Cassazione Penale, Sez. 4, 22 luglio 2019, n. 32507 - Infortunio mortale dell'operatore ecologico che tenta di aggrapparsi al camion in movimento. Nessuna responsabilità del datore se non è certo fosse a conoscenza della prassi elusiva


 

 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: DI SALVO EMANUELE Data Udienza: 16/04/2019

 

 

 

Fatto

 

 

 

1. R.A.A. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata, in punto di responsabilità, la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all'art. 589 cod. pen. perché, In qualità di legale rappresentante della Egoeco s.r.l., non adottando le necessarie misure tecniche e organizzative affinchè i lavoratori aventi in uso il VRR lo utilizzassero in conformità a quanto disposto nel libretto d'uso e manutenzione e in modo tale da evitare eventi Infortunistici; omettendo di valutare i rischi cui erano esposti i lavoratori; non fornendo a questi ultimi un'adeguata formazione e informazione in rapporto alla sicurezza, cagionava il decesso dell'operatore ecologico, addetto alla raccolta dei rifiuti, S.S.C., il quale, invece di salire in cabina, in attesa della successiva fermata, utilizzava quale postazione di lavoro la staffa ad U posta alla base del sistema di ancoraggio dei contenitori, sul retro del VRR, e, dopo aver ritirato l'ultimo sacchetto dei rifiuti, nel cercare di risalire, poggiando il piede sulla staffa, e di afferrare con la mano il bordo della vasca porta rifiuti, o comunque nel tentativo di salire sulla staffa, mentre il veicolo era in movimento, rovinava al suolo. In Afragola il 22-9-2008.
2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poiché la persona offesa si occupava di raccolta del rifiuti da più di 10 anni e quindi conosceva bene il processo lavorativo e sapeva che "appendersi " a un camion sfornito di pedana è operazione vietata e pericolosa, come confermato dalle plurime deposizioni dei colleghi della persona offesa, da cui emerge che lo stesso autista del camion, che rivestiva qualità di caposquadra, lo aveva ammonito a non aggrapparsi al mezzo in movimento. Il giudice di secondo grado ha ignorato tali risultanze, pur evidenziate nell'atto d'appello, da cui si evinceva pure che il rischio di caduta derivante dall'uso improprio del veicolo da parte del dipendenti era contemplato nel documento di valutazione dei rischi. È risultato inoltre dimostrato, sia documentalmente che testimonialmente, che dei corsi di formazione erano stati tenuti. Ed al riguardo i colleghi della persona offesa, avendo un rapporto conflittuale con l'impresa e non essendo, pertanto, certamente animati da intenti favoritistici nei confronti dell'imputata, sono pienamente attendibili.
2.1. Il dominus dell'impresa era tale V.C.. La R.A.A., semplice impiegata amministrativa, era una prestanome, come si evince dalle buste paga, dalle quali risulta una retribuzione mensile di circa euro 1600; dalla visura societaria, la quale mostra la titolarità delle quote, che la R.A.A. non ha mai posseduto; dal contratto di consulenza globale rilasciato al V.C., per un importo di € 220.000 annue, oltre che dalle deposizioni dei testi OMISSIS. Dunque la R.A.A. non può essere considerata datrice di lavoro della persona offesa, poiché datore di lavoro è il soggetto che ha nella sostanza la responsabilità dell'impresa o dell'unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa.
2.2. Ingiustificatamente le attenuanti generiche non sono state dichiarate prevalenti ed è stata applicata una pena eccessiva, senza neanche esplicitare i criteri posti alla base della quantificazione. Anche tali doglianze sono state ignorate dalla Corte d'appello.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


