Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 04 ottobre 2019, n. 24880 - Regressione della posizione professionale e mobbing


 

 

Presidente: BRONZINI GIUSEPPE Relatore: MARCHESE GABRIELLA Data pubblicazione: 04/10/2019

 

 

 

Fatto

 


1. Il Tribunale di Savona, con sentenza nr. 107 del 2014, accoglieva la domanda di G.I. volta ad ottenere il risarcimento del danno cagionato dal datore di lavoro T.P.L. Linea S.R.L. (di seguito per brevità TPL) per demansionamento e comportamenti di mobbing.
2. La Corte di appello di Genova, con sentenza nr 510, pubblicata il 23.12.2014, in parziale accoglimento del gravame della società ed in riforma della sentenza impugnata, riduceva la condanna della parte datoriale al pagamento di euro 32.721,64, a titolo di risarcimento del danno.
2.1. La Corte di appello, per quanto qui rileva, ha osservato come, solo da un certo momento, vi « (fossero) [...] comportamenti che si connota(ssero) in termini di concreta illegittimità»; nello specifico, con decorrenza dal giugno 2008, si era determinata una «regressione» nella posizione professionale del lavoratore; al lavoratore veniva sottratta la posizione di preposto (recte di capo officina) ed anzi (l'G.I.) veniva, egli stesso, sottoposto al controllo di altro lavoratore, avente inquadramento inferiore (§§ 2.3 e 2.3.1. sentenza impugnata); irrispettosa delle condizioni del lavoratore, secondo la Corte di appello, era da considerare anche la successiva adibizione ai turni di portineria: l'avere coinvolto il ricorrente in quella turistica ( id est: in turni cioè da osservarsi in un locale angusto e con possibilità di esposizione al freddo) rappresentava un comportamento illegittimo (seppure non causalmente ricollegabile alla patologia denunciata dal lavoratore medesimo), date le sue condizioni di salute, per il pericolo concreto di danni alla salute medesima ( §2.3. sentenza impugnata); di detti illegittimi comportamenti datoriali era possibile dare una qualificazione complessiva in termini di mobbing ( § 2.4. sentenza impugnata).
La Corte territoriale escludeva, invece, che le dimissioni del lavoratore fossero imputabili alle condotte della T.P.L. Ciò che, infatti, aveva determinato la risoluzione del rapporto era la sopravvenuta condizione del lavoratore di «assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa », presupposto del trattamento pensionistico riconosciutogli; l'inabilità al lavoro rappresentava un fatto obiettivo assorbente rispetto a qualsiasi scelta personale e volontaria ( §. 3.1. sentenza impugnata).
L'inabilità al lavoro non escludeva, tuttavia, la sussistenza di un danno biologico conseguente ai comportamenti datoriali, ciò in quanto anche il soggetto inabile è suscettibile di danno alla salute atteso che l'integrità psico-fisica è concetto più ampio di quello inerente alla validità al lavoro.
In merito al quantum, la Corte di appello, facendo proprio il ragionamento del Tribunale, ha osservato come la questione relativa alla copertura INAIL del danno biologico derivante da mobbing fosse irrilevante nella fattispecie di causa; ciò perché la lesione alla salute, per la patologia accertata dal CTU, avrebbe ricevuto, in ambito INAIL, secondo il d.m. 12.7.1980 (ndr. 12 luglio 2000), attuativo dell'art. 13 del D.Lgs. nr. 38 del 2000, una quantificazione massima del 6% a seconda della responsività o meno al trattamento farmacologico; nel caso di specie, in cui era sussistente detta responsività, il danno previdenziale sarebbe stato inferiore al minimo indennizzabile (collocandosi cioè al di sotto del 6% ), con la conseguenza che il danno biologico civilistico non risentiva, in ogni caso e quale che fosse l'opinione rispetto alla copertura INAIL, di alcuna decurtazione.
3. Avverso detta decisione ha proposto ricorso per cassazione G.I., affidato a 10 motivi.
4. Ha resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale, articolato in due motivi, la società T.P.L.
5. E' stata, altresì, depositata memoria ex art. 378 cod.proc.civ. da parte del ricorrente nonché procura speciale alle liti in favore dell'avv.to Giovanni S..
 

