Cassazione Penale, Sez. 4, 24 gennaio 2019, n. 3451 - Caduta durante la riparazione di una tettoia. Responsabilità di un datore di lavoro che consente al lavoratore di operare da solo in mansioni che non gli competono, per di più in quota


Presidente: DI SALVO EMANUELE Relatore: NARDIN MAURA Data Udienza: 20/12/2018

 

 

 

Fatto

 


1. Con sentenza del la Corte di Appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Pisa con cui M.C. , nella sua qualità di datore di lavoro, legale rappresentante della Newport. S.r.l., è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 590, comma 1A e 3A cod. pen. per avere colposamente cagionato lesioni personali gravi a S.O. che cadeva nel vuoto, durante le operazioni di posa di tavoloni, per raggiungere una tettoia su cui doveva effettuare una riparazione, perché con imprudenza, negligenza ed imperizia ed in violazione delle norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro ed in particolare dell'art. 148 d.lgs. 81/2008, non provvedeva ad adottare un dispositivo anticaduta.
2. Il fatto come descritto dalla sentenza, per quanto non qui contestato, può essere riassunto come segue: S.O., dipendente della Newport s.r.l., operante nel settore produttivo di lavorazione dei pellami, dovendo riparare una tettoia divelta dal vento, vi accedeva attraverso un balcone, posto al primo piano, circondato da una ringhiera. Mentre posizionava due tavoloni su cui camminare per raggiungere la tettoia, senza utilizzare cintura di sicurezza, che era posta su un pilastro vicino alla porta di accesso, scavalcava la ringhiera perdendo l'equilibrio e precipitando da un un'altezza di quattro metri. A seguito della caduta riportava un trauma commotivo cerebrale ed un trauma toracico con duplice frattura costale e doppia rottura del bacino.
3. Le due sentenze di merito, cosi conformemente ricostruita la vicenda, escludendo la condotta abnorme del dipendente, ritenevano la colpevolezza del datore di lavoro. In particolare, era giudicata ininfluente la circostanza dell'avere il lavoratore svolto l'attività prima dell'inizio dell'orario di lavoro, avendo il medesimo la disponibilità delle chiavi dello stabilimento ed essendo conosciuta dal datore di lavoro l'abitudine del dipendente di recarsi sul posto quando lo ritenesse utile. Inoltre, nonostante M.C. avesse promesso ad S.O. di aiutarlo, non avrebbe comunque potuto coadiuvarlo, poiché aveva fissato un appuntamento alle ore otto con un cliente. Egli, dunque, sapeva che il lavoratore avrebbe operato da solo. A questi non era stato fornito alcun dispositivo, non essendo la cintura di sicurezza idonea, secondo la A.S.L., a proteggere il lavoratore, in quanto proficuamente utilizzabile solo se il datore di lavoro avesse dato l'ordine di operare dal basso. Infine, l'attività svolta dal lavoratore non rientrava nelle lavorazioni della conceria e nell'azienda mancava ogni presidio per lo svolgimento di lavori edili, non rientranti nelle mansioni dei dipendenti, i quali non avrebbero dovuto attendervi. 
4. Il giudice di secondo grado ha escluso l'applicabilità della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis cod. pen., non ritenendo il fatto di particolare tenuità per la gravità delle lesioni subite dalla persona offesa ed il grado di colpa dell'Imputato, che omise ogni cautela al fine di far eseguire quel lavoro in sicurezza.
5. Avverso la sentenza della Corte di appello propone ricorso per cassazione M.C., a mezzo del suo difensore, formulando un unico motivo, con cui si duole della violazione di legge penale con rifermento all'art. 131 bis cod. pen. e del vizio di motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto inapplicabile, senza adeguate argomentazioni, la causa di non punibilità, nonostante la sua compatibilità con il caso concreto. Osserva che, non solo il legislatore ha limitato il campo di operatività della norma facendo riferimento alla pena edittale massima -non superata nell'ipotesi di specie- ed alla non abitualità della condotta, anch'essa non sussistente, ma che le Sezioni unite della Suprema Corte hanno escluso ogni riferimento della norma al principio di offensività (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 - dep. 06/04/2016, Tushaj), dovendo aversi riguardo alla forma di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne la gravità rispetto al contrasto con la legge. Ne conseguirebbe che l'entità delle lesioni subite, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, non può costituire parametro di applicabilità della disposizione invocata. Il giudice territoriale avrebbe, quantomeno, dovuto tenere conto, nella prospettiva del riconoscimento dei presupposti della clausola di non punibilità, della colpa ascrivibile alla persona offesa, che, da un lato, riduce il grado di antidoverosità della condotta del datore di lavoro, dall'altro, concorre a mitigare i profili di offensività attribuibili alla sua omissione. Sottolinea che siffatti elementi sono ancor più rilevanti se si considera che il lavoratore era persona esperta e nominato responsabile della sicurezza, sicché il suo comportamento va considerato concretamente imprevedibile per l'imputato.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso è inammissibile.
2. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito i presupposti di applicabilità della speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotta con l'art. 1, comma 2 del d. lgs. 28/2015, affermando che "Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo. (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 - dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 26659001).
3. Gli elementi di valutazione indicati dal Supremo collegio della Corte regolatrice sono proprio quelli presi in considerazione dalla sentenza impugnata che si è soffermata, da un lato, sulla gravità delle lesioni subite, corrispondente al parametro di cui al comma primo dell'art. 133 n. 2) cod. pen. e, dall'altro, sulla gravità della colpa, di cui al n. 3) del medesimo comma.
4. Ora, il fatto che il ricorrente pretenda una diversa valutazione della colpa, che tenga conto del comportamento imprudente del lavoratore, non intacca la congruenza e logicità della motivazione, né la sua conformità al disposto dell'art. 131 bis cod. pen., come interpretato dalla Sezioni Unite. Ed invero, al di là del fatto che la sentenza non giudica abnorme il comportamento del lavoratore, senza escludere un concorso di colpa del medesimo nella produzione dell'evento, vi è che la gravità della condotta del datore di lavoro che non predisponga i minimi presidi di sicurezza, consentendo che un lavoratore operi da solo nello svolgimento di mansioni che non gli competono, per di più in quota, non trova alcun limite nella condotta colposa del lavoratore, che abbia sinergicamente contribuito all'evento. Se la violazione della norma cautelare - come ritenuto dalla Corte territoriale- si riveli nella ricostruzione non esigua o marginale, ciò non potrà che incidere nella 'ponderazione quantitativa' circa la tenuità del fatto, così come contribuiranno la valutazione della gravità del danno ed il grado della colpevolezza. Secondo uno schema che risulta dalla stessa lettera della norma. Alla valutazione della condotta, del danno e della colpevolezza del reo, resta estranea la valutazione della condotta non abnorme di soggetti diversi ed in particolare della persona offesa, posto che senza la condotta del primo l'evento non si sarebbe comunque realizzato. Ed è quindi solo a quella condotta colposa, al danno cagionato ed al grado di colpevolezza del primo che occorre guardare per valutare la lievità della condotta ai sensi dell'art. 131 bis cod. pen.
5. Ciò posto, va ritenuto che la Corte territoriale non solo abbia considerato le lesioni come gravi, ma abbia ampiamente richiamato, nel corpo della sentenza, la gravità della condotta tenuta e della colpa dell'imputato, così soddisfacendo gli oneri motivazionali relativi alla reiezione dell'istanza di applicazione dell'art. 131 bis cod. pen..
6. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della cassa delle ammende
Cosi deciso il 20/12/2018