Cassazione Civile, Sez. Lav., 25 luglio 2019, n. 20210 - Demansionamento e richiesta di risarcimento danni da mobbing


Presidente: DI CERBO VINCENZO Relatore: BLASUTTO DANIELA Data pubblicazione: 25/07/2019

 

Fatto

 


1. La Corte di appello di Roma, pronunciando sull'appello principale proposto da A.P. e sull'appello incidentale proposto dalla Fondazione Enasarco, in parziale riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento parziale dell'appello proposto dalla lavoratrice, riconosceva in favore della stessa le differenze retributive tra l'area D (di inquadramento) e l'area C (rivendicata in via subordinata) nei limiti della prescrizione quinquennale (e quindi limitatamente al periodo 31 marzo 2002 - 31 ottobre 2002), rigettando la pretesa di inquadramento in area A o in subordine in area B. Quanto alle differenze retributive, rigettava l'appello dell'Enasarco avente ad oggetto il capo della sentenza con cui era stata respinta l'eccezione di rinuncia all'azione di inquadramento superiore per effetto di intervenuta transazione; al riguardo, la Corte territoriale riteneva che la domanda non fosse preclusa dall'intervenuta conciliazione, essendo la rinuncia stata ritualmente impugnata ex art. 2113 cod. civ. entro sei mesi mediante il ricorso introduttivo del giudizio.
2. La Corte di appello confermava poi il capo della sentenza di primo grado con cui era stato ritenuto sussistente un demansionamento dal giugno 2003 ed era stato riconosciuto alla A.P. il risarcimento dei danni alla professionalità, mentre era stata rigettata la domanda di mobbing. Al riguardo, osservava che non vi era prova di un comportamento vessatorio di parte datoriale e che, anche in relazione alle singole condotte esaminate dal primo giudice, delle due sanzioni disciplinari irrogate, una era legittima, mentre l'altra, seppure illegittima, non poteva considerarsi in sé rilevante; quanto al malfunzionamento della postazione informatica, si trattava di una disfunzione risolta in una giornata; non risultava confermata la presunta direttiva datoriale di isolare la ricorrente. Pertanto, neppure considerati isolatamente, i singoli episodi potevano essere considerati lesivi. Osservava infine che la c.t.u. medicolegale disposta aveva dato esito negativo nel senso che la patologia ansioso- depressiva riscontrata a carico della ricorrente non risultava correlabile a condotte datoriali.
3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso la lavoratrice in via principale sulla base di tre motivi e la Fondazione Enasarco in via incidentale pure sulla base di tre motivi. La A.P. ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
4. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
 

 

Diritto

 


