Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 19 agosto 2019, n. 21466 - Dipendenza da causa di servizio della patologia (infarto acuto del miocardio) ed equo indennizzo


Presidente: BRONZINI GIUSEPPE Relatore: PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI Data pubblicazione: 19/08/2019

 

Fatto

 


Con sentenza in data 16 giugno 2014 (notificata il 20 giugno 2014), la Corte d'appello di L'Aquila rigettava l'appello proposto dall'Inps avverso la sentenza di primo grado, che aveva accertato il diritto di Q.C., proprio dipendente con mansioni di operatore amministrativo e dal 6 dicembre 2005 di funzionario amministrativo presso la sede provinciale di l'Aquila, al riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della patologia (infarto acuto del miocardio) da cui era affetto e dell’equo indennizzo ai sensi dell'art. 68 d.p.r. 3/1957.
Preliminarmente esclusa l'influenza dell'abrogazione degli istituti della causa di servizio e dell'equo compenso, ad opera dell'art. 6, primo comma d.lg. 201/2011, per l'anteriorità dell'introduzione del giudizio, la Corte territoriale riteneva, in applicazione dei principi regolanti la materia e sulla base delle risultanze istruttorie e di C.t.u. (condivise dal C.t.p. dell'Inps), la fondatezza della pretesa del lavoratore in ordine alla sussistenza del nesso causale tra il fatto di servizio (in riferimento al concreto svolgimento delle mansioni di responsabile della cd. "isola di consulenza", comportante un abituale gravoso impegno nei turni anche pomeridiani e in orario straordinario) e la malattia (infarto acuto del miocardio) ad eziologia cd. multifattoriale, quale concausa efficiente o determinante dell'evento, secondo un giudizio di verosimiglianza particolarmente elevata, equiparabile a fini pratici a certezza.
Infine, essa riteneva l'addebito integrale all'Istituto delle spese di C.t.u. coerente al regime di soccombenza interamente a suo carico, in assenza di giusti motivi per una compensazione neppure parziale.
Con atto notificato il 20 agosto 2014, l'Inps ricorreva per cassazione con unico motivo, cui il lavoratore resisteva con controricorso.
 

 

Diritto

 


1. Con unico motivo, l'Istituto ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 2 d.p.r. 461/2001 anche come error in procedendo, per il mancato rispetto del rigoroso onere probatorio, a carico del lavoratore richiedente il riconoscimento di dipendenza da causa di servizio della patologia da cui affetto e dell'equo indennizzo ai sensi dell'art. 68 d.p.r. 3/1957, in quanto non osservato dalla Corte territoriale a riguardo degli specifici "fatti di servizio" (a norma dell'art. 64 d.p.r. 10392/10973), in violazione dei principi regolanti la materia.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1. Ed infatti, non si configura una corretta denuncia del vizio di violazione di legge, in assenza dei requisiti suoi propri di verifica di correttezza dell'attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell'ipotesi normativa, né tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
2.2. In particolare non sussiste violazione dell'art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia onerata, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395).
Nel caso di specie esso è stato rispettato, per l'inequivoca attribuzione dell'onere probatorio al lavoratore istante, in esatta osservanza dei principi di diritto regolanti la materia (ultimo capoverso di pg. 2 e di pg. 3 della sentenza).
2.3. Tale onere è stato applicato in combinazione con l'art. 2, primo comma d.p.r. 461/2001, secondo cui "il dipendente che abbia subito lesioni o contratto infermità o subito aggravamenti di infermità o lesioni preesistenti, ovvero l'avente diritto in caso di morte del dipendente, per far accertare l'eventuale dipendenza da causa di servizio, presenta domanda scritta all'ufficio o comando presso il quale presta servizio, indicando specificamente la natura dell'infermità o lesione, i fatti di servizio che vi hanno concorso e, ove possibile, le conseguenze sull'integrità fisica psichica o sensoriale e sull'idoneità al servizio allegando ogni documento utile". 
Ed infatti, in tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali, il dipendente che sostenga la dipendenza dell'infermità da una causa di servizio ha l'onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell'affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle mansioni inerenti la qualifica rivestita: con la conseguenza che, ove la patologia presenti una eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell'esposizione a rischio (Cass. 26 giugno 2009, n. 15080; Cass. 15 ottobre 2014, n. 21825).
2.4. E proprio un tale accertamento in fatto è stato operato dalla Corte territoriale e contestato dall'Istituto ricorrente. Ma esso è insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente argomentato (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 4 all'ultimo di pg. 5 della sentenza).
Giova in proposito ribadire come sia mancata una corretta deduzione di erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione), che postula che l'accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo e indiscusso e cui è pertanto estranea ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (Cass. 13 marzo 2018, n. 6035). L'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155), oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
2.5. Quanto alla contestazione, in particolare, della relazione di C.t.u. (della quale peraltro, nell'insufficienza dei parziali estratti a pgg. 10 e 17 del ricorso ed avendo invece la Corte territoriale fatto puntuale riferimento al primo capoverso di pg. 5 della sentenza a "valutazioni... fondate su esami clinici, diagnostici e strumentali esaurienti ... sorrette da adeguata e convincente motivazione", neppure sono stati integralmente trascritti i passaggi salienti e non condivisi: Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; Cass. 17 luglio 2014, n. 16368) e alla sua mancata rinnovazione, rientra nel potere del giudice di merito acconsentirvi o meno (Cass. 2 agosto 2004, n. 14775; Cass. 27 aprile 2011, n. 9379; Cass. 24 gennaio 2019, n. 2103): avendo la Corte aquilana dato puntuale ed argomentato conto (al secondo capoverso di pg. 5 della sentenza), con ciò giustificando più che adeguatamente la determinazione in proposito assunta.
3. Dalle superiori argomentazioni discende coerente l'inammissibilità del ricorso, con la conseguente condanna al pagamento delle spese del giudizio, secondo il regime di soccombenza, con distrazione al difensore anticipatario, secondo la sua richiesta.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna l'Inps alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge, con distrazione al difensore anticipatario.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 10 aprile 2019