Cassazione Penale, Sez. 6, 21 giugno 2019, n. 27715 - Attività ispettiva mirata all'esame dei casi di malattia professionale. Responsabilità della direzione "SOCPSAL"


Presidente: DI STEFANO PIERLUIGI Relatore: GIORGI MARIA SILVIA Data Udienza: 08/05/2019

 

 

 

Fatto

 


1. Con sentenza del 28/10/2016 il Tribunale di Gorizia assolveva P.B., perché il fatto non costituisce reato, dal delitto di cui all'art. 361 cod. pen. (per avere nella qualità di dirigente medico e ufficiale di p.g., direttore responsabile della struttura operativa complessa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro -"SOCPSAL"- dal 1° aprile 2009 al 30 giugno 2012 e dal 1° gennaio al 19 maggio 2013, omesso o ritardato di provvedere ad almeno 253 segnalazioni di malattia professionale - soprattutto mesotelioma pleurico -, oltre quelle giacenti dal 2000 in archivio e altre per le quali vi era delega da parte della Procura della Repubblica di Gorizia, con conseguente grave ritardo per le indagini fino all'estate del 2013). Osservava il Tribunale che, ferma restando la materialità dei fatti, non era ravvisabile la consapevolezza e la volontarietà dell'omissione, quanto alla conoscenza del reale contenuto della notevole mole di faldoni archiviati in ufficio, e comunque l'omissione sarebbe stata ascrivibile, oltre alla mancanza di personale, all'erronea e incolpevole interpretazione del c.d. "protocollo Deidda", sottoscritto il 5/2/2009 dal P.G. di Trieste e dal Presidente della Giunta regionale FVG, che rimetteva al prudente apprezzamento dei medici del lavoro la valutazione circa l'opportunità di procedere alle indagini, con particolare riguardo ai casi di mesotelioma o a malattie asbesto correlate.
2. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d'appello di Trieste, in accoglimento dell'appello del P.M. e in riforma della citata sentenza, dichiarava il P.B. responsabile del reato ascrittogli e lo condannava alla pena di mesi tre di reclusione, oltre la pena accessoria dell'interdizione dai pp.uu., sul rilievo del travisamento dell'acquisita prova documentale da parte del primo giudice e dell'erronea valutazione della buona fede dell'imputato, nonostante l'indubbia omissione di ogni attività d'indagine e segnalazione per centinaia di casi di malattie professionali (di cui all'elenco allegato all'imputazione), dei quali molti riguardavano mesotelioma o malattie asbesto correlate.
La Corte rimarcava in linea di fatto: che il P.B., nella relazione tecnica del 4/12/2012, in risposta all'ennesimo sollecito del 19/10/2012 della Procura della Repubblica di Gorizia (il cui capo replicava con altra allarmata nota del 31/1/2013), aveva ammesso di avere visionato e riordinato il locale archivio, limitandosi a spostare la collocazione delle pratiche, senza tuttavia aprirle e attivarsi per il relativo esame; che lo stesso aveva partecipato a numerosi incontri con i magistrati di quella Procura in cui era stato ripetutamente avvertito dei ritardi della SOCPSAL nella trattazione delle pratiche di mesotelioma e nell'inoltro delle relative segnalazioni, addirittura in fascicoli per i quali aveva ricevuto specifica delega di p.g. o proroga per le indagini; che i CC. di Gorizia, con nota dell'l1/9/2013, avevano quantificato in un preciso elenco le centinaia di pratiche giacenti in archivio; che l'accertata inerzia della direzione del SOCPSAL costituiva violazione delle linee guida dettate col "protocollo Deidda", per le quali il servizio di prevenzione e sicurezza sul lavoro, a fronte di casi di mesotelioma o asbesto correlati, doveva attivarsi immediatamente e prioritariamente per lo svolgimento della relativa inchiesta e per la raccolta di ogni informazione utile, coordinandosi con gli uffici della Procura della Repubblica.
Tale reiterata condotta omissiva, come emergeva oggettivamente dalla documentazione in atti e dalle ammissioni dello stesso imputato, integrava, ad avviso della Corte, "una incuria così marcata da sconfinare, alla luce dei ripetuti solleciti e direttive trasmesse, in una lucida coscienza e pervicace volontà di non vedere per non agire", così configurandosi pienamente l'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia.
