Cassazione Penale, Sez. 4, 28 maggio 2019, n. 23244 - Caduta dal tetto durante i lavori di manutenzione dell'impianto di climatizzazione. Inutili le cinture se mancano adeguate linee vita


Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA Relatore: DAWAN DANIELA Data Udienza: 20/02/2019

 

Fatto

 

1. La Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lucca, riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, ha rideterminato la pena inflitta a G.V. in mesi tre di reclusione. Con sospensione condizionale e non menzione.
2. Il G.V. è chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 590, commi 2 e 3 e 583, comma 1, nn. 1 e 2, cod. pen. perché, nella qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione e legale rappresentante della ditta GENERAL CALOR s.r.l., per colpa generica e per violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni e di sicurezza del lavoro, cagionava al lavoratore L.D., dipendente della GENERAL CALOR s.r.l. lesioni personali consistite in "paraplegia con vescica e intestino neurologici" comportanti una malattia e un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a quaranta giorni (in specie, 212 giorni) e invalidità permanente con riduzione di capacità lavorativa pari al 100%. Segnatamente, gli è stato contestato di aver consentito al lavoratore di accedere al tetto per effettuare la manutenzione degli elementi esterni dell'impianto di climatizzazione senza accertarsi che gli elementi della copertura avessero resistenza sufficiente a sostenere il peso dei lavoratori; e per non aver installato parapetti lungo il perimetro del tetto né punti di ancoraggio o linee vita per utilizzare l'imbracatura di sicurezza.
Salito sul tetto, il L.D., dopo aver camminato lungo la trave longitudinale per circa 15 metri per raggiungere la posizione dove si trovavano le prime sei macchine dell'impianto di climatizzazione, tornava indietro per andare a prendere degli attrezzi nel furgone. Mentre si calava nella porzione inferiore del tetto, distante circa un metro dalla porzione superiore, scivolava, mettendo il piede destro su una lastra in cemento-amianto che, a seguito dell'impatto, si frantumava facendolo precipitare all'interno del magazzino da un'altezza di circa sei metri (Lucca, 23/11/2012).
3. Avverso la sentenza di appello, l'imputato, a mezzo dei difensori, propone ricorso per Cassazione fondato su due motivi. Con il primo, deduce la nullità del decreto di citazione a giudizio per mancato rispetto del termine a comparire e conseguente lesione del diritto di difesa. Al G.V. la citazione a giudizio era notificata il 06/05/2014, al suo legale il giorno successivo, con udienza fissata per il 03/07/2014, con un termine a comparire, quindi, pari a giorni 57 per l'imputato e 56 per il difensore, invece di quello previsto dall'art. 552, comma 3, cod. proc. pen. che prevede che la notifica sia effettuata «almeno sessanta giorni prima della data fissata per l'udienza di comparizione». Alla prima udienza, prima dell'apertura del dibattimento, il difensore ne eccepiva dunque la nullità. Il Giudice, tuttavia, nell'accogliere l'eccezione, invece di riconoscere ex novo un termine non inferiore ai sessanta giorni, concedeva all'imputato un termine "ridotto", consistente nei giorni mancanti per arrivare ai sessanta previsti dalla legge. Si tratta di decisione che riverbera effetti negativi sul diritto di difesa, specie per quanto riguarda la presentazione della lista testi che va depositata almeno sette giorni prima della data di udienza (art. 468, comma 1, cod. proc. pen.). La risposta data dalla Corte di appello - e cioè di ritenere sanata la eccepita nullità perché, trattandosi di nullità relativa, si sarebbe dovuto riproporla, preliminarmente, prima dell'inizio della discussione - non è accettabile. Il provvedimento del Giudice di merito va dunque considerato abnorme perché si pone al di fuori di qualsiasi schema processuale.
