo.
Invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche per il pubblico ministero deve sussistere un interesse concreto ed attuale ad impugnare, il che si verifica quando con l'impugnazione egli miri ad un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente utile e favorevole.
Anche l'impugnazione del pubblico ministero, quindi, per essere ammissibile, deve tendere alla eliminazione della lesione di un diritto o di un interesse giuridico dell'impugnante, non essendo prevista la possibilità di proporre un'impugnazione che si risolva in una mera pretesa teorica che miri alla sola esattezza giuridica della decisione, che di per sè non sarebbe sufficiente a integrare il vantaggio pratico in cui si compendia l'interesse normativamente stabilito che sottende l'impugnazione di ogni provvedimento giurisdizionale (cfr. Sez. Un., 29 maggio 2008, Parovel; Sez. Un., 13 dicembre 1995, Timpani; Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m.193743; Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018).
Nella specie, appunto, il Pubblico Ministero ricorrente si è limitato soltanto a dedurre l'inesattezza giuridica della formula adottata, ma non ha nemmeno prospettato il vantaggio pratico e quindi l'interesse attuale e concreto sotteso alla impugnazione.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.
 
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 8 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2009