 

Diritto

 


Ricorso principale
1. Con il primo motivo è dedotta - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - violazione degli artt. 112 e 115 cod.proc.civ., in relazione agli artt. 2087, 1374, 1218, 1222 cod.civ.
1.1. Il motivo afferisce alla statuizione secondo cui «[...] non sarebbero convincenti a tratteggiare gli estremi della condotta mobbizzante tanto gli atteggiamenti offensivi ed ingiuriosi del direttore generale A. quanto le pressioni esercitate da parte datoriale per la fruizione di ferie». Secondo la parte ricorrente, l'affermazione sarebbe errata in quanto frutto di una valutazione atomistica e parziale dei fatti accertati.
1.2. Le censure sono infondate.
1.3. La Corte di appello ha escluso, in relazione ad alcune vicende, che le stesse potessero avere rilievo ai fini della ricostruzione della complessiva condotta di mobbing; per la Corte di appello, la condotta del superiore, rispetto a taluni episodi, denotava un atteggiamento autoritario, verso tutti i dipendenti, con cui lo stesso, in modo sgradevole, ma non certo illecito esercitava la gestione del ruolo gerarchico; situazione analoga era ravvisabile, a giudizio della Corte territoriale, anche quanto alle modalità con cui era gestita la fruizione delle ferie dell'G.I.; si trattava di condotta attuativa di prerogative datoriali, posta in essere, con modalità analoghe, nei confronti di tutti i lavoratori.
1.4. Osserva il Collegio come si sia in presenza di accertamenti di fatto, in relazione ai quali non sia riscontrabile alcuna violazione delle norma riportate in rubrica.
1.5. Ciò in quanto la Corte di appello, con giudizio a lei riservato, ha ritenuto, nella sostanza, che detti comportamenti, oltre ad essere leciti da punto di vista oggettivo, difettassero dell'elemento psicologico qualificante la fattispecie di mobbing ovvero dell'intento persecutorio nei confronti del dipendente, per essere rivolti verso tutti i lavoratori.
1.6. In tal modo risultano correttamente applicati i principi di questa Corte che, nella ricostruzione giuridica della fattispecie di mobbing, evidenzia come elemento costitutivo della stessa, unitamente agli altri occorrenti, sia anche quello soggettivo, connotato dall'intento persecutorio ( cfr. Cass nr. 9380 del 2016; ord. nr. 14485 del 2017; di recente Cass. nr. 30673 del 2018 per cui « ai fini della configurabilità del mobbing l'elemento qualificante, che deve essere l provato da chi assume di aver subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti, bensì dell'intento persecutorio che li unifica»).
2. Con il secondo motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 5 c.p.c.- è dedotto omesso esame di fatti decisivi nonché difetto di motivazione e congruità della stessa per erronea e/o mancata valutazione degli elementi probatori acquisiti.
2.1. Le questioni oggetto del primo motivo vengono riproposte sotto il profilo del vizio di motivazione.
2.2. Le censure, tuttavia, sono, in radice, inammissibili perché non vengono illustrate in coerenza con gli enunciati di Cass., sez.un., nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite: v. nr. 19881 del 2014, nr. 25008 del 2014, nr. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici); il motivo, infatti, non indica, nei termini rigorosi richiesti dal vigente testo del predetto art. 360 nr.5 cod. proc. civ. (applicabile alla fattispecie), il «fatto storico», non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo; va, peraltro, senz'altro esclusa la «decisività» in una pluralità di fatti denunciati come omessi (come nella specie), nessuno dei quali ex se risolutivo, nel senso dell'idoneità a determinare il segno della decisione (ex multis, in motivaz., Cass. nr. 13384 del 2017, § 8.1., sulla base di Cass. nr. 21439 del 2015).
