Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 20 dicembre 2018, n. 57706 - Assenza di scarpe antinfortunistiche e grave infortunio con un macchinario. Il datore di lavoro deve sorvegliare continuamente sull'adozione dei DPI da parte di preposti e lavoratori


 

In tema di infortuni sul lavoro - indipendentemente dalla esistenza o meno della figura del preposto - la cui specifica competenza è quella di controllare l'ortodossia antinfortunistica dell'esecuzione delle prestazioni lavorative per rapporto all'organizzazione dei dispositivi di sicurezza - il datore di lavoro risponde dell'evento dannoso laddove si accerti che egli abbia omesso di rendere disponibili nell'azienda i predetti dispositivi di sicurezza (cfr. sez. 4 n. 21593 del 02/04/2007, Bucolo, Rv. 236725). Egli, peraltro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro [cfr. sez. 4 n. 4361 del 21/10/2014 Ud. (dep. 29/01/2015), Ottino, Rv. 263200].
Peraltro, in ordine alla ripartizione degli obblighi di prevenzione tra le diverse figure di garanti nelle organizzazioni complesse, il supremo collegio di questa corte ha definitivamente chiarito che gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del d.lgs. 81/08 riguardi un ambito ben definito e non l'intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (cfr. sez. unite n.38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261108).


 

Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: CAPPELLO GABRIELLA Data Udienza: 26/09/2018

 

Fatto

 


1. La corte d'appello di Brescia, in accoglimento dell'appello proposto dal procuratore generale, ha riconosciuto B.R., nella qualità di datore di lavoro di A.A., responsabile del reato di lesioni colpose aggravate ai danni di costui, ribaltando il verdetto assolutorio di primo grado.
2. Questa, in sintesi, la vicenda.
Il 06/06/2014, l'infortunato - assegnato da circa quattro giorni alla COPPER ITALIA s.r.l., della quale il B.R. era presidente del consiglio di amministrazione - mentre era intento a controllare un macchinario, aveva notato che alcuni pezzi erano incastrati e nel tentativo di ripristinarne il normale funzionamento, era rimasto ferito al piede sinistro, essendo alcune parti del macchinario cadute imprigionandogli l'arto (che subiva l'amputazione parziale del primo e del secondo dito).
In relazione all'accaduto e alla sopra desctritta dinamica dell'infortunio, invero incontestata, si era formulata l'imputazione a carico del B.R., quale datore di lavoro, ravvisata nella condotta colposa nell'omessa fornitura al lavoratore delle scarpe antinfortunistiche, il cui utilizzo, stante il puntale in metallo, avrebbe scongiurato l'evento.
Il tribunale aveva assolto il B.R. rilevando che il datore di lavoro aveva fornito il presidio di sicurezza individuale, non utilizzato nell'occorso dal lavoratore, e che nessun obbligo di controllo dell'effettivo utilizzo poteva riconoscersi in capo al datore di lavoro, stante la presenza di un responsabile di produzione (Z.E.), tale controllo essendo inesigibile per un datore di lavoro come il B.R., che era al vertice di un'azienda che occupava circa 20 dipendenti, oltre ad alcuni interinali.
La valutazione era stata censurata dall'appellante, con il rilevare che il tribunale aveva sostanzialmente ritenuto esistente una delega allo Z.E. in materia di sicurezza sul lavoro, tuttavia non provata e non formalizzata secondo i cirteri di cui all'art. 16 del d.lgs. 81/08; che anche al lavoratore Z.E. erano stati consegnati i dispositivi di protezione individuale e, pertanto, anche costui doveva ritenersi destinatario della tutela antinfortunistica; che non vi era prova della posizione di preposto assunta da questi e che, in ogni caso, tale posizione non escludeva quella concorrente del datore di lavoro, ognuno essendo destinatario di obblighi, la cui violazione è singolarmente addebitabile; che il lavoratore, infine, era stato assegnato alla società da soli tre giorni, non aveva ricevuto istruzioni specifiche, non era in grado ci comprendere bene la lingua italiana e non era stato dotato delle scarpe antinfortunistiche, come già accaduto in precedenza, allorché aveva svolto attività lavorativa presso la stessa società.