l. Il primo motivo di ricorso è fondato. Il giudice a quo ha evidenziato che la persona offesa, operatore ecologico con mansioni di raccoglitore, nel giorno in cui si verificò l'infortunio, svolgeva il proprio servizio con un automezzo privo di pedane posteriori destinate alla salita degli operai. Tale situazione, come chiarito dall'ispettore della Asl, avrebbe imposto ai due addetti alla raccolta del rifiuti, dopo ogni singola operazione di prelievo e di svuotamento degli appositi bidoni, di salire, per effettuare il tragitto da percorrere fino al successivo punto di prelievo, all'interno del veicolo, astenendosi dal porsi a bordo all'esterno, in piedi, sul retro, per farsi trasportare, proprio per la mancanza delle apposite pedane laterali, con relative maniglie. Nel caso di specie, il S.S.C., così come l'altro operatore ecologico, aveva preso l'iniziativa di aggrapparsi sul retro dell'automezzo, utilizzando impropriamente, in luogo della pedana, che non c'era, la staffa ad U posta sulla parte posteriore, sicché, quando il mezzo era, sia pur lentamente, ripartito, dopo una delle soste per la raccolta e lo scarico, il S.S.C. era scivolato, cadendo rovinosamente a terra e così procurandosi le gravissime lesioni che lo avrebbero portato a morte. Di qui la conclusione, cui è pervenuto il giudice a quo, relativa alla censurabilità della condotta del S.S.C., qualificata dalla Corte d'appello come sconsiderata.
2. Orbene, occorre, al riguardo, osservare che l'agire imprudente del lavoratore può rilevare o nell'ottica dell'elemento oggettivo del reato, sotto il profilo dell'interruzione del nesso causale, oppure nell'ottica dell'elemento soggettivo, sotto il profilo dell'esclusione della colpa del datore di lavoro. Nel caso di specie occorre rilevare come alla condotta, pur certamente imprudente del lavoratore, non possa attribuirsi efficacia interruttiva del nesso causale. Il comportamento del lavoratore può, infatti, essere ritenuto abnorme - e dunque tale da interrompere il nesso di condizionamento - allorquando sia consistito in una condotta radicalmente, ontologicamente, lontana dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, scelte, anche imprudenti, del lavoratore, nell'esecuzione del lavoro (Cass., Sez. 4, n. 7267 del 10-11-2009, Rv. 246695). È dunque abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro assegnatogli (Cass., Sez. 4, n. 23292 del 28-4-2011, Rv. 250710) o che abbia espletato un incombente che, anche se inutile ed imprudente, non risulti eccentrico rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate, nell'ambito del ciclo produttivo (Cass., Sez. 4, n. 7985 del 10-10-2013, Rv. 259313).
2.1. Nel caso in esame, l'operazione effettuata dalla persona offesa, la quale, dopo una delle soste per la raccolta e lo scarico, era risalita sul camion, sia pure aggrappandosi imprudentemente alla staffa, per proseguire il percorso verso il successivo punto di prelievo, rientrava appieno nelle sue mansioni. Di qui la conclusione cui è pervenuto il giudice a quo secondo cui non può ravvisarsi abnormità del comportamento del lavoratore. Tale conclusione è del tutto conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497),in quanto il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161). Da ciò consegue che non può essere ravvisata, nel caso di specie, interruzione del nesso causale. L'operatività dell'art. 41, comma 2, cod. pen. è infatti circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 dei 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può, pertanto, ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, il comportamento imprudente del lavoratore, a meno che quest'ultimo abbia posto in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non abbia osservato precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez. 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202; Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). Ma abbiamo visto come, nel caso in disamina, l'operazione che stava effettuando il lavoratore rientrasse appieno nelle sue attribuzioni. Si esula, pertanto, dall'ambito applicativo dell'art. 41, comma 2, cod. pen.
