Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 febbraio 1999, n. 1331 - Amputazione del braccio del lavoratore




Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Sergio LANNI Presidente
Dott. Vincenzo TREZZA Consigliere
Dott. Giovanni PRESTIPINO Consigliere
Dott. Vincenzo CASTIGLIONE Consigliere
Dott. Camillo FILADORO Cons. Relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA

 


sul ricorso proposto da:
POLITRASMET SRL in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, M.P., Amministratore Unico, elettivamente domiciliato in Roma, via Oslavia n. 14, presso l'avv. Francesco Mancuso, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti, unitamente all'avv. Paolo Andreotti del Foro di Milano;
Ricorrente
contro
B.B., elettivamente domiciliato in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5, presso l'avv. Luigi Manzi, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti, unitamente all'avv. Daniela Rinaldi del Foro di Milano;
Controricorrente
avverso la sentenza del Tribunale di Milano, n. 8693 R.G. 14/97 del 4-23 luglio 1997, notificata il 31 luglio 1997.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 novembre 1998 dal Relatore Cons. Camillo Filadoro;
Udito gli avvocati Francesco Mancuso ed Emanuele Coglitore, per delega avv. Manzi;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Massimo Fedeli, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
 

 

Fatto

 


Con sentenza 4 - 23 luglio 1997, il Tribunale di Milano confermava la decisione del locale pretore che aveva dichiarato la s.r.l. Politrasmet civilmente responsabile dell'infortunio sul lavoro occorso al dipendente B.B., condannando la stessa società al risarcimento dei danni, determinati in lire 510.750.000, oltre rivalutazione ed interessi.
L'infortunio in questione si era verificato il 13 gennaio 1992, mentre il B.B. stava disincagliando un grosso cavo elettrico da uno stabilizzatore del mezzo semovente Minelli CM 15, condotto da F.L.. La chiusura dello stabilizzatore, più veloce nella fase terminale, aveva determinato il trascinamento del braccio destro del B.B. nel meccanismo, con grave trauma da schiacciamento della mano destra, cui era seguita - dopo un tentativo di reimpianto - l'amputazione dell'arto.
Sulla base delle testimonianze raccolte nel giudizio di primo grado, il Tribunale dava atto che:
- il F.L. aveva azionato il movimento di chiusura dello stabilizzatore (rimasto semiaperto) ad un cenno dell'amministratore della società, M.P.;
- il M.P. ed il F.L. non avevano spiegato la necessaria cautela nel compimento di tale operazione, perché avevano (entrambi) omesso di accertare "che non vi fosse nessuno nel raggio di azione della macchina";
- non vi poteva essere alcun dubbio che l'infortunio si fosse verificato in occasione di lavoro, nell'ambito dello svolgimento della prestazione lavorativa;
- l'operazione di disincagliare uno spezzone di cavo elettrico dallo stabilizzatore del semovente era comunque collegata alle operazioni alle quali era addetto il B.B.: "certo è che, avesse egli o meno l'obbligo effettuarla, rientrava nel normale svolgimento della collaborazione dovuta dal prestatore di lavoro";
- non vi era stato quindi nulla di abnorme od esulante dalla prestazione lavorativa (come sostenuto dalla società appellante) posto che il B.B. era non solo addetto alla guida di camion a rimorchio ma anche alle operazioni di carico e scarico dei materiali e "manutenzione dei mezzi di trasporto".
- l'amputazione della mano destra non poteva nemmeno dirsi dovuta (secondo la prospettazione della stessa appellante) a cure mediche inadeguate, posto che il consulente tecnico di ufficio aveva concluso che la disarticolazione della mano dal polso era stata determinata da complicazioni naturali.
Del resto, anche secondo i periti incaricati dal Pubblico Ministero e dal Giudice delle indagini preliminari. Infatti, lo sfacelo traumatico dei tessuti molli e dei vasi sanguigni era stato di tale entità da rendere inevitabile l'evoluzione in senso necrotico - cangrenoso, al di là di qualsiasi trattamento medico - chirurgico.
I giudici di appello confermavano la decisione del giudice di primo grado per la quantificazione del danno biologico e del danno morale, rilevando che la perdita di una mano incide profondamente sulla integrità psico - fisica di un soggetto, nei molteplici aspetti della vita di relazione e ricreativa, condividendo le conclusioni cui era pervenuto il consulente tecnico di ufficio, perché eque e non eccessive.
Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione la s.r.l. Politrasmet con tre distinti motivi.
Resiste il B.B. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
 