Con il secondo motivo, deduce vizio di motivazione concretatosi: nell'erronea ricostruzione dei fatti; nell'aver affermato la penale responsabilità del ricorrente, nonostante l'abnormità, imprevedibilità ed esorbitanza della condotta dell'infortunato sia per essersi recato in altezza sia per aver utilizzato il telefono (prassi vietata in azienda, come documentato dalla difesa); nell'avere disatteso e/o erroneamente interpretato le testimonianze e le prove documentali prodotte, dichiarate assenti dalla Corte di appello (in particolare, sull'uso del cellulare); nel non essersi pronunciata sul fondamentale punto della validità ed efficienza dell'organizzazione effettuata dal datore di lavoro all'interno dell'azienda; nel non essersi pronunciata sulla eccessiva gravosità del trattamento sanzionatorio, anche in ragione del riconoscimento solo in misura equivalente delle attenuanti generiche che dovevano, invece, essere riconosciute come prevalenti. Non corrisponde alle risultanze processuali che l'intervento fosse di ordinaria manutenzione e che potesse comportare anche di salire sul tetto. La Corte non ha tenuto conto delle risposte del teste P. alle domande del Pubblico ministero in udienza da cui, invece, si evince che la manutenzione non prevedeva alcuna attività in quota. L'infortunato, peraltro, non stava svolgendo attività di manutenzione, comunque non prevista e non autorizzata, ma stava telefonando in azienda per chiedere l'autorizzazione a svolgere una successiva manutenzione senza neppure informare l'interlocutore della situazione pericolosa in cui si trovava. Alla stessa stregua, il ricorrente elenca altre testimonianze - che la sentenza di appello non ha considerato - a riprova dell'iniziativa del tutto autonoma assunta dalla persona offesa e svincolata da qualsiasi incarico. Dall'istruttoria è emerso che l'intervento di manutenzione non doveva essere effettuato sul tetto ma a terra, così come sempre avvenuto in precedenza. Era stato, peraltro, lo stesso infortunato ad affermare che l'attività che si accingeva a svolgere non era programmata, mai era stata effettuata nelle uscite precedenti e mai era stata autorizzata dal datore di lavoro. Risulta, pertanto, venir meno il nesso eziologico tra l'evento e le omissioni contestate al datore di lavoro; il comportamento del lavoratore ha costituito un fattore eccezionale ed imprevedibile e non per aver svolto lavori in quota ma per essersi recato a svolgere lavori in quota su quello specifico tetto, in assoluta e palese assenza delle necessarie condizioni di sicurezza, contravvenendo tutte le regole e le prescrizioni impartite in azienda che egli ben conosceva avendovi lavorato come manutentore da sedici anni, avendo ricevuto l'attribuzione delle condizioni di persona esperta e qualificata (secondo la normativa tecnica CEI 11-27), avendo effettuato corsi di formazione in materia di sicurezza ed essendo stato nominato preposto con designazione formale del 21/01/2009: disponendo, infine, di DPI adeguati per lavorare in quota. A fronte di tutto questo, risultava del tutto imprevedibile che un operaio dotato di siffatta qualificazione ponesse in essere la descritta condotta.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso non merita accoglimento e va dunque respinto.
2. Il primo motivo di ricorso è infondato. Va ribadito che, in tema di notificazione della citazione dell'imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall'art. 179 cod. proc. pen. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'Imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all'art. 184 cod. proc. pen. [Sez. U., n. 119 del 27/10/2004 (dep. 07/01/2005), Palumbo, Rv. 229539].
La violazione del termine a comparire davanti al Tribunale, previsto dall'art. 552, comma 3, cod. proc. pen., in giorni sessanta, non determina infatti la nullità assoluta del decreto di citazione a giudizio [Sez. 5, n. 1765 del 28/11/2007 (dep. 14/01/2008), Panariti, Rv. 239097], bensì una nullità generale di carattere intermedio, rilevabile d'ufficio ex art. 180, cod. proc. pen. e deducibile, ai sensi dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., dalla parte interessata all'osservanza della norma violata, a pena di decadenza, prima dell'apertura del dibattimento; qualora la parte compaia dichiarando che la comparizione è determinata dal solo intento di fare rilevare l'irregolarità, ha diritto, ex art. 184, comma 2, cod. proc. pen., ad un termine a difesa che deve essere tale da assicurare all'imputato il godimento dei termini complessivamente stabiliti dall'alt. 552, comma 3, cod. proc. pen. a far data dalla prima notifica. Nel caso di mancato rispetto del termine per comparire, invero, l'imputato ha avuto conoscenza effettiva della citazione, ma può, quale parte interessata, eccepire personalmente o tramite il difensore l'assenza della condizione di esercizio compiuto del diritto di difesa. A tal fine, la nullità deve, a norma dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., essere eccepita dalla parte interessata all'osservanza della norma violata prima dell'apertura del dibattimento a pena di decadenza.
