Cassazione Penale, Sez. 7, 15 maggio 2019, n. 20927 - Amputazione di una falange a causa del trascinamento di un guanto negli ingranaggi della macchina che trafila il rame. Nessun comportamento abnorme del lavoratore


 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: BRUNO MARIAROSARIA Data Udienza: 20/03/2019

 

FattoDiritto

 


1. La Corte d'Appello di Venezia con sentenza del 2/5/2016 ha confermato la pronuncia del Tribunale di Padova con cui M.G., ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 590 cod, pen., commesso con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, era stato condannato alla pena di euro 500,00 di multa.
Era contestato all'imputato di avere, in qualità di legale rappresentante della soc. "De Angeli prodotti srl", datore di lavoro di K.R., per colpa specifica, consistita nella violazione dell'art. 28, comma 2 lett. c), d.lgs. 81/08, cagionato l'amputazione di una falange della mano destra del dipendente. In particolare il K.R., durante l'orario di lavoro, si avvicinava agli organi in movimento di un macchinario che trafilava il rame, allo scopo di asciugare dell'acqua caduta sul pavimento, rimanendo impigliato con il guanto negli ingranaggi, dalla qual cosa dipendeva il trascinamento della mano all'interno del macchinario.
2. L'imputato, a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per Cassazione formulando, nell'unico motivo, due distinte doglianze.
La difesa lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Dopo avere riepilogato l'accadimento dei fatti, rappresenta che la Corte di merito non avrebbe adeguatamente valutato la condotta gravemente negligente serbata dal lavoratore in occasione dell'infortunio, suscettibile di costituire, per la sua abnormità ed imprevedibilità una causa esclusiva dell'evento. Ha evidenziato che all'epoca dell'infortunio il macchinario era dotato di molteplici dispositivi di sicurezza che erano stati del tutto ignorati dall'operaio: un pulpito di comando con apposito pulsante di arresto di emergenza; un pedale di comando; una serie di barriere di segregazione che consentivano agli operatori di controllare il funzionamento della macchina in condizioni di sicurezza; dei cartelli segnaletici che intimavano di non aprire le griglie con la macchina in movimento.
La installazione di un micro interruttore di sicurezza in grado di bloccare il funzionamento degli ingranaggi, all'apertura delle porte scorrevoli di accesso agli organi in movimento, indicato dai Giudici di merito come presidio necessario per la sicurezza dei lavoratori, non costituiva un obbligo per l'azienda essendo i presidi esistenti già bastevoli a prevenire eventi del tipo di quelli occorsi al lavoratore ove fossero stati attivati.
L'acquisto anticipato di tale interruttore, non applicato al macchinario per difficoltà tecniche, rivelerebbe che il datore di lavoro aveva previsto il rischio del pericolo derivante dal contatto del corpo con gli organi in movimento.
La Corte di merito sarebbe stata inosservante dell'art. 20 d.lgs. 81/2008. L'orientamento giurisprudenziale oggi dominante, afferma la difesa, evidenzia come il sistema della normativa antinfortunistica si sia evoluto, passando da un modello "iperprotettivo" ad un modello di tipo "collaborativo" in cui i diversi obblighi sono ripartiti fra più soggetti, lavoratore compresi, citando in proposito Sez. 4, Sentenza n. 8883 del 10/02/2016, Rv. 266073 - 01.
Con memoria difensiva fatta pervenire a mezzo Pec, la difesa insisteva nell'accoglimento del ricorso facendo osservare che i motivi rassegnati non si risolvono in mere doglianze in fatto - sicché sarebbe non corretta l'assegnazione del ricorso alla Sezione settima - e che, comunque, il reato sarebbe estinto per intervenuta prescrizione.
3. I motivi di doglianza sono manifestamente infondati, pertanto il ricorso deve essere rigettato.
La Corte territoriale ha offerto adeguata risposta alle doglianze difensive, con argomentazioni del tutto corrette sul piano logico e rispettose dei principi espressi in materia in sede di legittimità. Per altro verso, la difesa ripropone sostanzialmente le medesime questioni sottoposte alla valutazione della Corte di merito e disattese da questa con congrua motivazione.
Quanto al primo motivo, come osservato condivisibilmente dalla Corte di merito, l'argomento difensivo che fa leva sulla presunta abnormità del comportamento del lavoratore è del tutto privo di fondamento: il dipendente, come evidenziato dai giudici di merito non ha posto in essere alcun comportamento abnorme o eccezionale rispetto all'attività da eseguire, alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza consolidata di questa stessa sezione, secondo cui "In tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale" (cfr. Sez. 4 n. 22249 del 14/03/2014, Rv. 259127). Sempre con riferimento al concetto di "atto abnorme", si è pure precisato che tale non può considerarsi il compimento da parte del lavoratore di un’operazione che, pure inutile e imprudente, non sia però eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo [cfr. Sez. 4 n. 7955 del 10/10/2013 Ud. (dep. 19/02/2014), Rv. 259313]. 
L'abnormità del comportamento del lavoratore, dunque, può apprezzarsi solo in presenza della imprevedibilità della sua condotta e, quindi, della sua ingovernabilità da parte di chi riveste la posizione di garanzia. Sul punto, si è peraltro efficacemente sottolineato che tale imprevedibilità non può mai essere ravvisata in una condotta che, per quanto imperita, imprudente o negligente, rientri comunque nelle mansioni assegnate, poiché la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standards di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro. Il che, lungi dall'avallare forme di automatismo che svuotano di reale incidenza la categoria del "comportamento abnorme", serve piuttosto ad evidenziare la necessità che siano portate alla luce circostanze peculiari - interne o esterne al processo di lavoro - che connotano la condotta dell'Infortunato in modo che essa si collochi al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso (cfr. in motivazione Sez. 4 n. 7955/2013 richiamata).
Quanto al secondo motivo di doglianza, l'esonero di responsabilità del datore di lavoro nell'ambito di un modello di tipo "collaborativo", presuppone comunque l'adempimento di tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia. Pertanto, ove si verifiche l'esistenza di criticità nella previsione e nell'attuazione di sistemi di protezione idonei a garantire al massimo grado la tutela fisica del lavoratore, non è possibile sostenere che il datore di lavoro possa essere mandato esente da responsabilità, né è possibile sostenere forme di corresponsabilità del lavoratore (si veda in argomento Sez. 4, Sentenza n. 10265 del 17/01/2017 Rv. 269255 - 01, così massimata: " Non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l’infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare ('instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli").
4. L'inammissibilità dei motivi proposti dalla difesa, riverbera i suoi effetti anche riguardo all'aspetto relativo alla dedotta prescrizione del reato, atteso che l'inammissibilità del ricorso per Cassazione, conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità, a norma dell'art. 129, cod. proc. pen., ivi compreso l'eventuale decorso del termine di prescrizione (così Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266). Pertanto, benché la prescrizione sia maturata in epoca successiva alla pronuncia della sentenza di appello essa non spiega alcuna efficacia nel caso in esame.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di Inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di duemila euro alla cassa delle ammende
Così deciso in data 20 marzo 2019