3. Il B.R. ha proposto ricorso, con proprio difensore, formulando due motivi.
Con il primo, la difesa ha dedotto vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'elemento soggettivo del reato, essendo emerso dall'istruttoria che solo per un errore del responsabile della produzione le scarpe non erano state consegnate al lavoratore, avendo lo stesso Z.E. dichiarato di essere stato incaricato dal datore di lavoro di consegnare i dispositivi e di avere creduto che il lavoratore, come qualche volta accadeva, avesse le proprie scarpe antinfotunistiche.
Sotto altro profilo, la difesa ha dedotto anche il travisamento della prova documentale rappresentata dalle schede di fornitura dei mezzi di protezione, sottoscritte per la consegna proprio dallo Z.E., da tali documenti emergendo che al datore incombeva solo di fornire i mezzi di protezione individuale, mentre era compito specifico del responsabile di produzione provvedere alla loro materiale consegna al lavoratore.
Con il secondo, ha dedotto violazione di legge con riferimento agli artt. 18 e 19 del d. Lgs. 81/08, sia avuto riguardo alla pretesa mancata fornitura del presidio, che alla mancanza di di specifica delega scritta al preposto.
Quanto al primo aspetto, la difesa ha rilevato che i presidi erano presenti in azienda, laddove, con riferimento al secondo profilo, l'assenza di una delega scritta sarebbe stata nel caso di specie del tutto inconferente, stante la posizione di preposto dello Z.E., i cui doveri derivano pertanto direttamente dalla legge.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso va rigettato.
2. La corte bresciana ha ritenuto incontestata la ricostruzione della dinamica dei fatti in uno con la circostanza che, nell'occorso, il lavoratore non aveva indossato il presidio di sicurezza che avrebbe certamente scongiurato l'evento.
Ha, inoltre, opportunamente precisato che non era necessario procedere alla rinnovazione dell'istruttoria, in quanto l'appellante non aveva censurato la valutazione della prova dichiarativa, ma rilevato l'inesattezza giuridica delle conclusioni che il tribunale aveva tratto dalle prove acquisite, con riferimento alla posizione di garanzia del datore di lavoro.
Quanto, poi, all'esistenza di altre figure di garanti della sicurezza in quel contesto specifico (il riferimento è al responsabile di produzione Z.E.), la corte territoriale ha rilevato che spettava alla ditta che impiegava anche personale in somministrazione, fornire i dispositivi di protezione individuale, come era emerso dalla lettura del relativo contratto di somministrazione di lavoro a termine.
Altrettanto pacifico doveva ritenersi, per quel giudice, che la posizione di datore di lavoro fosse ricoperta dall'imputato, nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione con delega per gli aspetti della sicurezza sul lavoro (come emerso dalla visura camerale e dal verbale del C.d.A. del 23 giugno 2006, ove il B.R. era stato indicato, per l'appunto, come datore di lavoro senza limiti di spesa).
Indiscussa, peraltro, era la circostanza che all'infortunato non fossero state fornite nell'occorso le apposite scarpe, sebbene necessarie per il lavoro svolto: egli aveva indossato le sue scarpe normali, come del resto era accaduto anche in una precedente occasione.
Inoltre, sebbene il responsabile della produzione Z.E. avesse affermato di avere chiesto al lavoratore se avesse le scarpe antinfortunistiche ricevendone risposta affermativa, il relativo modulo di consegna non era stato sottoscritto dal lavoratore, ma neppure dal datore di lavoro, né dal preposto.
Peraltro, dall'esame delle schede di consegna dei presidi di sicurezza, relative ad alcuni lavoratori, era emerso che esse erano sottoscritte dai lavoratori (anche quelli in somministrazione) e dal datore di lavoro, con il che, secondo la corte di merito, restava smentito l'assunto secondo cui l'obbligo di fornire il presidio e di controllarne l'uso non gravava sul B.R., tenuto conto delle dimensioni dell'azienda (che la corte ha ritenuto modeste, atteso che vi erano impiegati una ventina di dipendenti e solo occasionalmente alcuni interinali) e della presenza del preposto.