3. Tanto premesso, l'impugnata sentenza ricorda che all'udienza del 03/07/2014, il Tribunale, rilevato il mancato rispetto del termine a comparire per le ragioni più sopra richiamate, si era limitato a disporre la rinnovazione della notifica del decreto di citazione al difensore e all'imputato, entrambi presenti in udienza, disponendo il rinvio al 17 luglio 2014, senza concedere ex novo l'intero termine di giorni sessanta. Tuttavia, alla successiva udienza e a quella ancora seguente (08/01/2015), nella quale il dibattimento era stato dichiarato aperto ed era iniziata l'istruzione dibattimentale, l'eventuale nullità non veniva eccepita. Questa, invero, era dedotta soltanto con l'atto di appello e, dunque, dopo la sentenza di primo grado (senza neppure il rispetto del termine di rilevabilità delle nullità di ordine generale di cui all'alt. 180, cod. proc. pen.). In conformità ai principi di diritto sopra illustrati, la Corte di appello di Firenze rileva che «anche a voler ritenere che il rinvio a udienza successiva, senza concedere ex novo il termine di sessanta giorni, sia irrituale, è evidente che non si tratta certo di una nullità corrispondente all'omessa citazione dell'imputato (che, peraltro, era presente sia all'udienza del 3.7.2014 sia a quella del giorno 8.1.2015: in quest'ultima udienza nulla è stato eccepito)». Correttamente ne trae la conclusione che la nullità relativa eventualmente verificatasi si è sanata, ai sensi dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., perché non dedotta immediatamente dopo il compimento dell'atto e, comunque entro il termine di cui all'art. 491, comma 1, cod. proc. pen.
4. Con il secondo motivo, l'imputato sostanzialmente censura la ricostruzione del fatto effettuata dai giudici del merito. Si tratta di doglianza che investe profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto riservati alla cognizione del giudice di merito, le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell'iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum. In tema di sindacato del vizio di motivazione, infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre [Sez. U., sent. n. 930 del 13/12/1995, (dep. il 29/01/1996), Clarke, Rv. 203430].
5. Nelle già descritte qualità, il G.V. rivestiva una posizione di garanzia, in conformità al dettato dal sistema prevenzionistico delineato dal d.lgs. n. 81 del 2008, che ha, come è noto, recepito principi consolidati già da tempo in giurisprudenza e che, per sommi capi, si richiamano in questa sede. La prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro. Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione dell'azienda o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. La definizione contenuta nel T.U. è simile a quella espressa nella normativa degli anni '90 ed a quella fatta propria dalla giurisprudenza; e sottolinea il ruolo di dominus di fatto dell'organizzazione ed il concreto esercizio di poteri decisionali e di spesa.
La locuzione "posizione di garanzia" esprime in modo condensato l'obbligo giuridico di impedire l'evento che fonda la responsabilità in ordine ai reati commissivi mediante omissione, ai sensi dell'art. 40, cpv., cod. pen. Il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particole chiarezza la centralità dell'idea di rischio: tutto il sistema è conformato per governare l'immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l'uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Il rischio è categorialmente unico ma, naturalmente, si declina concretamente in diverse guise in relazione alle differenti situazioni lavorative. Esistono, dunque, diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. La Corte di cassazione ha pure affermato il principio che la responsabilità dell'imprenditore deve essere esclusa allorché l'infortunio si sia verificato a causa di una condotta del lavoratore inopinabile ed esorbitante dal procedimento di lavoro cui è addetto. Ai sensi dell'art. 41 capoverso, invero, il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all'agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale. È stato ribadito il noto principio che le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro perseguono il fine di tutelare il lavoratore persino in ordine ad incidenti derivati da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, sicché la condotta imprudente dell'infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio inerente all'attività svolta dal lavoratore ed all'omissione di doverose misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro; ma si è aggiunto che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive organizzative ricevute. Anche qui compare la classica evocazione dell'eccezionalità della condizione sopravvenuta, costituita dalla condotta incongrua del lavoratore. Va, quindi, considerata interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso.
Tale comportamento è "interruttivo" (per restare al lessico tradizionale) non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare.
