Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 3, 14 febbraio 2019, n. 7034 - Minaccia di licenziamento e violenza sul luogo di lavoro: condanna di un datore di lavoro


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI NICOLA Vito - Presidente -
Dott. GALTERIO Donatella - rel. Consigliere -
Dott. RAMACCI Luca - Consigliere -
Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -
Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

 


sul ricorso proposto da:
C.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 16.9.2016 della Corte di Appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, Dott. Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. Tocci Stefano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito il difensore, avv. Cosimo Finiguerra, in sostituzione dell'avv. Alfonso Piscino, che si è riportato ai motivi del ricorso.
 

 

Fatto

 


1. Con sentenza in data 16.9.2016 la Corte di Appello di Napoli ha confermato, per quanto qui interessa, la penale responsabilità di C.A. per il reato di cui agli artt. 81, 609-bis e 61, n. 11, per aver in tempi diversi palpeggiato la zona posteriore, nonchè costretto ad un rapporto orale con la minaccia del licenziamento la propria dipendente M.R., svolgente attività di commessa all'interno del negozio di abbigliamento gestito dall'imputato, rideterminando tuttavia la pena inflittagli in primo grado, previo riconoscimento delle attenuanti generiche dichiarate prevalenti rispetto alla contestata aggravante dell'abuso delle relazioni di ufficio, in complessivi tre anni e sei mesi di reclusione.
2. Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione articolando due motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo deduce in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 192 c.p.p., 2^ comma e art. 609-bis c.p., u.c. e al vizio motivazionale, l'errore in cui è incorsa la Corte di Appello nell'aver valutato le dichiarazioni rese dalla M. come provenienti dalla persona offesa, senza considerare che costei si era anche costituita parte civile, ruolo che, attesa la pretesa economica di cui era portatrice, imponeva una verifica ben più penetrante e rigorosa sia della credibilità soggettiva che dell'attendibilità oggettiva. Evidenzia in relazione al primo profilo, oltre all'astio e al rancore, l'interesse economico che la aveva spinta, prima di sporgere la querela che aveva dato inizio al presente procedimento, a richiedere all'imputato innanzi al Giudice del lavoro gli emolumenti conseguenti al proprio licenziamento instaurando un procedimento giudiziale tuttora in corso, condizione questa comune a quella della teste D.R., anch'essa perciò non credibile, ed avendolo dapprima convenuto innanzi agli organi di diritto del lavoro per un bonario componimento, finalità in aperto contrasto con la condotta che sarebbe logica nei confronti di quello che la donna assume essere stato il proprio molestatore. In relazione all'inattendibilità oggettiva sottolinea, oltre al dato fattuale dell'essere stata in possesso delle proprie dichiarazioni rese in sede di sit, le gravi carenze della sua deposizione, non ricordando la durata del rapporto orale avuto con l'imputato, nè l'orario in cui si era consumato, nè le dimensioni del pene di costui, nè se avesse usato le mani ovvero soltanto la bocca, nè se avesse gli slip abbassati, nonchè le discrasie riscontrate tra quanto costei dichiarato e quanto invece riferito dalla teste D. circa il contenuto della minaccia che il datore di lavoro le avrebbe rivolto per ottenere il rapporto orale e sul fatto che sarebbe stata licenziata o fosse stata lei a lasciare il posto di lavoro come sostenuto dalla teste indiretta.
2.2. Con il secondo motivo contesta il mancato riconoscimento dell'ipotesi di minore gravità di cui all'art. 609-bis c.p., 3^ comma, ricorrente tutte le volte in cui, avuto riguardo alla misura della violenza esercitata sulla vittima e ai riflessi psicologici che questa possa aver patito, la libertà di autodeterminazione sia stata, sulla base di una valutazione complessiva del fatto in aderenza ai parametri dell'art. 133 c.p., 1^ comma, sia stata solo marginalmente compromessa, laddove nel caso in esame l'assenza di lesioni da parte della p.o. che non si era recata al Pronto Soccorso, nè aveva richiesto l'intervento delle Forze dell'Ordine, l'assenza di modalità aggressive da parte dell'imputato e la deposizione resa dalla teste V. che aveva riferito che il rapporto era avvenuto consensualmente costituiscono tutti elementi volti ad escludere la gravità del fatto.
3. Con successiva memoria depositata in data 6.6.2018 il ricorrente ha ulteriormente illustrato il secondo motivo di ricorso, evidenziando come non potesse ritenersi dirimente ai fini dell'esclusione della particolare tenuità del fatto il linguaggio con cui l'imputato si era rivolto alla vittima, essendo costui avvezzo all'uso di termini scurrili che costituivano un ordinario intercalare delle sue espressioni, indipendentemente dall'interlocutore e dovendo, invece, essere dato il giusto rilievo alla circostanza che l'assenza di modalità violente aveva consentito alla donna di sottrarsi alle sue avances, senza aver in alcun modo intaccato i suoi poteri di autodeterminazione a fronte del comportamento del datore di lavoro.
 

