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Cassazione Penale, Sez. 6, 27 giugno 2019, n. 28251 - Condotte vessatorie del direttore generale sul dirigente amministrativo. Nessun delitto di maltrattamenti in famiglia


 

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.


 

Presidente Fidelbo – Relatore Aprile

 

 

FattoDiritto

 



1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Perugia, in riforma della pronuncia di condanna di primo grado emessa il 15/01/2016 dal Tribunale di Terni, assolveva O.M. dal reato di cui all’art. 572 c.p. contestatogli al capo N1), per avere, quale direttore generale dell’ASM s.p.a., società multi servizi municipale addetta, tra l’altro, alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti urbani nella città di Terni, maltrattato C.L., ingegnere e dirigente del settore ambiente di quella società, fino al settembre del 2008; e dichiarava non doversi procedere nei confronti dello stesso O. in relazione al reato di cui all’art. 571 c.p., commesso nel 2006, così diversamente qualificando parte della condotta contestata in danno del C. nel capo N1), nonché in relazione al reato di cui agli artt. 81 e 582 c.p. e art. 583 c.p., comma 1, n. 1, commesso a tutto il 2007 sempre in danno del C. , perché tali reati si erano estinti per prescrizione maturata in epoca anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado; per l’effetto, revocava le statuizioni civili riguardanti l’azione promossa dalla parte civile C. nei confronti dell’imputato.
Rilevava la Corte distrettuale come le emergenze processuali avessero escluso la ricorrenza di quel contesto para-familiare che giustifica l’applicazione della norma incriminatrice prevista dal citato art. 572 c.p. in un contesto lavorativo, con riferimento alle relazioni esistenti tra il datore di lavoro e i dipendenti subordinati; ed avessero dimostrato che gli altri due reati innanzi considerati si erano estinti, in ragione del momento della loro consumazione.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso la parte civile C. , con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti tre motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 572 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale erroneamente assolto l’imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia, benché le carte del processo avessero provato che le relazioni esistenti tra il direttore generale O. e la ristretta cerchia dei dirigenti che con lui collaboravano, avevano acquisito caratteristiche tali da rendere quel gruppo parificabile ad una famiglia, con rapporti fortemente condizionati dall’autorità morale del primo nei riguardi del C. , trattato come se fosse stato un minore.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 571 e 572 c.p., e vizio di motivazione, per contraddittorietà, per avere la Corte perugina erroneamente ritenuto una parte delle condotte contestate all’O. come integranti gli estremi del delitto di abuso dei mezzi di disciplina, laddove quelle considerata doveva essere letta nel più ampio contesto delle condotte integranti gli estremi del più grave reato di maltrattamenti in famiglia.
2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 582 e 583 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, insufficienza e contraddittorietà, per avere la Corte umbra dichiarato la prescrizione del reato ascritto all’O. al capo P1), senza considerare, ai fini della determinazione del momento consumativo, l’aggravamento della malattia cagionata nel novembre del 2018 al C. con le condotte lesive.
2.4. Con memorie depositate il 03 e il 13/06/2019 il difensore della parte civile C. è tornato a rimarcare, anche con motivo aggiunti, le argomentazioni poste a fondamento dei motivi del proprio ricorso.
3. Con memoria depositata il 30/05/2019 il difensore dell’imputato ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso della parte civile, evidenziando come lo stesso contenesse una mera richiesta di rivalutazione delle prove acquisite, ovvero motivi manifestamente infondati o infondati in relazione a tutti i capi di imputazione.
4. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell’interesse del C. vada respinto.
4.1. Il primo e il secondo motivo, esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (così, da ultimo, Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., Rv. 272804).
A tale regula iuris la Corte di appello di Perugia si è correttamente uniformata, spiegando come l’applicazione nel caso di specie della contestata norma incriminatrice fosse preclusa dall’assenza di quelle caratteristiche di stabile affidamento e reciproca solidarietà che qualificano la famiglia e gli altri gruppi in cui si realizza, con canoni analoghi, una forma di stabile convivenza tra i soggetti interessati: ciò tenuto conto che le condotte oggetto di addebito - si legge nella convincente motivazione della sentenza gravata - erano state poste in essere dal direttore generale di una grande azienda municipalizzata (addetta, tra l’altro, alla raccolta e alla termovalorizzazione dei rifiuti urbani, alla distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica in un capoluogo di provincia), che constava di centinaia dipendenti pure sindacalizzati, nei riguardi specifici non di un lavoratore subordinato con compiti meramente esecutivi bensì di un dirigente amministrativo con la qualifica di ingegnere, posto a capo del più importante settore operativo di quella società di capitali; dunque di un soggetto che certamente era stato vittima di condotte vessatorie e talvolta ingiuriose da parte del suo superiore, ma che non aveva affatto instaurato, al pari degli altri dirigenti addetti agli ulteriori settori di attività aziendale, con il direttore generale una comunanza di vita assimilabile a quella che caratterizza la vita di una famiglia, nella quale le relazioni intense e abituali dei suoi componenti si accompagnano ad una fiducia riposta dal soggetto più vulnerabile nei riguardi di altro posto in posizione di preminenza.
Sotto questo punto di vista deve escludersi che la Corte territoriale sia incorsa in alcuna inosservanza o erronea applicazione della norma codicistica richiamata; nè una violazione di legge è riconoscibile in relazione all’art. 571 c.p., ben potendo essere riconosciuti in una specifica condotta ingiuriosa gli estremi di quell’abuso di mezzi di disciplina che, nell’ambiente lavorativo, il superiore gerarchico esercita nei confronti di una persona sottoposta alla sua vigilanza.
Le ulteriori doglianze formulate dal ricorrente in termini di vizi di motivazione sono inammissibili perché attingono al merito della vicenda e concretizzano altrettante censure non esaminabili in sede di legittimità, avendo il ricorrente sollecitato una rilettura del materiale probatorio con risultati alternativi a quelli privilegiati dalla Corte di appello con un percorso argomentativo privo di incongruenze o di illogicità.
4.2. Il terzo motivo è manifestamente infondato, e ciò sia perché la Corte di appello di Perugia aveva spiegato, in maniera perspicace e senza alcun vizio di manifesta illogicità, come il reato di lesioni personali aggravate contestato all’imputato dovesse considerarsi consumato nel 2005, epoca in cui era risultato che la parte civile C. aveva fatto ricorso alle cure di uno psichiatra, sicché l’illecito doveva considerarsi oramai prescritto alla data di emissione della sentenza di primo grado; sia perché l’odierno ricorrente ha censurato tale decisione facendo riferimento ad un aggravamento delle sue condizioni di salute asseritamente evincibile da un ricovero ospedaliero del settembre del 2008, che è evento che era rimasto fuori dalla formale contestazione, posto che nel capo d’imputazione il delitto era stato ascritto all’imputato come protrattosi fino all’anno 2007 - così delimitando il thema decidendum - con un scollamento cronologico che, oltre a non essere stato accertato dai giudici di merito, non aveva neppure costituito oggetto di alcuna sollecitazione ovvero di alcuna iniziativa modificativa ai sensi dell’art. 516 c.p.p.. A tale riguardo va rilevata anche la aspecificità dell’atto di impugnazione, non avendo il ricorrente puntualizzato se quella circostanza fattuale avesse costituito oggetto di discussione nel corso dei giudizi di merito e, dunque, se l’imputato fosse stato posto in condizioni di interloquire e difendersi su tale emergenza.
4. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

 

 

P.Q.M.
 

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.