Proprio con riferimento all'esistenza di altra figura di garante, peraltro, la corte ha ritenuto di ravvisare un errore di diritto da parte del tribunale, spettando al datore di lavoro fornire i dispositivi personali di protezione, tale mansione non avendo formato oggetto di delega allo Z.E., il quale infatti, non era in grado di svolgerla, avendo scambiato le normali scarpe dell'Infortunato con quelle dotate di puntale in metallo.
Inoltre, la corte territoriale ha sottolineato la circostanza che la violazione degli obblighi da parte del datore di lavoro doveva considerarsi precedente all'omesso controllo dell'utilizzo del presidio, atteso che, nel caso del lavoratore infortunato, era emerso che il presidio non era stato proprio consegnato, non essendo stata rinvenuta alcuna scheda attestante il relativo passaggio.
3. I motivi sono infondati e il loro esame deve essere preceduto da una premessa generale che riguarda i casi, come quello all'esame, in cui il giudice d'appello ribalti il verdetto assolutorio di primo grado nei confronti dell'imputato.
Il caso, infatti, si pone nel solco delle pronunce che impongono una verifica della base fattuale sulla quale è intervenuta la decisione della corte territoriale, non disgiunta da uno scrutinio circa l'eventuale violazione del diritto dell'imputato di essere giudicato ad esito di un processo equo, nel quale il materiale probatorio esaminato dai diversi giudici del merito non abbia costituito oggetto di una valutazione distonica rispetto ai principi che costituiscono ormai ius receptum a seguito della nota decisione della Corte E.D.U. nel caso Dan c.Moldavia [ma che, in realtà, trova espressione già in precedenti pronunce, a partire dal caso Bricmont c. Belgio del 07/07/1989, e poi, ex plurimis, nei casi Costantinescu c. Romania del 27/06/2000; Sigurbor Arnarsson c. Islanda del 15/07/2003; Destrehem c. Francia del 18/05/2004; Garda Ruiz c. Spagna del 21/01/2006 (cfr., per tali richiami, motivazione sent. Sezioni Unite n. 27620 del 2016, Dasgupta)].
L'argomento, come è evidente, chiama innanzitutto in causa i principi che questa corte ha già da tempo elaborato in tema di motivazione rafforzata. Infatti, quando le decisioni dei giudici di primo e di secondo grado siano concordanti, la motivazione della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo. Nel caso in cui, invece, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti e/o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può allora egli risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado - genericamente richiamata - delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale 
montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr. Sezioni Unite n. 6682 del 04/02/1992, Rv. 191229).
Tali principi sono stati anche successivamente approfonditi, essendosi affermato che, in caso di totale riforma della decisione di primo grado, il giudice dell'appello ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr. Sezioni Unite n. 33748 del 12/07/2005, Marinino, Rv. 231679), mettendo alla luce carenze e aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato (cfr. sez. 2 n. 50643 del 18/11/2014, Rv. 261327), dando alla decisione, pertanto, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni [cfr. Sez. 6 n. 1253 del 28/11/2013 Ud. (dep. 14/01/2014), Rv. 258005; n. 46742 dell'08/10/2013, Rv. 257332; Sez. 4 n. 35922 dell'11/07/2012, Rv. 254617].
Ai fini della riforma della sentenza assolutoria, in assenza di elementi sopravvenuti, non basta una diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado, che sia caratterizzata da pari plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo una maggior forza persuasiva, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio, potendo il verdetto di colpevolezza fondarsi su puntuali rilievi di contraddittorietà della motivazione assolutoria, ai quali il giudice pervenga sulla scorta del medesimo materiale probatorio, ma ampliando la piattaforma valutativa esaminata in prima cura [cfr. sez. 1 n. 12273 del 05/12/2013 ud. (dep. 14/03/2014), Rv. 262261; sez. 6 n. 45203 del 22/10/2013, Rv. 256869; sez. 6 n. 46847 del 10/07/2012, Rv. 253718].