3. Occorre adesso dare risposta al quesito se la condotta imprudente del lavoratore sia tale da incidere sulla ravvisabilità della colpa. Ciò che si contesta alla ricorrente è, in sostanza, secondo quanto evidenziato nella motivazione della sentenza in esame, di avere, in qualità di datore di lavoro, omesso, nell'organizzazione dell'attività alla quale il soggetto passivo era addetto, di assicurare che i veicoli adibiti alla raccolta dei rifiuti venissero utilizzati dai dipendenti in maniera conforme alle prescrizioni e soprattutto di fornire loro un'adeguata formazione e informazione sui rischi connessi all'uso improprio e scorretto dei veicoli, anche con riferimento a condotte gravemente pericolose per la loro incolumità, come appunto quella oggetto del processo. È stato infatti disatteso dai giudici di merito l'assunto difensivo secondo cui vi era stata comunque una sufficiente preparazione dei dipendenti al riguardo, così come l'indimostrato e non documentato asserto secondo cui dei corsi di formazione erano stati tenuti, sia pure con risultato nullo, per la mancata partecipazione dei lavoratori. Occorre però chiedersi, in questa sede, quale sia la rilevanza giuridica di tali addebiti.
3.1. E', in primo luogo, necessario porsi il quesito inerente alla ravvisabilità della c.d. causalità della colpa in relazione all'addebito relativo all'omessa formazione e informazione dei lavoratori sui rischi connessi all'uso improprio e scorretto dei veicoli. Come è noto, infatti, nei reati colposi, l'indagine sull'esistenza del nesso di condizionamento deve affrontare un problema d'importanza focale: è infatti necessario accertare se la violazione della regola cautelare riscontrata abbia o meno cagionato l'evento. L'intera struttura del reato colposo si fonda su questo specifico rapporto tra inosservanza della regola cautelare di condotta ed evento, che viene designato con l'espressione "causalità della colpa". Questo concetto, come è noto, si fonda normativamente sul dettato dell'art. 43 cod. pen., a tenore del quale è necessario che l'evento si verifichi "a causa" di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero "per" inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. La formulazione della disposizione è senz'altro imprecisa, in quanto la violazione del dovere di diligenza, quale entità concettuale, non può essere considerata effettivamente causa dell'evento in senso fisico-materiale. La causa dell'evento è sempre la condotta materiale, la quale però, nel reati colposi, deve essere caratterizzata dalla violazione del dovere di diligenza. Questo quindi il significato da attribuirsi alla norma in esame: nel richiedere che l'evento si verifichi "a causa " di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi e via dicendo, essa esige, ai fini del rimprovero a titolo di colpa, la materializzazione del profilo di colpa nell'evento concretamente verificatosi. La verifica se quella specifica violazione della regola cautelare abbia o meno cagionato l'evento (causalità della colpa), in sostanza, non è altro che un giudizio controfattuale compiuto in relazione alla violazione della regola di cautela. E' nota la nozione di giudizio controfattuale ("contro i fatti"). Esso consiste nell'operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione, ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza. Esso costituisce pertanto il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condlzionalistica. Il controfattuale è un periodo ipotetico dell'Irrealtà. Nel suo antecedente si ipotizza la falsità di una certa proposizione che si sa essere vera, mentre nel suo conseguente si enuncia una implicazione della supposizione contenuta nell'antecedente. Come è stato chiarito dalle Sezioni unite, il giudizio controfattuale va compiuto sia nella causalità commissiva che in quella omissiva, ipotizzando nella prima che la condotta sia stata assente e nella seconda che sia stata invece presente e verificando il grado di probabilità che l'evento si producesse ugualmente (Sez. U., 10 luglio 2002, Franzese). Ci chiederemo dunque se, ove quella condotta dell'uomo non fosse stata assente - o non fosse stata presente - l'evento si sarebbe verificato egualmente oppure no (se il chirurgo non avesse colposamente reciso il vaso sanguigno, il paziente sarebbe sopravvissuto? Se il medico avesse somministrato la terapia necessaria, il paziente si sarebbe salvato? Se il datore di lavoro avesse munito il lavoratore di adeguati mezzi di prevenzione contro gli infortuni, si sarebbe ugualmente verificato l'infortunio mortale? Se il livello di rumorosità dell'ambiente fosse stato abbattuto o se fossero stati forniti ai lavoratori mezzi di protezione individuale, sarebbe insorta nel lavoratore l'ipoacusia?). E' chiaro che se la risposta è positiva (sì: si sarebbe verificato egualmente), la causa dell'evento non è riconducibile all'azione o all'omissione dell'uomo. Ad esempio, la casa è crollata dopo un terremoto di tale violenza che, anche se fosse stata costruita con i più adeguati criteri antisismici, sarebbe crollata egualmente; l'infarto era talmente esteso che qualunque intervento