1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 32 e 41, secondo comma, Cost., degli artt. 2087, 2049 e 2103 cod. civ., dell'art. 9 della legge 300 del 1970 e dell'art. 2697 cod. civ. in relazione al rigetto della domanda di risarcimento dei danni da mobbing. La ricorrente ripercorre l'iter processuale riportando le conclusioni di primo grado, alcune deduzioni del ricorso introduttivo, le conclusioni del ricorso in appello e alcuni passaggi argomentativi dello stesso ricorso in appello, affermando poi (pag. 11) che la violazione degli obblighi datoriali ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. era insita nelle condotte considerate sia singolarmente, sia nel loro complesso. Trascrive alcuni passaggi della sentenza di primo grado per poi aggiungere che la Corte d'appello, "perseverando in tale erronea impostazione", aveva ritenuto di prendere in esame, quali elementi di fatto su cui fondare il proprio giudizio, solo alcuni episodi: le due sanzioni disciplinari, l'episodio del funzionamento della postazione informatica e la lamentata direttiva di isolare la ricorrente, rilevando che in nessuno di tali accadimenti era ravvisabile l'intento persecutorio da parte dell'azienda.
2. Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.) in relazione alla mancata considerazione degli episodi di violazione, da parte della Fondazione Enasarco, di norme poste a tutela dell'Integrità psicofisica lamentati all'appellante. Si duole della mancata considerazione di alcuni elementi di fatto descritti nel ricorso in appello alle pagine da 62 a 67, che riproponevano quanto dedotto nel ricorso introduttivo del giudizio ai punti 2,4, 11, 19,20, 22,23, 30,32 , 33,35 e 40.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione falsa applicazione degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ., art. 2697 cod. civ. e art. 7, comma 1, legge n. 300 del 1970 in relazione alla ritenuta legittimità della sanzione disciplinare inflitta alla ricorrente in data 29 aprile 2005. Si sostiene la mancata prova dell'affissione del codice disciplinare e si assume che aveva errato la Corte d'appello nel valutare le prove testimoniali. Si lamenta in ogni caso che il timbro apposto sul frontespizio del C.C.N.L, attestava l'avvenuta affissione in data 24 aprile 2005, mentre l'episodio ascritto la ricorrente sarebbe avvenuto in data antecedente, ossia il 5 aprile 2005.
4. Con il primo motivo di ricorso incidentale si denuncia violazione dell'articolo 2113 cod. civ. per avere la Corte territoriale ritenuto che l'atto introduttivo del giudizio di primo grado potesse valere come atto di impugnazione della transazione, mentre la domanda giudiziale non recava tali caratteristiche, in quanto avente formulazione del tutto generica, priva di individuazione dell'atto impugnato.
5. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione falsa applicazione degli artt. 2103, 1223 e 2697cod. civ., nonché art. 116 cod. proc. civ. in ordine al capo della sentenza di appello che ha riconosciuto il demansionamento per essere la ricorrente stata adibita alla ricezione delle telefonate e solo in alcuni giorni al protocollo, mansioni elementari e ripetitive e certamente inferiori - secondo l'accertamento di merito condotto dai giudici di appello - a quelle svolte in precedenza dalla A.P., a partire dal luglio 1998. Si assume che anche prima del giugno 2003 la ricorrente era addetta alla segreteria e si era occupata delle stesse mansioni poi denunciate come dequalificanti.
Con lo stesso motivo si lamenta altresì che il danno professionale era stato ritenuto sussistente in re ipsa, in quanto nessuna motivazione era stata espressa, né vi erano allegazioni sul punto idonee a dimostrarlo, neppure in via presuntiva e indiziaria.
6. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di articoli 91 e 92 cod. proc. civ. per avere la sentenza liquidato le spese di entrambi i giudizi di merito compensandole per metà e ponendo la residua metà a carico della Fondazione Enasarco. Si assume che la sentenza aveva erroneamente ritenuto la "prevalente soccombenza" di essa ricorrente incidentale, mentre avrebbe dovuto considerare che, rispetto alle domande proposte dalla lavoratrice in primo grado, erano state integralmente respinte quella volta ad ottenere II risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla pretesa condotta illecita e/o vessatoria e quella concernente l'inquadramento nelle superiori aree A o B, mentre era stata accolta solo in parte quella di inquadramento nell'area C; era stata accolta quella relativa al risarcimento del danno alla professionalità derivante da demansionamento e quella volta ad ottenere l'annullamento la sanzione disciplinare del 28 dicembre 2006, venendo invece respinta quella diretta all'annullamento della sanzione comminata il 29 aprile 2005.
7. Il primo motivo del ricorso principale è infondato. Esso, pur denunciando un'erronea ricognizione della fattispecie legale, in realtà allude ad una erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta previa ricostruzione dei fatti secondo un diverso apprezzamento di merito e non secondo la ricostruzione fattuale posta a base della sentenza impugnata. E' sintomatico che, dopo aver ripercorso la ricostruzione fattuale della Corte d'appello contrapponendola alla propria, la ricorrente affermi che la prima è errata in diritto e riproponga sic et simpliciter gli stessi fatti che la Corte d'appello ha ritenuto non provati. Si deduce la violazione degli obblighi di protezione ex art. 2087 cod. civ. con affermazioni di principio del tutto disancorate dalla valutazione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata.
7.1. Il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E' dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione - e dunque un errore interpretativo di diritto - su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
7.2. La Corte di appello, sulla base delle risultanze istruttorie, ha ritenuto l'assenza di prova di un comportamento vessatorio di parte datoriale, anche con riguardo ai singoli episodi denunciati dalla stessa ricorrente come lesivi e valutati isolatamente. L'operazione di sussunzione di tale fattispecie in quella astratta è conforme a diritto, mentre la prospettata configurabilità del mobbing muove da una diversa ricostruzione delle risultanze processuali, inammissibile in questa sede.
8. Il secondo motivo del ricorso principale è inammissibile. Le circostanze di cui si lamenta l'omesso esame vertono sulla mancata adozione di misure preventive circa la sicurezza (luoghi di lavoro; sull'assegnazione della ricorrente a gravosi compiti fisici, nonostante fosse affetta da morbo di Basedow; sulla mancata sottoposizione della stessa ad accertamenti sanitari e su altre lamentate inadempienze datoriali connesse agli interventi di primo soccorso in occasione di un malore accusato nell'ottobre 2006. Si tratta di un mero elenco di fatti che, a dire della ricorrente, erano stati posti in essere dal datore di lavoro in violazione degli obblighi di sicurezza di cui all'articolo 2087 cod. civ.. In relazione ad essi, il ricorso si limita a precisare la sede processuale in cui gli stessi sarebbero rinvenibili in atti. Non solo non è stato riportato il contenuto specifico delle allegazioni poste a corredo di tale mera elencazione, onde consentire a questo giudice di legittimità di poterne apprezzare la rilevanza e la concludenza, ma soprattutto non è stata riportata la motivazione della sentenza di primo grado che il giudice di appello ha ritenuto di condividere per relationem. La delimitazione dell'esame di cui alla sentenza impugnata ai soli fatti che anche il giudice di primo grado aveva ritenuto di potere vagliare risponde al criterio di recepimento nel resto della sentenza di primo grado, di cui si afferma la correttezza e completezza del percorso motivazionale ( v. pag. 8 sent app.).