 

Diritto

 


Con il primo motivo, la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 2087, 1218 e 1176 codice civile, nonché insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia.
Il Tribunale avrebbe errato nel ritenere comunque responsabile contrattualmente il datore di lavoro, per violazione dell'art. 2087 codice civile, pur riconoscendo che nel caso di specie non vi era stata alcuna violazione di specifiche norme antinfortunistiche.
Il Tribunale non si era neppure curato di precisare quali concrete cautele la società avrebbe potuto porre in essere per evitare l'infortunio.
Dal canto suo, la società aveva adempiuto all'onere probatorio, posto a suo carico dall'art. 1218 codice civile, ed aveva così dimostrato di aver utilizzato la diligenza specifica richiesta per il caso concreto (art. 1176 codice civile).
La ricorrente rileva, infine, che non poteva essere ipotizzata una responsabilità del conducente del semovente, F.L., considerato che dalla cabina di manovra, posta ad una altezza di circa due metri, non è possibile vedere lo stabilizzatore, e nemmeno una persona che si trovi vicino allo stesso.
Sarebbe stato unicamente il B.B., pertanto, a cagionare l'evento, avvicinandosi alla macchina operatrice, nonostante la presenza degli appositi cartelli, installati dalla stessa impresa produttrice, che recano l'indicazione del divieto di sosta e di avvicinamento alla macchina stessa.
Con il secondo motivo, la società ricorrente denuncia omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
In particolare, la ricorrente rileva che i giudici di appello hanno omesso di motivare in ordine all'eccezione, formulata dalla stessa ricorrente fin dal primo grado di giudizio, di interruzione del nesso causale tra l'evento ed il comportamento datoriale, in presenza di una condotta anomala dello stesso B.B.. Secondo la ricorrente, vi sarebbe stata una condotta colpevole del B.B. (integrante "rischio elettivo"), poiché lo stesso si sarebbe volontariamente sottoposto ad "rischio estraneo alle proprie mansioni ed all'attività normalmente svolta, violando le direttive ricevute" ponendosi quindi come causa esclusiva dell'infortunio.
"Dall'esame delle circostanze anzidette, si desume dunque - rileva la società ricorrente (pag. 14) - che il B.B., nel tentativo di rimuovere un cavo, in aperta violazione delle direttive impartitegli dal M.P., nonché dei divieti apposti sul semovente, pur consapevole del rischio, si è avvicinato agli stabilizzatori, inserendo la mano proprio nell'esiguo spazio rimasto aperto, senza peraltro accertarsi che il manovratore fermasse il semovente".
Con il terzo motivo, la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2056 e 1227 codice civile, nonché omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.
Seppure in via del tutto subordinata, la ricorrente osserva che il Tribunale non solo avrebbe omesso di motivare in ordine ai criteri di determinazione del danno biologico (limitandosi a richiamare la Tabella approntata dalla Conferenza dei Presidenti del Tribunale di Milano), ma non avrebbe neppure tenuto conto del concorso di colpa del B.B. nella liquidazione del danno (rilevante ai sensi dell'art. 1227 codice civile).
I tre motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi tra loro, sono fondati.
Il Tribunale ha dato quasi per scontata la responsabilità esclusiva del M.P. nella produzione dell'evento, imputando al medesimo, assieme al F.L., una non sufficiente cautela nell'accertarsi che non vi fosse alcuno nel raggio di azione della macchina: in pratica, il mancato rispetto delle norme di comune prudenza e diligenza.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte che la norma di cui all'art. 2087 codice civile obbliga l'imprenditore ad adottare ai fini della tutela delle condizioni di lavoro non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata, nonché quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che, in concreto, si rendano necessarie per la tutela della sicurezza del lavoro, in base alla particolarità dell'attività lavorativa, all'esperienza ed alla tecnica (Cass., 29 marzo 1995, n. 3738; 19 agosto 1996, n. 7636; 2 giugno 1998, n. 5409, la quale sottolinea che dalla disposizione di cui all'art. 2087 codice civile, tuttavia, non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno - con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato - occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati).