Il tema coinvolge anche quello della corretta interpretazione del canone del "ragionevole dubbio", quale limite alla riforma di una sentenza assolutoria, avendo le Sezioni Unite di questa Corte (nella già citata sentenza del 2016, Dasgupta) rilevato che <<per effetto del rilievo dato alla introduzione del canone «al di là di ogni ragionevole dubbio», inserito nel comma 1 dell'art. 533 cod. proc. pen. adopera della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (ma già individuato dalla giurisprudenza quale inderogabile regola di giudizio: v. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139), si è più volte avuto modo di puntualizzare che nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, accorrendo una "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno "ogni ragionevole dubbio" (ex plurimis, Sez. 3, n. 6817 del 27/11/2014, dep. 2015, S., Rv. 262524; Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, dep. 2014, Ciaramella, Rv. 262261; Sez. 6, n. 45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 2, n. 11883 del 08/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Fame, Rv. 254113; Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, Aimone, Rv. 253718); posto che, come incisivamente notato da Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, «la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza».
Inoltre, nel caso specifico in cui la reformatio in peius sia frutto di una diversa valutazione delle prove dichiarative, all'indomani della sentenza della Corte E.D.U. 05/07/2011 nel caso Dan c. Moldavia, si è chiarito che il giudice ha l'obbligo di rinnovare l'istruttoria e di escutere nuovamente i dichiaranti, qualora valuti diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado (cfr., ex multis, sez. 5 n. 29827 del 13/03/2015, Rv. 265139; Sez. 6, Sentenza n.44084 del 23/09/2014, Rv. 260623; sez. 3 n. 11658 del 24/02/2015, Rv. 262985). Tale principio è stato interpretato in maniera non assoluta, essendosi di volta in volta ravvisati alcuni contemperamenti, per esempio nel caso in cui la nuova assunzione della prova dichiarativa sia sollecitata dall'accusa, al fine di ottenere il ribaltamento della decisione assolutoria (cfr. sez. 5 n. 29827 del 2015 e sez. 6 citata 44084 del 2014 citate), oppure nel caso in cui ad essere rivalutata sia l'attendibilità estrinseca delle prove orali, cioè la ravvisabilità nel compendio probatorio di riscontri individualizzanti ovvero la loro idoneità a fungere da elemento esterno di conferma (cfr. sez. 6 n. 47722 del 06710/2015, Rv. 265879), ovvero quando il giudice d'appello fondi il proprio convincimento su una diversa valutazione in punto di diritto sul valore della prova, ovvero in punto di fatto sulla portata della prova nel contesto del compendio probatorio (cfr. sez. 3 n. 44006 del 24/09/2015, Rv. 265124) e sempre che dette prove siano decisive per l'affermazione di responsabilità (cfr. sez. 5 n. 25475 del 24/02/2015, Rv. 263903), in altre ipotesi essendosi invece addirittura affermato che l'obbligo di rinnovazione dell'istruttoria in appello, in caso di diversa valutazione dell'attendibilità dei soggetti da cui promani la prova dichiarativa, siccome espressione del principio generale di immediatezza, conformemente all'art. 6 della Convenzione E.D.U. così come intepretato dalla Corte di Strasburgo, trova applicazione non solo quando il giudice d'appello intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione, ma anche nelì'ipotesi in cui vi sia stata condanna in primo grado, essendosi precisato che detto obbligo è ancor più stringente quando nel processo concluso con condanna in primo grado vi è stata la costituzione di parte civile (cfr. Sez. 2 n. 32619 del 24/04/2014, Rv. 260071).
Il tema ha, peraltro, costituito oggetto di una complessiva rivisitazione, anche a fronte di talune divergenti interpretazioni delle sezioni semplici di questa Corte, proprio da parte delle Sezioni Unite (cfr. sent. n. 27620 del 2016, Dasgupta, citata), chiamate a risolvere la questione della rilevabilità d'ufficio - in sede di giudizio di cassazione - della violazione dell'art. 6 CEDU per avere il giudice d'appello riformato la sentenza assolutoria di primo grado affermando la responsabilità penale dell'imputato esclusivamente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di testimoni senza procedere a nuova escussione degli stessi. 