2.3. Per il resto, è solo il caso di osservare come, all'attualità, non sia più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass., sez. un., nr. 14477 del 2015; ex multis, tra le sezioni semplici, Cass. nr. 31543 del 2018); come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. un., nr. 19881 del 2014; Cass., sez.un., nr. 8053 del 2014) la riformulazione dell'art. 360, primo comma, nr. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del D.L. nr 83 del 2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione; è pertanto denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale; a tal fine, occorre che la motivazione della sentenza manchi del tutto, vuoi nel senso grafico vuoi nel senso logico ovvero allorché la motivazione, pur formalmente esistente, sia talmente contraddittoria da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum; nella fattispecie di causa la motivazione che esclude il rilievo di alcune condotte, ai fini della fattispecie giuridica del mobbing, è chiara e comprensibile sicché può discutersi della sua plausibilità e condivisibilità ma non della sua inesistenza nei termini di cui innanzi.
3. Con il terzo motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - è dedotta falsa applicazione di norme di diritto ai sensi degli articoli 113 cod.proc.civ., 2087, 1218 e 1223 cod.civ. nonché degli artt. 4, 3, 2 e 35 Costituzione.
3.1. Le censure riguardano, nel complesso, la statuizione di esclusione del nesso causale tra l'adibizione del lavoratore ai turni di portineria e l'insorta malattia (polmonite). Secondo la ricostruzione difensiva, e diversamente da quanto stabilito nella sentenza impugnata, la decisione aziendale di inserire il lavoratore nei turni in portineria avrebbe rappresentato l'antecedente causale (o concausale) del danno alla salute.
3.2. Il motivo è da respingere.
3.3. I rilievi mossi, piuttosto che denunciare la violazione delle norme indicate in rubrica, censurano la statuizione con cui la Corte di merito ha escluso, a monte, l'efficacia causale ( anche in termini di mera concausa) della condotta datoriale nella determinazione dell'evento lesivo ( id est: insorgenza della polmonite).
3.4. L'accertamento dell'efficacia causale della condotta alla produzione dell'evento (esattamente come quello della sua inefficacia) rappresenta un accertamento riservato al giudice di merito, in quanto reso sulla base dei fatti di causa, e censurabile, in questa sede, nei ristretti limiti del vizio di motivazione, qui non validamente dedotto.
3.5. Nello specifico, la Corte di appello ha escluso che la polmonite contratta dal lavoratore fosse ricollegabile al lavoro reso nei locali di portineria; per i giudici di merito, in altri termini, i turni di lavoro osservati nella portineria non avevano avuto [id est: non vi era prova che avessero avuto) un ruolo causale nella determinazione della contratta malattia. Tuttavia, erano tali che avrebbero potuto (per il futuro) rappresentare un rischio per la salute del lavoratore; pertanto, sotto diverso profilo, rappresentavano una condotta illegittima, dovendo il datore di lavoro adottare ogni misura idonea a prevenire rischi al bene salute del lavoratore.
4. Con il quarto motivo - ai sensi dell'articolo 360 nr. 5 cod.proc.civ. - è dedotto omesso esame di fatti decisivi nonché difetto di motivazione e congruità della stessa per erronea e/o mancata valutazione degli elementi probatori acquisiti.
4.1. Il motivo è inammissibile e valgono le medesime argomentazioni di cui al secondo motivo.
5. Con il quinto motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - è dedotta falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli articoli 2087, 1175, 1375 e 1374 cod.civ. nonché degli articoli 2, 4, 32 e 35 della Cost.