3. Ciò posto, e venendo al caso di specie, va subito detto che la Corte di appello - ritenuta meritevole di condivisione la ricostruzione dell'accaduto operata dal primo Giudice - ha fornito una motivazione adeguata congrua, logica e completa in ordine alla responsabilità del datore di lavoro, odierno ricorrente. Ricorda, infatti, come il lavoratore infortunato, sentito in qualità di testimone, abbia dichiarato che l'intervento programmato prevedeva la pulizia dei filtri interni, attendibilmente precisando che, trattandosi di manutenzione ordinaria dell'intero impianto (effettuata, come era emerso anche da altre prove testimoniali, in funzione della riaccensione in modalità riscaldamento), il controllo riguardava anche altri aspetti e coinvolgeva sia le unità interne sia quelle esterne posizionate sul tetto del capannone. Anche da altre testimonianze era emerso che la programmazione dell'intervento non escludeva affatto la possibilità di dover accedere alle unità esterne, posizionate in quota. Richiama, sul punto, la deposizione del teste P., che il giorno del fatto lavorava insieme al L.D., il quale, a specifica domanda della difesa, aveva esplicitamente dichiarato che la manutenzione ordinaria andava fatta dove si trovavano le macchine, eventualmente anche in quota. Alle medesime conclusioni, continua l'impugnata sentenza, si perviene tenendo conto di quanto affermato dall'altro dipendente dell'impresa, Daniele M. che, nel precedente mese di marzo era intervenuto sul medesimo impianto per lo spegnimento del sistema di riscaldamento: benché si trattasse di un intervento "ordinario", con una finalità limitata, era pacificamente risultato che costui, intenzionato a salire sul tetto per conoscere la tipologia delle macchine installate, vi avesse poi rinunciato perché l'accesso alla copertura non era sicuro. Il M., anch'egli dipendente della GENERAL CALOR s.r.l., aveva annotato questa circostanza sul rapporto di lavoro del 20/03/2012 con ciò quindi segnalando, come ricorda la Corte del merito, la mancanza di misure di sicurezza per accedere al tetto. Il Giudice di appello disattende, altresì, l'assunto dell'imputato circa l'esistenza di disposizioni aziendali tassative - tali da escludere che il tecnico incaricato potesse raggiungere le unità esterne dell'impianto di condizionamento posizionate in quota senza una specifica autorizzazione e senza una preventiva interlocuzione con i responsabili tecnici aziendali. Sostiene, infatti, che dette disposizioni interne non sono state dimostrate e che le prove testimoniali hanno fornito un quadro relativo alla prassi aziendale ben diverso da quello asserito dall'imputato. Emergeva così che l'accesso alla copertura per verificare la presenza di problemi delle unità esterne dell'impianto di climatizzazione-riscaldamento non era certamente escluso e che a tecnico non si richiedeva di munirsi di un'autorizzazione preventiva. L'operazione svolta dal lavoratore infortunato era da considerarsi prevedibile perché il servizio di manutenzione comprendeva, com'era logico, sia le unità interne che quelle esterne derivandone, dunque, che il datore di lavoro non potesse ignorare l'eventualità che il lavoratore dovesse salire sul tetto per svolgere i necessari controlli allorquando, come avvenuto nel caso in esame, vi fossero dei problemi di funzionamento.
Per questo si appalesa manifestamente infondato l'assunto, prospettato nel motivo di ricorso, secondo cui la condotta del lavoratore debba considerarsi abnorme. Sul punto, invero, il Collegio osserva che il datore di lavoro, o chi per esso, è tenuto ad adottare, persino in mancanza di specifiche indicazioni della legge e, se del caso, oltre le stesse quando vi siano, tutti quegli accorgimenti che meglio e più efficacemente realizzano la sicurezza del lavoratore e che tengano anche conto dell’eventuale distrazione o di atti automatici o involontari dello stesso e dai quali possa derivare pericolo al medesimo; ne deriva che la responsabilità del destinatario delle norme antinfortunistiche trova l’unico limite o nella grave ed intenzionale inosservanza di precisi precetti o istruzioni da parte del lavoratore, oppure in fatti imprevedibili (Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne e altro Rv. 259227; Sez. 4, n. 4784 del 13/02/1991, Simili ed altro, Rv. 187538; Sez. 4, n. 7672 del 11/07/1983, Minetta, Rv. 160320). Imprevedibilità che non si dava affatto nel caso di specie, così come ha opportunamente illustrato l'avversata sentenza.
Spettava, invece, al G.V. di valutare preventivamente le difficoltà di accesso al tetto e le problematiche di sicurezza ad esso connesse, considerata la totale assenza, sulla copertura (realizzata in lastre di cemento- amianto poco resistenti e su più livelli) di ancoraggio per cinture di sicurezza e di idonei parapetti. Rileva la Corte del merito come il datore di lavoro, titolare dell'anzidetta a posizione di garanzia, si fosse limitato a fornire cinture di sicurezza e dispositivi di protezione individuale in concreto inutilizzabili perché mancanti di idonee linee-vita e come non abbia tassativamente interdetto l'accesso ai propri dipendenti, con ciò integrando la violazione delle regole cautelari richiamate nell'imputazione.
4. Nel caso di specie, come si è più sopra visto, dalle cadenze motivazionali della sentenza d'appello è enucleabile una attenta analisi della regiudicanda, poiché la Corte territoriale ha preso in esame tutte le deduzioni difensive ed è pervenuta alle sue conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in alcun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
5. In conclusione, si impone il rigetto del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 20 febbraio 2019