o qualunque presidio terapeutico, per quanto corretto e immediatamente attuato, non avrebbe salvato la vita del paziente. Solo se la risposta è negativa (no: la casa non sarebbe crollata; il paziente non sarebbe morto), l'evento tipico sarà attribuibile all'agente. In molti casi, a fronte della violazione di una regola cautelare o di una condotta contraria alle leges artis - si pensi alla responsabilità di un medico che abbia omesso di prescrivere una determinata terapia o di effettuare un intervento chirurgico, secondo quanto disposto dalle linee-guida o dai protocolli - , ove si verifichi un evento lesivo, si tende a relegare ai margini della disamina il quesito controfattuale. Viceversa il giudizio controfattuale, costituendo ontologica estrinsecazione dello statuto condizionalistico della causalità, è l'indefettibile paradigma logico attraverso il quale deve esplicarsi la verifica del nesso eziologico. Ed occorre sottolineare come le Sezioni unite, nella sentenza Franzese, abbiano ribadito quest'ordine di idee, affermando che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del "condizionale controfattuale" e che il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comporta l'esito assolutorio del giudizio. Dunque la condotta deve costituire condicio sine qua non dell'evento. Non basta, per la penale responsabilità, che ne abbia, in qualche modo, agevolato l'accadere. Esiste un solo settore del sistema penale in cui la c.d. "causalità agevolatrice" o "di rinforzo" assume rilievo: ed è quello del concorso di persone nel reato, laddove si ammette comunemente che il contributo concorsuale sia penalmente rilevante anche quando assume la forma di un contributo di agevolazione, idoneo a facilitare l'esecuzione di un reato che sarebbe stato comunque commesso, sia pure con maggiori difficoltà, perché in forza della concorsualità diventano proprie dell'agente anche le condotte degli altri concorrenti (ex plurimis, Cass., Sez.6, 20 gennaio 2003, Vigevano; Sez. 4, n. 24895 del 22 maggio 2007, Rv. 236953). Ma, al di fuori dell'area del concorso di persone nel reato, la teoria condizionalistica preclude qualunque attribuzione di rilevanza a fattori che, pur avendo dato un significativo apporto agevolatorio all'esplicarsi del processo eziologico sfociato nell'evento, non ne costituiscano condizioni necessarie. Un singolo fattore - e quindi la condott del reo - potrà non costituire condizione sufficiente nel senso che per il verificarsi dell'evento tipico occorre l'intervento di altri fattori. Ma dovrà comunque costituire condizione necessaria, nel senso che senza di esso l'evento non avrebbe avuto luogo.
Ciò presuppone, naturalmente, l'accertamento della causalità materiale dell'evento e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo. La causalità materiale attiene al meccanismo che, in linea di fatto, ha cagionato l'evento e può essere costituita sia da un accadimento naturale (ad esempio, un'inondazione provocata da una frana) sia da un accadimento provocato dall'uomo (ad esempio, un'emorragia provocata dalla mancata sutura di una ferita). Può avvenire che siano ignote le cause dell'evento sotto il profilo materiale. Ad esempio: è crollato un edificio e non si è riusciti a stabilire se ciò sia accaduto a causa di errori di costruzione o di lavori sotterranei compiuti senza le necessarie cautele o di un terremoto o di tutte queste cause concomitanti. Ciò avviene assai frequentemente in campo medico: il paziente muore ma ne sono ignote le cause; oppure, si conosce la causa prossima ma non il meccanismo eziologico che l'ha, a sua volta, provocata. Ma, in ogni caso,l'accertamento della causalità materiale - e cioè il giudizio esplicativo - è preliminare alla formulazione del quesito controfattuale perché solo quando sia stata individuata l'origine eziologica dell'accadimento lesivo, è possibile accertare se la violazione della regola cautelare abbia cagionato l'evento o meno.