5.1. Il motivo riguarda la statuizione secondo cui le dimissioni avevano trovato causa non nelle condotte datoriali ma nel fatto, obiettivo ed assorbente, rappresentato dalla sopravvenuta inabilità al lavoro.
5.2. Osserva il Collegio che anche le censure sviluppate con il quinto motivo piuttosto che evidenziare violazioni puntuali di norme di diritto rinvenibili nella sentenza impugnata, si limitano ad esprimere un dissenso rispetto al percorso argomentativo seguito dal Giudice del merito; ciò che si contesta ai giudici di merito non sono errori di diritto ma di aver escluso efficacia (con)causale alla condotta datoriale nel determinismo delle dimissioni; tale giudizio, qui non validamente censurato, è fondato sulla considerazione, logica, che l'Intervenuto accertamento, al fini del riconoscimento della pensione di inabilità, della «assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa», ai sensi dell'art. 2 della legge nr. 222 del 1984, ha reso oggettivamente impossibile la prosecuzione dell'attività lavorativa e irrilevante qualsiasi scelta volontaria personale; esse (le censure) sono, dunque, inammissibili.
6. Con il sesto motivo - ai sensi dell'art. 360 nr.5. cod.proc.civ. - è dedotto omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; erronea e/o mancata valutazione degli elementi probatori acquisiti in ordine al nesso causale tra le avverse condizioni lavorative integranti il mobbing e la decisione del ricorrente di dimettersi; formazione del giudicato interno sulla lesione alla salute subita dal lavoratore.
6.1. Le questioni oggetto del precedente motivo vengono riproposte in termini di vizio di motivazione; la parte ricorrente lamenta l'omessa valutazione di elementi idonei a dimostrare il nesso di causalità tra le dimissioni ed i comportamenti datoriali illegittimi.
6.2. Il motivo si arresta ad una valutazione di inammissibilità per ragioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle di cui al secondo (e quarto) motivo. Resta da aggiungere che sono estranee all'ambito di applicazione dell'art. 360, comma 1, nr. 5, cod.proc.civ., non costituendo «fatti», il cui omesso esame possa determinare il vizio di motivazione: i) le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., sez.un., nr. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. nr. 14802 del 2017; Cass. nr. 21152 del 2015); li) in genere, le «questioni di diritto» (Cass. nr. 5745 del 2015) che, pure, il motivo in qualche modo adombra.
7. Con il settimo motivo - ai sensi dell'art.360 nr. 4 cod.porc.civ. - è dedotta violazione degli artt. 324 e 346 cod.proc.civ nonché violazione dell'art.112 cod.proc.civ.
7.1. Il motivo è, in radice, inammissibile perché sembra postulare un giudicato interno formatosi in base alla consulenza tecnica espletata in primo grado (che è affermazione giuridicamente inesatta posto che il giudicato è nozione riferibile alla statuizione del giudice ), comunque neppure trascritta, quanto meno nei passaggi salienti, nel rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 366 nr. 4 cod.proc.civ.
8. Con l'ottavo motivo - ai sensi dell'articolo 360 nr.3 cod.proc.civ. - è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'articolo 112 cod.proc.dv., agli artt. 1900 e 1917 cod.civ. ed all'articolo 10 Testo Unico nr. 1124 del 1965; le censure riguardano la dichiarata irrilevanza della questione inerente alla copertura INAIL del danno biologico se derivante da comportamenti datoriali mobbizzanti. Secondo il ricorrente, la sentenza sarebbe errata laddove non avrebbe accolto l'eccezione secondo cui il danno biologico derivante da comportamenti mobbizzanti non sarebbe passibile di indennizzo INAIL.
8.1. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse ad agire.