3. Il difensore di fiducia del P.B. ha presentato ricorso per cassazione avverso la citata sentenza della Corte d'appello di Trieste e ne ha chiesto l'annullamento, censurandone:
3.1. la violazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. per la mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, con riguardo alla prova dichiarativa costituita dall'esame dell'Imputato, le cui ammissioni sarebbero state valorizzate dal giudice di appello per giustificare il ribaltamento della pronuncia assolutoria quanto alla valutazione dell'elemento soggettivo del reato;
3.2. la violazione dell'art. 361 cod. pen., a causa della mancata indagine sulle effettive condotte dei vari operatori del servizio e comunque sui motivi e sull'elemento psicologico della condotta materiale tenuta dall'imputato;
3.3. l'omessa declaratoria di prescrizione alla data della sentenza di appello per una parte delle condotte omissive contestate, siccome antecedenti al 21/11/2010.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso, sia pure per ragioni diverse da quelle dedotte nei relativi motivi, deve trovare accoglimento alla stregua di una rigorosa ricostruzione e qualificazione giuridica della condotta dell'imputato.
2. Non appare seriamente controvertibile, in linea di fatto, che le manifestazioni d'inerzia della direzione del SOCPSAL, tenute nonostante i ripetuti solleciti e richiami dell'autorità giudiziaria a procedere alle indagini e alle segnalazioni di competenza, abbiano costituito violazione delle linee guida dettate col menzionato "protocollo Deidda". Queste, a fronte di casi di mesotelioma o asbesto correlati, prescrivevano invero al servizio di prevenzione e sicurezza sul lavoro l'obbligo di attivarsi immediatamente e prioritariamente per lo svolgimento della relativa attività ispettiva e per la raccolta di ogni informazione utile, coordinandosi ove opportuno con gli uffici della Procura della Repubblica.
3. E però, l'inerzia della struttura operativa complessa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro diretta dall'imputato (di possibile rilevanza nella competente sede amministrativa o disciplinare), rispetto al prescritto obbligo di procedere all'inchiesta e all'analisi dei diffusi casi di malattia professionale da mesotelioma pleurico o asbesto correlati - come richiesto per motivi di giustizia dalla competente Autorità giudiziaria -, non consente affatto di ritenere perfezionata, insieme con l'inadempimento di quel dovere per la mancata risposta alle prescrizioni e sollecitazioni dell'a.g., altresì la violazione dell'obbligo di denunzia da parte del pubblico ufficiale di un reato di cui abbia avuto notizia nell'esercizio delle sue funzioni e del quale debba riferire all'Autorità giudiziaria.
Tale obbligo, la cui inosservanza è penalmente sanzionata dall'art. 361 cod. pen., sorge infatti, giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, solo quando il pubblico ufficiale è posto in grado di individuare gli elementi del reato ed acquisire ogni altro dato utile per la formazione della relativa denuncia (Sez. 6, n. 49833 del 31/10/2018, Pesci, Rv. 274310; Sez. 6, n. 27508 del 06/07/2009, Rizzo, Rv. 244528).
Fattispecie astratta, questa, diversa a ben vedere da quella descritta nell'imputazione contestata, nella quale l'omissione concretamente addebitata all'imputato ha per oggetto non la denunzia di un reato, bensì l'avvio di una pur doverosa attività ispettiva, mirata all'esame dei singoli casi di malattia professionale, sia per finalità epidemiologiche sia per selezionare fra essi quelli di rilevanza penale, laddove fossero effettivamente emersi elementi qualificati di reato a carico dei datori di lavoro, sì da determinarne - ma solo a questo punto - l'obbligo di denuncia alla competente Autorità giudiziaria.
4. Va pertanto rilevata, alla stregua delle suesposte considerazioni, l'insussistenza del fatto contestato, con il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
 

 

P.Q.M.
 

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 08/05/2019