In quella sede, il Supremo Collegio ha intanto chiarito che la necessità per il giudice dell'appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante (cfr. sent. citata Rv. 267488), altresì affermando che la previsione contenuta nell'art.6, par.3, lett. d) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU (il richiamo, in motivazione, è alle sentenze della Corte E.D.U. in Manolachi c/Romania del 05/03/2013 e Hueras c/Romania del 09/04/2013) - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (cfr. sent. citata Rv. 267487), sgombrando il campo anche dai dubbi rinvenibili nelle decisioni rese da questa Corte a proposito della operatività di tali principi nel caso di riforma ai soli effetti civili (cfr. sent. citata Rv. 267489).
Cosicché deve ritenersi affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'alt. 533, comma primo, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen.; ne deriva che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata (cfr. sent. citata, Rv. 267492).
La sentenza in commento si fa carico di specificare quali siano le prove decisive al fine della necessità di procedere ex art. 603 cod. proc. pen., offrendo taluni spunti di riflessione certamente utili ai fini che ci occupano.
Si è infatti riconosciuta detta natura alle prove che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale 
probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio, nonché a quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna (cfr. citata sentenza Rv. 267491).
A fronte di tale quadro ricostruttivo dei principi sottesi al processo penale, si è poi precisato da parte del Supremo Collegio, nella più volte citata sentenza Dasgupta del 2016, che <<dovere di motivazione rafforzata da parte del giudice della impugnazione in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, canone "al di là di ogni ragionevole dubbio", dovere di rinnovazione della istruzione dibattimentale e limiti alla reformatio in pejus si saldano sul medesimo asse cognitivo e decisionale>> e che <<la rinnovazione della istruzione dibattimentale si profila come "assolutamente necessaria" ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.: tale presupposto, infatti, ai di là dei casi di incompletezza del quadro probatorio, si collega, più generalmente, alla esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del "ragionevole dubbio”, replichi l'andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte>>, non potendosi, pertanto, ritenere "decisivo" un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell'affermazione della responsabilità (per questo ordine di idee, v. Sez. 6, n. 47722 del 06/10/2015, Arcone, Rv. 265879; Sez. 2, n. 41736 del 22/09/2015, Di Trapani, Rv. 264682; Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, P., Rv. 260867; Sez. 6, n. 18456 del 01/0712014, dep. 2015, Marziali, Rv. 263944)>> e neppure <<può ravvisarsi la necessità della rinnovazione della istruzione dibattimentale qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua qualificazione giuridica, come nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice come necessitanti di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., e inquadrabili dall'appellante in una ipotesi di testimonianza pura (v. in tal senso Sez. 3, n. 44006, del 24/09/2015, 6., Rv. 265124). Tali principi sono stati peraltro ripresi dal supremo collegio anche successivamente (cfr. sez. unite n. 18620 del 19/01/2017, Pataiano).
4. Tale premessa, necessaria ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie all'esame, che tenga conto dei principi sopra diffusamente richiamati, consente di escludere che, nel caso in esame, la motivazione della sentenza censurata sia incorsa nei profili di illegittimità di cui sopra.
Infatti, la sentenza di condanna censurata non costituisce il precipitato di un percorso argomentativo che, sulla scorta di una rivalutazione delle prove orali decisive esaminate dal tribunale e della loro attendibilità, abbia ad esse dato una diversa lettura. Il giudice d'appello, infatti, ha dato alle prove il medesimo significato assegnato dal tribunale e si è limitato a rettificare un errore di diritto nel quale è incorso il primo giudice con riferimento all'inquadramento della posizione giuridica ricoperta dal B.R., anche nell'ipotesi in cui siano eventualmente presenti altri soggetti garanti.
Alla accertata qualità di datore di lavoro dell'imputato, infatti, il tribunale ha ritenuto essere estranei obblighi viceversa direttamente ricollegabili a quella posizione, tenuto conto di quanto emerso dalla prova documentale con riferimento alla circostanza che, nel caso di specie, al lavoratore infortunato non era stato assegnato, prima ancora che consegnato, alcun presidio di sicurezza individuale.
Si tratta, in buona sostanza, di un'operazione concettuale necessariamente antecedente alla verifica, in concreto, della sussistenza di ulteriori profili di rimprovero per colpa per omesso controllo dell'effettivo utilizzo di quel presidio.