 

Diritto

 


Le censure articolate con il primo motivo devono ritenersi inammissibili sia perchè si appuntano sul momento valutativo del giudizio pretendendo di sostituire al metro del giudicante altro e diverso apprezzamento, sia perchè si articolano in censure prive del requisito della decisività. Va al riguardo ribadito che il vizio motivazionale, per essere proponibile in Cassazione, deve essere diretto ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, che deve non solo essere identificabile come illogicità manifesta della motivazione o come omissione argomentativa, intesa sia quale mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia quale carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato, ma essere altresì decisivo, ovverosia idoneo ad incidere sul compendio indiziario così da incrinarne la capacità dimostrativa, non potendo il sindacato di legittimità, riservato a questa Corte, dilatarsi nella indiscriminata rivalutazione dell'intero materiale probatorio che si risolverebbe in un nuovo giudizio di merito.
I motivi in esame, costituenti la pedissequa reiterazione delle medesime doglianze articolate con i motivi di appello e motivatamente disattese dai giudici distrettuali, dunque, non sono volti a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha adeguatamente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d'accusa. Va invero puntualizzato che la verifica dell'attendibilità delle dichiarazioni resa dalla persona asseritamente abusata è esclusivamente rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, laddove invece il sindacato di legittimità rimane circoscritto alla verifica dell'esistenza di un apparato argomentativo non contraddittorio rispetto agli atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, nè illogico rispetto alle altre affermazioni in cui lo stesso provvedimento impugnato si articola. In questo caso i limiti del sindacato di legittimità di questa Corte sono ancor più stringenti rispetto a quelli ordinari, in ragione dell'ampio margine di apprezzamento di tali dichiarazioni che il giudice di merito, peraltro maggiormente vicino alle fonti di prova, ha di valutarle. Il ricorrente che argomenti in ordine all'attendibilità o inattendibilità della persona offesa asseritamente abusata, si colloca, invero, al di fuori del perimetro del sindacato esercitabile da questa Corte, cui non è rimesso alcun giudizio sul dissenso, pur motivato, in ordine al risultato del procedimento valutativo operato dalle sentenze di merito.
Nella specie il ricorrente, senza avere allegato al ricorso gli atti afferenti alle pretese contraddizioni in cui sarebbe incorsa la vittima, così come alla contrastante versione resa dalla teste D., da ritenersi già perciò carente sotto il profilo dell'autosufficienza (ex multis Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015 - dep. 26/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053), si limita ad evidenziare incongruenze espressamente negate dalla Corte partenopea che dopo aver verificato, con attenta e congrua motivazione, l'attendibilità sotto il profilo oggettivo e soggettivo della vittima, ha ritenuto il racconto di quest'ultima del tutto privo di antinomie, oltre a presentare di per sè i caratteri della coerenza, della genuinità e della spontaneità, nonchè debitamente confermato dai riscontri esterni, prima fra tutte la deposizione della D., che ha precisato essersi espressa in termini assolutamente analoghi al narrato della collega.
Quanto alla credibilità soggettiva, va rilevato che la presunzione juris tantum che la p.o. non sia considerata di per sè portatrice di un interesse inquinante potendo di per sè sola supportare, anche in assenza di riscontri esterni, la prova del fatto rappresentato impone, in ciò sostanziandosi il maggior rigore richiesto dalla giurisprudenza nell'indagine della sua credibilità oggettiva e soggettiva rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, una concreta verifica della reale terzietà proprio quando entrano in gioco interessi astrattamente confliggenti con quelli dell'imputato. Ma di profili di tal fatta la Corte partenopea risulta essersi fatta espressamente carico pervenendo alla conclusione che la vittima non avesse alcun motivo di astio o di rancore, all'infuori degli episodi in contestazione, nei confronti dell'imputato, rancore che il ricorrente si limita astrattamente a prospettare sulla base di una pregressa vertenza economica tra la donna e l'ex datore di lavoro di cui neppure riferisce gli esiti, dolendosi dell'invito al bonario componimento tentato presso l'ispettorato del lavoro, come se questo non costituisse l'imprescindibile presupposto di qualunque controversia giudiziale in materia di lavoro. Con puntuale ed attenta motivazione la sentenza impugnata chiarisce, invece, come fosse da escludersi che l'azione giudiziaria intrapresa nei confronti dell'imputato dalla teste D., che era stata anch'essa dipendente di costui, per il recupero delle proprie spettanze, non potesse inficiare neppure astrattamente la sua deposizione nel presente giudizio, trattandosi di soggetto privo, a differenza della parte civile, di interessi economici, tanto più che la mancata regolamentazione giuridica del rapporto lavorativo di costei, prestato solo di fatto, risulta essere stata riconosciuta in giudizio dallo stesso ricorrente.
