Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 febbraio 2015, n. 3989 - Tensione nell'ambiente lavorativo e cardiopatia. La responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 cod. civ., non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva


 


Fatto


 Con ricorso al Tribunale di Roma M.G. agiva in giudizio nei confronti di En s.p.a., sua ex datrice di lavoro, chiedendone la condanna al risarcimento del danno conseguente alla cardiopatia da cui era affetto. Sosteneva che tale malattia era stata causata dalla situazione lavorativa dell’ufficio nel quale aveva prestato l’attività di capo reparto gestione della zona di Tivoli preposto a 22 dipendenti, situazione pregiudizievole per la sua salute, dato lo stato di permanente e pesante tensione dell’ambiente lavorativo.
 Nella resistenza della società convenuta il giudice adito Tribunale rigettava la domanda, e la Corte di Appello di Roma, su impugnazione del soccombente, dopo avere escluso, con sentenza non definitiva del 4 novembre 2004, che la dichiarazione sottoscritta dal M. in data 28 luglio 2000, in occasione della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, integrasse una transazione della pretesa risarcitoria, con sentenza definitiva del 30 settembre 2010 negava che la patologia lamentata dall’appellante potesse essere ascritta a responsabilità della società; riteneva la mancanza di colpa dell’azienda nelle dedotte tensioni lavorative, queste rientranti nell’ordinario contesto di lavoro proprio di imprese di grandi dimensioni.
 Per la cassazione della sentenza definitiva il M. ha proposto ricorso con due motivi. L’En ha resistito con controricorso contenente ricorso incidentale condizionato avverso la pronuncia non definitiva, cui il ricorrente principale ha replicato con controricorso. La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Diritto