8.2. La Corte di appello, verificato l'inadempimento datoriale, ha ritenuto che, in relazione all'evento lesivo, non ricorressero le condizioni oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. n. 1124 del 1965; ciò in quanto il danno biologico concretamente accertato, in ambito INAIL, ( in base cioè alle tabelle di cui al DM 12.7.2000) andava quantificato in misura inferiore al 6%.
8.3. Conviene rammentare, infatti, che, in base alla disciplina del D.Lgs. 28 febbraio 2000, nr. 38, art. 13, sono coperte dall'assicurazione obbligatoria (solo):
• le menomazioni permanenti comprese tra il 6% ed il 15%, che danno luogo ad un indennizzo in somma capitale, rapportato al grado della menomazione;
• le menomazioni pari o superiori al 16%, che danno luogo ad una rendita ripartita in due quote: la prima quota è determinata in base al grado della menomazione, cioè al danno biologico subito dall'infortunato, la seconda tiene conto delle conseguenze di natura patrimoniale della lesione.
8.4. Ne consegue, per quanto di rilievo nella fattispecie concreta, che, per i danni di natura biologica inferiori al 6%, non vi è copertura assicurativa e, ove l'assicurazione obbligatoria non opera, di esonero del datore di lavoro non è dato parlare. In tali casi vigono, per il debitore, le regole generali del diritto comune per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale ( per una completa ricognizione della materia, cfr. Cass. nr. 9166 del 2017).
8.5. A tali principi si è attenuta la Corte di Appello che, avendo escluso la copertura INAIL del danno biologico civilistico per le ragioni innanzi delineate, ha coerentemente ritenuto non necessario affrontare la questione (in quanto evidentemente ultronea), pure devoluta, relativa alla copertura o meno, in sede di assicurazione INAIL, del danno biologico derivante dalla condotta di mobbing.
9. Con il nono motivo - ai sensi dell'art. 360 nr 3 cod.proc.civ. - è dedotta violazione degli artt. 1218, 1223, 1226 cod.civ. .
9.1. Il motivo afferisce al mancato riconoscimento del danno patrimoniale conseguente dall'accertato demansionamento.
9.2. Il motivo è inammissibile.
9.3. La Corte di appello ha sul punto osservato come la durata del comportamento illegittimo fosse stata limitata nel tempo ed avesse riguardato attività rispetto alle quali la capacità professionale, in quel lasso di tempo, non aveva subito alcun pregiudizio.
9.4. Il motivo, ancora una volta, esprime un disappunto, inammissibile, dell'espresso giudizio di merito, rispetto al quale resta inconferente la deduzione di violazione di norme di legge.
9.5. I giudici di merito hanno escluso conseguenze dannose, sul piano patrimoniale, sulla base di indici presuntivi che, nel loro apprezzamento, hanno rivestito carattere significativo del fatto ignoto; apprezzamento che non è oggetto di valida censura, sia pure nei limiti in cui avrebbe potuto esserlo in sede di legittimità.
9.6. D'altronde «l'illegittima modifica delle mansioni è un fatto (solo) potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, di natura patrimoniale come non patrimoniale, il risarcimento delle quali necessita di specifico supporto probatorio» ( Cass. nr. 3422 del 2016).
10. Con il decimo motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - ha dedotto violazione degli artt. 91 e 92 cod.proc.civ. La censura riguarda la statuizione di compensazione, per metà, delle spese di lite.
10.1. La sentenza impugnata ha compensato, per la metà, le spese di lite dei due gradi di merito, in ragione della « forte riduzione del quantum risarcitorio», ponendo il residuo a carico della parte datoriale.
10.2. Il motivo è inammissibile.
10.3. Esula dal sindacato di questa Corte, per rientrare nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, in presenza di una reciproca soccombenza, parziale o totale.
 