Quanto all'attendibilità oggettiva, le censure svolte restano confinate su un piano del tutto secondario venendo con esse evidenziate pretese carenze della deposizione della vittima relative ad aspetti privi della decisività, quali si configurano i particolari sull'orario o sulle modalità (l'utilizzo o meno delle mani o l'abbassamento o meno degli slip da parte dell'uomo) del rapporto orale cui la donna era stata costretta all'interno del negozio, a fronte della chiara ricostruzione del fatto storico eseguita dalla Corte di merito sulla base della deposizione della donna e dei solidi riscontri emersi dalle deposizioni delle altre due commesse presenti nell'esercizio commerciale, tanto più che la teste V. pur essendo amica del C., aveva confermato sia gli apprezzamenti scurrili ed il linguaggio licenzioso utilizzato da costui nei confronti delle commesse, sia le confidenze ricevute dalla collega nell'immediatezza del fatto.
2. Manifestamente infondato è altresì il secondo motivo.
Secondo l'univoca interpretazione di questa Corte, ai fini della configurabilità della circostanza per i casi di minore gravità, prevista dall'art. 609-quater c.p., comma 4 e, parallelamente, dall'art. 609-bis c.p., comma 3, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, l'entità della compressione della libertà sessuale e del danno arrecato, anche in termini psichici, al soggetto passivo, così da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il pregiudizio sofferto sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n. 39445 del 01/07/2014 - dep. 25/09/2014, S, Rv. 260501).
A tali principi risulta essersi correttamente uniformata la Corte partenopea evidenziando, malgrado la non pertinenza dei precedenti giurisprudenziali citati, come la peculiare riprovevolezza della condotta fosse da ravvisarsi nella pressione psicologica esercitata sulla donna la quale, atteso il ruolo di datore di lavoro rivestito dall'imputato e la prospettiva concretamente evidenziatale di perdere il posto che, per una persona appena separata, con figli minori e priva di risorse economiche costituiva certamente una evenienza temibile, era di fatto rimasta priva di qualsiasi facoltà di scelta, vedendo gravemente compromesso, a fronte della pretesa da parte dell'uomo di un rapporto orale, ogni potere di autodeterminazione in relazione alla propria sfera sessuale. Ad ulteriore aggravio del fatto, la sentenza impugnata ha messo in luce, in aderenza alle caratteristiche oggettive enucleate dall'art. 133 c.p., 1^ comma, costituenti i parametri di riferimento nella valutazione della sussistenza dell'invocata attenuante, il contesto di generale e continuativa umiliazione che caratterizzava i loro rapporti anche di natura lavorativa in cui l'imputato non le risparmiava apprezzamenti scurrili, appellativi volgari e persino palpeggiamenti sul sedere, malgrado la presenza di terze persone: condotte queste che nulla hanno a che vedere con l'utilizzo di un linguaggio abitualmente colorito con cui l'imputato sarebbe solito, secondo la difesa, rivolgersi ai suoi interlocutori, atteso il carattere ingiurioso degli epiteti emersi dalla deposizione della p.o., nè con gli atteggiamenti solitamente confidenziali con cui l'uomo si rapportava alla sua dipendente, non potendo la confidenza essere in un rapporto interpersonale unilateralmente imposta da una soltanto delle due parti. Peraltro, il preteso consenso della vittima al rapporto che, secondo quanto sostenuto dalla difesa, emergerebbe dalla deposizione della teste V., risulta smentito dalle dichiarazioni di costei riprodotte nella stessa sentenza di appello, le quali lungi dal delineare un atto consenziente - consenso che peraltro ove sussistente escluderebbe alla radice la configurabilità del reato -, danno pienamente conto delle minacce ricevute dalla collega secondo il racconto fattole da quest'ultima, in privato, nell'immediatezza del fatto.
La valutazione effettuata dai giudici distrettuali in ordine gravità della lesione della libertà di determinazione della vittima risulta fondata su elementi che, afferendo sia al grado di compressione della stessa che alle modalità dell'azione criminosa, rientrano pienamente tra quelli enucleati dall'art. 133 c.p., 1^ comma e che perciò non risulta scalfita dalle contestazioni svolte dalla difesa. Va infatti ribadito in questa. sede il principio già affermato da questa Corte secondo il quale mentre ai fini del riconoscimento della diminuente in esame deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo tutti i criteri enucleati dalla norma di riferimento, ai fini del diniego è invece sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015 - dep. 22/02/2016, P.G. in proc. D, Rv. 266272). Principio questo del tutto analogo a quello aliunde seguito nell'elaborazione giurisprudenziale in presenza dei margini di discrezionalità che informano la scelta dell'interprete ogni qualvolta i parametri risultino come avviene nel caso dell'art. 133 c.p., predeterminati ed al contempo compositi (cfr. Cass. Sez. 2 n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163 in relazione al diniego o al riconoscimento delle attenuanti generiche).
Il ricorso deve in conclusione essere dichiarato inammissibile. Segue a tale esito la condanna del ricorrente a norma dell'art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2019