 Innanzitutto i due ricorsi devono essere riuniti, in quanto proposti avverso sentenze che integrandosi a vicenda definiscono un unico giudizio, e così danno luogo ad una ipotesi assimilabile a quella contemplata dall’art. 335 c.p.c. (Cass. 10 luglio 2001 n. 9377).
 Il ricorrente principale con il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., unitamente a vizio di motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio.
 Richiama taluni atti e documenti che egli reputa non considerati o solo parzialmente o contraddittoriamente valutati dalla Corte territoriale, quali l’organigramma del reparto Gestioni di Tivoli negli anni 1990 e sino al 1995, invece rilevanti al fini della decisione, come pure le circostanze indicati nei capitoli della prova testimoniale richiesta ma non ammessa, tendenti a dimostrare la reale consistenza dell’organico del predetto ufficio.
 Il secondo motivo del medesimo ricorso denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., e dell’art. 41 Cost., comma 2.
 Addebita al giudice del gravame di avere considerato insussistente la responsabilità dell’azienda, “in quanto gli esiti della consulenza tecnica di ufficio erano fondati sulla oggettività delle allegazioni, ritenute poi non provate dalla stessa Corte” di merito.
 Ricordata la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, il M. sostiene che la società non aveva sopperito in alcun modo alle carenze d’organico verificatesi negli anni dal 1990 al 1992, “nè si era premurata di riconoscere le mansioni superiori ai dipendenti che le avevano svolte, sopperendo alle carenze di organico“. Aggiunge che esso ricorrente aveva dovuto provvedere all’espletamento delle attività lavorative assegnate al reparto con il personale già a disposizione, con organico sottodimensionato, e per giunta per un lavoro più qualificato e per ciò stesso più gravoso, sicchè ne era derivata “una situazione non ordinariamente gestibile, che (aveva) determinato lo stress emotivo e quindi la malattia cardiaca del ricorrente”.
 I due motivi da trattare congiuntamente per la connessione delle argomentazioni svolte a loro sostegno sono infondati, e ciò a parte i rilievi circa l’inosservanza del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione mossi dalla resistente almeno per talune delle censure per vizio di motivazione.
 Come è noto la responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, è di natura contrattuale e sul piano della ripartizione dell’onere probatorio incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verifìcarsi del danno, sì che non possa essere a lui addebitabile l’inadempimento all’obbligo di sicurezza previsto dalla norma (Cass. 17 febbraio 2009 n. 3788, Cass. 29 gennaio 2013 n. 2038).
 Senza dubbio è da condividere il principio di diritto richiamato dalla difesa del lavoratore, elaborato da Cass. 1 settembre 1997 n. 8267, ove si è sottolineato che l’attività di collaborazione cui l’imprenditore è tenuto nei confronti dei lavoratori a norma dell’art. 2087 cod. civ. non si esaurisce nella predisposizione di misure tassativamente imposte dalla legge, ma si estende all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, e “che anche il mancato adeguamento dell’organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonchè il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo le regole di comune esperienza – la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione dell’art. 41 Cost., comma 2, e art. 2087 c.c., e ciò anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore”.
 Nella fattispecie esaminata nella pronuncia ora indicata, oltre alla accertata inadeguatezza dell’organico era stato pure riscontrato il comportamento del lavoratore che si era estrinsecato nell’accettazione di straordinario continuativo, ancorchè contenuto nel cosiddetto monte ore massimo contrattuale e nella rinuncia a periodi di ferie, circostanze che qui non ricorrono. Il M., secondo quanto da lui stesso esposto nel presente ricorso, aveva rappresentato l’esistenza di una situazione di tensione tra direzione dell’azienda e i dipendenti, soprattutto per le rivendicazioni avanzate da costoro di inquadramenti superiori, e pur lamentando genericamente una carenza d’organico non aveva prospettato l’esistenza di ritmi di lavoro di particolare intensità, nè che aveva dovuto effettuare straordinario continuativo o comunque che era stato costretto a procrastinare la giornata lavorativa oltre il normale orario contrattuale, nè che il carico di lavoro era divenuto eccessivo.
Le critiche mosse dal M. attengono alla statuizione della sentenza impugnata in ordine alla valutazione, a suo parere riduttiva, delle “tensioni” lavorative e nei rapporti tra i colleghi di lavoro e l’odierno ricorrente, avendole la Corte territoriale inquadrate nell’ambito di un ordinario contesto lavorativo proprio di imprese di grandi dimensioni e soprattutto “che non dimostravano una responsabilità colposa del datore di lavoro”, ed avendo escluso che nell’ambiente di lavoro ove operava il M. vi fosse una conflittualità eccedente le normali dialettiche lavorative.
Ma ciò che è determinante è che le doglianze esposte non fanno alcun cenno all’incidenza di quelle tensioni sul carico lavorativo del ricorrente o come il mancato accoglimento da parte dell’azienda delle rivendicazioni di inquadramenti superiori rivolte da taluni colleghi del M. avesse potuto modificare per costui, quale capo reparto nell’ufficio in questione, i carichi di lavoro.
Nè alcuna decisività ai fini della risoluzione della presente controversia presentano gli organigrammi dell’ufficio per gli anni dal 1990 al 1993, di cui si lamenta la mancata valutazione, non essendo stata smentita la circostanza evidenziata dal teste Mo., all’epoca ingegnere aggiunto per la zona di Tivoli secondo cui “gli organici venivano concertati con le parti sindacali”, concertazione che porterebbe a negare una colpa dell’azienda per la loro determinazione. E nessun riferimento vi è ad elementi che possano valere a ritenere una pretesa della società nei confronti degli occupati nel reparto gestioni di Tivoli circa lo svolgimento di maggiori carichi di lavoro, che anzi lo stesso M. nel ricorso per cassazione (v. pag. 13) ha richiamato parte del contenuto del documento sindacale del 9 giugno 1993, che si assume ignorato dalla sentenza impugnata, con il quale i dipendenti avevano comunicato all’azienda “di voler effettuare solo il lavoro di loro competenza, dal momento che TEN non ha inteso riconoscere il diritto alle mansioni superiori“, a cui però la società non aveva replicato. Nè peraltro appare decisiva la prospettata “paralisi del reparto” che si sarebbe potuta verificare a seguito della trasmissione della trasmissione all’azienda di quella comunicazione sindacale, la cui omessa valutazione è addebitata dal ricorrente alla sentenza impugnata, trattandosi di una valutazione del ricorrente di un documento, tuttavia inammissibilmente richiamato, senza cioè la sua integrale trascrizione contro il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.
 In relazione alla valutazione delle deposizioni testimoniali indicate (testi S. e M.) deve escludersi il dedotto vizio di omessa o insufficiente motivazione, il quale per consolidato orientamento di questa Corte è configurabile, nel regime anteriore alla riforma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la motivazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v. fra le tante Cass. 18 marzo 2011 n. 6288. S.U. 25 ottobre 2013 n. 24148).
 Va inoltre ribadito che ai fini della congruità della motivazione adottata dal giudice del merito, non è necessario che questi esamini, anche soltanto per confutarle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. 14 febbraio 2013 n. 3668 e numerose altre).
 Inammissibile è infine la censura con la quale il ricorrente lamenta che non sia stata affermata la responsabilità dell’azienda, malgrado le risultanze della consulenza tecnica di ufficio, che il giudice del gravame ha disatteso in quanto “fondate sulla oggettività delle allegazioni” della parte e dando la consulenza espletata “per scontato quanto invece andava provato”: il ricorrente si limita a criticare tale giudizio espresso dalla Corte di merito ma neppure ha precisato, contro il principio di specificità del ricorso per cassazione, quali le allegazioni considerate dall’ausiliare e ritenute non provate dal medesimo giudice.
 Il ricorso è perciò rigettato e resta così assorbita l’impugnazione incidentale del TEN, espressamente dichiarata condizionata all’accoglimento di quella principale.
 Alla soccombenza segue il carico delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.


 La Corte riunisce i ricorsi; rigetta quello principale, assorbito l’incidentale; condanna il ricorrente al pagamento in favore dell’EN s.p.a. delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi e in Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari, oltre spese generali e altri accessori di legge.
 Così deciso in Roma, il 27 novembre 2014.
 Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2015