Il dovere di motivazione rafforzata, peraltro, deve ritenersi debitamente assolto in un caso, come quello di specie, in cui al giudice d'appello sia toccato di ricostruire la fattispecie, sulla scorta di dati fattuali certi, valutati negli stessi termini dal giudice di primo grado, ma facendo applicazione delle norme di settore, del tutto pretermesse dal tribunale.
Non può pertanto ravvisarsi nella sentenza censurata alcun vizio di legittimità che derivi dalla violazione dei principi dell'immediatezza e dell'oralità della prova e del ragionevole dubbio, né un dissenso rispetto alla attendibilità dei dichiaranti e al contenuto delle prove orali acquisite in primo grado, dovendosi ribadire, anche in questa sede, il principio di diritto secondo cui, in caso di condanna in appello, il giudice assolve correttamente all'obbligo di motivazione rafforzata, senza incorrere in violazione del principio del ragionevole dubbio, ove la condanna sia la conseguenza della correzione di un errore di diritto, decisivo ai fini dell'assoluzione, nel quale sia incorso il primo giudice.
5. Quanto al contenuto dei motivi di ricorso, l'inquadramento giuridico della posizione ricoperta dall'imputato operata dal giudice d'appello è coerente con le norme di legge, ma anche con il costante orientamento di questa corte di legittimità.
Sul punto, pare sufficiente un rinvio all'art. 18 co. 1 lett. d) d.lgs. 81/08 per avvedersi dell'obbligo del datore di lavoro di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale e della sua violazione da parte dell'imputato, come peraltro risulta proprio da quella prova documentale allegata al ricorso, il cui travisamento parte ricorrente ha pure dedotto: un semplice confronto delle schede dà infatti conto della correttezza delle considerazioni svolte dal giudice d'appello, il quale ha sottolineato proprio la diversità del caso del lavoratore A.A., rispetto a quello degli altri lavoratori, atteso che la scheda relativa al primo non risultava, come le altre, sottoscritta dal lavoratore, ma neppure dal datore di lavoro.
Tale elemento è stato valorizzato, in maniera del tutto legittima, dal giudice d'appello a conferma delle dichiarazioni della persona offesa, la quale aveva affermato che il presidio di protezione individuale non gli era mai stato messo a disposizione (neppure in una precedente occasione).
Sul punto, giovi considerare che - in tema di infortuni sul lavoro - indipendentemente dalla esistenza o meno della figura del preposto - la cui specifica competenza è quella di controllare l'ortodossia antinfortunistica dell'esecuzione delle prestazioni lavorative per rapporto all'organizzazione dei dispositivi di sicurezza - il datore di lavoro risponde dell'evento dannoso laddove si accerti che egli abbia omesso di rendere disponibili nell'azienda i predetti dispositivi di sicurezza (cfr. sez. 4 n. 21593 del 02/04/2007, Bucolo, Rv. 236725). Egli, peraltro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro [cfr. sez. 4 n. 4361 del 21/10/2014 Ud. (dep. 29/01/2015), Ottino, Rv. 263200].
Peraltro, in ordine alla ripartizione degli obblighi di prevenzione tra le diverse figure di garanti nelle organizzazioni complesse, il supremo collegio di questa corte ha definitivamente chiarito che gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l'intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (cfr. sez. unite n.38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261108).
Anche più di recente del resto si è affermato il principio, che costituisce diretta applicazione di quelli già richiamati, che - in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro - qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione [cfr. sez. 4 n. 6507 dell'l/01/2018, Caputo, Rv. 272464; già in precedenza cfr. sez. 4 n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253850 (proprio in un caso in cui era stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto)].
Proprio con riferimento alla esatta individuazione del garante in tali specifiche ipotesi, si è pure chiarito che il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli [cfr. sez. 4 n. 26294 del 14/03/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960 (in un caso di prassi "contra legem", instauratasi con il consenso del preposto, foriera di pericoli per gli addetti, in cui il datore di lavoro sia venuto meno ai doveri formazione e informazione del lavoratore e abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi)].
6. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Deciso in Roma il giorno 26 settembre 2018.