 

Ricorso incidentale 
11. Con il primo motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc. civ . - è dedotta falsa applicazione degli artt. 2103, 2043 e 2697 cod. civ.
Si censura la statuizione di accertamento, a decorrere dal maggio 2008, di «comportamenti datoriali illegittimi di cui è possibile anche una qualificazione complessiva in termini di mobbing ».
11.1. Il motivo è inammissibile sulla base di considerazioni del tutto analoghe a quelle espresse in relazione ai motivi secondo, quarto, sesto e nono del ricorso principale.
11.2. Nella sostanza, si prospettano censure di merito, attinenti all'apprezzamento delle risultanze istruttorie da parte della Corte territoriale e che mirano ad ottenere una diversa ricostruzione dei fatti, del tutto estranea al presente giudizio di legittimità.
12. Con il secondo motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. - è dedotta violazione degli artt. 1218, 1223, 1226 cod. civ. nonché degli artt. 10 e 13 del D.Lgs . nr. 38 del 2000 e del DM 4.4.2004, in ordine alla liquidazione del danno. La società controricorrente censura la statuizione con cui la Corte di appello ha «ridotto» l'aliquota di invalidità accertata, in misura del 10%, dal CTU e ritenuto che la menomazione, in ambito INAIL, fosse quantificabile in misura inferiore al 6%; si assume l'erroneità della affermazione secondo cui la patologia lamentata dal lavoratore sarebbe stata «normalmente responsiva al trattamento farmacologico» e comunque si critica la statuizione con cui si è « [...] negato che il danno da costrittività organizzativa rientr(asse) nella competenza dell'INAIL».
12.1. Il motivo è, complessivamente, da respingere.
12.2. In via generale, occorre ribadire quanto questa Corte ha già avuto modo di affermare ovvero che la determinazione del danno biologico ai fini della tutela dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non si effettua con i medesimi criteri valevoli in sede civilistica atteso che in sede previdenziale vanno osservate obbligatoriamente le tabelle delle invalidità ("Tabella delle menomazioni"; "Tabella indennizzo danno biologico"; "Tabella dei coefficienti") di cui al DM n. 12 luglio 2000, e successivi aggiornamenti, ai sensi del D.Lgs. nr. 38 del 2000, art. 13, mentre ai fini civilistici si utilizzano baremes facoltativi, secondo tabelle elaborate dalla comunità scientifica ( Cass. nr. 8243 del 2016). 
12.3. E' dunque possibile che la stessa menomazione, in ambito civilistico/risarcitorio venga stimata, dal punto di vista medico-legale, in misura diversa rispetto all'ambito previdenziale/indennitario, conseguendo le due liquidazioni fini propri e tra loro diversi.
12.4. Sulla base di tale premessa teorica, va dunque osservato come la decisione della Corte di appello di accertamento di una diversa percentuale di invalidità, nei due differenti ambiti, pure a fronte della medesima menomazione della integrità psico-fisica, sia giuridicamente corretta; i giudici di merito, infatti, per determinare il grado di invalidità, in ambito INAIL, hanno fatto riferimento alla previsione delle tabelle di cui al DM 12.7.2000 e, sulla base della stesse, ritenuto che la patologia accertata, responsiva al trattamento farmacologico, determinasse una invalidità inferiore al 6%.
12.5. La censura del giudizio in tal senso espresso ( id est', di responsività «in misura normale»della patologia al trattamento farmacologico), affermato dalla Corte di Appello sul presupposto che «nessun rilievo contrario fosse desumibile dalla CTU», difetta di specificità, già solo per l'omessa trascrizione della relazione peritale, in violazione degli oneri di deduzione imposti dall'art. 366 nr. 6 cod.proc.civ.; la critica diviene, invece, priva di riferibilità al decisum laddove imputa alla sentenza di aver escluso che il danno da costrittività organizzativa rientrasse nella competenza INAIL; ciò in quanto, come già osservato in relazione all'ottavo motivo del ricorso principale, la sentenza non ha affatto deciso il profilo qui in oggetto, ritenendo, piuttosto, lo stesso assorbito dall'accertato difetto di condizioni oggettive (id est: invalidità al di sotto dei limiti indennizzabili) per l'operatività del sistema di copertura INAIL.
13. Conclusivamente vanno rigettati entrambi i ricorsi e le spese di legittimità compensate tra le parti.
14. Sussistono i presupposti di legge di cui al D.P.R. nr. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater consistenti nel rigetto integrale dell'impugnazione, affinchè debba darsi atto del raddoppio del contributo unificato sia per la parte ricorrente principale che per l'incidentale.
 

 

PQM

 


La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. nr. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 aprile 2019.