Nel caso di specie, il Tribunale ha accertato che l'amministratore della società ed il conducente del semovente Minelli non hanno posto tutta la cautela necessaria nell'accertarsi che non vi fosse alcuno nel raggio di azione della macchina, operazione tanto più necessaria in relazione alle particolari condizioni di lavoro ed alla pericolosità del mezzo condotto dal F.L..
Come riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte, infatti, gli obblighi che l'art. 2087 codice civile impone all'imprenditore in tema di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle attrezzature, ai macchinari ed ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma si estendono, nella fase dinamica dell'espletamento del lavoro, ai comportamenti necessari per prevenire, specie in condizioni di particolari difficoltà di esecuzione di fasi lavorative, possibili incidenti (Cass., 9 marzo 1992, n. 2835, v. anche Cass., 6 settembre 1995, n. 9401).
I giudici di appello hanno accertato che la operazione di disincagliare un cavo dallo stabilizzatore rientrava perfettamente nell'ambito del normale svolgimento della collaborazione del prestatore di lavoro, senza affrontare tuttavia il problema specifico della condotta del tutto anomala ed imprevedibile del B.B. - costituente causa unica della produzione dell'evento - pure sollevato dalla società ricorrente sin dal giudizio di primo grado.
La questione, sollevata dalla società ricorrente, era certamente rilevante ai fini del giudizio: ma su di essa il Tribunale non si è pronunciato.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai da tempo orientata nel senso che la colpa del lavoratore dipendente può essere valutata per determinare una riduzione della responsabilità penale degli altri soggetti che abbiano contribuito a determinare l'infortunio, ma non può, quasi mai, esonerare completamente il datore di lavoro, il dirigente od il preposto dalle loro specifiche responsabilità, a meno che la condotta del lavoratore non si ponga come causa esclusiva dell'evento infortunistico.
In questo senso, è stato riconosciuto che, nell'ipotesi di mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure imposte dall'art. 2087 codice civile, a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, l'eventuale colpa di quest'ultimo non elimina la responsabilità civile dell'imprenditore, la quale è esclusa solo nel caso di dolo del dipendente o di rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso (Cass., 15 aprile 1996, n. 3510; 6 luglio 1990, n. 7101; n. 2417 del 1987; n. 4860 del 1986; n. 2692 del 1986; n. 1252 del 1976).
Ne consegue - osserva Cass., 15 aprile 1996, n. 3510 - che l'eventuale colpa del lavoratore, dovuta ad imprudenza, negligenza o imperizia, non elimina quella del datore di lavoro sul quale incombe l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso di causalità (Cass., n. 1523 del 1993; n. 11351 del 1993; n. 2025 del 1995; 16 luglio 1998, n. 6993).
Infatti, il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito, e non può invocare il concorso di colpa del lavoratore, perché egli ha il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo, nonostante la sua imprudenza e negligenza (Cass., 16 luglio 1998, n. 6993; 16 giugno 1998, n. 6000).
Con l'ulteriore conseguenza che l'imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento (Cass., 19 agosto 1996, n. 7636; 17 febbraio 1998, n. 1687).
Altro problema, pure sollevato con il terzo motivo di ricorso e non esaminato dal Tribunale, è quello relativo alla riduzione del risarcimento del danno, in caso di colpa del danneggiato (art. 1227 codice civile).
Come già precisato, i giudici di appello non hanno neppure accennato all'eventuale incidenza del comportamento posto in essere dal B.B., nella produzione dell'evento del 13 gennaio 1992.
Donde il mancato esame di un punto decisivo della controversia, prospettato dalla società ricorrente fin dal giudizio di primo grado concretante vizio di omessa motivazione.
Il ricorso deve pertanto essere accolto per quanto di ragione, la sentenza impugnata cassata con rinvio ad altro giudice, il quale procederà ad un nuovo esame.
Il giudice di rinvio dovrà esaminare il comportamento del B.B., allo scopo di accertare se lo stesso, eventualmente, si sia posto come causa unica ed esclusiva dell'evento, ovvero abbia contribuito al determinismo causale dello stesso, con gli effetti indicati nelle decisioni di questa Corte già richiamate.
Il giudice di rinvio provvederà anche alle spese di questo giudizio di legittimità.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa e rinvia al Tribunale di Pavia anche per le spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 9 novembre 1998.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 FEBBRAIO 1999.