3.2. Nel caso in esame, occorre osservare come dalla motivazione della sentenza impugnata risulti che il S.S.C., che all'epoca dei fatti era poco più che quarantenne, era un operatore ecologico, con mansioni di raccoglitore, che aveva già lavorato alle dipendenze della società che in precedenza era titolare dell'appalto relativo alla raccolta dei rifiuti e che dunque svolgeva l'attività in esame da molti anni. Quindi senz'altro una persona esperta. Alla luce di ciò non può ritenersi che egli non possedesse le cognizioni necessarie per rendersi conto del rischio che correva mediante la condotta, incontrovertibilmente imprudente, da lui posta in essere. Tanto più che l'incidenza sul processo eziologico sfociato nell'evento della mancata ottemperanza all'obbligo di impartire un'adeguata formazione e informazione va valutata in relazione al grado di complessità e di tecnicità degli incombenti a cui è chiamato il lavoratore e delle cautele da adottare e quindi all'eventualità che il lavoratore, senza un adeguato addestramento, possa non essere in grado di rendersi conto dei rischi insiti in un certo modus operandi. Ne deriva che, qualora la pericolosità di una certa manovra sia immediatamente percepibile non solo da parte di un operatore esperto ma anche di un lavoratore alle prime armi e perfino del quisque de populo, il quesito inerente alla sussistenza della causalità della colpa per omessa formazione e informazione del dipendente diviene particolarmente delicato. E, nel caso di specie, non può seriamente contestarsi che la pericolosità di una manovra consistente nell'aggrapparsi ad una staffa ad U, rimanendo in piedi sulla parte posteriore esterna di un camion in movimento, in assenza di una pedana e di qualunque dispositivo di sicurezza, e, per di più, con l'autista impossibilitato a controllare la situazione esistente sul retro, in modo da calibrare opportunamente l'avvio, la frenata, l'arresto e ogni altra manovra del veicolo, fosse immediatamente percepibile, da chiunque, senza necessità di formazione e informazione alcuna. E' pertanto ineludibile, sulla base di un'analisi condotta alla stregua di corretti canoni di razionalità, la conclusione secondo la quale la mancanza di formazione e informazione non ha esplicato influenza alcuna nell'ambito dell'iter eziologico sfociato nell'evento, perché il lavoratore, pur perfettamente consapevole della pericolosità del suo agire, si determinò in tal senso per evitare di salire all'interno del mezzo e di doverne poi ridiscendere una volta giunto al successivo punto di prelievo, secondo quanto evidenziato nella motivazione della sentenza impugnata. Ne deriva che, quand'anche l'imputata avesse osservato la norma cautelare in questione, impartendo un'adeguata formazione e informazione al S.S.C., l'evento si sarebbe verificato lo stesso perché il S.S.C., mosso da ragioni del tutto estranee alla problematica della sicurezza, pose in essere la manovra in questione pur rendendosi perfettamente conto della pericolosità di quest'ultima, che era di immediata, intuitiva e incontrovertibile evidenza per chiunque e ancor più per lui, che era un operatore di lunga esperienza, tanto più che l'autista del mezzo, quale caposquadra preposto allo svolgimento del lavoro, lo aveva più volte ammonito affinché si astenesse da siffatta condotta rischiosa. Non può dunque ravvisarsi, sotto tale profilo, il requisito della causalità della colpa.
4. Occorre adesso analizzare l'ulteriore addebito formulato nei confronti dell'imputata, che si sostanzia nell'aver omesso di vigilare affinchè i veicoli adibiti alla raccolta dei rifiuti venissero utilizzati dai dipendenti in maniera conforme alle prescrizioni. Al riguardo, occorre osservare come dalla motivazione della sentenza impugnata emerga che è stato accertato che, come si diceva poc'anzi, l'autista del mezzo, quale caposquadra preposto allo svolgimento del lavoro, aveva più volte ammonito i due operatori componenti la squadra affinché si astenessero dalla condotta rischiosa in esame, minacciandoli anche di una segnalazione ai superiori. Egli, però, dall'interno dell'automezzo, non era oggettivamente in condizione di accorgersi che I. e S.S.C. avevano disatteso le sue disposizioni, stante la verificata assenza di dispositivi che gli consentissero, al momento di ripartire, di vedere cosa stessero facendo i due operatori sul retro del veicolo. È stato altresì accertato che il rischio di caduta connesso ad un uso improprio del veicolo da parte dei dipendenti, sotto il profilo in esame, era contemplato nel Documento di valutazione del rischi, acquisito agli atti. Dunque la ricorrente aveva proibito ai lavoratori di effettuare manovre come quella posta in essere dal S.S.C.;aveva ordinato ai capisquadra di inibirne l'effettuazione;aveva previsto lo specifico rischio nel Documento di valutazione dei rischi. Occorre dunque chiedersi cos'altro avrebbe potuto fare la ricorrente per vigilare adeguatamente affinchè i veicoli adibiti alla raccolta dei rifiuti venissero utilizzati dai dipendenti in maniera conforme alle prescrizioni. Non può, infatti, al riguardo, essere trascurata la circostanza che l'attività, per sua natura, non si svolgeva in un unico ambiente o in più ambienti ben individuati, circoscritti e quindi, in modo più o meno agevole, controllabili e sorvegliabili ma si esplicava