9. Il terzo motivo del ricorso principale verte sulla valutazione delle prove e per tale assorbente ragione è inammissibile. Giova ribadire che è costante nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. ex plurimis, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).
9.1. Inoltre, è nuova la questione concernente l'eventuale divergenza tra data di affissione del codice disciplinare e quella risultante dal timbro apposto sulla copia del C.C.N.L., asseritamente successiva alla data di commissione del fatto. Qualora un determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulta trattata nella sentenza Impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione In sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (tra le tante, Cass. n. 8206 del 2016).
10. Il primo motivo del ricorso incidentale è inammissibile. In sede di legittimità, nel caso in cui venga in considerazione l'interpretazione del contenuto o dell'ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità e, pertanto, la Corte di cassazione è abilitata all'espletamento di indagini dirette al riguardo soltanto allorché il giudice di merito abbia omesso l'indagine interpretativa della domanda, ma non se l'abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all'esito dell'indagine (v. Cass. 5876 del 2011, n. 87932 del 2012; v. pure Cass. n. 20373 del 2008).
10.1. La Corte di appello ha espresso un giudizio di merito circa l'idoneità e tempestività dell'atto introduttivo del giudizio a costituire valida impugnazione dell'atto di transazione, interpretando il contenuto del ricorso e ha ritenuto, di conseguenza, la caducazione automatica dell'atto abdicativo del 14.11.2002. Tale giudizio resta incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto sopra esposto.
11. Quanto alla prima censura svolta con il secondo motivo del ricorso incidentale, concernente la valutazione delle prove riguardo all'accertato demansionamento, va osservato che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell'apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità. La denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito è configurabile come un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017). 
11.1. Anche a volere riqualificare il vizio denunciato nei termini di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., va rilevato che esso, come riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l'esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053/2014). Nel caso in esame, la censura di omesso esame di un fatto decisivo si risolve, invece, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del merito della causa.
12. Quanto alla seconda censura svolta con il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui si deduce che il danno alla professionalità non può ritenersi sussistente in re ipsa e che nessun accertamento era stato svolto dalla Corte territoriale, la quale nulla aveva argomentato in ordine alla prova, neppure in via presuntiva e indiziaria, deve osservarsi l'inammissibilità del motivo.
12.1. Difatti, poiché la Fondazione Enasarco era soccombente sin dal primo grado sul punto, avendo il Tribunale provveduto anche alla liquidazione del risarcimento a titolo di danno alla professionalità, e la sentenza impugnata non riferisce di motivi di appello specificamente proposti dalla parte soccombente, l'odierna ricorrente in via incidentale avrebbe dovuto allegare e dimostrare (art. 366 cod. proc. civ.) di avere impugnato la sentenza di primo grado svolgendo un apposito motivo inteso a censurare il riconoscimento del diritto al risarcimento, statuizione autonoma rispetto a quella di accertamento del demansionamento, mentre dal ricorso incidentale risulta alcuna censura vertente sul vizio di omessa pronuncia su un ipotetico motivo di appello proposto sul punto avverso la sentenza di primo grado.
13. E' infondato il terzo motivo del ricorso incidentale.
13.1. Occorre premettere che la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende - anche in relazione al principio di causalità - una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l'accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell'accoglimento meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo (Cass. n. 21684 del 2013, n. 22381 del 2009).
13.2. La Corte di appello ha compensato per metà le spese del doppio grado, ponendo la residua metà a carico della Fondazione Enasarco richiamando il concetto di soccombenza reciproca, intesa come accoglimento parziale della domanda originaria. La compensazione parziale delle spese tiene conto di tale limitato accoglimento della domanda della A.P.i, essendo la convenuta rimasta soccombente, anche se solo parzialmente, all'esito della lite. La pretesa di vedere diversamente regolata la misura della compensazione delle spese non può costituire oggetto del ricorso per cassazione, rientrando nella valutazione discrezionale del giudice di merito e non essendo stata violata la regola secondo cui non può essere gravata, neppure in parte, dell'onere delle spese la parte totalmente vittoriosa, quale non è nel presente giudizio la Fondazione Enasarco.
13.3. La giurisprudenza di questa Corte ha difatti affermato che il rigetto tanto dell'appello principale quanto di quello incidentale non obbliga il giudice a disporre la compensazione totale o parziale delle spese processuali, il cui regolamento, fuori della ipotesi di violazione del principio di soccombenza per essere stata condannata la parte totalmente vittoriosa, è rimesso, anche per quanto riguarda la loro compensazione, al potere discrezionale del giudice di merito (Cass. n. 18173 del 2008). La valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell'art. 92. comma 2, cod. proc. civ., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un'esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. n. 30592 del 2017, n. 2149 del 2014).
14. In conclusione, vanno rigettati sia il ricorso principale, sia quello incidentale.
15. Tenuto conto dell'esito del giudizio di legittimità, le relative spese sono compensate integralmente tra le parti.
16. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte sia della ricorrente principale, sia della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
16.1. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell'impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e del ricorso incidentale, a norma del comma l- bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 aprile 2019