mediante una pluralità di veicoli destinati a circolare continuamente. Dunque era impossibile una assidua sorveglianza di tutti i mezzi, momento per momento. Viene, in quest'ottica, in rilievo il c.d. principio di esigibilità. La colpa ha, infatti, un versante oggettivo, incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare, e un versante di natura più squisitamente soggettiva, connesso alla possibilità dell'agente di osservare la regola cautelare. Il rimprovero colposo riguarda infatti la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l'osservanza delle norme cautelari violate (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhan). Il profilo soggettivo e personale della colpa viene generalmente individuato nella possibilità soggettiva dell'agente di rispettare la regola cautelare, ossia nella concreta possibilità di pretendere l'osservanza della regola stessa: in poche parole, nell'esigibilità del comportamento dovuto. SI tratta di un aspetto che può essere collocato nell'ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto all'agente. Si tratta di un profilo della responsabilità colposa cui la riflessione giuridica più recente ha dedicato molta attenzione, nel tentativo di personalizzare il rimprovero dell'agente attraverso l'introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga conto non solo dell'oggettiva violazione di norme cautelari ma anche della concreta possibilità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali e la situazione di fatto in cui ha operato (Sez. 4, n. 12478 del 19-20.11.2015, P.G. in proc. Barberi ed altri, Rv.267811-267815, in motivazione; Sez. 4, 3-11-2016, Bordogna).
Nel caso in esame, una diuturna sorveglianza sui mezzi, che espletavano la loro attività circolando ininterrottamente, era impossibile. L'unica soluzione era quella di delegare i capisquadra, presenti sul mezzo, alla vigilanza sull'osservanza delle disposizioni volte ad evitare manovre come quella posta in essere dal S.S.C.. Ciò fece la ricorrente, alla quale non è dunque addebitabile una culpa in vigilando, poiché non era esigibile dalla R.A.A. l'adozione di misure ulteriori e più pregnanti. E' vero, infatti, che il giudice a quo ha evidenziato che quella dell'aggrapparsi al mezzo, pur in assenza delle pedane, e perfino di slanciarsi verso lo stesso, aggrappandosi alla staffa per evitare di risalire ogni volta all'Interno, era, secondo quanto emerso con chiarezza dall'Istruttoria dibattimentale, una deprecabile prassi, ragion per cui tale pericolosa manovra non costituì frutto di un'estemporanea iniziativa da parte del S.S.C.. Ma da ciò non può inferirsi che la R.A.A. fosse a conoscenza di tale prassi o l'avesse colpevolmente ignorata. Infatti, dalla circostanza che i capisquadra, in quanto presenti sui mezzi, non potessero non essere a conoscenza di tale prassi o addirittura l'avallassero, non può desumersi che essi ne avessero resa edotta la R.A.A.. In giurisprudenza, si è, infatti, posto, di recente, In evidenza che il rapporto di dipendenza del personale di vigilanza dal datore di lavoro non costituisce di per sé prova nè della conoscenza né della conoscibilità, da parte di quest'ultimo, di prassi aziendali, più o meno ricorrenti, contrarie alle disposizioni In materia antinfortunistica. D'altronde, il datore di lavoro è certamente responsabile del mancato intervento finalizzato ad assicurare l'osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza ma tale condotta omissiva non può essergli ascritta laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza della prassi elusiva o che l'avesse colposamente ignorata. Tale certezza può, in alcuni casi, inferirsi da considerazioni di natura logica, laddove, ad esempio, possa ritenersi che la prassi elusiva costituisca univocamente frutto di una scelta aziendale, finalizzata, in ipotesi, ad una maggiore produttività. Ma quando, come in questo caso, non vi siano elementi di carattere logico per dedurre la conoscenza o la conoscibilità di prassi aziendali incaute da parte del garante, è necessaria l'acquisizione di elementi probatori certi ed oggettivi che dimostrino tale conoscenza o conoscibilità. Diversamente opinando, si porrebbe in capo al datore di lavoro una inaccettabile responsabilità penale "di posizione", tale da sconfinare nella responsabilità oggettiva ( Cass., Sez. 4, n. 20833 del 3-4-2019).
6. La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato. La natura rescindente di tale epilogo decisorio determina l'ultroneità della disamina degli ulteriori motivi di ricorso.
 

 

P.Q.M.
 

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. Così deciso In Roma, Il 16-4-2019.